Demirtay lo Studente racconta: Il cancello di ferro

"In realtà è una storia lunga, ma sarò breve. Non si era mai vista una nevicata così a Istanbul. Quando, nel cuore della notte, due suore lasciarono l'Ospedale Saint George di Karaköy dirigendosi verso la Chiesa di Sant'Antonio per riferire la cattiva notizia, sotto le grondaie era pieno di uccelli morti. Nel mese di aprile, il gelo aveva flagellato i fiori dell'albero di Giuda e il vento, tagliente come una lama, sferzava i cani randagi. Dottore, tu hai mai visto la neve ad aprile? In realtà è una storia lunga, ma sarò breve. Delle due suore che camminavano a fatica nella bufera di neve, una era giovane, l'altra anziana. Erano quasi arrivate alla Torre di Galata, quando la giovane disse all'altra che dall'inizio della salita un uomo le stava seguendo. La suora anziana rispose che poteva esserci un unico motivo per cui un uomo le seguiva nella tempesta e nel buio".

Non appena sentii da lontano il rumore del cancello di ferro, interruppi il racconto e guardai il Dottore.

La nostra cella era fredda. Mentre raccontavo la storia al Dottore, Kamo il Barbiere era rannicchiato sul nudo cemento. Non avevamo una coperta e ci riscaldavamo raggomitolandoci stretti l'uno all'altro come cuccioli di cane. Da giorni il tempo si era come fermato e non riuscivamo a distinguere il giorno dalla notte. Conoscevamo il dolore e ogni giorno rivivevamo l'orrore che ci riempiva il cuore quando venivamo portati alla tortura. In quel breve spazio di tempo, quando ci preparavamo alla sofferenza, l'uomo e l'animale, il pazzo e il saggio, l'angelo e Satana erano la stessa cosa. Il rumore del cancello di ferro risuonò nel corridoio e Kamo il Barbiere si mise a sedere. "Vengono a prendermi," disse.

Mi alzai, andai davanti alla porta della cella e guardai fuori dalla piccola grata posta all'altezza degli occhi. Mentre tentavo di vedere chi arrivava dal cancello di ferro, la luce della lampada in corridoio mi illuminò il volto. Non si vedeva nessuno, probabilmente aspettavano all'entrata. La luce abbagliante mi fece strizzare gli occhi. Diedi uno sguardo alla cella di fronte e mi chiesi se la ragazza che oggi era stata buttata lì dentro come un animale ferito fosse ancora viva oppure no.

Quando i rumori in corridoio si affievolirono, tornai a sedermi e misi i piedi sopra a quelli del Dottore e di Kamo il Barbiere. Per riscaldarci tenevamo i piedi nudi vicini e respiravamo l'uno sul volto dell'altro. Anche saper aspettare era un'arte, prestavamo attenzione ai vaghi tintinnii metallici che provenivano dall'altra parte del muro senza sentire il bisogno di parlare.

Il Dottore era stato messo in cella due settimane prima di me e quando il giorno dopo il mio imprigionamento, tutto insanguinato, ero stato buttato al suo fianco, lui non solo mi aveva pulito le ferite, ma mi aveva coperto con la sua giacca. Ogni giorno venivamo prelevati con gli occhi bendati da una squadra diversa di carcerieri e riportati indietro ore dopo in uno stato di semincoscienza. Kamo il Barbiere aspettava invece da tre giorni. Da quando era stato portato dentro, non l'avevano interrogato e neanche chiamato.

All'inizio, la cella di un metro per due ci era sembrata piccola, ma poi ci eravamo abituati. Il pavimento e i muri erano di cemento, la porta grigia di ferro e l'interno vuoto. Eravamo seduti per terra e, quando le gambe perdevano sensibilità, ci alzavamo e camminavamo in circolo. A volte, quando sollevavamo la testa al suono di un urlo lontano, osservavamo le nostre facce alla debole luce che filtrava dal corridoio. Trascorrevamo il tempo dormendo o parlando. Faceva incredibilmente freddo e dimagrivamo ogni giorno di piú.

Sentimmo di nuovo stridere il cancello di ferro. I carcerieri stavano tornando indietro senza aver preso nessuno dalle celle. Per essere sicuri, rimanemmo in attesa ad ascoltare i rumori che venivano da fuori. Dopo che il cancello di ferro si richiuse, tutti i suoni cessarono e il corridoio ripiombò nel silenzio. Kamo il Barbiere respirò profondamente e disse: "Non mi hanno preso quei figli di cagna! Se ne sono andati senza prendere nessuno". Alzando la testa guardò il soffitto buio, poi si rannicchiò e si stese per terra.

Il Dottore mi chiese di continuare la mia storia.

Mentre riprendevo il racconto dicendo: "Le due suore sotto la neve...", Kamo il Barbiere si voltò, mi afferrò il braccio e disse: "Ragazzo, perché non cambi storia e non racconti qualcosa di decente? Sennò lascia perdere. Qua dentro si ghiaccia, ci stiamo congelando sul cemento e come se non bastasse tu ci racconti anche storie di neve e tempeste".

Kamo ci considerava amici o nemici? Forse era arrabbiato e ci guardava con disprezzo perché gli avevamo detto che da tre giorni parlava nel sonno? Se un giorno lo avessero portato via con gli occhi bendati e poi con la carne a brandelli lo avessero appeso a una croce, magari avrebbe imparato a fidarsi di noi, ma per ora doveva accontentarsi delle nostre parole e dei nostri corpi martoriati. Il Dottore lo afferrò gentilmente per la spalla e disse: "Dormi bene Kamo," e così dicendo lo fece rimettere disteso.

