Un biondino come tanti
Il clima politico e sociale in cui si è formato e radicalizzato Anders Breivik, l’autore del massacro del luglio 2011 in cui persero la vita 77 persone, dice molto di più sulla Norvegia contemporanea di quanto i norvegesi non vogliano ammettere. La narrazione della strage come opera di uno psicopatico solitario è rassicurante ma non sufficiente a spiegare l’episodio più violento della storia norvegese contemporanea.
Prima di sprigionare la sua furia omicida, nel 2011, Anders Breivik era un frequentatore abituale del Palace grill, nella zona Ovest di Oslo. Sembrava innocuo: un biondino come tanti che cercava di rimorchiare belle ragazze al bancone. «Aveva l’aria di uno con una laurea in economia» ricorda una di loro «uno di quei tipi precisini di Oslo Ovest». In effetti Breivik si era cimentato con l’economia, anche se non aveva mai preso una laurea né combinato molto altro. E sì, era un ragazzo di Oslo Ovest, figlio di un diplomatico. Però stava scrivendo un libro, che definiva il capolavoro di un «genere mai visto al mondo». Non voleva dire altro, solo che si ispirava ai «romanzi cavallereschi del Medioevo». Non faceva molto per nascondere le sue ossessioni. Una sera verso la fine del 2010 si trovava al Palace grill quando entrò un personaggio famoso della tv. Breivik cominciò a parlare a gran voce di un complotto musulmano contro la Norvegia e di cavalieri Templari. I buttafuori lo fecero sloggiare. Per strada, disse al volto televisivo: «Tra un anno sarò tre volte più famoso di te.»
Questo episodio compare nell’ottimo libro di Aage Borchgrevink, A Norwegian tragedy: Anders Behring Breivik and the massacre on Utøya, e sembra la scena di un film dell’orrore, perché sappiamo che quel biondino avrebbe mantenuto la sua promessa. Breivik stava lavorando sodo a 2083: Dichiarazione di indipendenza europea, un tomo di 1518 pagine che svelava il complotto musulmano per conquistare il mondo cristiano. In gran parte un compendio di estratti da siti web antijihadisti, 2083 fu postato online il giorno della strage e firmato «Andrew Berwick», uno dei molti pseudonimi di Breivik. I segnali dell’islamizzazione strisciante dell’Europa sono ovunque, affermava nel testo, dall’indipendenza bosniaca alla diffusione delle moschee a Oslo. Gli uomini musulmani se la spassavano con le donne europee, mentre proibivano agli europei di toccare le loro. Breivik e i norvegesi bianchi come lui erano dhimmi di prima generazione – un termine per le minoranze non musulmane sotto l’Impero ottomano che, come la maggior parte delle sue idee, aveva trovato in rete – in quella che presto sarebbe diventata l’«Eurabia». A peggiorare le cose, le «élite culturali marxiste» d’Europa avevano abbassato la testa, come una donna che preferisse «farsi stuprare piuttosto che… rischiare di farsi male opponendosi». Anche la chiesa luterana – «preti in blue jeans che marciano per la Palestina e chiese che sembrano centri commerciali minimalisti» – si era arresa. Ma fortunatamente c’erano «cavalieri» come Breivik che avevano il coraggio di difendere l’onore dell’Europa.
2083 non è solo un manifesto: è anche un testamento ideologico di un uomo che ha rifiutato lo «stile di vita da Sex and the City» per seguire la sua missione sacra. Il passaggio dal vuoto edonismo all’eroismo omicida è un tema ricorrente anche nelle biografie dei giovani che lasciano Bradford, Amburgo, Parigi e Oslo per andare a combattere in Siria. Come osserva Borchgrevink, l’odio di Breivik per l’islam non gli ha impedito di proporre un’alleanza tattica con al-Qaida contro lo stato liberale che odiava ancora di più. I desideri che lo muovevano non erano molto diversi da quelli dei suoi nemici jihadisti: vendetta, avventura e fama.
