Caccia alla pantera
di Donald J. Walsh
Titolo originale: Mu Panther
Traduzione di Beata Della Frattina
© 1967 Galaxy Publishing Corporation
Da queste parti non capita spesso che ci sia una pantera Mu in libertà. Quando capita, allevatori e agricoltori di solito chiamano “Everett, Matler & Crawford, C.P.A. [Cacciatori Professionisti Abilitati]” Everett, Barry Everett, sono io, socio principale della ditta.
Stavamo ammazzando il tempo nell’ufficio di Denver, discutendo a proposito di certe nuove armi da caccia, quando arrivò la notizia che su, al nord, un gattone scorazzava in libertà.
«Barry, quei nuovi Browning che hanno mandato non mi vanno. Sono fabbricati per adoperarli con proiettili convenzionali, e quelli speciali che vuoi usare tu li sbilanciano, per cui...» Il ronzio nasale del telefono interruppe Jesse Matler, che sollevò il ricevitore con aria rassegnata.
Non capita spesso che ci tocchi una pantera. Di solito, il problema più difficile, per noi, sono i coguari, dal ’92, quando incominciarono a crescere. Di tanto in tanto capita anche una pantera, ma le proporzioni sono di otto a uno, a dir molto. Così, quando ne compare qualcuna su dalle parti delle Rocciose, e sgozza qualche manzo Mu di un allevatore, entriamo in ballo noialtri. Anche il giovane Brad Rodgers, su nella lontana proprietà di suo padre conosceva la nostra fama di migliori cacciatori professionisti di quattro stati; l’“Abilitati” che precede il nostro nome dice tutto. Chi telefonava, dalla sua tenuta di mezzo milione di acri nel Wyoming, era Rodgers.
Jesse riappese e si rivolse a noi. «Rodgers dice che la notte scorsa ha perduto quattro manzi da esposizione. Pesavano dieci tonnellate l’uno ed erano alti trenta mani, cosicché ha subìto una bella perdita. Erano dei campioni. Vuole che andiamo subito da lui.»
«Andiamoci di corsa» disse Bill Crawford, con il suo modo di parlare strascicato e sarcastico. «Se ne perde qualche altro non sarà più in grado di pagarci. Immagino che sappia che non lavoriamo per un pezzo di pane. Ma, a proposito, da quando il giovane Rodgers si occupa della tenuta? A quanto ne so, non riuscirebbe a distinguere un manzo da esposizione da una mucca.»
Aveva perfettamente ragione: bastava guardare Rodgers per capire che era competente quanto un idiota. Ma Jesse ignorò l’interruzione di Bill, e proseguì: «Ha scoperto orme che sono sicuramente di una pantera. Tutte del diametro di trentacinque centimetri.»
Bastò questo a farci diventare seri, e Bill rinunciò al suo sarcasmo. Sapevamo che doveva trattarsi di un gatto fuori serie; in proporzione all’ampiezza delle orme, doveva esser lunga sui dieci metri e mezzo e pesare all’incirca cinquanta tonnellate. Era un record. Così, nel giro di sei ore, preparammo tutto l’occorrente per la spedizione e, dopo altre quattro, eccoci davanti alla fattoria dei Rodgers, che pareva un palazzo di Park Avenue.
Jesse Matler e Bill Crawford erano miei soci ormai da dieci anni, e miei amici da molto prima. Dei due, Matler è il più grosso; è un omaccione che pare squadrato in un macigno, con mani capaci di ridurre in polvere un sasso. Con tutto questo, Jesse è una delle persone più miti che conosco, finché non gli salta la mosca al naso. Capita di rado, è vero, ma in questi casi Jesse si trasforma in un ippopotamo inferocito. A parte questo, è uno di quei cacciatori professionisti che si sono rotti i denti su un calibro 30-30. Figlio del proprietario di una delle ultime grandi riserve private del continente nero, è cresciuto nel Sudafrica. Ha ucciso il suo primo leone a sedici anni. Era un leone normale; in Africa erano stati installati pochi impianti atomici, e le esplosioni segrete americane non avevano avuto effetto sulla fauna africana. Questo era successo venticinque anni fa, a settantacinque anni dalle esplosioni, quando cioè non si erano ancora verificate notevoli mutazioni.
Il suo primo rinoceronte fu abbattuto un anno dopo; era lo stesso rinoceronte inferocito che aveva ucciso suo padre qualche ora prima, cosicché la caccia gli procurò piacere e profitto. Poco dopo, Jesse vendette la riserva al Governo, e non l’avrebbe fatto se non fosse stata in programma una legge per la confisca dei latifondi. Tornò in America, dov’era nato suo padre, e conobbe me e Bill in una capanna di caccia, in California, dove insegnava infaticabilmente ai novellini a diventare cacciatori di professione.
Questo accadde quindici anni fa. Da allora, Jesse è la spina dorsale della nostra ditta. Non ha bisogno di denaro poiché la terra di suo padre, in Africa, gli ha reso un bel mucchio, ma ha la caccia nel sangue.
