La piccola Lisbona in mezzo all’Artico
Uno starnuto a Lisbona può provocare un uragano sull’isola di Husøy, che da più di un secolo rifornisce di baccalà il Portogallo. La storia affascinante di una piccola isola ai confini del mondo, che vive seguendo le fluttuazioni dell’economia portoghese.
A Husøy tutti conoscono l’andamento settimanale della borsa portoghese. «Non abbiamo altra scelta» spiega Randi Karlsen, figlia di Roar e nipote di Hilbert Karlsen. Nel 1932 la sua famiglia ha occupato questa piccola isola per pescare baccalà e oggi vende tutto il pescato a Lisbona.
«Negli anni della crisi sapevamo che non valeva la pena produrre molto baccalà, perché non lo avremmo venduto. Ora che le cose stanno migliorando, ad aumentare è il prodotto di qualità superiore.» Questa storia comincia qui: la ripresa dell’economia, il deficit portoghese, le oscillazioni del tasso di disoccupazione e i periodi di austerità hanno avuto nell’Artico uno degli specchi più fedeli.
Husøy è un minuscolo isolotto del fiordo di Senya, da dove partono quasi tutte le spedizioni scientifiche per il Polo Nord. I suoi 0,12 chilometri quadrati ospitano 274 abitanti, una merceria dove si vende un po’ di tutto, una cappella che la domenica si riempie e una scuola piccola ma ben attrezzata. Si trova nella contea norvegese di Troms, molto vicina all’estremo nord dell’Europa (ben più su dell’Islanda e delle isole Faroe, per intenderci). In linea retta, la distanza che separa queste terre dalla capitale è la stessa che c’è tra Oslo e Roma. La fine del mondo. O il suo inizio.
Quando Hilbert Karlsen è arrivato qui, all’inizio degli anni Trenta, ha dovuto portarsi la casa letteralmente sulle spalle. Il fatto è che, visto che sino alla fine del secolo scorso si poteva accedere all’isola solo via mare, il fondatore di Husøy non aveva altra scelta se non sbarcare a riva con i muri e il tetto della sua abitazione in legno già montati. La storia di Hilbert e di suo fratello Aksel ha un che di visionario: i loro antenati erano arrivati in quella zona disabitata all’inizio del Diciannovesimo secolo e nel 1932 i due ragazzi avevano sbalordito l’intero clan con l’acquisto di un’isola deserta.
Pur sapendo quanto fosse inospitale, avevano capito che Husøy nascondeva un tesoro. «Mio padre e mio zio erano pescatori esperti» spiega oggi Roar Karlsen, nella stessa casa che i suoi progenitori avevano trasportato sulle onde «e avevano capito che l’imboccatura del fiordo, a un paio di leghe di distanza dall’isola, si trovava proprio al centro della rotta migratoria del baccalà.» Qui c’era qualcosa di speciale – un posto dove si poteva lasciare la rete al mattino e tornare a casa a fine giornata.
L’anno scorso, i Karlsen hanno pescato 6400 tonnellate di baccalà, di cui 5000 sono state salate a umido ed esportate in Portogallo. Le restanti 1,4 sono teste e lingue seccate al sole: il 95 per cento di questi prodotti è stato spedito verso i porti di Lisbona e Aveiro. «Non è cambiato niente rispetto ai tempi dei miei genitori» dice Roar «il centro del nostro mondo continua a essere Lisbona.» Quello che ora lo preoccupa è che il pesce tende ad allontanarsi dalla costa. «Negli anni Settanta pescavamo il doppio. Il disgelo dell’Artico ci sta causando gravi complicazioni.» Ed è proprio nel paese che consuma tutti gli anni 70mila tonnellate di baccalà che più si sentiranno gli effetti del cambiamento climatico.
UNA CASA PORTOGHESE, SENZA DUBBIO
In questi giorni, nella scuola di Husøy, gli alunni iniziano a imparare il fado. «Quest’anno avremo la nostra prima studentessa portoghese e vogliamo accoglierla bene» spiega Solveig Bjerholt, l’insegnante. Nella scuola studiano 45 ragazzi – lituani e iracheni, siriani e curdi, polacchi e, ovviamente, norvegesi. Sono i figli dei pescatori che vivono sull’isola o degli operai della fabbrica di lavorazione del pesce. Ad agosto arriverà Beatrice, che ha otto anni e andrà in terza. «Siamo tutti molto entusiasti: finalmente avremo una studentessa che viene dal paese di cui i ragazzi sentono più parlare. La vita a Husøy gira intorno al Portogallo.»
Diogo Graça, il padre della bambina, vedendo tutti i preparativi per l’accoglienza, quasi si commuove. È arrivato quattro mesi fa e ancora non si è abituato ai giorni che durano tutta la notte – d’estate, sopra il circolo polare artico, non c’è nemmeno un minuto di buio. Ma ha già capito che è qui che costruirà il suo futuro.
