Come un iracheno ha salvato la Norvegia dal petrolio
Dopo essere cresciuto osservando il popolo del suo paese restare escluso dai benefici del petrolio, un giovane dirigente, Farouk al-Kasim, ha fatto sì che la Norvegia si comportasse in modo diverso.
I paesi che esportano petrolio conoscono in genere elevati tassi di povertà, conflitti interni e corruzione: una specie di disfunzione cronica nota come «maledizione delle risorse». Non la Norvegia. Il principale esportatore europeo di petrolio, oltre che secondo esportatore mondiale di gas naturale, ha saputo al contrario escogitare una sorta di benedizione delle risorse.
Da quando vi è stato trovato il petrolio nel 1969, la Norvegia ha sempre goduto di una democrazia in salute e di un governo incorrotto, posizionandosi tra le prime dieci nazioni al mondo per prodotto interno lordo pro capite. La Norvegia ha fatto tutto bene, se una cosa del genere è possibile quando si parla di petrolio: ha sperimentato pratiche ambientali e di sicurezza all’avanguardia, ha ricavato dai suoi giacimenti petroliferi una quantità di greggio perfino doppia rispetto al resto del mondo, e ha prolungato di decenni il boom economico del paese.
L’antimaledizione delle risorse in Norvegia è spesso attribuita all’eccezionalismo: geni vichinghi o qualcosa del genere. In realtà, uno dei segreti del suo successo – o forse il solo segreto – non ha nulla a che vedere con la Norvegia, ma con un brillante geologo settantasettenne di origini irachene di nome Farouk al-Kasim.
Ho incontrato al-Kasim nel sobrio ufficio in cui lavora come consulente da quando è andato in pensione, vicino al lungomare della città portuale di Stavanger. La nostra intervista si è trasformata in una conversazione che poi si è trasformata in una cena nel vicino ristorante cinese. Al-Kasim ha una risata espressiva e l’abitudine di battere il palmo sul tavolo quando qualcosa lo fa ridere. Ha iniziato l’intervista offrendomi caffè, biscotti e fragole locali. E insistendo nel dire che i successi norvegesi non sono dovuti all’eccezionalismo – suo o della Norvegia – bensì a politiche eccezionali.
Il 28 maggio 1968, un giovane al-Kasim aveva qualche ora libera prima che il suo treno lasciasse Oslo, così fece visita al ministero dell’Industria norvegese per chiedere se esistesse una lista delle compagnie petrolifere che lavoravano nel paese. Aveva frequentato l’Imperial college di Londra a spese del governo iracheno ed era diventato in fretta un alto dirigente dell’Iraq petroleum company, dove gestiva enormi quantità di petrolio e di denaro.
Tuttavia, al-Kasim e sua moglie, una donna norvegese, volevano cure migliori per il figlio affetto da paralisi cerebrale, perciò si erano trasferiti nel paese natale di lei. Il giorno in cui mise piede al ministero, fu ben accolto: lo staff aveva bisogno di un geologo degli idrocarburi che sapesse interpretare i risultati dei nuovi test di trivellazione nel Mare del Nord. Per i successivi tre mesi, al-Kasim esaminò studi sismici e dati provenienti da 13 pozzi, stilando a mano tabelle incrociate e mappature dei risultati. Una volta finito, era convinto che la Norvegia disponesse di un campo petrolifero straordinario.
«In Norvegia non sapevano nulla di petrolio» mi ha detto. I leader politici, però, sapevano della maledizione delle risorse, e sapevano di non volere che uno tsunami di soldi rapidi e pressioni aziendali inondasse il loro bel paese ordinato. «La cosa li spaventava» mi ha detto al-Kasim, e lui, meglio di molti altri, era in grado di capire. «Io avevo vissuto le agonie dell’essere un fantoccio dell’imperialismo.» Dal suo precedente trespolo, aveva osservato per tanto tempo il popolo iracheno che rimaneva escluso dalla maggior parte dei benefici del petrolio. Tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, molti paesi del Medio Oriente avevano provato a risolvere il problema dell’«imperialismo» del petrolio mettendo al bando le compagnie petrolifere internazionali e sostituendole con compagnie nazionali. Questi nuovi petrostati avevano concentrato petrolio, denaro e potere nelle mani di pochi, dando vita alla definizione stessa di path dependence, dipendenza dal percorso, mentre le loro economie restavano stagnanti. «Se ci si limita a sostituire i monopoli delle compagnie petrolifere internazionali con i monopoli delle compagnie di stato, non c’è un miglioramento» ha detto al-Kasim. Lui aveva passato anni a riflettere su un’alternativa che incoraggiasse la competizione tra le compagnie petrolifere internazionali e quelle di proprietà dello stato. La competizione, a suo avviso, è «l’essenza della competenza».
Nel dicembre del 1969, come al-Kasim aveva previsto, ConocoPhillips trovò il petrolio nel campo di Ekofisk. Un anno e mezzo dopo, lui e un suo collega si ritirarono in una casetta sulla spiaggia e scrissero un libro bianco in cui si chiedeva al governo di creare Statoil, una compagnia petrolifera nazionale, e il Direttorato petrolifero norvegese, una forte autorità di controllo indipendente.
«Creare un piccolo caos strutturato», così oggi al-Kasim descrive il suo scopo di allora. Coinvolgendo partner internazionali, la sua idea scongiurava il monopolio di stato cui lui aveva assistito in Medio Oriente. Statoil avrebbe sviluppato una competenza locale e dato lavoro ai norvegesi. Il Direttorato petrolifero, poi, sarebbe stato una specie di arbitro e si sarebbe assicurato che i progetti petroliferi servissero gli interessi della Norvegia, riducendo al minimo l’impatto ambientale e aumentando al massimo le occasioni di lavoro e i profitti per il paese.
