Così lontani, così vicini Erlend Loe
L’esilarante umorista spiega le differenze tra norvegesi e svedesi. Tra sfottò e risate si parla anche di cose serie: il rapporto tra i due popoli risente ancora dell’epoca in cui Oslo era sotto dominazione svedese, ma il petrolio ha stravolto le carte, nonostante la spocchia dei cugini, ora i più ricchi sono i norvegesi.
«Mi spaventa… tipo… in Svezia. Sai, c’è una specie di vuoto, sono tutti ubriachi, funziona tutto, se ti… che so, se ti fermi a un semaforo e non spegni il motore la gente ti si avvicina e ti chiede come mai. Vai all’armadietto delle medicine, lo apri e ci trovi un cartello che dice: “In caso di suicidio chiamate...” Accendi la tv e c’è un’operazione all’orecchio. Questo mi spaventa. New York no.»
È Lou Reed che parla nel film Blue in the face di Wayne Wang e Paul Auster. Ricordo di essere scoppiato a ridere quando l’ho visto nel 1995. Capivo esattamente cosa intendeva dire.
Il mio legame con la Svezia è cominciato con racconti che la facevano sembrare una specie di terra promessa. Un posto meraviglioso che era vicinissimo a noi, eppure quasi irraggiungibile, nonostante il confine fosse, e resta, a un paio d’ore da Trondheim, dove sono nato e cresciuto. I miei nonni parlavano spesso di quell’estate, probabilmente di fine anni Cinquanta, in cui erano andati in Svezia con la loro macchina nuova portandosi dietro mia madre, suo fratello e un grande sacco di patate sul tetto, perché non si sa mai, meglio non correre rischi. Mia madre poi mi ha raccontato che quell’estate aveva visto per la prima volta nella sua vita la plastica. Era già diffusa in Svezia prima di arrivare, a rilento, anche da noi.
La guerra era finita da qualche anno e la Norvegia stava subendo un intenso processo di ricostruzione. Ma i norvegesi erano ancora un po’ sul versante cacciatori-raccoglitori. La Svezia era come l’America. Moderna, favolosa. Ricca.
La nonna aveva un’amica che si era sposata in Svezia e si era trasferita là, in una cittadina sulla costa. Mi sembra che si chiamasse Elsa, e mio padre la prendeva sempre in giro, perché era una tipa piuttosto voluminosa e aveva come unico argomento di conversazione le diete. Secondo papà ne era ossessionata, e non faceva che discuterne tutto il tempo al telefono con mia nonna, pur non essendo mai riuscita a perdere neanche un chilo. Di lei si parlava come se fosse un membro della famiglia reale. Sposata in Svezia. Wow, lei sì che ce l’aveva fatta.
Quando avevo sei anni, mio padre aveva passato qualche mese a Södertälje, vicino a Stoccolma. Credo che all’epoca tra i miei genitori ci fosse qualche problema, e papà si era trasferito in quella cittadina per tirare un po’ il fiato, oltre che per scopi educativi. Ricordo le cartoline che mi mandava. Un altro mondo. L’architettura sembrava quasi quella di un universo parallelo.
E poi c’era Astrid Lindgren, ovviamente. Una parte fondamentale della mia infanzia. Papà e mamma mi leggevano i suoi libri e io li adoravo. Da quelle pagine ci si poteva fare un’idea di un paese diverso. Simile alla Norvegia, ma al tempo stesso differente. Piccoli dettagli. Per esempio le porte con la buca delle lettere. In Norvegia non avevo mai visto porte così. E naturalmente Pippi Calzelunghe. Una bambina fuori misura e da morir dal ridere. Così spavalda, libera. Mi piaceva da pazzi, anche se non capivo perché. Oggi sono convinto che non è un caso che Pippi sia svedese. È evidente che la Svezia ha una tale componente di austero conformismo da rendere un personaggio come Pippi una necessità: non potrebbe essere nata in nessun’altra nazione.