Breivik è nato nel 1979. I suoi genitori non si sposarono e si separarono quando lui non aveva ancora due anni. Fu cresciuto da sua madre, un’infermiera che si dimostrò instabile ed emotivamente violenta. Quando Breivik aveva all’incirca quattro anni, in casa tirava un’aria così pesante che i servizi sociali chiesero che il bambino fosse trasferito altrove. Ma la richiesta non ebbe seguito e Breivik crebbe odiando sua madre, che accusava di «femminilizzarlo», e idolatrando il padre che vedeva raramente. Era attratto dai ragazzini violenti come il suo amico Rafik, un figlio di immigrati pachistani che diceva di conoscere i membri della famigerata B gang della di Oslo est. Breivik era un «patata», un ragazzino bianco, ma sotto la tutela di Rafik si comprò un paio di brache larghe e imparò a rubare e a parlare quello che Borchgrevink chiama il «norvegese kebab». «Bombardava la città» con i suoi graffiti firmandosi Morg, come il cattivo della Marvel. Ma l’amicizia con Rafik andò pian piano sfilacciandosi, in parte perché Rafik e la sua gang sembravano attrarre come calamite le ragazze bianche da cui lui veniva continuamente respinto. Breivik si unì a un gruppo di suprematisti bianchi e si trovò pure una fidanzata, che poi però lo piantò per un pachistano.
I suoi tentativi di diventare miliardario non andarono molto meglio, anche se attorno ai vent’anni fece qualche soldo vendendo contratti di telefonia mobile a basso prezzo e diplomi falsi, perlopiù a immigrati. Si iscrisse al Partito del progresso, uno schieramento di destra le cui battaglie contro immigrati e aumento delle tasse si sposavano alla perfezione con i suoi rancori personali. Ma pare che a cambiarlo davvero fu la scoperta degli scritti di Peder Are Nøstvold Jensen, un blogger che si firmava con il nome di Fjordman. Il suo manifesto online, Rivolta nativa: una dichiarazione di indipendenza europea, dava un significato ai fallimenti di Breivik collocandoli all’interno di una guerra globale tra cristianità e islam. Rafik, si rese conto, non era un semplice teppista: era un jihadista segreto. «La sottocultura della piccola criminalità degli anni Novanta rinacque nelle vesti di un conflitto religioso» scrive Borchgrevink, e ora Breivik era un cavaliere nella guerra per salvare l’Europa.
Ansioso di stringere contatti con altri cavalieri come lui, Breivik si presentò a Fjordman, che lo trovò «noioso come un venditore di aspirapolveri». Andò a un incontro pro Israele organizzato da quelli di Document.no, un sito di estrema destra gestito da Hans Rustad, un ex sessantottino convinto che i musulmani stessero usando il sesso come strategia di guerra, infliggendo una «lenta castrazione» agli uomini occidentali. Rustad ebbe la sensazione che «gli mancassero delle inibizioni». Nessuno altrimenti si sarebbe recato a Monrovia durante la guerra civile liberiana, come fece Breivik nel 2002. In quell’occasione disse agli amici che voleva comprare diamanti di contrabbando, ma il suo vero scopo era rendere omaggio a Milorad Ulemek, conosciuto come «il Dragone», un serbo ultranazionalista che aveva combattuto per l’Unità operazioni speciali dell’esercito. I serbi, secondo Breivik, erano stati in prima linea nella difesa dell’Europa contro l’islam, salvo poi essere scaricati crudelmente nel momento del bisogno. Nel 2006 tornò a vivere con sua madre, per dedicarsi a scrivere contributi su siti di destra, giocare ai videogiochi e lavorare a 2083. Ma aveva paura di diventare «un vecchio caprone frustrato da tastiera»: «Trasforma la tua rabbia e amarezza in motivazione e determinazione» si disse. Cominciò a prendere steroidi e a indossare una divisa rossa coperta di stemmi. Sua madre pensò che volesse «fare il Rambo».