«Lavoravo nella marina, mi è scaduto il contratto e ho deciso di cambiare vita. In Portogallo le grandi imprese, anche se fatturano milioni, cercano sempre di risparmiare il più possibile sugli stipendi. Per quanto la nostalgia di casa sia forte, è molto difficile avere una vita dignitosa a Lisbona.» È uno dei sette portoghesi che vivono sull’isola. Ma il numero sta crescendo.
Marina João Barato è stata la prima ad arrivare da Seixal, un paio d’anni fa. «Sono venuta con il mio ragazzo. Sapevamo che a nord della Norvegia si poteva guadagnare bene e il fatto di lavorare nell’industria del baccalà ci spingeva ad andare, in un certo senso, più vicini a casa.» L’anno dopo è arrivata una coppia da Porto, otto mesi fa un’altra da Lisbona e ora è arrivato Diogo, anche lui della costa meridionale.
«Il mese prossimo arrivano altri tre portoghesi» dice la giovane. «Penso che d’ora in poi la nostra comunità tenderà a crescere. Ci troviamo molto bene con i norvegesi.» Le sorelle che oggi conducono l’impresa, Rita e Randi Karlsen, non potrebbero essere più d’accordo. «Dato che produciamo baccalà ha perfettamente senso avere qui dei portoghesi» sostiene la prima, che va nel Sud Europa almeno quattro volte l’anno «sono estroversi, buoni lavoratori e ci aiutano a capire il mondo per cui lavoriamo.»
Non è del tutto così. In realtà, a partire dal nuovo millennio, la scarsità di baccalà ha obbligato l’azienda a puntare sugli allevamenti di salmone, che oggi interessano il sessanta per cento della produzione nella fabbrica. «Continuiamo a sentirci pescatori di baccalà» sostiene Randi senza battere ciglio «il resto dipende dalle circostanze.»
Costanse, sua figlia, rappresenta la quarta generazione a lavorare nell’azienda e ha appena finito una tesi specialistica sul rapporto dei portoghesi con il baccalà della Norvegia. «Guardi, alla fine ho scoperto che la cultura sviluppatasi intorno a un prodotto è la stessa, nonostante il luogo dove viene catturato il baccalà disti cinquemila chilometri da dove viene consumato.» Là come qua ci sono tre tipi di proteine: carne, pesce e baccalà. «E là, come qua, il baccalà significa duro lavoro e conforto della famiglia.»
A Pasqua, una delle portoghesi che vive sull’isola ha deciso di cucinare un bacalhau à braz per la comunità che vi abita. «L’olio era spagnolo, non c’erano patatine a stick, per cui ho dovuto friggerle io, e invece della salsa fresca ho dovuto usare quella in polvere» racconta Rita Moreira, arrivata da un anno. Cionostante, quel giorno tutti si sono sentiti a casa. «Solo in Norvegia si può fare una cosa del genere. Anche se siamo ai confini del mondo – e ci siamo davvero – cerchiamo di trovare la strada verso casa.»
Quando Rita e Randi hanno saputo che i portoghesi dell’isola avevano fatto una festicciola a base di baccalà, hanno rimpianto di non averlo assaggiato. «Organizzeremo una festa dell’azienda e chiederemo loro di cucinarlo come si fa là.» Le norvegesi lo preferiscono cozido, con patate e ceci ma, quando a cucinarlo sono mani portoghesi, sanno di potersi aspettare una prelibatezza.
ABBONDANTE, MA SEMPRE PIÙ SFUGGENTE
La stagione della pesca si è conclusa a maggio e a Husøy le cose non sono andate poi così male: quest’anno si sono di nuovo pescate cinquemila tonnellate – decisamente di più di quanto possano vantare altri produttori.
«Abbiamo una tecnologia molto più avanzata rispetto a trent’anni fa, per cui riusciamo a raggiungere i pesci più rapidamente. Ma un tempo cominciavamo a pescare a dicembre, ora invece non compare nulla fino a fine febbraio» spiega Jorgen Tollefsen, capitano della Skrelgrunn (che letteralmente significa «la barca del baccalà»).
Quando la pesca va particolarmente bene, la barca torna a terra con 15 tonnellate di pesce da pulire. «A conti fatti andiamo in mare solo per tre mesi, ma il guadagno ci basta per tutto l’anno.» Ogni pescatore che si imbarca riesce a fare più di tremila euro al mese. Ci sono portoghesi sulle imbarcazioni di Husøy? «Nessuno. Quelli che vivono qui sono tutti laureati o militari, sono rifugiati economici che lavorano nella fabbrica.»
A QUALCUNO PIACE ESSICCATO (IL MERLUZZO)
Quando si parla di Norvegia, l’Italia e il
Portogallo hanno una cosa in comune: una storia d’amore lunga
centinaia di anni con il merluzzo dei suoi mari. Seppure con
qualche differenza. Il baccalà – l’immancabile bacalhau delle tavole portoghesi – si ottiene
salando il merluzzo; essiccandolo, invece, si fa lo stoccafisso,
ingrediente che si ritrova nelle ricette di molte regioni italiane,
dal Veneto, alla Liguria, alla Toscana e altre.
La relazione tra l’Italia e il merluzzo inizia con un naufragio.
