Ragazza nel cubo

di H.H. Hollis

 

 

Titolo originale: Swort Game 

Traduzione di Beata Della Frattina 

© 1968 Galaxy Publishing Corporation 

 

 

 

Nel tardo pomeriggio di una tetra giornata autunnale, un topologo quarantenne, incaricato di insegnare matematica in un’università che disprezzava, annoiato dagli studenti e atterrito all’idea di aver ormai fatto tutto quello che poteva avere un significato nella vita, andò a sbattere, mentre camminava a testa bassa, contro un gruppo di studenti che distribuivano fiori e programmi manoscritti. Prima di riuscire a raccogliere la borsa che gli era caduta e di proseguire elaborando mentalmente una memorabile lettera di dimissioni, il suo occhio si posò su una ragazza molto giovane e molto sporca: il professore cadde irrimediabilmente in trappola. Sperando di rompere l’incantesimo, le domandò arditamente: «Non seguite i miei corsi di topologia elementare?» 

Lei diede una leccatina al cono di gelato al lampone e rispose, senza nemmeno l’ombra di sorriso: «Siete matto. Non sono una studentessa, ma una zingara indovina.» Gli porse il cono perché lo leccasse. «Conoscete un posto dove si possa andare a leggere la fortuna?» 

Il docente sapeva che non era una zingara, perché i moderni Gitani inurbati non erano così sporchi. Era sicuro che lo stava imbrogliando, ma la noia che lo tormentava era così disperata che disse: «Pazza Zingara! Vieni a letto con me, e prediremo la buona ventura e altre menzogne sino alla fine del mondo.» 

Se ne andarono tenendosi per mano, sotto gli occhi di quaranta spettatori. Nell’ambito della loro sotto-civiltà, gli studenti ribelli seguivano tuttavia un codice rigido, e avrebbero preferito morire piuttosto che raccontare l’accaduto ai compagni o al Preside di Facoltà. Perciò l’assoluta infrazione alle buone creanze commessa dal professore nel comportarsi a quel modo con una studentessa, non venne notata né riferita. 

Quando si fu spogliata, la ragazza si rivelò sporca dappertutto, così come facevano prevedere le apparenze, e questa constatazione rese ancor più fermo nel professore il proposito di approfittare di lei. Più tardi, la convinse a fare una doccia, promettendole di lavarsi anche lui. Quando se ne andò, coi capelli color del rum acconciati in due lunghe trecce, la ragazza sembrava una Giovane Esploratrice.

Ma lo strato di sporcizia doveva rappresentare per lei l’equivalente dei cosmetici per le altre ragazze, perché quando tornarono a incontrarsi il giorno dopo, era piacevolmente sporca e leccava un altro cono gelato rosso, cosparso di sciroppo d’uva. 

Si presero per mano e tornarono nell’appartamento del professore. Scambiarono qualche parola solo a sera, dopo che si furono lavati insieme. La ragazza si stava asciugando i capelli, e la sua voce giunse soffocata: «Oggi sono andata dal rettore e gli ho detto tutto di noi due» dichiarò. 

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il professore fu così contento che contemplò con piacere la rovina della sua carriera accademica. «Benone, linguaccia, come sistemiamo la nostra vita?» 

«Non sono una vera zingara» spiegò lei «ma una volta ho vissuto davvero in un carrozzone, la prima volta che sono scappata. So come si fa a scansare le spade stando dentro un canestro di vimini. Tu potresti far la parte del Mago Orientale che infila le spade. Potremmo unirci a qualche carovana e viaggiare con gli altri.» 

«Posso fare di meglio» disse il topologo. «È un pezzo che non mi dedico più a lavori tecnici, ma dispongo ancora di un piccolo laboratorio pieno di cose strane, che fa proprio per noi. Vieni nel piccolo serraglio che si trova nella cantina della facoltà di Psicologia e ti mostrerò qualcosa che non crederai.» 

«Provaci, piccolo» ribatté la sua innamorata. «Rimarrai sorpreso nel vedere che cosa riesco a credere, io!» 

In una delle rumorose gabbie in cui erano custoditi gli animali per gli esperimenti, il professore prese un topolino, poi, da una rastrelliera, scelse alcune strisce di plastica trasparente; accese un fornello e tolse il tappo a una bottiglia di adesivo plastico. In pochi minuti, il topologo combinò un recipiente di cui non si riusciva a definire la forma esatta, ma che, a occhio e croce, pareva un cilindro pieno di protuberanze. In un batter d’occhio v’infilò dentro il topo e chiuse l’apertura quadrata superiore. Il topo era visibile attraverso la plastica, ma non aveva una posizione fissa: fluttuava a mezz’aria colle zampe e la coda tese nella stessa posa con cui era stato infilato. 

Dopo aver scaldato alla fiamma un ferro aguzzo, il professore praticò due fori opposti nello pseudo-cilindro e, appena il ferro si fu raffreddato, tornò a introdurne la punta acuminata nel primo foro, e, dopo aver accuratamente localizzato il topo, lo trafisse da parte a parte facendo poi uscire il ferro dal secondo buco. Agitando il cilindro sopra la mano della ragazza, il professore fece cadere sul suo polso una rossa goccia di sangue del topo.