OSLO EST/OVEST
La storia della città di Oslo ricalca per certi aspetti quella di molte città europee e non solo. L’inizio del secolo scorso è stato caratterizzato da un’improvvisa quanto rapida urbanizzazione della capitale norvegese; la crescita dell’industria locale attirava manodopera dal resto del paese, dunque migliaia di nuovi abitanti in cerca di un alloggio. Le famiglie degli operai andarono a occupare quartieri già esistenti o completamente nuovi a est del fiume Akerselva, mentre a ovest restarono l’alta borghesia e la classe dirigente. Se è vero che in ogni città esistono aree con un tenore di vita mediamente più alto, una divisione geograficamente e socialmente così netta non è certo comune. Con gli anni Settanta e l’avvento dell’immigrazione, i nuovi arrivati non hanno fatto altro che riempire i vuoti nelle aree più povere della zona est. Negli anni non si è minimamente riusciti a intervenire sulla questione, tanto che Oslo Est ha da tempo perso la storica connotazione operaia per diventare, nell’immaginario collettivo, la parte «musulmana» della città. Moschee, bar e alimentari tipici delle diverse comunità straniere riempiono le strade della zona, mentre giornali e notiziari insistono sui fatti di cronaca avvenuti lì. Alcuni, nell’Ovest, arrivano a definire «no-go area» tutto ciò che si trova a est della stazione centrale. Eppure, nonostante i problemi, l’Est è una zona variegata e viva, dove culture lontane hanno trovato più modi di convivere; e per certi versi è molto più l’Ovest bianco e norvegese ad avere le sembianze di un ghetto.
La mattina del 22 luglio 2011, Breivik caricò il suo manifesto sui suoi siti preferiti e lo mandò per email a 1003 contatti in Europa e Israele. Aveva studiato le tempistiche perché l’uscita coincidesse con gli eventi che aveva programmato per le ore successive: un attentato dinamitardo in centro a Oslo, seguito da un attacco a Utøya, un’isola quaranta chilometri a nord della città, dove ogni anno si svolgeva un raduno dei giovani del Partito laburista. Interrogato dalla polizia, disse di aver preparato l’attacco fin dal 2002. Si era procurato legalmente le armi: il fucile Ruger e la pistola Glock; il fucile portava l’iscrizione «Gungnir», come la lancia di Odino. Costruì la bomba da 950 chili con del fertilizzante acquistato per l’azienda agricola che aveva avviato nel 2009 su un terreno preso in affitto da dei contadini anziani a nord di Oslo. Cinque mesi prima della strage, un’unità antiterrorismo delle Nazioni unite lo identificò come uno dei 41 norvegesi che avevano importato sostanze chimiche utilizzabili per bombe al nitrato di ammonio, ma i servizi di sicurezza norvegesi non indagarono. Temevano i jihadisti radicali, non certo i ragazzi di Oslo Ovest che vivevano con le loro madri.
Breivik mise la bomba in un furgone parcheggiato fuori da un palazzo governativo. Scoppiò alle 15:22, uccidendo otto persone. Poi, travestito da agente di polizia, si recò a Utøya in traghetto. Pur avendo fallito in ogni altra cosa che aveva provato, si dimostrò un killer altamente metodico. In poco più di un’ora uccise 69 persone, 67 con colpi alla testa. Due morirono annegando nel fiordo mentre cercavano di scappare. 32 delle vittime avevano meno di 18 anni. «Oggi morirete, marxisti» gridò. Aveva scelto con cura le sue vittime. Nonostante tutta la sua rabbia contro i musulmani, ce l’aveva ancora di più con i sinistroidi che avevano permesso loro di entrare in Norvegia. Generazioni intere di leader del Partito laburista avevano vissuto la loro educazione politica e sentimentale al campo di Utøya. Il «sassolino ideologico di sinistra nella scarpa del pragmatico Partito laburista», Utøya simboleggiava tutto ciò che Breivik odiava: femminismo, diritti per i gay, solidarietà per gli immigrati e per le popolazioni oppresse del Terzo mondo. Col suo attacco preventivo contro questi «marxisti culturali», sperava di far scoppiare una guerra civile. Agli occhi della maggior parte dei norvegesi, però, Breivik non aveva attaccato solo Utøya ma la Norvegia stessa. Grazie a lui, scrive Borchgrevink, la Norvegia scoprì di essere «ricca non solo di petrolio, e il 22 luglio 2011 diventò un simbolo – non di divisione e debolezza, ma di forza e solidarietà».