In un altro romanzo di Astrid Lindgren, I fratelli Cuordileone, c’è un’allusione all’esperienza della Seconda guerra mondiale che la Svezia non ha mai vissuto, con relativa resistenza, tradimento e punizione pubblica collettiva. Credo che sia fondamentale per capire la Svezia di oggi. Dal momento che hanno evitato la guerra dichiarandosi neutrali (il che in effetti voleva dire concedere ai tedeschi di usare le loro ferrovie), gli svedesi sono un po’ come un bambino affetto da un leggero, quasi impercettibile, danno cerebrale, che a scuola deve fare tutto meglio degli altri per evitare che gli vengano rivolte domande imbarazzanti.
L’esperienza della guerra, o la sua mancanza, è una delle grandi differenze tra la Norvegia e la Svezia. Ed è molto evidente oggi. Gli svedesi vivono come una provocazione l’esposizione della bandiera da parte dei norvegesi il 17 maggio, giorno della nostra festa nazionale. E sono pure allergici alla nostra adesione a usanze folkloristiche, come indossare i costumi tradizionali (bunad) delle diverse regioni del paese. La ritengono un’esibizione di malsano nazionalismo, mentre non è che la celebrazione del fatto che siamo riusciti a sopravvivere al governo dei danesi, poi degli svedesi e, per finire, dei tedeschi. Siamo sopravvissuti e li abbiamo pure cacciati, non senza la nostra buona dose di sofferenza. Possiamo ritenerci fortunati perfino di avere un paese tutto nostro. Gli svedesi probabilmente non hanno mai dovuto affrontare sentimenti del genere. E all’epoca della crescita di una coscienza nazionale e delle insurrezioni, nella seconda metà dell’Ottocento, il movimento di rivolta veniva dal basso. Dal popolo. Non dalla borghesia benestante della capitale. Quindi l’uso degli abiti tradizionali è controcultura. È ribellione. Gli svedesi non lo capiscono. In Norvegia puoi essere politicamente radicale, anche di estrema sinistra, eppure indossare i costumi tradizionali dei contadini con vero orgoglio, in certe occasioni. In effetti puoi anche ballare sulla musica dei Sex Pistols vestito in bunad. Anzi, avrebbe molto senso.
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Quando avevo sette o otto anni una volta siamo stati a Östersund, a qualche ora di macchina da Trondheim. Ricordo che c’era un’immensa piscina all’aperto. Gelati così diversi. Fantastici. Gli svedesi che incontravamo parevano tutti quanti sicuri di sé. Ho avuto di nuovo la stessa impressione qualche anno dopo, quando siamo andati a sciare a Storlien, appena oltre il confine. Svedesi in tute color pastello e grandi sorrisi. Ho pensato: ma che razza di gente è questa? Che razza di paese? Sembravano tutti intelligenti e determinati, ed era chiaro che ci guardavano dall’alto in basso. Per loro eravamo dei contadini. Gente semplice che non aveva niente da offrire. E parlavamo pure in modo buffo. Dicevano che la nostra pronuncia era «simpatica». Ma chi vuole parlare in modo simpatico? Io no. Che genere di società produce individui con una tale autostima? Io proprio non lo capivo.
In Svezia esiste ancora la nobiltà. In Norvegia abbiamo smesso di creare nuovi aristocratici nel 1814, e abbiamo abolito i loro privilegi nel 1821. Questa potrebbe essere la spiegazione di come mai in Svezia si veda un così vasto numero di medici di mezz’età in scarpe da vela, pantaloni blu e blazer rosa, mentre in Norvegia non ce ne sono più di due o tre in tutto.