"A Istanbul non si erano mai visti giorni così caldi," cominciai di nuovo a raccontare. "In realtà è una storia lunga, ma sarò breve. Quando, nel cuore della notte, due suore lasciarono l'Ospedale Saint George di Karaköy dirigendosi verso la Chiesa di Sant'Antonio per riferire la buona notizia, gli uccellini cinguettavano gai in fila sulle grondaie. I fiori degli alberi di Giuda stavano quasi per sbocciare nel cuore dell'inverno e i cani randagi stavano per sciogliersi ed evaporare a causa del caldo. Dottore, tu hai mai visto il cuore dell'inverno che si riscalda come il deserto? Delle due suore che camminavano a fatica in quel caldo, una era giovane, l'altra anziana. Mentre salivano verso la Torre di Galata, la suora giovane disse all'altra che dall'inizio della salita un uomo le stava seguendo. La suora anziana rispose che lo scopo di un uomo che le seguiva in una strada isolata e al buio poteva essere uno solo: lo stupro. Proseguirono col cuore in gola. Intorno non c'era nessuno; in quei giorni di caldo improvviso la gente si era riversata sul Ponte di Galata, era scesa sulla riva del Corno d'Oro e ora, nel cuore della notte, le strade erano vuote. La suora giovane disse che l'uomo si stava avvicinando e che le avrebbe raggiunte prima che fossero arrivate in cima. 'Se è così, corriamo,' disse l'anziana. Con le loro gonne lunghe e le vesti pesanti passarono davanti ai venditori di targhe, dischi e libri. Tutti i negozi erano chiusi. La suora giovane si voltò indietro e vide che anche l'uomo stava correndo. Erano già senza fiato e col sudore che colava lungo la schiena. La suora anziana suggerì di dividersi prima che l'uomo le raggiungesse, in modo che almeno una delle due potesse salvarsi. E così, senza sapere cosa le aspettava, presero due strade diverse. La giovane svoltò di corsa verso destra e pensò che fosse meglio non guardare indietro. Ricordandosi di una storia raccontata nelle Sacre Scritture, tenne lo sguardo fisso sulle strade strette per evitare di condividere il destino di coloro che, girandosi, avevano guardato da lontano la città per l'ultima volta. Continuò a correre nel buio cambiando continuamente direzione. Avevano ragione quelli che dicevano che era un giorno maledetto. I medium avevano annunciato alla televisione che un simile caldo, esagerato nel bel mezzo all'inverno, era il segnale di una tragedia e i matti del quartiere avevano sbattuto coperchi tutto il giorno. Quando la giovane suora si accorse di non sentire altro rumore oltre a quello dei suoi passi, rallentò in prossimità di un angolo. Con le spalle al muro, in una strada che non conosceva, si guardò intorno e capì di essersi persa. Non si vedeva anima viva. Accompagnata da un cane che le gironzolava vicino ai piedi, camminò piano piano lungo il muro. In realtà è una storia lunga, ma sarò breve. Quando la giovane suora finalmente arrivò alla Chiesa di Sant'Antonio, venne a sapere che l'altra non era arrivata. Raccontò velocemente quello che le era successo e subito ci fu un grande scompiglio. Stavano per uscire e andare alla ricerca della suora anziana quando il portone si aprì e quest'ultima, con i capelli arruffati, entrò nella stanza. Si lasciò cadere su uno sgabello, riprese fiato e bevve due bicchieri d'acqua. La suora giovane, non riuscendo piú a contenere la sua curiosità, le chiese di raccontare tutto. L'anziana disse che, pur avendo cambiato diverse strade, non era riuscita a sfuggire all'uomo e aveva capito che presto l'avrebbe raggiunta. 'Cosa hai fatto allora?' chiese la giovane. 'Mi sono fermata in un angolo e a quel punto anche l'uomo si è fermato'. 'E poi?' 'Ho tirato su la gonna'. 'E poi?' 'Lui ha tirato giú i pantaloni'. 'E quindi?' 'Ho ricominciato a correre'. 'Poi cosa è successo?' 'È ovvio, una donna con la gonna tirata su corre piú veloce di un uomo con i pantaloni calati'".

Kamo il Barbiere, steso per terra, cominciò a ridere. Era la prima volta che lo vedevamo ridere. Il suo corpo dondolava leggermente come se stesse giocando con delle strane creature in sogno. Io ripetei l'ultima frase: "Una donna con la gonna tirata su corre piú veloce di un uomo con i pantaloni calati". Quando la risata di Kamo il Barbiere diventò troppo forte, mi chinai per chiudergli la bocca. Subito aprì gli occhi e mi guardò. Se le guardie ci avessero sentito, ci avrebbero picchiato o punito costringendoci a stare per ore in piedi davanti a un muro. Non volevamo passare così il tempo che ci rimaneva tra una tortura e l'altra.

Kamo il Barbiere si tirò su e si appoggiò al muro. Respirò profondamente, il volto si fece serio e tornò alla sua espressione abituale. Sembrava un ubriaco caduto la notte in un fosso, che quando si riprende non sa piú dove si trova.

"Oggi ho sognato di bruciare," disse. "Mi trovavo nel girone piú basso dell'inferno e anche se tutti alimentavano il mio rogo con i pezzi di legno presi dai roghi degli altri, continuavo a sentire freddo, maledizione! Gli altri dannati urlavano, perforandomi i timpani almeno un migliaio di volte. Il fuoco diventava sempre piú intenso, ma io non bruciavo abbastanza. Voi non c'eravate, ho guardato tutti a uno a uno, ma non ho visto né un dottore né uno studente. Volevo piú fuoco e imploravo urlando come un animale quando viene portato al macello. I ricchi, i predicatori, i cattivi poeti e le madri insensibili che bruciavano di fronte a me, mi guardavano attraverso le fiamme. La ferita nel mio cuore non riusciva a bruciare e a diventare cenere, i miei ricordi sfumavano ma non si cancellavano. Il fuoco riusciva a fondere il ferro, ma io ricordavo ancora il mio passato dannato. 'Pèntiti,' dicevano. Pentirsi era bastato a salvare le vostre anime, abitanti dell'inferno? Figli di cagna! Io ero solo un barbiere qualunque che portava a casa il pane, amava leggere, ma non aveva avuto bambini. Anche nei giorni in cui la nostra vita prese una piega sbagliata, mia moglie non mi trattò mai male. Avrei voluto che lo facesse, ma mi negò persino le sue maledizioni. Una sera, ubriaco, passandole accanto le dissi quello che pensavo da sobrio: che ero un povero disgraziato. Mi aspettavo che mi umiliasse e mi urlasse contro. Cercai di cogliere uno sguardo sprezzante, ma quando mia moglie si voltò dall'altra parte vidi che il suo volto esprimeva soltanto tristezza. La cosa peggiore delle donne, mia madre inclusa, è che sono sempre migliori di noi. Voi pensate che io sia strano per le cose che vi sto dicendo, ma non mi interessa".

Kamo il Barbiere si accarezzò la barba e girò la faccia verso la luce che entrava dalla grata. A parte il fatto che negli ultimi tre giorni non si era potuto lavare, lo sporco dei capelli, le unghie lunghe e l'odore rancido che emanava erano segni evidenti che anche prima di entrare in cella era stato lontano dall'acqua. Mi ero abituato all'odore del Dottore e assuefatto al mio, ma quello di Kamo si imponeva costantemente, come le stranezze della sua anima. Adesso, dopo tre giorni di silenzio, parlava con fervore.