Breivik fu cacciato simbolicamente dalla Norvegia: era un «pazzo solitario», e il suo crimine un incidente terribile ma isolato. Si trattava di una favola rassicurante ma non molto convincente. Prima del processo fu descritto come uno schizofrenico paranoico, ma lo psichiatra del carcere di Ila non trovò assolutamente prova di psicosi o schizofrenia. Una seconda squadra di psichiatri concluse che aveva un disturbo narcisistico della personalità, ma che non era psicotico e che quindi era penalmente responsabile delle sue azioni. Lo stesso Breivik sosteneva di essere sano di mente e, dopo un’altra perizia psichiatrica, fu giudicato sufficientemente sano per andare a processo e ricevere il massimo della pena: 21 anni. Tuttavia, tra i norvegesi resta la convinzione diffusa che Breivik sia un caso psichiatrico, più che un motivo per una profonda riflessione politica. Borchgrevink descrive in modo dettagliato la discesa di Breivik nell’inferno virtuale della letteratura sull’«Eurabia», eppure anche secondo lui la causa della sua radicalizzazione sarebbe da cercare in una famiglia disfunzionale. E cita come prova i racconti confidenziali degli psichiatri che avevano monitorato il piccolo Anders e sua madre anni addietro – racconti contro cui la madre, morta l’anno scorso, si è battuta a tal punto da farli dichiarare inammissibili come prove. Se non fosse stato per «una carenza di cure famigliari», suggerisce Borchgrevink, forse Breivik non sarebbe mai diventato violento.
Forse. Ma la storia non finisce qui, come afferma Sindre Bangstad nel suo libro Anders Breivik and the rise of Islamophobia. Il trauma infantile non spiega perché Breivik abbia diretto la sua rabbia contro i musulmani e quelli che considerava i loro «collaborazionisti» europei. E concentrarsi solamente su Breivik significa non vedere, anzi rimuovere del tutto il problema del rapporto della Norvegia con la sua popolazione musulmana. Come scrive Bangstad, «uno può essere un pazzo solitario e al contempo mettere in atto fantasie di purezza e minaccia esistenziale che sono, di fatto, molto diffuse». Pochissimi norvegesi sarebbero disposti a perdonare le azioni di Breivik, anche segretamente, o a capire perché la sua rabbia contro i musulmani si sia trasformata nell’uccisione di tanti adolescenti bianchi. Eppure i tropi antimusulmani che compaiono in 2083 sono comuni non solo online, ma anche tra i membri del Partito del progresso (di cui Breivik fece parte fino al 2004) – il terzo schieramento più importante del paese e partner di minoranza nel governo del Partito conservatore. La retorica antimusulmana si è infiltrata anche nei movimenti liberali norvegesi, che si battono per i diritti dei gay, delle donne e per la libertà di espressione. Ci si sarebbe potuti aspettare che questa tedenza si invertisse dopo Utøya, invece è successo il contrario. L’«unità» norvegese è uscita rafforzata dalla strage di Breivik, ma a spese della minoranza musulmana del paese, che costituisce il 3,6 per cento dei suoi cinque milioni di abitanti e che oggi è meno benvoluta che mai.
FILM
Paul
Greengrass
22 luglio
2018
Carl Javér
Rekonstruksjon Utøya
(«Ricostruire Utøya»)
2018
Erik Poppe
Utøya – July 22
2018
LIBRI
22/07/11. Fra hat til
kjærlighet
(«22/07/11. Dall’odio all’amore»)
Cappelen Damm, 2011
Sindre
Bangstad
Anders Breivik and the
rise of Islamophobia
Zed, 2014
Aage
Borchgrevink
A Norwegian tragedy: Anders Behring
Breivik and the massacre on Utøya
Polity Press, 2013
Åsne Seierstad
Uno di noi. La storia di Anders
Breivik
Rizzoli, 2016
***
La tolleranza non è mai stata il punto forte della Norvegia. A ebrei e cattolici fu proibito per legge mettere piede nel paese per buona parte del secolo scorso, e il divieto contro i gesuiti fu tolto solo nel 1956. I cosiddetti tatere (zingari) – nomadi romaní che si trovano in Norvegia da diverse centinaia di anni – furono oggetto di spietate politiche di assimilazione, tra cui la sterilizzazione obbligata, dagli anni Trenta fino agli anni Settanta. Non c’è figura più odiata nella storia norvegese di Vidkun Quisling, il primo ministro collaborazionista giustiziato nel 1945, ma non era certo una figura isolata. Fino agli anni Ottanta sui banchi di scuola norvegesi si studiavano solo gli eroici partigiani che scappavano nei boschi e sulle montagne per combattere contro i nazisti, non le centinaia che si arruolarono come volontari nelle Waffen-SS Panzer Division Wiking, o le ronde contro gli ebrei a opera della polizia norvegese. Poi i musulmani presero il posto degli ebrei come «nemico interno» dell’estrema destra.