Bill Crawford è tutto il contrario di Jesse, sia nell’aspetto sia nel carattere, ma è abile quanto lui nel suo mestiere. Di peso e altezza medi, ma solido come la roccia, è un cacciatore di primissima qualità. Sotto le armi era artigliere scelto. Maneggia un obice da 188 come se fosse un giocattolo, tanto nella versione atomica che quella con capsula esplosiva. Si è rotto i denti con un fucile senza rinculo, non dissimile dai tradizionali cannoni anticarro. E quando ci si trova di fronte quaranta tonnellate di felino che sta per balzarci addosso, Bill fa cantare il grosso fucile con evidente soddisfazione.
Infine c’è Schultz, il mio cane Mu dotato di poteri telepatici e simili. Schultz è un pastore tedesco, che ha ricevuto un addestramento speciale per la caccia, ed è di razza selezionata. Il fatto che all’intelligenza fenomenale unisca doti psichiche fa di lui un buon amico. Avevamo fatto di tutto per qualche tempo, allo scopo di trovare una pantera Mu; e adesso, dopo quella scoperta nelle terre di Rodgers, ci arrivano segnalazioni da ogni parte. Ma io sono convinto che per lo più si tratti di notizie false, dovute alla larga eco suscitata dalla morte di Brad Rodgers nel corso della caccia. L’inchiesta ha tassativamente escluso che ci sia stata la benché minima colpa da parte nostra. Tuttavia, non dimenticherò mai quella caccia, e credo che non troveremo mai più un gatto come quello. E, comunque, spero proprio di no.
Da un po’ di tempo teniamo sotto controllo commercialmente le mutazioni, fin dai primi successi riportati negli anni Settanta dagli esperimenti di controllo sui cromosomi. Adesso, è diventata la più importante industria del mondo, ed è logico che sia così, in quanto ha risolto il problema della fame, dato che un cespo d’insalata da venticinque chili rende parecchio. Ma, le esplosioni dei grandi impianti nucleari del Nevada e del Colorado hanno dato l’avvio a una catena di Mu selvatici, e il guaio è che gli effetti si sono rivelati solo a ottant’anni di distanza. Di tanto in tanto compare un felino Mu, e allora la gente chiama noi, o qualche ditta come la nostra. Siamo sempre in trepida attesa del giorno in cui i Mu assaliranno le città o le fattorie, ma, finora, escluso naturalmente Rodgers, le uniche vittime si contano fra il bestiame.
Rodgers ci aspettava sulla pista di atterraggio, dietro il gruppo principale degli edifici della fattoria e del ranch, e apparve chiaro a prima vista ch’era il tipo d’uomo che vuol sempre primeggiare, senza dar ascolto ai consigli... Cosa che infatti avvenne puntualmente. D’altra parte, non posso dargli completamente torto, in quanto era letteralmente affamato di potere. Suo padre aveva affidato la direzione della proprietà all’intendente, e il figlio non era in grado di dirigere la sua propria azienda. Conoscevo superficialmente il vecchio Rodgers: era un tipo ferocemente accentratore, per quanto riguardava la terra, e costituiva forse un anacronismo, vivendo come se si fosse ancora all’epoca delle guerre di frontiera. Avrebbe potuto addestrare suo figlio, ma il farlo comportava un rischio, o almeno l’incertezza, sulla proprietà della sua terra.
Nessuno di noi aveva mai visto prima Brad Rodgers. Di solito, trattavamo con l’intendente, mai con lui. Non sapevamo come avesse scavalcato l’intendente, ma era chiaro che adesso comandava lui.
Indossava una camicia kaki e calzoni corti, leggeri, ed era piuttosto ben costruito, anche se troppo magro, almeno confronto a noi tre. Ci guardò come un generale che dà istruzioni alla truppa, mentre, nello studio, indicava alcune zone sulla mappa della proprietà.
Le presentazioni erano già state fatte, e noi volevamo metterci al lavoro senza indugio. Dell’intendente, nessuna traccia. Indicando un punto a circa cinque miglia dalla casa, sulla mappa, Rodgers disse: «In questo punto, signori, abbiamo trovato le carcasse ieri notte. Avevano la gola squarciata e gran parte della carne era stata strappata e divorata. Uno dei miei uomini ha trovato le impronte poco lontano, in una pozza di fango. Tutta la zona era devastata a causa della lotta sostenuta tra i manzi e la pantera. Perché si tratta proprio di orme di pantera, signor Everett.»
Mi porse una fotografia delle impronte e il calco in gesso di una di esse. Erano cinque in tutto, sufficienti per identificare l’animale che le aveva lasciate. Erano indubbiamente di pantera, e misuravano, come aveva detto Rodgers, circa trentacinque centimetri di diametro.
Passai foto e calco a Jesse che confermò l’identificazione. Si trattava di un gatto fuori misura, e l’aria vibrava dell’odore di una caccia coi fiocchi, oltre che della naturale paura provocata dall’idea di una pantera di quella mole.
«Ehm, signor Rodgers» saltò su Bill Crawofrd «non potremmo parlare con qualcuno dei vostri dipendenti a proposito dei particolari, come l’ora, la direzione, eccetera?»