"Ho conosciuto mia moglie il giorno dell'apertura del mio negozio. Sulla vetrina c'era scritto 'Barbiere Kamo'. Aveva accompagnato il fratello, che avrebbe cominciato la scuola di lì a poco, a tagliarsi i capelli. Chiesi il nome del ragazzo e poi mi presentai: 'Il mio nome è Kamil, ma tutti mi chiamano Kamo'. 'Va bene, Kamo abi1,' disse il ragazzo. Gli chiesi di risolvere dei rompicapi e raccontai degli aneddoti divertenti sulla scuola. Mia moglie, che sedeva in un angolo e ci guardava, alla mia domanda rispose che aveva appena finito il liceo e lavorava in casa come sarta. Distogliendo gli occhi da me, guardò la foto della Torre di Leandro appesa al muro, il basilico sotto la foto, lo specchio con la cornice blu, i rasoi e le forbici. Quando le porsi un po' della colonia che avevo messo sui capelli del ragazzo, lei aprì la mano, si portò al naso il piccolo palmo e nell'annusarlo chiuse gli occhi. In quel momento immaginai che sotto le palpebre stesse vedendo me e desiderai che per tutta la vita soltanto quegli occhi, e non altri, mi sfiorassero. Mentre mia moglie col profumo di colonia al limone e il vestito a fiori si allontanava dal negozio, rimasi sulla porta a seguirla con lo sguardo. Non le avevo chiesto come si chiamasse. Lei era Mahizer, era entrata nella mia vita con le sue piccole mani e sentivo che non ne sarebbe mai uscita.

"Quella sera andai di nuovo al vecchio pozzo. Ce n'era uno nel giardino sul retro della nostra casa nel quartiere di Menekse, dove ero cresciuto. Quando ero solo, mi appoggiavo al parapetto e guardavo il buio giú nel fondo. Non mi accorgevo che la giornata era finita e non mi rendevo conto che c'era un altro mondo oltre al pozzo. Il buio era serenità, era sacro. Mi inebriavo dell'odore di umido fino a che non mi girava piacevolmente la testa. Quando qualcuno diceva che somigliavo a mio padre, che non avevo mai conosciuto, o quando mia madre mi chiamava col nome di mio padre Kamil, invece di Kamo, io correvo a perdifiato fino al pozzo. Nell'oscurità mi riempivo i polmoni di aria e, sporgendomi, immaginavo di immergermi nel fondo. Volevo liberarmi di mia madre, di mio padre e della mia infanzia. Figli di cagna! Mia madre era rimasta incinta del fidanzato, che poi si era suicidato; decise di avermi anche se questo significava essere ripudiata dalla famiglia e mi mise il nome del fidanzato. Persino quando ormai giocavo per strada, mi ricordo che a volte mi stringeva al seno, mi metteva in bocca il capezzolo e piangeva; io, allora, sentivo il sapore delle sue lacrime, non del latte. Tenevo gli occhi chiusi e contavo le dita a una a una, ripetendomi che sarebbe finita presto. Una sera, al calare del buio, mia madre mi aveva trovato al pozzo e, mentre cercava di portarmi via tirandomi per un braccio, la pietra su cui si era appoggiata era slittata. Sento ancora le sue grida mentre cadeva. Tirarono fuori il suo corpo dal pozzo a mezzanotte. Dopo la morte di mia madre andai a vivere all'orfanotrofio di Darüssafaka, e ogni notte mi addormentavo fantasticando nella camerata dove ognuno raccontava le proprie interminabili storie di vita".

Kamo esaminò le nostre facce per vedere se lo stessimo ascoltando con attenzione.

"Quando ero fidanzato con Mahizer, le regalavo romanzi e libri di poesie. Il nostro professore di letteratura del liceo diceva che ognuno si esprimeva col proprio linguaggio, e che qualcuno potevi capirlo con i fiori, qualcun altro con i libri. Mahizer tagliava modelli e cuciva vestiti in casa; a volte scriveva poesie su piccoli pezzi di carta che mi mandava tramite il fratello. Conservavo le sue poesie in una scatola fra i saponi profumati, in un cassetto del mio negozio. Il lavoro andava bene e i clienti aumentavano. Un giorno, un mio cliente che faceva il giornalista fu colpito sulla porta del negozio nel momento in cui, sorridendo, usciva dopo essersi fatto tagliare i capelli. I due aggressori gli si avvicinarono mentre cadeva a terra e gli piantarono un altro proiettile in testa gridando: 'O ti piace o te ne vai, amico!' Il giorno dopo, molta gente si radunò sulla strada ancora macchiata di sangue, per ricordare il giornalista. Mi unii a loro in onore del taglio di capelli e andai al funerale. Non credevo alla politica; in vita mia, l'unica persona a me vicina che aveva avuto a che fare con la politica era il mio insegnante di letteratura, il professor Hayattin. Anche se lui non parlava mai di politica, avevamo visto dei giornali socialisti che spuntavano dalle sue cartelle. Il mio scetticismo era assoluto. Come poteva la politica, fatta di uomini, cambiare il mondo? Quelli che dichiaravano che la bontà avrebbe salvato e reso felice la società, non avevano capito niente delle persone. Si comportavano come se l'egoismo non esistesse, dannazione. L'individualismo, l'avidità e la competizione sono alla base della natura umana. Quando dicevo queste cose, i miei clienti protestavano e cercavano animatamente di farmi cambiare idea. 'Come può un amante della poesia parlare così,' mi disse uno di loro mentre aspettava il suo turno. Avvicinandosi allo specchio, cominciò a leggere ad alta voce alcuni versi dei Fiori del male che ci avevo attaccato sopra. La violenza non accennava a diminuire e sentivamo sparatorie nei quartieri vicini. Una volta, un cliente era entrato nel negozio col cuore in gola chiedendomi di nascondere la sua arma prima che la polizia lo catturasse. Ma anche se occasionalmente avevo aiutato qualcuno, questo non voleva dire che la politica mi interessasse. L'unica vita possibile per me era risparmiare per comprare una casa, diventare padre e trascorrere le notti con Mahizer. Mahizer però non riusciva a rimanere incinta. Dopo due anni di matrimonio andammo dal medico e scoprimmo che la causa ero io.