Quarant’anni dopo, la Norvegia ha fatto quello che tante nazioni hanno provato a fare senza riuscirci: usare il proprio petrolio per creare buoni posti di lavoro e industrie di prim’ordine, senza distruggere l’ambiente. La chiave è consistita, a differenza della maggior parte dei produttori di petrolio, nella decisione del governo di sviluppare campi petroliferi impiegando il denaro dei cittadini per coprire metà dell’investimento e farsi carico di metà del rischio. Avendo interessi in gioco, la Norvegia poteva indurre le compagnie petrolifere private a sperimentare innovazioni finanziariamente rischiose. E quando i profitti hanno iniziato a presentarsi, negli anni Novanta, il paese li ha messi da parte in un fondo (che oggi ammonta a mille miliardi di euro) per un futuro in cui i pozzi si saranno prosciugati. È stata anche volutamente rallentata l’apertura di nuovi giacimenti da trivellare, usandoli come esca per esercitare pressione a favore di pratiche innovative. Per esempio, oggi quasi nessuno dei prodotti chimici di trivellazione più nocivi viene scaricato in mare dalla Norvegia, perché il Direttorato petrolifero ha stabilito per le trivellazioni un obiettivo di zero inquinamento delle acque. Per mantenere l’accesso ai campi petroliferi redditizi, le compagnie hanno collaborato allo sviluppo di procedure e materiali nuovi.
Al-Kasim si è concentrato anche sulla sua ossessione di «spremere fino all’ultima goccia» i campi petroliferi del paese. Alla fine degli anni Settanta, appena un decennio dopo che ConocoPhillips aveva scavato il primo buco, la produzione del campo di Ekofisk era crollata drasticamente. L’estrazione di petrolio da un giacimento fa sì che la pressione all’interno del giacimento diminuisca, perciò con il tempo si produce meno petrolio (dalla maggior parte dei campi petroliferi si estrae appena un quarto del contenuto). Al-Kasim voleva che la compagnia provasse a iniettare acqua nel giacimento per aumentare la pressione. La cultura aziendale tra gli alti ranghi della ConocoPhillips gli sembrava qualcosa di simile a quella dei cavalieri della tavola rotonda, per cui una sera si presentò a una cena formale con in mano una poesia allegorica appena composta, che parlava di una bellissima principessa che moriva per mancanza d’acqua. E la lesse ad alta voce. Con sua grande sorpresa, i dirigenti lo ascoltarono. Il campo di Ekofisk fu rianimato e raggiunse l’apice della sua produzione soltanto nel 2004. Oggi dai campi petroliferi norvegesi si ricava in media il 46 per cento del petrolio, quasi il doppio della maggior parte dei campi petroliferi nel mondo. Parlando con il Financial Times, un ex manager di Statoil ha affermato che «Farouk è forse il più efficiente creatore di valore che la Norvegia abbia avuto». Al-Kasim ha guidato la gestione delle risorse per il Direttorato petrolifero norvegese per 18 anni. Per i suoi servizi, è stato nominato cavaliere dal re di Norvegia nel 2012.
COS’È UN FONDO SOVRANO?
Oggi nel mondo esistono una ventina di sovereign wealth funds, i fondi sovrani, strumenti
di investimento pubblico che appartengono agli stati. Sono gestiti
dai governi, che decidono come investire le riserve valutarie e i
surplus fiscali del proprio paese in azioni, obbligazioni o
immobili in tutto il mondo. Questo strumento porta i singoli paesi
ad avere un ruolo di primaria importanza nella finanza mondiale,
poiché sono in grado di influenzare le borse in modo significativo,
sia positivamente che negativamente.
Parliamo di stati con la possibilità di investire grandi profitti:
non è un caso che la maggior parte dei fondi appartenga a paesi che
estraggono ed esportano petrolio e gas naturale, come Dubai,
l’Arabia Saudita, il Kuwait. L’esistenza di un fondo sovrano può
quindi ribaltare la situazione del debito pubblico di un paese. In
Norvegia il debito pubblico pro capite (che ammonta a circa 16mila
euro) è più che annullato dal fondo sovrano, che fa sì che ogni
cittadino abbia invece un «credito» di circa 170mila euro. Per fare
un confronto, in Italia, il debito pubblico ammonta a 40mila euro
per cittadino.
Oggi naturalmente, i problemi legati al petrolio non sono quelli del secolo scorso. Ora abbiamo bisogno di ridurre le emissioni di anidride carbonica, e anche in fretta. Al-Kasim è convinto che stiamo mettendo in pratica le lezioni sbagliate: «Uno dei più grandi miti del nostro tempo è quello secondo cui la tecnologia risolve tutto» ha detto. A suo avviso, non solo la scienza fornisce difficilmente la risposta giusta nel momento giusto, ma la tecnologia senza una visione sociale non vale più del singolo oggetto che crea. Le soluzioni tecniche catturano l’attenzione della stampa, è vero, ma costruire semplicemente una versione «ambientalista» del nostro sistema attuale è ridondante e senza ambizioni. Il libro bianco di cui il mondo ha bisogno riguarda molte più cose che non il solo nero di carbonio. Per dirla con le parole di al-Kasim: «Che genere di visione abbiamo dell’organizzazione umana?»