La prima ondata di immigrazione musulmana cominciò durante il boom petrolifero degli anni Sessanta, con l’arrivo di lavoratori stranieri dal Pakistan. Nel 1975 il parlamento norvegese approvò un blocco all’immigrazione che, di fatto, valeva solo per gli extracomunitari. Da allora, la maggior parte degli immigrati di origine musulmana è arrivata o come richiedente asilo (perlopiù dalla Somalia o dai Balcani), o per raggiungere un familiare già stabilitosi nel paese. All’inizio nessuno li classificava come musulmani, quello che contava era il loro paese d’origine. Le cose cambiarono negli anni Novanta. Non sentendosi del tutto accettati come norvegesi, tra i musulmani cominciò ad aumentare la religiosità e il conservatorismo sociale, una tendenza che i capi delle moschee – alcuni istruiti in scuole fortemente conservatrici in Pakistan – fecero di tutto per incoraggiare. Più dell’ottanta per cento dei norvegesi appartiene alla chiesa luterana, ma quasi nessuno partecipa alle funzioni. I musulmani si distinsero sempre più come fedeli di una religione diversa, all’interno di una società cristiana ma poco religiosa. Per molti norvegesi, fare una passeggiata per certe zone di Oslo Est diventò problematico. I suoni delle lingue urdu e araba, le donne con il velo, perfino l’odore di cibi esotici cozzavano contro la loro idea di Norvegia. Molti cominciarono a pensare che il paese avesse un «problema con i musulmani».
Alla base di questa percezione ci sono paure non del tutto irrazionali. I musulmani norvegesi sono sovrarappresentati nelle varie professioni, ma lo sono anche tra i poveri e i disoccupati. Razzismo, privazione dei diritti civili, guerra al terrorismo e la sensazione che la loro identità di musulmani sia sotto attacco hanno reso alcuni di loro suscettibili al richiamo del salafismo radicale. Nel suo libro, Bangstad ci offre una descrizione accurata di gruppi come Islam Net e Profetens Ummah, che hanno mandato volontari in Siria e organizzato raduni piccoli ma infervorati a sostegno dell’Isis. Eppure, sottolinea, i sostenitori dell’islam radicale sono molti meno dei musulmani che lo rifiutano. E se i musulmani hanno protestato contro quelli che per loro erano affronti all’islam, dalla pubblicazione dei Versetti satanici di Salman Rushdie alle vignette danesi, i sondaggi indicano che restano favorevoli alla libertà di parola in percentuali solo leggermente inferiori a quelle dei norvegesi «puri».
Di fronte a questi dati, i nemici dell’islam in Norvegia dicono che sono tutte menzogne, che è solo una strategia di taqiyya, un termine sciita per «dissimulazione». Lo spettro dell’«espansione islamica» ha aiutato il Partito del progresso a diventare una delle principali forze politiche del paese. Anche se ha perso consensi sia alle elezioni del 2013 che a quelle del 2017, è già la seconda volta che entra nella coalizione di governo. Quando fu fondato nel 1973, il Pdp era conosciuto come ALp: il partito di Anders Lange per una forte riduzione delle tasse, delle tariffe e dell’intervento pubblico. All’epoca la «minaccia» delle minoranze etniche non era di certo al primo posto nella lista delle sue priorità, le preoccupazioni maggiori erano l’abbassamento delle tasse, dei pedaggi stradali e del prezzo della benzina. Eppure il partito è sempre stato percorso da forti correnti di suprematismo bianco. Verso la fine degli anni Ottanta il Pdp cominciò a interessarsi all’immigrazione, in particolare a quella musulmana, ispirandosi al successo del Partito del progresso danese (da cui prese il suo nuovo nome). A un raduno del 1987, Carl I. Hagen, successore di Lange, avvertì i norvegesi che se non si fossero uniti in difesa della loro cultura, l’islam avrebbe «conquistato la Norvegia».