"Una sera, mentre stavo chiudendo il negozio, vidi tre persone che aggredivano un uomo: era Hayattin, il mio insegnante di letteratura. Afferrai il coltello e mi infilai tra di loro; li ferii al volto e alle mani. Gli aggressori, colti di sorpresa, se ne andarono scomparendo nel buio. Il professor Hayattin mi abbracciò; chiacchierando, ci mettemmo a passeggiare e a Samatya entrammo in una taverna. Parlammo di noi. Il professor Hayattin aveva cambiato due scuole dopo Darüssafaka, le sue ore di lezione erano diminuite e così aveva piú tempo per la politica. Era preoccupato per il futuro del nostro paese. Aveva saputo che all'università avevo studiato Lingua e letteratura francese, ma non era al corrente del fatto che al secondo anno avevo dovuto cominciare a lavorare e per questo avevo interrotto gli studi. Era dispiaciuto. Quando mi chiese se ero ancora interessato alla poesia, mormorai alcuni versi di Baudelaire che avevo imparato a memoria durante le sue lezioni. Lui mi guardò con orgoglio e si ricordò che al concorso scolastico di lettura di poesia ero arrivato primo. Facemmo tintinnare i nostri bicchieri di raki. Il professor Hayattin era felice che mi fossi sposato, anche se lui era ancora scapolo. A quanto pareva, anni prima si era innamorato di una sua studentessa senza dichiararsi e, quando aveva saputo che dopo il diploma lei si era sposata, si era rassegnato a una completa solitudine. Bevemmo fino al mattino. Io recitai le poesie che avevo imparato a memoria e lui lesse quelle che aveva scritto per la ragazza. Non so in che modo tornai a casa. Il giorno dopo, quando mi ripresi dalla sbornia, mi ricordai che nelle poesie del professore ricorreva il nome di Mahizer.

"Il mese dopo non andai al funerale del professor Hayattin. Era stato colpito alla testa da un proiettile all'uscita da scuola. Un suo amico mi portò una poesia che mi aveva dedicato. L'avevano trovata nella sua cartella e raccontava di cavalieri coraggiosi nella tempesta. Quella notte abbracciai Mahizer e le dissi di non lasciarmi. 'Perché dovrei lasciarti, matto,' rispose. Presi la scatola che da anni era nascosta nel cassetto dei saponi del mio negozio. Tirai fuori le poesie che Mahizer mi aveva scritto quando eravamo fidanzati e le chiesi di leggermele. La carta sapeva un po' di rosa, un po' di lavanda. Mentre Mahizer leggeva, le slacciai la camicetta e mi misi in bocca il suo seno. Volevo succhiare un po' di latte, invece assaporai le lacrime che le cadevano sul petto. Passarono tre mesi. Una notte Mahizer, facendo nervosamente una serie di domande l'una dietro l'altra, scoppiò di nuovo a piangere. Mi chiese chi avesse sparato al professor Hayattin. Disse che non si era mai comportato male con lei. Qualche giorno prima, parlando nel sonno, avevo detto che aveva meritato di morire. 'Di chi altro ho parlato?' le chiesi. 'Perché, ce ne sono altri?' rispose Mahizer. Giurai su mia madre che non ne sapevo niente. Dissi che quello che avevo dichiarato nel sonno non significava niente, mi misi il cappotto e uscii al freddo. Che delusione! Che anima miserabile. Un vecchio pazzo. Un'anima che bruciava scintille nelle ali, che si impennava al piú lieve tocco di uno sprone di speranza... Oh! Un malato che respirava affannosamente, un inutile cavallo da tiro. Esiste al mondo qualcosa che non si consumi? Anima mia triste, vecchia e disgraziata. Né la gioia di vivere né l'incessante tempesta dell'amore raggiungeranno le tue acque. Oh, balzo del tempo che mi scioglie a ogni respiro! Tempo che lacera la mia anima e le fa perdere l'orientamento. Non ricordo come ero arrivato al pozzo e come, tolta la pietra che lo copriva, l'avessi aperto. Sporgendomi dal parapetto, gridavo verso il basso. Mamma! Perché quando mi mettevi in bocca il tuo seno, invece del latte mi davi le tue lacrime? Mamma! Perché abbracciando il mio esile corpo ripetevi il nome di mio padre morto e non il mio? Sapevo che pensavi a mio padre quando mi chiamavi Kamil invece di Kamo. Anche nella tua ultima notte mi hai chiamato così. Sapevo che la pietra sulla quale ti eri appoggiata non era sicura. Dovevi cadere, mamma! Dicevi che ero nato grazie a mio padre e che gli dovevo la mia vita. Dannazione! I morti sono morti. Non capivi quanto era crudele la luce. Mostrava solo la parte esterna delle cose e ci impediva di guardare dentro".

Kamo il Barbiere pronunciò queste ultime parole borbottando fra sé e sé. Prima piegò la testa in avanti e poi, dopo averla ributtata indietro, colpì il muro. "Crisi epilettica," disse il Dottore mettendolo subito sdraiato. Per evitare che si morsicasse la lingua, gli infilò fra i denti un pezzo di pane che avevamo messo da parte per un nuovo compagno di cella, che poteva arrivare in qualsiasi momento. Io gli tenevo le gambe. Kamo aveva le convulsioni e gli usciva la schiuma dalla bocca.

La porta della cella si aprì. La guardia, torreggiando sopra di noi, urlò: "Che sta succedendo?"

"Il nostro compagno ha una crisi epilettica," disse il Dottore. "Per farlo rinvenire serve qualcosa che abbia un odore forte, come della colonia o una cipolla". La guardia fece un passo dentro la cella e disse: "Se il vostro stupido amico dovesse morire, ditemelo che vengo a prendere il cadavere". Per essere sicuro si sporse in avanti e guardò Kamo in faccia. La guardia odorava di sangue, muffa e chiuso. Dall'odore di alcol del suo alito si poteva dedurre che aveva bevuto appena prima di prendere servizio. Dopo aver aspettato un po', fece un passo indietro e sputò per terra.