Nell’autunno del 1431 il mercante veneziano Pietro Querini era in
viaggio da Creta verso le Fiandre quando, quasi al canale della
Manica, la sua nave si ritrovò in mezzo a una tempesta. I danni al
vascello erano irreparabili e l’equipaggio si mise in salvo su due
scialuppe, una delle quali scomparve. L’altra galleggiò fino al
Mare del Nord, finendo per approdare, nel gennaio del 1432, alle
Lofoten. Querini e il suo equipaggio furono soccorsi sull’isola di
Røst e vennero sfamati con dello stokkfisk,
letteralmente «pesce bastone»: del merluzzo essiccato.
Per fare lo stoccafisso si usa il merluzzo pescato tra febbraio e
aprile a nord della Norvegia, proprio al largo delle isole Lofoten.
Sono questi i mesi in cui il merluzzo artico norvegese lascia il
suo habitat nel mare di Barents per andare a deporre le uova.
Quello da aprile a giugno è poi il momento ideale per essiccarlo su
rastrelliere all’aperto, dove si asciuga al sole e al
vento.
Tornato in Italia, Querini documentò il naufragio, descrivendo lo
stile di vita degli abitanti delle isole su cui erano approdati e
sul metodo di essiccazione del pesce, che veniva battuto «col
rovescio della mannara» fino a farlo diventare sottilissimo. A
prova delle sue esperienze, portò con sé anche una gran quantità di
questo pesce bastone che approdato sulle nostre tavole non se n’è
più andato.
Su quest’isola i pescatori hanno un privilegio raro: dormire a casa tutte le notti. «Ma questi tempi stanno per finire, il baccalà sta fuggendo» afferma Jorgen. «Arriverà presto il giorno in cui dovremo fare come facevano i portoghesi, che passavano mesi interi nel mare del Nord.» Roar, il capofamiglia, si ricorda bene i tempi in cui i portoghesi comparivano nelle sue acque. «Erano dei disgraziati, venivano qui a fare pesca alla traina e ci distruggevano le reti.»
Sua moglie, Mathilda, si unisce alla conversazione: «Negli anni Settanta arrivavano affamati, su imbarcazioni che non erano altro che vecchie scatole di latta. Gli davamo una buona cena, gli controllavamo le stive e l’affare era fatto.»
«Dopodiché» prosegue il marito «i portoghesi semplicemente sparivano nel nulla.» La sua spiegazione dei diversi modelli di commercio è una teoria basata interamente su quello che è successo nel settore portoghese della pesca nell’ultimo quarto del Ventesimo secolo.
«Un tempo i portoghesi non compravano il baccalà dai produttori, ma da un’organizzazione centralizzata. Oppure venivano qua.» L’entrata nell’Unione europea, però, ha portato all’abbattimento delle vecchie imbarcazioni. «Nel 1989 abbiamo sentito la necessità di andare fino a Lisbona per firmare degli accordi. Abbiamo trovato mercati del pesce inadeguati, barche malridotte, una flotta che stava morendo.»
A cominciare dal decennio successivo, gli scandinavi hanno cominciato a garantire i trasporti. «E le centrali di lavorazione in Portogallo si sono modernizzate. C’è stato un periodo di povertà, un periodo in cui sono stati smantellati i segnali di questa povertà e poi un adattamento alle nuove condizioni. Questo è quello che è successo.»
Ora la palla è in campo norvegese. I prezzi del baccalà sono saliti e la spiegazione risiede – com’è ovvio che sia – nei cambiamenti climatici. Maria Fossheim dirige, da Tromsø, il centro dell’Istituto di ricerca marittima dell’Artico, che può contare su un budget di 150 milioni di euro per scoprire cosa sta succedendo nell’oceano più a nord del mondo. «Il problema è che la temperatura al Polo Nord sta salendo a una velocità doppia rispetto a quella degli altri mari» spiega la scienziata.
Nel caso del baccalà, pesce che vive in acque fredde e semiprofonde, questo ha portato negli ultimi dieci anni a una circostanza del tutto nuova: i pesci si stanno spostando verso nord. «Essendo in cima alla catena alimentare, il baccalà non è a rischio di estinzione; il disgelo è addirittura positivo per la conservazione della specie.» Il problema è che pescarlo sarà sempre più difficile. E costoso.
«Se lo spingiamo troppo, finirà in acque eccessivamente profonde e sarà praticamente impossibile catturarlo.» Lo scenario sembra ancora lontano dal concretizzarsi, ma Fossheim riporta i dati delle Nazioni unite: «Dieci anni fa l’Onu prevedeva una deviazione verso nord dei banchi di pesce di 14 chilometri all’anno, a causa del disgelo. Oggi constatiamo che questo spostamento è quattro volte più veloce.»
A Husøy, nel frattempo, si fa una promessa: finché sarà possibile e sostenibile, la vita girerà intorno al baccalà. «Il giorno in cui il baccalà smetterà di arrivare a Lisbona» afferma Rita Karlsen «smetterà di esistere la nostra piccola Lisbona dell’Artico.»