Al centro del messaggio del Pdp c’è l’idea che l’élite culturale del paese stia pugnalando alle spalle la Norvegia, agendo in collusione con quella che il suo leader Siv Jensen – ministro delle Finanze – chiama «islamizzazione strisciante». Poiché i liberali sono dei «liberali mancati», solo un partito aggressivo come il Pdp sarebbe in grado di difendere le tradizioni e il liberalismo sociale della Norvegia. Sotto Jensen, il partito nostalgico e patriarcale dei commercianti norvegesi si è dato una nuova veste di partito femminista, sebbene il suo femminismo si riduca perlopiù a ciò che Bangstad (rifacendosi a Gayatri Spivak) chiama «salvare donne di pelle scura da uomini di pelle scura». I «maestri della polarizzazione» del Pdp godono di un pubblico in crescita, i loro ragionamenti sono sempre più coesi e sofisticati grazie a giornalisti e blogger come Fjordman e Walid al-Kubaisi, uno scrittore e regista iracheno in esilio che ha avuto un ruolo di «informatore locale» simile a quello di Ayaan Hirsi Ali in Olanda. La loro retorica è più estrema di quella del Pdp, ma la sovrapposizione è troppo netta per essere una coincidenza, e alcuni hanno avvisato il partito. Personaggi simili fanno parte di una rete molto più vasta, una sorta di internazionale antimusulmana che si estende dalla Scandinavia agli Stati Uniti e comprende intellettuali di riferimento come Lars Hedegaard, ideologo di spicco della destra danese, Oriana Fallaci, i neoconservatori americani Daniel Pipes, Pamela Geller e Robert Spencer, e la maître à penser dell’Eurabia, Gisèle Littman, una britannica di origini ebraico-egiziane che vive in Svizzera e pubblica sotto lo pseudonimo di Bat Ye’or. (È impressionante come molti teorici dell’Eurabia scrivano sotto pseudonimo, considerate le accuse di dissimulazione che muovono contro i musulmani.)
I seguaci dell’idea di Eurabia credono che l’Occidente sia stato sfibrato da un culto politicamente corretto del vittimismo, eppure i loro testi (come quello di Breivik) sembrano mossi da un senso di offesa personale da parte dei musulmani, reinterpretato e quindi globalizzato attraverso il prisma dello «scontro di civiltà» di Samuel Huntington. Fjordman, un arabista proveniente da una famiglia di sinistra, si trovava al Cairo l’11 settembre, quando vide un gruppo di egiziani festeggiare gli attacchi contro le torri. Al-Kubaisi scappò dall’Iraq per evitare di prestare servizio nella guerra Iran-Iraq e ricevette asilo politico in Norvegia, oltre a una borsa di studio statale che gli ha garantito una rendita per il resto della sua vita. Bruce Bawer, un critico letterario gay americano trasferitosi in Norvegia nel 1999 per vivere con il suo compagno norvegese, si è convinto col tempo che gli immigrati musulmani siano una quinta colonna irrimediabilmente illiberale. Ha denunciato Breivik come un «pazzo omicida» ma, nel suo libro del 2012 The new Quislings: How the international left used the Oslo massacre to silence debate about islam ha riportato due affermazioni fasulle tratte direttamente da 2083: che il Partito laburista avrebbe usato militanti anarchici come truppe d’assalto, e che «innumerevoli norvegesi sono stati uccisi dai musulmani».