Mentre la guardia chiudeva la porta, vidi il volto della ragazza che era stata portata quel giorno nella cella di fronte. L'occhio sinistro era chiuso e il labbro inferiore spaccato. Era il primo giorno che si trovava lì, ma dal colore delle ferite si capiva che era da tempo che subiva torture. Dopo che la porta si chiuse mi stesi per terra; mentre tenevo le gambe di Kamo, appoggiai la guancia al pavimento di cemento per guardare i piedi della guardia dalla fessura sotto la porta. La guardia, rivolta verso la ragazza, aspettava senza muoversi. I suoi piedi erano fermi. La ragazza non si era allontanata dalla grata, non si era seduta nella cella al buio? La guardia non stava imprecando, non stava colpendo la porta per spaventarla e non era entrata nella cella per sbatterla contro il muro. Nel frattempo, il corpo di Kamo si rilassò e poi si contrasse di nuovo per cercare di liberare le gambe dalla mia presa. Aprì le braccia e con le mani sbatté contro le pareti della cella. Dopo l'ultima convulsione, gli spasmi cessarono e Kamo smise di ansimare. La guardia se ne andò lasciando in pace la ragazza, e il rumore dei passi si allontanò nel corridoio. Mi alzai e guardai fuori. Vedendo la ragazza vicina alla grata la salutai con un cenno del capo, ma lei non si mosse. Dopo poco si ritrasse e si perse nel buio.

Il Dottore si appoggiò al muro e allungò le gambe, sulle quali mise la testa di Kamo. "Per un po' dormi così," disse.

"Riesce a sentirci?" chiesi.

"Alcuni pazienti in questo stato sentono, altri no".

"Dovremmo dirgli che non è il caso che ci racconti tutto di se stesso".

"È vero, dovrebbe smetterla".

Aspettando che si addormentasse, il Dottore guardava Kamo come se fosse suo figlio e non un paziente qualunque. Gli asciugò il sudore dalla fronte e gli mise a posto i capelli.

"La ragazza di fronte come sta?" chiese.

"Sul volto ci sono delle vecchie ferite, significa che è da molto tempo che la torturano," dissi.

Guardai la faccia tranquilla di Kamo. Il cliente che l'aveva trovato strano aveva ragione. Come poteva un uomo così amare la poesia? Adesso dormiva come un bambino stanco che ha giocato fuori tutto il giorno. Sotto le palpebre, si sporgeva dal parapetto del pozzo e guardava giú nel buio. Tante volte si era tenuto alle pietre traballanti perché non si fidava di quelle sicure. Con l'aiuto di una corda che aveva buttato nel pozzo, si calava giú e si lasciava andare nell'acqua. Là dentro, Kamo era il nord e il sud e possedeva l'est e l'ovest. La sua vita fuori era stata cancellata, lui era diventato pozzo nel pozzo e acqua nell'acqua.

"Quanto tempo sono rimasto svenuto?" borbottò Kamo aprendo gli occhi a metà.

"Mezz'ora," rispose il Dottore.

"Ho la gola secca".

"Alzati piano".

Kamo si alzò, si appoggiò al muro e bevve dalla bottiglia dell'acqua che il Dottore teneva in mano.

"Come ti senti?" chiese il Dottore.

"Mi sento sia stanco, sia riposato, dannazione. Avrei dovuto dirvi della mia malattia. La prima volta mi sono ammalato in primavera, subito dopo la morte di mia madre. Non durò molto, mi ripresi nel giro di qualche settimana. Ma dicono che il passato ritorni. Da quando Mahizer mi ha lasciato, le crisi sono ricominciate".

"Io e Demirtay ci prenderemo cura di te. Kamo, devo dirti una cosa importante. È bello chiacchierare, ma questa cella ha delle regole. Non sappiamo chi cederà alle torture confessando i propri segreti e chi racconterà ai carcerieri tutto ciò che sente qua dentro. Possiamo chiacchierare e condividere i nostri problemi, ma non lasciamoci sfuggire di bocca i nostri segreti. Capito?"

"Non ci diremo la verità?" disse Kamo. L'uomo deciso di poco prima se n'era andato e al suo posto era arrivato un paziente docile.

"Tieniti i segreti per te," rispose il Dottore. "Non sappiamo perché sei stato portato qui e non vogliamo saperlo".

"Non siete curiosi di sapere che tipo sono?"

"Guarda Kamo, se fossimo fuori, non vorrei incontrarti o trovarmi nello stesso posto con te. Ma qui siamo in balia del dolore e nelle braccia della morte. Non siamo nella posizione di giudicare nessuno. Ognuno cura le ferite dell'altro. Non dimentichiamoci che qui siamo la forma piú pura dell'essere umano: l'uomo che soffre".

"Non mi conoscete," disse Kamo. "Non vi ho ancora raccontato niente".

Guardai il Dottore, e aspettammo in silenzio.

Era evidente che Kamo sceglieva e soppesava ogni parola.

"La mia memoria, della quale mi stavo lamentando, è come un usuraio parsimonioso. Mette da parte ogni parola e la conserva. Tu, studentello, lo sai che le parole della storia che hai raccontato si dice appartengano a Confucio? Nel mio negozio, sopra lo specchio e accanto alla bandiera nazionale c'era il poster di una donna mezza nuda e sotto il poster c'erano scritte quelle parole. La ragazza indossava una gonna colorata che aveva tirato su; aveva le gambe lunghe, correva e voltando timidamente la testa di lato guardava me e i clienti che aspettavano in fila. Tra le gambe si intravedeva la scritta: 'Una donna con la gonna tirata su corre piú veloce di un uomo con i pantaloni calati'. A volte i miei clienti, perdendosi nella bellezza della ragazza, non credevano a quelle parole. Immaginavano che, se mai quella ragazza fosse entrata nella loro vita, sarebbero vissuti felici con lei, fregandosene di tutto il resto. Un giorno un mio cliente scrittore, guardando la foto, mormorò: 'Oh, Sonja!', e tutti pensammo che quello fosse il nome della ragazza. Quando si sedette sulla poltrona per farsi tagliare i capelli, si lanciò in un lungo discorso e alla fine cominciò a parlare di me. Disse che il mio animo somigliava a quello russo. Vedendo che ero sorpreso, ripeté cose che avevo detto le volte precedenti che era venuto da me.