«Crawford, questo ranch lo dirigo io, e finché sarà così le informazioni, di qualsiasi genere, dovrete venirle a chiedere a me. Non dimenticatelo.» Rodgers ribolliva sentendosi offeso nel suo orgoglio. Mi affrettai a intervenire:
«Signor Rodgers, sappiamo che questa terra è vostra e vi rispettiamo. Ma abbiamo bisogno di un cacciatore esperto, di qualcuno che conosca la zona come le sue tasche. Inoltre, la nostra aeroauto ha solo un posto in più disponibile. Se fosse possibile, saremmo ben lieti di potervi portare con noi, ma stando così le cose...»
«Everett, io ho molte armi. Voi, che cosa adoperate?»
«Cannoncini portatili calibro otto adattati per cartucce da fucile e cartucce esplosive da 45 grammi.» Così dicendo, mi permisi un sorriso di trionfo: una simile bellezza costa più di millequattrocento dollari. Ma Rodgers rimase imperturbabile; si avviò verso una rastrelliera che finora non avevo notato e ne trasse un fucile uguale ai nostri, con qualche aggiunta in più: intarsi in oro, appoggiaguancia coperto di pelle scamosciata, un cuscinetto per ammortizzare il rinculo, calcio in fibra di vetro lavorata a mano. Tutti questi particolari ne aumentavano di parecchio il prezzo. Le nostre armi ne erano prive, in quanto li consideravamo inutili e costosi.
«Avete detto di avere un posto libero nell’aeroauto, Everett. Bene, quel posto l’occuperò io, altrimenti non se ne fa niente. A costo di rivolgermi a tutti i Cacciatori Professionisti Abilitati del paese, voglio veder morire quella pantera coi miei occhi.»
Detto questo ci voltò le spalle e se ne andò, lasciandoci a decidere se sarebbe stato peggio andare a caccia con un novellino o rinunciare.
«Barry, è impossibile che parli sul serio. Rodgers, magari, riesce a cavarsela al tiro al bersaglio, o con animali piccoli. Ma se anche fosse un buon dilettante, una caccia come questa richiede un tipo particolare di coraggio. Lo sapete benissimo. Una pantera mutata non è una belva da prendere alla leggera.»
Bill si dichiarò d’accordo con Jesse.
«Tutti i dilettanti, e anche qualche professionista» disse «farebbero una di queste due cose: o se la farebbero addosso dalla paura o scaricherebbero i fucili su tutto quel che li circonda, eccettuato il gatto. E Rodgers mi sembra il dilettante tipo, ben equipaggiato ma inesperto come un neonato.»
«So che è rischioso» dissi io «ma è l’unico modo per poter mettere le mani su questa pantera. Non vorremmo certo cederla a Muller o alla squadra di Jerry Dane. Dunque, il capo sono io, come pilota, e Jesse sarà il secondo pilota. Una volta su per aria, nessuno potrà sparare, se io non glielo ordino.»
«Ma, Barry, questa è una faccenda molto seria. Non possiamo permetterci pesi inutili, finché il gatto non sarà freddo e ridotto a bistecche.»
«Lo so, Jesse, lo so. Ma dobbiamo pure dargli la caccia, a questo gatto. Se va in una città o assale un ranch per colpa del nostro indugio, è probabile che, come minimo, la Commissione della Caccia ci ritiri la licenza.»
La cosa fu sistemata così, ma Rodgers avrebbe fatto meglio a rimanersene a casa. Quando dicevo che siamo una squadra di professionisti, non volevo dire che siamo un gruppo di selvaggi che corrono dietro ai gattoni, seminudi e armati di coltelli. Noi non giochiamo in modo leale, ma non potremmo far diversamente. La natura ci ha fatti quali siamo e così facendo ha decretato le poste a mille contro uno in nostro svantaggio, quando dobbiamo fronteggiare uno dei Mu. Andando a caccia di coguari, giaguari o pantere Mu, adoperiamo aeroauto capaci di sollevarsi di duecento metri in un secondo, o di correre sfiorando qualsiasi superficie a trecento miglia orarie. Non è poi una gran velocità, se la si confronta a quella dei grossi felini, ma la possibilità di sollevarci di scatto ci offre un grosso vantaggio, mettendoci istantaneamente fuori della portata delle loro possenti zampe.
Inoltre, il nostro equipaggiamento comprende amplificatori del suono, radar, e apparecchi a raggi infrarossi per poterci vedere di notte. Alle armi normali, ammesso che si possa definire una normale arma da caccia il fucile-cannone calibro 8, disponiamo di un fucile anticarro senza rinculo, che è la gioia e l’orgoglio di Bill Crawford e si trova situato a poppa. Con quell’arma, Bill sa fare di tutto, eccettuato l’amore. Accanto alle casse delle munizioni c’è anche un piccolo “laser a rubino”, creato per tagli e saldature industriali. Non ce ne eravamo mai serviti, finora, ma, dalle prove eseguite, avrei giurato che avrebbe fatto un ottimo lavoro. Fucile anticarro e laser sono di pertinenza di Bill, che ne tiene i comandi collegati a un radar operante all’unisono col radar istallato nel quadro dei comandi. Se non c’è uno di noi ai pezzi, il radar punta e fa sparare automaticamente le armi. Naturalmente, è sintonizzato solo sugli animali, tanto per non lasciar niente al caso.