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Quand’ero piccolo la cultura svedese era ovunque, in Norvegia. Musica popolare svedese alla radio, serie tv svedesi alla televisione, film svedesi al cinema. C’era Ikea. Ericsson. Volvo e Saab (nessuno faceva macchine desiderabili in Norvegia, questo è poco ma sicuro). Hasselblad. Husqvarna. Campioni di sport come Björn Borg e Ingemar Stenmark (e Zlatan Ibrahimović, in anni più recenti). E poi gli ABBA, Ingmar Bergman, Strindberg, giusto per citare qualcuno. Ma l’elenco potrebbe continuare.
Cultura norvegese in Svezia? Zero. O pochissimo. Non negli anni Settanta e Ottanta. E nemmeno negli anni Novanta. Per secoli c’è stato uno squilibrio. Di rado il colonizzatore è interessato a scoprire l’identità culturale del colonizzato. Il fratello maggiore non si preoccupa di spiare nella stanza del fratello minore. Perché dovrebbe? Quello che succede là dentro è con tutta probabilità qualcosa che lui ha smesso di fare da tempo.
È solo negli ultimi dieci, quindici anni che gli svedesi hanno cominciato a prenderci sul serio. Dal punto di vista della cultura e dell’economia. I libri e i film norvegesi adesso sono belli quanto i loro, se non di più. I nostri atleti battono i loro. E con la serie tv Skam («Vergogna») li abbiamo definitivamente stracciati una volta per tutte. Quella serie li ha perfino costretti a fare lo sforzo di capire la nostra lingua (noi la loro la capiamo da un sacco di tempo, avendo dovuto sorbirla per così tanto).
È stato il nostro petrolio a far invertire il gap economico tra i due paesi. La corona norvegese è più forte di quella svedese ormai da lustri. I giovani norvegesi sono sempre andati a studiare o a lavorare in Svezia: adesso è il contrario. A Oslo, nel primo decennio del 2000, i camerieri erano quasi esclusivamente giovani svedesi. Ed è diventato relativamente conveniente per i norvegesi comprare casa in Svezia. Questo dev’essere una spina nel fianco per gli svedesi. Ma loro sono gente beneducata e fanno finta che vada bene così. Non è vero. Mette a dura prova il loro orgoglio e il loro senso di importanza nell’universo.
Anche il rapporto che i norvegesi e gli svedesi hanno con lo stato è molto diverso. Gli svedesi amano lo stato e non riescono nemmeno a immaginare che possa fare qualcosa di sbagliato o di cattivo. E così, nel 1994, quando i loro leader politici gli hanno detto di votare sì all’ingresso della Svezia nell’Unione europea, loro hanno risposto con un chiaro sì (52,3 per cento).
In Norvegia abbiamo un rapporto un po’ più scettico nei confronti dello stato. Siamo dei cowboy. Vogliamo fare quel cazzo che ci pare. Vuoi che votiamo sì all’Unione europea? Be’, vaffa... Noi votiamo no. Giusto per fargliela. Il 52,2 per cento ha votato no.
Forse quella percentuale rappresenta la vera differenza tra i nostri due paesi. Un sacco di somiglianze, ma anche notevoli differenze. Dopotutto, il dna di uno scimpanzé è per il 96 per cento simile a quello dell’uomo. Eppure le differenze tra uomo e scimpanzé sono chiare e visibili. Uno scimpanzé è uno scimpanzé, un uomo è un uomo.
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Per molti anni ho vissuto con una svedese. Quando è tornata nel suo paese dopo un periodo di studi a Copenaghen, ha ricevuto per posta un pacco di «benvenuto-in-Svezia». Con le istruzioni su ciò che lo stato riteneva dovesse sapere sul modo di vivere svedese. Assolutamente sintomatico di quello stato: preciso e premuroso. Con un livello di burocrazia addirittura affascinante. Quando abitavamo a Göteborg ho avuto un sacco di problemi ad aprire un conto in banca. Ed è stato difficilissimo anche avere la connessione a internet nella mia casa delle vacanze. Quando sentono che sono norvegese e che non ho un codice fiscale svedese si chiudono tutte le porte. Che io abbia soldi e che paghi perfino le imposte sulla casa in Svezia non conta nulla. Il corrispettivo opposto, invece, non è un problema: gli svedesi in Norvegia possono comprare qualsiasi cosa, aprire conti in banca e tutto quello che gli pare.