PARTITO DEL PROGRESSO
Il Fremskrittspartiet (Frp o Pdp, Partito del progresso), fu fondato nel 1973 da Anders Lange ma per lungo tempo (1978-2006) ha avuto come leader e «uomo forte» al comando Carl I. Hagen. Inizialmente il partito, o movimento, come lo descrivevano i membri, nasce come forza di destra liberale impegnata nella lotta alle tasse e all’intervento dello stato nell’economia. In quel periodo ha numeri esigui in parlamento, ma dalla fine degli anni Ottanta i consensi cominciano a crescere sensibilmente e il Pdp diventa la terza forza a livello nazionale. Hagen, nonostante l’opposizione di una frangia minoritaria, riesce a imporre una nuova linea, spostando nettamente il partito nel territorio delle destre sociali. È in quegli anni infatti che il tema dell’immigrazione diventa centrale nel dibattito politico e il Pdp si distingue per esserne l’oppositore più accanito. Gli immigrati in questo caso vengono attaccati non tanto in base all’area di provenienza quanto alla religione, l’islam. E nonostante a tal proposito non si contino uscite pubbliche poco felici, quando non apertamente violente o razziste, il partito non fa che aumentare i consensi, fino ad assestarsi intorno al venti per cento. Il cambio di guardia alla segreteria con Siv Jensen toglie il Pdp dal relativo isolamento, portandolo per la prima volta al governo, in coalizione con i conservatori di Erna Solberg, nel 2013. Il risultato del 2017 ha confermato il governo uscente.
Gli intellettuali liberali e la stampa norvegese hanno dato l’opportunità agli ideologi dell’Eurabia di far sentire la propria voce. Su giornali liberali come Klassekampen è facile trovare polemiche isteriche sull’islam e sull’immigrazione musulmana. E così pure articoli che confermano questa isteria, come un’intervista recente a un ammiratore norvegese dell’Isis, che è comparsa su un giornale liberale senza nessuna nota editoriale a indicare che forse non parlava a nome di tutti i musulmani. La tolleranza liberale verso l’incitamento all’odio antimusulmano, afferma Bangstad, risale all’affare Rushdie, quando la Norvegia fu il primo paese a pubblicare la traduzione dei Versetti satanici. Quattro giorni dopo la fatwa emessa da Khomeini, un gruppo di leader musulmani fondò il Consiglio di difesa islamica, chiedendo che il romanzo fosse messo al bando e invocando una legge contro la blasfemia che era stata cancellata ormai da anni. Nel 1993 William Nygaard, l’editore norvegese di Rushdie, fu aggredito con tre colpi d’arma da fuoco fuori dalla sua abitazione di Oslo; sopravvisse ma l’aggressore non fu mai trovato. Il governo rispose formando una serie di commissioni che chiesero una maggiore tutela della libertà di parola. Fu un’ammirevole difesa a spada tratta del diritto di Rushdie a pubblicare ma, come suggerisce Bangstad, da allora una specie di «assolutismo della libertà di parola» ha progressivamente eroso ogni preoccupazione per la salvaguardia delle minoranze da discorsi razzisti e discriminatori, come previsto dalla legge norvegese. Si cominciò a diffondere la convinzione che i musulmani non vedessero di buon occhio la libertà di parola e che ci fosse un conflitto inconciliabile tra i valori norvegesi e la cultura musulmana. La stampa finì col diventare «un’arena di confronto anziché di dialogo», un forum di opinioni incendiarie sull’islam. Questa tolleranza per la «libertà di parola» viene comunemente interpretata come una prova di lealtà. «Il diritto di offendere vescovi e imam è assolutamente fondamentale nel nostro modo di vivere» ha spiegato Per Edgar Kokkvold, segretario generale dell’Associazione della stampa norvegese. «Se non gli va bene, devono andarsene.»
IL MEGLIO DEL PEGGIO
ALCUNE AFFERMAZIONI DI ESPONENTI DEL PARTITO DEL PROGRESSO
«Gesù avrebbe aiutato i
migranti a casa loro.»
2015, Sylvi Listhaug (ex ministra della Giustizia e
dell’Integrazione) alla domanda su cosa crede che Gesù avrebbe
fatto per aiutare i richiedenti asilo in fuga dalla Siria.
«Il Partito laburista è più
interessato alla sicurezza dei terroristi che a quella della
Norvegia.»
2018, Sylvi Listhaug in un post Facebook poi rimosso. A sette anni
dall’attentato in cui Breivik uccise 69 iscritti al Pl, esprime
così tutta la frustrazione per aver perso in aula una votazione su
una sua mozione che proponeva la perdita del permesso di soggiorno
di sospetti terroristi senza passare da un tribunale.