Jesse e io avevamo preso posto sui sedili anteriori, Bill si occupava della artiglieria, e Rodgers sedeva nel quarto posto, alle mie spalle. Togliemmo le armi dalle custodie e aprimmo le scatole che contenevano le cartuccere, da cinque proiettili ciascuna: i proiettili erano grossi come banane. Caricai il rifornitore d’energia del laser e controllai il bagno refrigerante di elio liquido che circondava lo scudo di rubino e le valvole di accensione. Sistemai i comandi in modo che il raggio, sottile come un segno di matita, potesse tagliare il diamante come un coltello taglia il burro, e rimisi il congegno di accensione sul suo supporto.
Con tutto quell’armamentario si potrebbe credere che fossimo al sicuro come se volessimo cacciare i pesci stando in un barile, ma non è affatto così. I felini Mu sentono l’odore degli esseri umani a un miglio di distanza e quattro uomini che si avvicinano loro fanno lo stesso effetto di una fanfara.
Noi, abitualmente, seguiamo la tattica di aspettare finché il tracciante radar indica che il gatto è rimasto fermo per un po’ di tempo, e che quindi si presume che dorma. Allora ci muoviamo, gli scarichiamo addosso un bel po’ di esplosivo e ci auguriamo che resti colpito in qualche parte vitale. Se lo si manca, o, peggio, se il gatto resta solo ferito, allora le parti si invertono, e il cacciatore diventa selvaggina. In questo caso non c’è che da tagliare la corda più in fretta che si può, possibilmente in verticale. Se non ci si riesce, rimane sempre il laser.
Un particolare rende unica la nostra squadra: Schultz. Il mio cane è un soggetto telepatico di rara capacità, e inoltre è capace di empatia visiva, unita a chiaroveggenza controllata. Tramite Schultz, io sono in grado di perlustrare una zona ampia quindici miglia in pochi minuti, non attraverso il radar, ma per visione diretta. La vera empatia è limitata alla vista, ma Schultz è capace di proiettare anche gli altri sensi. Il cane vale per me più del radar e degli amplificatori del suono messi insieme.
Schultz è un po’ più grosso dei normali pastori tedeschi, sia perché è figlio di campioni, sia perché è stato sottoposto a un trattamento radiogenetico che lo ha fatto diventare un esperto per quanto riguarda i Mu. Pesa circa settanta chili, tutti di solidi muscoli, e quando si drizza sulle zampe posteriori mi arriva al petto... Da ricordare che io non sono certo piccolo. Ha la pelliccia corta e lucida nerofulva, muso e testa sono tipici della sua razza, col naso squadrato e la fronte convessa.
Rodgers ci aveva indicato la località dove la belva aveva assalito il bestiame, e ci dirigemmo in direzione Nord-Est a centocinquanta all’ora, mantenendo una quota di circa cinquanta metri. Quando inserii il pilota automatico, il rombo violento dell’aria che usciva dai ventilatori si tramutò in un sibilo sommesso.
I manzi morti erano visibili da lontano, e quando ci fummo sopra atterrai a pochi metri dalle carcasse. Erano ormai morti da dodici ore e incominciavano a decomporsi sotto il sole, ma la maggior parte della loro mole immensa era ancora calda. Una delle enormi strisce di carne strappata dal loro ventre sarebbe bastata a saziare la pantera; invece tutti e quattro erano stati appena scalfiti, come per ricavarne un assaggio. La pantera non aveva ucciso per fame, aveva ammazzato per gusto i quattro manzi. Era di quelle che chiamiamo assassine, la peggior specie di Mu che esista.
Esaminammo le peste nell’argilla molle. La lotta aveva ridotto erbe e arbusti in poltiglia, e il terreno era tutto sconvolto; ma nel fango c’erano delle orme chiarissime, ed erano proprio di pantera. Le volevo mostrare a Schultz.
«Schultz, vieni qui» dissi.
«Cosa c’è, Barry-uomo?», chiese il cane scendendo con un balzo dall’aeroauto e trotterellando poi verso di me.
«Annusa le orme». Lo fece in un baleno.
«Pantera. Molto grossa».
Mi guardò con occhi scintillanti. Apprezzava la brutalità di quelle uccisioni e voleva la pantera. Quando si addestra per la caccia un cane normale, nasce in lui un riflesso condizionato. Ma Schultz è qualcosa di più di un cane; è in grado di percepire le emozioni e i motivi e possiede un profondo senso della giustizia. Forse sarebbe meglio dire vendetta; ma, in pratica, è la stessa cosa.
Prendemmo ad avanzare seguendo una rotta a spirale. Non avevamo il minimo indizio circa la direzione presa dalla pantera, e la spirale avrebbe coperto in modo uguale e completo tutte le direzioni. Erano ormai le sei, e il sole stava per tramontare. Jesse teneva d’occhio il radar con ansia, mentre Bill si gingillava coi comandi del fucile anticarro. Rodgers, dal canto suo, si gingillava col suo fucile calibro 8, facendo scorrere le dita sul calcio intagliato. Lo maneggiava come se fosse pratico quanto noi di quell’arma. Questo mi dava comunque un po’ di sollievo, perché poteva esser utile avere a portata di mano un buon tiratore. Però, avrebbe fatto più danno che altro se avesse voluto fare di testa sua senza seguire i nostri ordini.