Ogni anno ricevo posta dal fisco svedese. Più o meno una cinquantina di lettere negli ultimi quindici anni, e nemmeno una singola volta, cioè mai, sono riuscito a capire cosa dovrei fare. Gli devo io dei soldi o sono loro che li devono a me? Chi lo sa? Non ne ho la minima idea. La loro burocrazia è sconcertante. Lo stato è come un muro cifrato. Se arrivi a capirlo, ti amano e ti fanno entrare. E se lo capisci, automaticamente lo ami. Perché nel cuore dello stato svedese c’è una promessa di amore e di comunità. Un impegno a vita. Gioca al nostro gioco e ci prenderemo cura di te per sempre. È come lavorare in un’azienda giapponese. Devi essere dedito e lavorare come un matto, ma non sarai mai solo.
Lo stato norvegese è un po’ più flessibile. È come se ti dicesse: siamo costretti a riempire tutte queste scartoffie ufficiali, è quello che uno stato deve fare, ma siamo d’accordo con te che sembra esagerato e stupido. Però lo facciamo lo stesso. Quindi mettiti comodo, beviti un caffè, rilassati, e avremo finito in un attimo. E poi ci ridiamo su insieme.
Perché lo stato norvegese ha una specie di umorismo. Quello svedese no. O almeno, io faccio più fatica a individuarlo.
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Attraversare col rosso in Svezia può scatenare le grida di protesta di chi ti sta intorno. Soprattutto, ma non esclusivamente, di genitori con bambini. È semplicemente inaccettabile. Tradisci l’idea stessa di comunità, facendolo. Sei un egoista, per non dire un reprobo. Hanno spesso gridato dietro anche a me mentre attraversavo col rosso, in Svezia. Magari oggi sono un po’ più rilassati. Non so. È passato abbastanza tempo da quando vivevo là e attraversavo col rosso, ma la settimana prossima devo andare a Stoccolma per lavoro e ci riprovo. Mi dà sempre una specie di gioia infantile attraversare col rosso in Svezia. E un vero svedese non lo farebbe mai. Perciò non sono un vero svedese, probabilmente sono un vero norvegese. Qui da noi tutti attraversano col rosso sia a piedi che in bici, se non ci sono macchine in arrivo. In Svezia ho visto gente aspettare di attraversare anche se non c’era nemmeno l’ombra di una macchina. Questa è vera disciplina.
Gli svedesi sono ossessionati dalla sicurezza. E probabilmente hanno ragione. Dato che il resto del mondo li segue. Non è solo la Volvo che continua a stabilire gli standard di guida sicura: in generale continuano a stabilire un sacco di standard su tutto. Come l’uguaglianza di genere, per esempio. Come l’essere aperti alla sbalorditiva quantità di generi e orientamenti sessuali che esistono. In Norvegia tendiamo a ridere di quanto gli svedesi si spingono in là nelle cose, ma poi va a finire che smettiamo di ridere e li seguiamo. Quindi sono ragionevoli e saggi, se riesci a vedere al di là di tutte quelle loro fisime irritanti.
A volte comunque si spingono davvero troppo in là. Un paio di anni fa un mio vicino, su una delle isole della costa occidentale dove ho una casa, stava tagliando il suo prato. Era equipaggiato da sicurezza integrale: scarpe, pantaloni e guanti speciali, una bardatura protettiva in testa e davanti alla faccia. Una roba del genere in Norvegia non la vedresti mai. Fosse stato norvegese, avrebbe tagliato il prato a piedi nudi, ridendo, e forse un po’ sbronzo.
Amo la Svezia. La amo sul serio. Ma ha ragione Lou Reed: è un paese che spaventa. Spaventa ed è meraviglioso, davvero.