"Se fossi nato in Russia, disse che avrei fatto parte della dinastia dei Karamazov, oppure sarei vissuto come l'uomo del sottosuolo, o sarei caduto in miseria come Marmeladov, il padre di Sonja. Ogni singola parola che lo scrittore usò per raccontare i personaggi di Dostoevskij valeva anche per me, e gli stati d'animo che Dostoevskij aveva rappresentato erano simili ai miei. Prima Marmeladov in Delitto e castigo, poi la prima parte di Memorie dal sottosuolo e infine I fratelli Karamazov. La differenza fra quei personaggi era piccola, ma grande abbastanza da guidare le loro vite in viaggi incredibilmente diversi. Marmeladov, il padre di Sonja, era un debole, sapeva di essere patetico e biasimava se stesso continuamente. Era un poveraccio, vittima del suo destino. Sonja adorava quel padre miserabile. Ah Sonja, bella e povera prostituta! Chi non avrebbe commesso un omicidio per il solo fatto di guadagnarsi così il suo amore! Mettendo in luce la meschinità degli altri, l'uomo del sottosuolo rivelava la propria e la trasformava in rabbia. Con il suo desiderio di trovare delle persone che gli somigliassero e di mettere uno specchio davanti ai loro volti, si distrusse l'anima. Quella dei Karamazov è tutta un'altra storia. Litigavano fra loro, con gli altri e con la vita. Al contrario di Marmeladov, non si sentivano disperati, né vedevano la propria meschinità tramite quella degli altri, come faceva l'uomo del sottosuolo. La meschinità era il loro destino inesorabile, una ferita suppurante. Non si battevano per accettare la vita, ma per lottare con essa e, quando soffrivano, gettavano in faccia alla vita il sangue che avevano versato. Ecco, la vita ora ha aperto una nuova pagina anche per me. Maledizione! Non guardatemi così, non guardatemi come se bruciassi all'inferno. È da tre giorni che vi ascolto: le vostre storie, i vostri lamenti dopo la tortura. Adesso tocca a voi".

Kamo ci guardò in maniera sprezzante, bevve un po' di acqua dalla bottiglia e continuò a raccontare.

"Non so che cosa succederà; mi lasceranno andare o mi tortureranno, come hanno fatto con voi? Il dolore trasforma il corpo in schiavo e lo stesso fa la paura con l'anima; così le persone vendono la propria anima per cercare di salvare il proprio corpo. Io non ho paura; parlerò ai carcerieri e gli racconterò i segreti che a voi non ho detto.

"Dirò tutto quello che vogliono. Risponderò alle loro domande mettendo la mia anima nelle loro mani. Come il sarto che per rovesciare una giacca la apre scucendo la fodera, anch'io mi strapperò il fegato e glielo metterò davanti. Dirò piú di quello che vogliono. All'inizio ascolteranno con interesse, forse mi registreranno pensando che le mie parole possano essergli utili, ma col passare del tempo cominceranno a sentirsi a disagio ascoltando i miei racconti. Si renderanno conto che sto dicendo cose su di loro che non vogliono sapere. In questa vita ciò che l'uomo teme di piú è se stesso. Anche loro avranno paura e cercheranno di farmi tacere. Se prima avranno usato la tortura per farmi parlare, dopo passeranno alla crocefissione, alle scosse elettriche, mi immergeranno nel mio stesso sangue per farmi stare zitto. In realtà, saranno terrorizzati quanto me dalla verità. Racconterò tutto di me e mostrerò loro il lato di se stessi che non vogliono vedere.

"Si stupiranno come i lebbrosi che, per la prima volta, si vedono allo specchio; indietreggiando, si accosteranno al muro e, poiché non potranno cambiare se stessi, non avranno altra scelta che rompere lo specchio, cioè la mia faccia e le mie ossa. Non servirà tagliarmi la lingua, i miei gemiti li assorderanno e imprigioneranno le loro menti dentro un'unica verità. Persino quando saranno nelle loro case, si sveglieranno nel cuore della notte bagnati di sudore e si scoleranno intere bottiglie dei liquori piú forti. Ma non potranno scappare, la verità scorre nella giugulare. Non avranno altra scelta che accettarla o tagliarsi le vene. Ognuno di loro ha una moglie compassionevole che li abbraccerà e consolerà, poi si accenderanno una sigaretta tenendola fra le dita tremanti. Sono terrorizzati dal conoscere la loro verità. Ora capisco perché sono qui da tre giorni e non mi hanno ancora interrogato. Hanno paura di me".

Kamo il Barbiere stava parlando dal profondo, dai margini del profondo, dal piú remoto angolo di quel profondo. Si era nascosto per tanto tempo, era stato schiacciato ed era ferito. Era difficile dire se si nascondeva perché era stato ferito o se si era ferito nascondendosi. Mi sentivo soffocare in quel buio che Kamo amava tanto. Quando venivo portato fuori dal cancello di ferro con gli occhi bendati, ero fuori anche dal mondo che conoscevo. Apprezzavo il valore dell'orientamento, cercavo a tutti i costi di aggrapparmi al caos di parole nella mia mente. Era difficile pensare al buio. La vita era proprio sopra di me e io volevo tornarci.

Kamo strizzò gli occhi, aveva lo sguardo stanco. Anche il piú lieve raggio di luce che entrava nella cella gli dava fastidio, forse era per questo che voleva sempre dormire.

"Solo una volta mia madre non si arrabbiò perché andavo al pozzo. Quel giorno in sogno aveva visto la legna ardere. Era il segno che si sarebbe liberata da un problema che la affliggeva. Che strano, la prima volta che ho sognato legna che bruciava, è stato in questa cella. Di quale problema dovrei liberarmi, visto che il mio passato è congelato?"

"Questi giorni finiranno così come sono finiti quelli passati," disse il Dottore. "Il tuo sogno dice che uscirai di qui e sarai di nuovo libero".

"Libero? Da quando Mahizer non c'è piú, niente è piú lo stesso. Ogni singola pietra dentro di me è traballante".

"Ti stai tormentando. Tutti hanno problemi simili nella vita''. Il Dottore aspettò un po' e poi proseguì: "Devi pensare a qualcosa di bello. Immagina di essere fuori, per esempio a Ortaköy, in riva al mare, a chiacchierare guardando la riva di fronte''.

Al Dottore piaceva distogliere il nostro sguardo da lì e portarci nel mondo esterno. Aveva insegnato a farlo anche a me. Invece di parlare del dolore era meglio immaginare la vita fuori. Il tempo, che era fermo perché i nostri corpi erano imprigionati in quella cella, ricominciava a ticchettare quando la nostra mente vagava all'esterno. La mente era piú forte del corpo; il Dottore diceva che era scientificamente provato. Ci ritrovavamo spesso a immaginare la vita fuori, per esempio condividevamo la gioia dei passanti sulla riva. Salutavamo le persone che ballavano su una barca vicino al litorale di Ortaköy con la musica a tutto volume. Passavamo accanto agli innamorati che si abbracciavano. Quando il sole scendeva all'orizzonte, il Dottore comprava un sacchetto di prugne verdi da un venditore ambulante. Sorridendo, le offriva prima a me.