Pareva mica male, come dilettante; aveva un fisico robusto, nonostante la magrezza, e muscoli solidi. Chissà, forse ci poteva essere utile. Ma io sono sempre un inguaribile ottimista.
«Ancora niente?» domandai a Jesse.
«Niente di niente, Barry. E si sta facendo buio. Meglio adattare i visori a raggi infrarossi ai fucili.»
«Certo, Jesse.» Afferrai il microfono e ordinai a Bill di prendere gli apparecchi a raggi infrarossi e di insegnare a Rodgers come funzionavano.
Bill andò a prendere nel bagagliaio una scatola di obiettivi e la depose accanto a Rodgers. Ne svolse uno, lo inserì in un supporto magnetico Bushnell e lo infilò nel sostegno scanalato del suo fucile. Attivò il generatore di energia e di raggi infrarossi collegato all’arma e controllò per vedere se l’equilibrio non ne risultasse alterato. Andava tutto bene. Attivò poi la cellula al cadmio e guardò nel tubo delle immagini. In pochi secondi, l’immagine si schiarì e i raggi infrarossi illuminarono il terreno sottostante. Infine, Bill staccò i collegamenti.
«Credete di essere capace di far funzionare questo aggeggio, signor Rodgers?» chiese Bill con voce piatta, appena velata di noia.
«Mi ci proverò. Ho già usato dei mirini telescopici.»
«Oh, davvero?» Stavolta non mancava il sarcasmo. Bill è un cinico incallito, e noi ci siamo abituati; ma Rodgers no.
Rodgers adattò l’apparecchio al proprio fucile con gesti abili e sicuri, dando di tanto in tanto un’occhiata di controllo al fucile di Bill. Poi fece scattare l’interruttore.
Un tonfo mi fece voltare di scatto. Rodgers aveva fatto un movimento improvviso e gli era caduto il fucile. Tuttavia Bill era riuscito ad afferrarlo a tempo per il caricatore, evitando che l’obiettivo si fracassasse sul pavimento.
«Figlio d’un cane!» esclamò Bill. «Questo strumento vale cinquecento dollari! Avete invertito la polarità e vi siete preso una scarica di 4.500 volts. Potete dirvi fortunato di non esserci restato secco. La prossima volta, controllate la disposizione dei fili, capito?»
Bill si ritirò nel bagagliaio, lasciando Rodgers piuttosto intontito e con l’amor proprio malconcio. Jesse e io tornammo a occuparci dei comandi. Dopo qualche minuto, mi voltai a guardare Rodgers: se ne stava rannicchiato sul sedile con la faccia atteggiata a una espressione chiara come un’insegna al neon. Se avesse visto una cavalletta, le avrebbe scaricato cinque colpi. Installai il pilota automatico e mi girai a parlargli.
«Rodgers» dissi «so che siete stato voi ad assumerci. Voi siete il padrone qui, sulla vostra terra. Ma a bordo di questa macchina sono io a comandare. Quando avremo avvistato la pantera, lasciate che sia Crawford a sistemarla. Ci avvicineremo al gatto quando è addormentato e gl’infileremo in testa un proiettile d’artiglieria da cinquecento metri. Se vi metteste a sparare a caso da quella distanza, otterreste due risultati: spreco di munizioni e risveglio della pantera. Se aveste mai visto diciassette metri e rotti d’inferno nero e muscoloso balzare a un’altezza di venti metri addosso a voi, capireste perché ci piace fare le cose per benino.»
Evidentemente, Rodgers stava ancora curando il suo amor proprio ferito.
«Per chi mi prendete, Everett? Per uno scemo? Non ho alcuna voglia di fare pazzie. Voglio solo la pantera.»
Mi resi subito conto di non avere alcun ascendente su di lui, perciò mi abbandonai sul sedile augurandomi che il primo tiro di Bill centrasse il segno, senza bisogno dell’intervento di Rodgers.
Una ventina di minuti dopo, Jesse si volse a dirmi: «Barry, c’è un segnale sul radar. È fermo. Forma e dimensioni corrispondono.»
«Dammi la posizione rispetto a noi» gridai. Era di circa dieci gradi, verso Nord-Est.
«Proviamo ad avvicinarci, Barry?» domandò Jesse.
«Non ancora. Prima mi ci lascio portare da Schultz.»
«Buona caccia.» Non appena formulai mentalmente il suo nome, Schultz si alzò e mi venne vicino.
«Bravo Schultzie. Pronto a fare un giretto?»
«Certo, Barry-uomo. Dove vuoi vedere?»
Controllai la posizione sullo schermo di Jesse. «A ottocento metri in direzione Nord-Est. Via!»
E lui mi ci portò, a ottocento metri dall’aeroauto. Mi sentii mancare e mi si chiusero gli occhi mentre entravo in empatia.