«Le ragazze madri, che in
seguito a comportamenti irresponsabili non possono che ringraziare
se stesse per essere finite in tale situazione, oggi ricevono
troppi aiuti dallo stato. Una donna che ad esempio da giovane si fa
ingravidare da più uomini e sceglie di tenere i bambini, deve
trarre da sola le conseguenze.»
Carl I. Hagen durante la campagna elettorale del 1989.
«Se non fosse stato per gli
immigrati oggi non ci sarebbe un’emergenza abitativa a
Oslo.»
Carl I. Hagen durante la campagna elettorale del 1999.
La situazione non è migliorata dopo la strage di Breivik. La stampa ha dato una copertura enorme a una piccolissima protesta di islamisti radicali, otto partecipanti in tutto, fuori dall’ambasciata statunitense per il video di YouTube «Innocence of muslims», ma ha praticamente ignorato una dimostrazione di seimila persone organizzata dal Consiglio islamico della Norvegia e appoggiata dal vescovo luterano di Oslo. Come scrive Bangstad, la stampa ama flirtare con i «musulmani giovani ed emarginati… disposti ad assumere il ruolo che i norvegesi non musulmani hanno validi motivi di temere». E l’establishment intellettuale continua a stravedere per i propagandisti dell’Eurabia, che insistono col dire che questi giovani rappresentano tutto l’islam. L’eroe di Breivik, Fjordman, è passato dal web alle pagine di Aftenposten, un sedicente giornale conservator-liberale. Sta anche scrivendo un libro su Utøya, finanziato in parte da una borsa di studio della Fritt Ord foundation, la più prestigiosa organizzazione norvegese per la libertà di parola. Nygaard, che è ora presidente del Pen Norvegia, ha difeso tale borsa di studio sulla base del fatto che Fjordman «non incita alla violenza».
«Una volta pagati, i soldi
non sono più dei contribuenti.»
2006, Carl I. Hagen alla domanda sul perché il Pdp avesse pagato
delle crociere anche a mariti e mogli dei propri iscritti con
denaro prelevato a vario titolo dalle casse dello stato
«Non c’è niente da
festeggiare se uno è omosessuale. Noi eterosessuali non abbiamo mai
festeggiato le nostre inclinazioni. Queste celebrazioni omosessuali
sono rovinose per la nostra società. Si potrebbe quasi pensare che
sia meglio essere gay che etero. Credo che tutto ciò sia molto
triste.»
2005, Carl I. Hagen in un’intervista prima del gay pride di
Oslo.
«Gli immigrati devono
imparare il norvegese. Lo stesso dovrebbero fare gli spagnoli in
Spagna, se vogliono lavorare con i norvegesi.»
2006, Carl I. Hagen in un comizio ad Alfàs del Pi, Spagna (in
Spagna c’è una sorta di colonia norvegese, si tratta soprattutto di
pensionati o prossimi alla pensione, scappati dal freddo).
«Una società senza minoranze
è una società in armonia.»
1997, l’assioma di Hagen.
La Norvegia non è l’unico paese europeo in cui la battaglia per la libertà di parola è stata travisata dai bigotti. In tutto il continente, ma soprattutto in Scandinavia, i «critici dell’islam» con la loro demagogia si sono atteggiati a moderni dreyfusardi disposti a dire verità scomode per i liberali politicamente corretti. I recenti successi elettorali dei Democratici svedesi di destra, del Fronte nazionale francese e di Geert Wilders in Olanda sono stati alimentati dai continui appelli alla paura antimusulmana. Come scrive Bangstad, i populisti social-liberali di destra affermano di portare avanti la campagna cominciata oltre due secoli fa con la rivolta contro le superstizioni – e i privilegi – della Chiesa. Le credenziali liberali, dicono, sono evidenti: perché gli europei dovrebbero mostrarsi clementi verso chi copre le proprie donne e attacca le conquiste dei movimenti sociali del dopoguerra, dall’emancipazione femminile ai matrimoni gay – per non parlare di quanti tra loro appoggiano la jihad? Nel 1892 Édouard Drumont fondò un giornale antisemita per denunciare la slealtà degli ebrei nei confronti della Francia; lo chiamò La libre parole.