Un giorno della settimana precedente mi avevano buttato nella cella mezzo incosciente. Avevo le labbra secche e riuscivo a dire solo parole incomprensibili. Il Dottore, pensando che volessi dell'acqua, mi aveva tirato su e provando a darmi da bere mi aveva fatto aprire gli occhi. "Non voglio l'acqua, ma le prugne verdi," avevo detto. Avevamo riso per due giorni.

Il Dottore chiese a Kamo: "Anche tu vuoi le prugne?"

Kamo non era rimasto colpito dalla storia. La sua mente non era sullo stesso piano della nostra. "Il passato, Dottore, il nostro passato..." disse.

Il Dottore tirò giú la mano che era rimasta sospesa in aria per offrirgli una prugna. "Il nostro passato è qualcosa di troppo lontano e irraggiungibile. Dobbiamo pensare al domani," disse.

"Sai Dottore, neanche Dio può cambiare il passato. Dio Onnipotente regna sopra il presente e il futuro, ma non può toccare il passato. Se nemmeno lui può cambiare il passato, noi cosa siamo allora?"

Il Dottore per la prima volta guardò Kamo con compassione e poi sorrise. "Tutti i barbieri che conosco amano parlare e chiacchierano di calcio e di donne; tu perché parli così? Se fossi un tuo cliente, non tornerei mai nel tuo negozio. Forse i barbieri non dovrebbero studiare all'università, altrimenti gli uomini dove potrebbero andare a parlare di calcio e di donne?"

"Anche se non avessi studiato, farei le stesse domande".

"Ma pensa a questo, Kamo: ti sei lamentato dell'infanzia trascorsa con tua madre, però quando hai conosciuto tua moglie ti sei liberato di quel passato. Accadrà di nuovo. Domani, trovata una nuova felicità, dimenticherai i giorni passati".

"Una nuova felicità?"

Il Dottore fece un respiro profondo. Si strofinò le mani fredde e rivolse lo sguardo in alto, come se cercasse il modo per gestire un paziente difficile. In quel momento si sentì il forte rumore del cancello di ferro.

Ci guardammo. Le guardie che stavano entrando in corridoio avevano un tono allegro. Ascoltammo la loro conversazione.

"Ha parlato?"

"Manca poco, ancora qualche giorno e sarà finita".

"Che cosa era previsto oggi?"

"Scosse elettriche, forca e idrante".

"Nome e indirizzo?"

"Li conosciamo".

"È un pesce grosso o piccolo?"

"Questo vecchio è un pesce grosso".

"In quale cella?"

"La numero 40".

Era la nostra cella.

Unimmo i piedi infreddoliti cercando di prendere un po' di calore l'uno dall'altro. In qualsiasi momento avremmo potuto uscire da quella cella e non tornarci piú; oppure uscirne sani e tornarci pazzi; passare dall'essere umani ad animali con l'anima strappata.

"Vengono a prendermi,'' disse Kamo voltando la faccia verso la grata. "Giusto in tempo''.

Il rumore dei passi si avvicinava. La porta della cella si aprì. Due guardie trascinavano a fatica un uomo anziano di grossa corporatura tenendolo dalle ascelle. La testa dell'uomo era crollata in avanti e la parte superiore era coperta di sangue. "Prendete, eccovi un nuovo amico''. Io e il Dottore ci alzammo, afferrammo l'uomo e lo stendemmo per terra. Le guardie chiusero la porta e si allontanarono.

"Si congelerà per il freddo," disse il Dottore. Controllò se aveva un'emorragia o una frattura. Gli alzò le palpebre e guardò gli occhi alla luce soffusa. Gli prese un piede e cominciò a massaggiarlo. Anch'io gli presi l'altro piede fra le mani: era ghiacciato.

Kamo il Barbiere disse di stendere l'uomo sopra di lui perché bisognava proteggerlo dal cemento.

Io e il Dottore prendemmo l'uomo e lo stendemmo sulla schiena di Kamo. Noi ci sdraiammo ai suoi fianchi e lo abbracciammo. In passato per riscaldarsi si stava nella stessa stanza vicino alle mucche e ai cani. La cella ci stava riportando indietro nella storia. Stavamo abbracciando un completo estraneo per cercare di ridargli vita.

"Kamo, stai bene?"

"Sto bene, Dottore. Quest'uomo è così freddo che sembra l'abbiano messo nudo sotto la neve".

"Neve?"

"Sì, il giorno in cui sono stato arrestato nevicava ininterrottamente," disse Kamo il Barbiere.

"Sembra che quest'anno l'inverno sia arrivato presto. Quando hanno arrestato me, invece, il tempo era bello".

Ascoltavo il Dottore e Kamo che chiacchieravano. Non riuscivo a inserirmi nella conversazione. Da tre giorni Kamo mi ignorava o mi rimproverava. A volte mi chiamava "studente'', la maggior parte delle volte "bambino''. Avevo diciotto anni e mi aspettavo che avesse per me almeno un po' del rispetto che aveva per il Dottore. Quando ero stato arrestato, immaginavo i problemi che avrei avuto, ma non mi aspettavo che un compagno di cella potesse essere fra quelli. Il dolore era senza limiti, o lo sopportavi o ti schiacciava, ma non sapevo come comportarmi con Kamo. Il giorno in cui mi avevano catturato, uno dei poliziotti in borghese mi chiamava continuamente "bambino''; dentro la macchina mi schiacciava le dita e mi diceva: "Sarà un peccato rovinare la tua vita, bambino, dai parla''. Quando gli risposi: "Non sono un bambino,'' mi mise le mani al collo e cercò di soffocarmi. L'altro poliziotto lo fermò, o magari era soltanto uno dei loro soliti giochetti. Sapevano il mio vero nome e mi chiesero chi era la persona che dovevo incontrare. Fui piú sorpreso che sapessero l'ora e il luogo del mio appuntamento che del fatto che conoscessero il mio nome. "Non sono un bambino, sono uno studente universitario. Stavo andando a lezione, di che appuntamento state parlando?'' "Perché scappavi allora?" Quando mi ero accorto che mi stavano seguendo, avevo imboccato la prima strada possibile e mi ero messo a correre. "Ero in ritardo, cercavo solo di arrivare a lezione in tempo".