Si prova lo stesso effetto che se si avesse dentro un teleobiettivo.
Si trattava proprio della pantera. La vedevo perfettamente, a duecento metri di distanza, attraverso l’ampia e bassa angolatura della vista mentale del cane. È strano che nessuno sia mai riuscito a far sì che un animale dotato di empatia riesca a proiettare la vista del suo padrone. Sono capaci solo di proiettare la propria, e di far vedere agli altri quello che vedono.
Il felino dormiva, digerendo, credo, le laute bistecche di manzo. La simmetria del suo corpo era perfetta, non deformata come avviene in quasi tutti i mutati naturali. Misurava dieci metri e mezzo, e forse più. La sua snella sagoma nera spiccava lustra come quella di una sfinge viva, fredda e dura come l’ebano.
D’improvviso sentii un senso di gran peso, e i miei pensieri furono strappati dal gatto con una violenza che mi fece star male. Provai una tremenda fitta al cervello e agli occhi, mentre un battito continuo mi martellava la testa. Non vidi più nulla, e per parecchi secondi rimasi completamente cieco. Il dolore scese lentamente al collo e i muscoli della faccia si contorsero in una smorfia. In lontananza, sentii guaire Schultz.
Aprii gli occhi e vidi davanti a me Rodgers che mi stava scuotendo un braccio, mentre Jesse stava avvicinandosi a noi con gli occhi iniettati di sangue. Schultz gemeva accucciato ai miei piedi.
Rodgers aveva spezzato l’unione empatica, causando un non lieve disturbo sia a me che a Schultz. Mi misi il cane in grembo, accarezzandolo per calmarlo, ben sapendo che la sua mente si trovava in uno stato di equilibrio molto precario, come se qualcuno gli avesse raschiato il cervello con una raspa d’acciaio.
«Maledetto figlio di un pidocchio!» urlò Jesse a Rodgers. «Avete interrotto l’empatia fra Barry e il cane. Erano fusi mentalmente e voi li avete divisi a forza. Potete avergli rovinato il cervello, e anche al cane!»
Rodgers si era fatto piccino, cosa che sarebbe successa anche a me davanti a un Jesse fuori di sé.
«Non lo sapevo» balbettò con voce rotta. «Ho visto che la macchina stava ferma e Everett si era accasciato sul sedile, così ho creduto che si sentisse male.»
«Mettetevi a sedere e state zitto, Rodgers. E non muovetevi finché non saremo tornati a casa vostra!» Gli intimai, cercando di vincere un tremendo mal di testa. Rodgers ricadde sul sedile come se lo avessero spinto. Per la terza volta, si leccava l’amor proprio ferito. Poveretto, pensai. Uomini ingaggiati da lui lo mettevano in castigo proprio sulle sue terre; tuttavia, non ci potevamo permettere di aver a bordo qualcuno che faceva il matto. Una volta tornati, gli avrei raccomandato di farsi visitare da un buon psicanalista.
Poi, mi ricordai di quello che avevo visto.
«Jesse» dissi «c’è proprio la pantera, qui avanti. Dorme. Non perdere di vista il segnale radar. Se fa tanto di muoversi, dillo subito. Mi senti?» Prima che avesse tempo di rispondere troncai la comunicazione. Mi risposero tuttavia lo scatto del meccanismo di guida automatica per il laser e il cannone anticarro, e il sommesso ronzio delle batterie di alimentazione. Ben presto si percepì odor di ozono; ogni batteria aveva la potenza di 3.000 milli-farad.
«Bill, quando darò l’ordine, infila il proiettile corazzato in testa al gatto. Ritarda il tiro di dieci secondi così posso arrivare là in tempo con Schultz.»
«Tutto pronto, Barry» ronzò l’interfono. Proseguii per cinquecento metri, poi atterrai. Il muso del cannone anticarro girò di qualche grado mentre veniva effettuato il puntamento, secondo la posizione data dal radar, coll’ulteriore ausilio di un anemometro.
«Pronti!» dissi io: Bill, ai comandi, avviò il segnatempo.
«Schultz» pensai, «come ti senti?»
«Bene, Barry-uomo. La testa fa ancora un po’ male». Il suo pensiero era debole.
«Non è niente, Schultz, fa male anche a me. Faresti un altro giretto?»
«Piccolo piccolo, Barry-uomo. Bisogno riposo».
Le luci del segnatempo tracciavano un disegno geometrico sui pannelli. Poi, mi ritrovai a guardare la pantera.
Nel sottofondo, sentii il rombo attutito del cannone e l’urto ripercuotersi attutito dalle molle e dagli ammortizzatori. Il collegamento era debole, e vedevo appena, confusamente, la pantera attraverso la mente di Schultz. Ma potei vedere che si era svegliata di botto, e si era allontanata con un balzo, nello stesso istante in cui il lampo dell’esplosione attraversava la mia mente e quella del cane.
Colpo mancato.
Con uno sforzo, tornai alla realtà circostante. Rodgers aveva incominciato a strillare di gioia, aspettando che noi facessimo coro. Ma notando che nessuno si univa a lui, tacque di colpo. Jesse ed io fissavamo il radar, mentre Bill era sempre al pezzo. Il puntino sullo schermo si muoveva rapido verso il centro. Cioè verso di noi. Immediatamente, feci sollevare l’aeroauto di trecento metri. La pantera era visibile a occhio nudo, e si avvicinava a gran velocità, simile a una striscia nera che guizzava sull’erba e gli arbusti.
«È riuscita a scansare il proiettile in un batter d’occhio» osservò Jesse ingrugnito, facendo scattare la sicura del suo fucile calibro 8.
«Calma, Jesse» lo ammonii. «E tu, Bill, non far partire il laser. Dobbiamo aspettare che si avventi su di noi e colpirla mentre ricade.»
La pantera era ormai vicinissima. Arrivava a quattrocento miglia all’ora e distava meno di cento metri. Entro una frazione di secondo ci sarebbe stata sotto e avrebbe fatto un balzo.
Balzò a centocinquanta metri, a metà strada cioè fra noi e il terreno. Era un balzo record, ma al momento non stetti a pensarci. Rodgers, che, dopo il colpo mancato, se ne era rimasto immobile, balzò d’improvviso verso il finestrino e scaricò i suoi cinque colpi sul gatto.
Toccai terra mentre svaniva l’eco dell’ultimo sparo con un tonfo che fece vibrare l’apparecchio come un giocattolo nella tempesta, tanta era la rabbia che mi aveva preso. Mi aspettavo che Rodgers facesse di testa sua, ma non pensavo che fosse un così buon tiratore. Tre proiettili avevano colpito il bersaglio, probabilmente nelle cosce o nelle spalle, perché il gatto si allontanò a duecento all’ora. Per fortuna, era una velocità a cui potevamo tenerle dietro, ma nonostante questo, Rodgers non sfuggì a una bella strapazzata da parte di Jesse.
Mi voltai a guardare. Jesse aveva afferrato Rodgers per il bavero e lo teneva sollevato da terra, fissandolo negli occhi. Poi lo riabbassò lentamente e lo spinse sul sedile, senza aprir bocca. Ma quando Jesse ti guarda in quel modo, le parole sono inutili. Almeno, quelle ripetibili.
Controllai ancora una volta il radar e scoprii che il gatto si era allontanato tanto da uscire quasi dallo schermo. Inserii il pilota automatico, per seguire la pantera a mezzo miglio, facendo in modo che la nostra velocità si adattasse alla sua sia che accelerasse o rallentasse. Non volevo che si voltasse ad attaccarci finché non fosse stanca morta, cosa che invece avrebbe probabilmente fatto se avessi diminuito la distanza. Perciò dovevamo pazientemente seguirla e ucciderla, sicuri che non passasse al contrattacco.
Non faccio il minimo rimprovero a Jesse di aver umiliato Rodgers, tuttavia avrei voluto chiarire alcuni punti prima che decidesse di non pagarci, una volta terminata la caccia.
«Vi avevo detto che non potevamo avere con noi degli idioti dal grilletto facile, in una partita come questa, signor Rodgers. Che voi siate o meno un buon tiratore, non ha importanza. La pantera costituisce un pericolo potenziale per le comunità vicine e, se ci sfugge, la responsabilità ricade su di voi. Ma, finché siamo noi a occuparcene, dovete star fermo e zitto. Se non vi riportiamo subito a casa è perché non vogliamo perdere tempo.»
Lui si alzò, guardandomi. «Everett» disse «mi pare che vi siate dimenticato di essere alle mie dipendenze. Finché sono io a pagarvi, farò quel che mi pare. E se credete di mettermi a tacere perché ho sparato alla bestia, siete matto. Voglio che muoia, e voglio la sua testa appesa sul mio camino.»
Parlava con voce arrogante, e se non avesse pronunciato le ultime parole gli avrei sparato. Non gli passava neanche per la testa che la caccia, e in particolar modo la caccia ai Mu, è una cosa molto seria, e un trofeo Mu, poi, è una cosa di cattivo gusto, come imbalsamare e appendere la testa del gatto di casa, solo su più larga scala.
«Rodgers, quella testa non andrà a nessuno. Anche se ve la foste guadagnata, il che non è, la carcassa sarà distrutta mediante un laser ad ampia gittata. Se quel che volete è un trofeo, assoldate una guida che vi aiuti a scovare un orso Mu. Ma la pantera non ve la cedo. Inoltre, col vostro intervento ci avete reso tre volte più difficile il compito di ucciderla. Avreste sortito lo stesso effetto iniettandole un chilo di adrenalina.»
«Ma quale compito? Basta che le puntiate addosso il laser.» La sua stupidità era stupefacente.
«Sentite, signor Rodgers, il laser può essere usato solo quando il bersaglio è direttamente alla nostra portata, solo nei casi estremi. Se non centra il bersaglio, il raggio continua il suo cammino. Raggi più deboli di questo sono arrivati sulla luna, rimbalzando con una divergenza minima. Se questo laser attraversasse una città, in confronto, l’incendio di Chicago sarebbe un fuocherello di sterpi.»