Mezz'ora dopo mi portarono al luogo dell'appuntamento, alla fermata dell'autobus davanti alla biblioteca dell'Università di Istanbul. Mi dissero di aspettare alla fermata e che, se avessi cercato di scappare, mi avrebbero picchiato. I poliziotti scesero dalla macchina e si sparpagliarono. Da lontano cominciarono a osservare tutti quelli che aspettavano alla fermata vicino a me. Guardai l'ora, mancavano tre minuti alle due. Le regole dei nostri appuntamenti erano precise. Si arrivava all'incontro massimo tre minuti prima dell'ora stabilita; se l'incontro non avveniva, non si aspettavano piú di tre minuti. Mentre davanti alla fermata guardavo la gente che scendeva dall'autobus, avevo paura di scorgere la persona che aspettavo. Ero sorpreso di vedere quanto fosse affollata quella fermata che frequentavo abitualmente. Era piena di studenti, turisti e uomini in giacca e cravatta. Il tempo passava, mancavano due minuti alle due. Controllai quelli che, dal marciapiede opposto, guardavano dalla mia parte. Nella folla, si assomigliavano tutti. La persona con la quale dovevo incontrarmi poteva essere fra quelle che venivano verso di me infilandosi a passo svelto fra le macchine. Forse si era resa conto che si trattava di una trappola e che ero sorvegliato da poliziotti in borghese. Aveva intuito dall'espressione di panico sulla mia faccia che ero stato preso e per questo se ne era andata mischiandosi alla folla. Guardai l'orologio, mancava un minuto. D'impulso mi gettai davanti all'autobus che si avvicinava. L'autobus mi urtò e mi lanciò in avanti. Sentii delle grida. Alcune persone mi afferrarono per le braccia e mi portarono alla macchina. Sul sedile posteriore cominciarono a picchiarmi. "Chi era, bastardo, dicci chi era". Mi misero in bocca la canna della pistola. Non riuscivo ad aprire gli occhi e mi girava la testa. "Hai cinque secondi, poi premerò il grilletto". Cinque secondi dopo tirarono fuori la pistola e mi schiacciarono i testicoli. Volevo urlare, ma mi chiusero la bocca. Le lacrime mi scesero lungo il viso.

Per quanto una persona possa prepararsi, il dolore annebbia la mente. A causa del dolore, il tempo si ferma e perdi il senso del futuro. La realtà scompare e l'intero universo si restringe al tuo corpo. Senti che sarà sempre così e che non ci saranno altri momenti. Come l'imprigionamento di Kamo nel passato. Lo capivo. Ma perché è arrivato proprio adesso, in milioni di anni, il momento di soffrire?, pensavo, facendomi domande senza senso. Ero come il bambino che guarda con sospetto ogni oggetto dopo che si è scottato la mano toccando una tazza calda. Non riuscivo a definire nient'altro che il dolore e non riuscivo a pensare ad altro che al tempo. Se avessi ritenuto che poteva rispondere alle mie domande, avrei chiesto al Dottore. Lui credeva che non pensare al dolore ci avrebbe reso piú resistenti a esso. Ma ora che il tempo senza fine arrivava a incrociare il mio corpo, non potevo fare a meno di pensare: il tempo scorre da milioni di anni, perché proprio adesso è il mio momento di soffrire?

Mentre sollevava la testa, il Dottore mi chiese se stavo bene.

"Sto bene".

"Alziamoci, sennò Kamo si congelerà".

Ci togliemmo le giacche e le mettemmo per terra. Kamo non aveva la giacca. Stendemmo sopra di esse l'uomo anziano. Il Dottore controllò il suo polso e gli tastò il collo. Bagnandosi le dita, toccò con l'acqua le sue labbra secche. Lui tossì scuotendo il petto con violenza.

Noi tre ci sedemmo l'uno accanto all'altro appoggiando la schiena al muro. Guardammo i capelli lunghi dell'uomo che gli ricadevano sulla faccia. Con i piedi toccava quasi la porta. Da solo occupava tutta la cella; era steso come un morto in una fossa. Noi eravamo già stati sepolti in quella stessa fossa. Le città sono state costruite sopra le vecchie rovine e i morti seppelliti nella terra dei vecchi morti.

"Sopravvivrà?" chiese Kamo. "Se non dovesse farcela, torneremo a stare piú larghi. C'era a malapena posto per tre persone e adesso siamo in quattro. Come faremo a sdraiarci?"

Il Dottore non gli rispose. Mise la mano sul petto del vecchio, come se la stesse appoggiando sopra le Sacre Scritture. Chiuse gli occhi e aspettò. C'era una tale serenità in lui che avrebbe resuscitato i morti e alleviato il loro dolore. "Si risveglierà, si risveglierà," mormorò. Forse aveva guardato così anche me e atteso pazientemente che mi risvegliassi, quando ero stato portato in cella mezzo incosciente? Anche allora aveva ascoltato il mio respiro con piú attenzione di quella che riservava al proprio?

Mi alzai e andai alla grata. Anche la ragazza di fronte era vicina alla grata. La salutai con un cenno del capo, cercai un segnale sul suo volto, aspettai una risposta. Non potevamo parlare, anche solo un sospiro avrebbe riecheggiato nel corridoio, richiamando le guardie. Con i movimenti delle mani cercai di chiederle se stava bene. Mi osservò attentamente e poi annuì. Aveva un aspetto riposato. Non aveva piú il sangue sul labbro inferiore, ma l'occhio chiuso non si era aperto. Alzò la mano sinistra e con il dito cominciò a scrivere delle lettere nell'aria. Non riuscii a capire di chi chiedeva, perciò ripeté il gesto. Mi stava chiedendo come stava il nuovo arrivato, il vecchio Küheylan. Sapeva il nome dell'uomo, lo conosceva. Allo stesso modo, anch'io scrissi nell'aria: "Vivrà," e mi presentai scrivendo: "Mi chiamo Demirtay".

Mentre la ragazza stava tracciando le lettere del suo nome con il suo dito sottile, mi voltai sentendo gemere l'uomo anziano. Aveva aperto gli occhi. Cercava di capire dove si trovasse. Guardò Kamo e il Dottore che gli erano vicini. Osservò attentamente i muri e il soffitto. Allungando la mano per toccare il pavimento sentì il cemento sul quale era disteso.

Con un filo di voce chiese: "È Istanbul? Questa è Istanbul?"

Chiuse gli occhi e stavolta, invece di svenire, si addormentò con una strana espressione di felicità sul volto.

 

1 Agabey, abbreviato abi, letteralmente significa "fratello maggiore" e viene usato per rivolgersi a un uomo di età maggiore. [n.d.t.]