Tornai a voltarmi, per controllare il radar. La pantera aveva rallentato ed era scesa a cento all’ora. Pareva che incominciasse a stancarsi: così almeno speravo.
Continuammo l’inseguimento per altre sei ore. Jesse e Crawford si diedero il turno al radar, mentre io pisolavo. Rodgers si era ammosciato.
D’un tratto, sentii Jesse che mi scuoteva con energia.
«Si è fermata, Barry. È a un miglio. Ho aumentato la distanza quando ho visto che continuava a rallentare e si fermava. Adesso ci stiamo librando.»
«Cosa ne dici, Bill?» chiesi, all’interfono. «Vuoi che proviamo ad avvicinarci per sganciare una bomba da vicino, o proviamo a sparare da qui?»
«Io preferirei avvicinarmi, Barry» rispose Bill. «Il gatto è sfinito e noi adesso siamo più veloci di lui. Avvicinandomi, avrei miglior probabilità di centrare il segno, e il gatto meno probabilità di schivare il proiettile.»
«Sono anch’io di quest’idea, Bill» intervenne Jesse. «Se aspettiamo, il gatto può riposare abbastanza da riprender forza e allontanarsi a maggior velocità. Adesso, invece è il momento buono.»
Io pure la pensavo così, e mi accostai di un quarto di miglio alla belva. Il segnale sullo schermo radar rimase immobile. Avanzammo di un altro quarto di miglio, e il segnale continuò a restar fermo nello stesso punto. Finora, tutto andava per il meglio.
Notai che Schultz, steso ai miei piedi, sembrava nervoso. Lo chiamai.
«Cosa c’è, Schultz?»
«Sbagliato, Barry-uomo. Gatto non là».
«Come? Vuoi dire che è morto?»
«No, gatto dietro noi». Restai confuso e perplesso. Controllai il radar: funzionava perfettamente. Proiettai una carezza mentale al cane, imprecando fra me contro Rodgers che gli aveva guastato la mente.
Ormai eravamo a meno di cento metri dalla pantera; grazie agli obiettivi a raggi infrarossi la si poteva vedere chiaramente, gigantesca e ansimante.
Ronzò l’interfono. Era Bill. «Barry, c’è qualcosa che non va nell’autocontrollo del laser. È puntato a 180°, in direzione sud, proprio nel punto opposto in cui si trova il bersaglio.»
Gli dissi di fare un controllo, di servirsi dei comandi manuali. Jesse ed io eravamo incollati al radar. Il cannone sparò e il proiettile esplose sul bersaglio; attraverso gli obiettivi a infrarossi potemmo vedere la carcassa: la testa era stata asportata dall’esplosione.
In quella, comparve un nuovo segnale sullo schermo radar. Accesi un riflettore e vidi Rodgers che si precipitava di corsa verso il gatto.
I secondi che seguirono si succedettero con rapidità estrema. Vidi il corpo della pantera ondeggiare e scomparire... e fermarsi fissando Rodgers, che si era voltato, incapace di muoversi per la sorpresa e il terrore. Rodgers sollevò il fucile e sparò, ma non ebbe il tempo di far partire un secondo colpo. Era abbastanza intelligente da capire che mirare avendo negli occhi un riflettore da un milione di candele non era possibile. Si riparò la faccia con le mani, gettò a terra il fucile, e se la diede a gambe. Una lunga ombra oscurò l’aeroauto, e la pantera nera, oltrepassandoci con un balzo, puntò su Rodgers, che ebbe appena il tempo di mandare un grido...
La pantera si volse allora per avventarsi su noi, e vidi il rubino del laser abbassarsi rapidissimamente sul mostro che ci stava davanti e accendersi con un bagliore scarlatto. Bill lo fece ruotare mentre il gatto balzava, e il raggio tracciò una linea irregolare che tagliò in due la pantera dalla testa ai fianchi. La belva cadde davanti all’aeroauto, e per poco non ci schiacciò.
Jesse e io balzammo a terra e corremmo verso la carcassa bruciata. Gli occhi socchiusi ci fissavano immoti con uno sguardo di odio e di agonia. Io sollevai il fucile e mirai all’occhio destro. Seguì l’esplosione che frantumò il cranio.
Era un sistema di difesa più che naturale, per una belva braccata. Al pari di Schultz, la pantera era in grado di proiettare immagini sensoriali nella nostra mente, ma, nel suo caso, quelle immagini potevano essere controllate. Aveva fatto sì che noi vedessimo sul radar un segnale inesistente, e ci aveva mostrato una falsa immagine di se stessa davanti a noi. Per questo il laser, puntato a 180° dal luogo dove credevamo che fosse la belva, pareva guasto. Ma Schultz non si era lasciato ingannare da quelle immagini mentali, più di quanto non ci lasciamo ingannare noi da una bugia sussurrataci all’orecchio. Schultz doveva essersi sentito come un bambino di due anni che cerca di persuadere i genitori della presenza di un ladro.
Comunque, quello fu l’unico tipo di Mu, in cui m’imbattei, dotato di tali poteri. Forse ce ne saranno altri, e, in questo caso, ci sarà molto lavoro per noi.
E anche per Schultz.