Mentre le si riempivano gli occhi di lacrime, la ragazza disse: «Bella impresa, grand’uomo, ammazzare un topolino! Non credo che un topo non addomesticato sarebbe disposto a entrare in questo tubo di plastica, no?» 

«Cuore del mio cuore» ribatté lui. «Non è un tubo, e nemmeno un cilindro, né tanto meno una trappola per topi. È un “tesseract”, e lo avresti riconosciuto se avessi letto qualche testo divulgativo di topologia.» 

«Lo so benissimo cos’è quello. Un cubo espanso. Cioè un cubo con un cubo su ogni faccia. Ma non mi pare che questa trappola sia formata da sei cubi costruiti intorno a un cubo.» 

«Infatti, altrimenti il nostro topo sarebbe morto davvero. Questo è un “tesseract”, con un’illusione temporale.» 

«Un’illusione “temporale”!» 

«Sì, mia cara» disse lui, «un’illusione temporale. La topologia ci insegna che le proprietà matematiche possono sussistere indipendentemente dalla forma apparente. Un cerchio è sempre un cerchio anche se pare simile al contorno irregolare di una torta; e altrettanto accade se lo disegniamo su una superficie ondulata. Questa trappola è un cubo circondato da cubi, parzialmente spostato lungo la dimensione del tempo. Ecco perché sembra informe e mutevole. Qua, senti!» 

A toccarlo pareva solido; era proprio come tastare un cubo con un cubo su ogni faccia; ma anche tenendolo in mano e tastandolo, l’oggetto aveva l’apparenza di un cilindro increspato, e il topo sembrava immobile. 

«Questo topo ha proprio l’aria di essere morto!» dichiarò la ragazza. 

Con rapido gesto, il topologo estrasse la minuscola spada, capovolse il cilindro, ne aprì la sommità e il Signor Topo gli cadde in mano mettendosi subito a sedere con le zampine anteriori unite, come se pregasse per avere un pezzetto di formaggio. 

«Come hai fatto?» gridò la ragazza. 

«Semplicissimo» rispose il pensatore. «L’esterno ondeggia dentro e fuori da questo momento del tempo a causa della sottile torsione che ho impartito alla sua forma quando l’ho fabbricato; l’interno, invece, è fisso nel tempo perché la maggior parte della massa interna è in continua tensione intorno al grande ma finito continuum di spazio-tempo che costituisce il nostro universo. Quel monello del “tempo” è passato così lentamente che il processo rigeneratore sopravvenuto nel corpo dell’animale si è effettuato apparentemente in un attimo, e la ferita che pareva mortale non era più dannosa di una puntura di spillo. Credi che saresti disposta a infilarti in un grande “tesseract” simile a questo per lasciarti infilzare da me, sapendo che non ti farei alcun male?» 

Lei batté le mani felice: «Oh, sì, amore! È molto meglio del trucco di infilzare le spade in un cesto dove tutti saprebbero come io riesco a schivare i colpi!» 

 

Così, prima si recarono in una fabbrica di materie plastiche e poi si accodarono a uno spettacolo di cani e cavalli ammaestrati acquartierato nei paraggi, e tutto filò liscio come l’olio. Il pubblico restava affascinato dalla bellezza della ragazza che, pur vivendo in una carovana da circo, era molto più pulita di quando aveva comodamente a disposizione un bagno con acqua e sapone a volontà; e quando il topologo trafiggeva con un ferro acuminato il suo corpo bellissimo, coperto di quel minimo di abiti consentito dalle leggi locali, gli spettatori trattenevano il fiato. Quando lo scatolone veniva fatto ruotare per mostrare come la punta della spada uscisse dal lato opposto, molti uomini robusti svenivano. Più tardi accorrevano in folla, pagando un dollaro a testa, per esaminare la minuscola ferita che si richiudeva e scompariva, di solito al centro della deliziosa gabbia toracica della ragazza. 

La vita della coppia era idilliaca. Però, se quarant’anni non significano vecchiaia, non sono neppure pochi; e il docente di matematica un bel giorno si accorse di essere nuovamente caduto in preda alla noia. Il vocabolario della ragazza non si era arricchito in modo apprezzabile, e il gelato continuava ad essere il suo cibo preferito. La differenza di età era sufficiente perché le loro attitudini sessuali fondamentali fossero inconciliabili. L’amore carnale era stimolante, per lui, in quanto aveva un che di proibito; ma per lei il sesso era una funzione naturale come un’altra, cosicché il livello del loro atto amoroso si limitava a pura cognizione tecnica. 

Seguendo la moda adottata dalla sua generazione, lei era fedele; i suoi modi spigliati facevano capire che, in seguito, avrebbero potuto esserci altri uomini; ma per il momento non voleva dividere i propri favori. Quindi, a lui era negato anche l’elemento eccitante della gelosia. 

Dopo l’ultimo spettacolo serale, lei, solitamente, indossava solo un paio di pantaloni trasparenti e un minuscolo reggiseno di lustrini, e, prima di andare a letto, sollevando le braccia e muovendo i piedi nudi come la danzatrice di un harem, diceva: «Aiutami a prepararmi per il bagno, amore.» E quando lui cominciava a srotolare la cintura di seta che le stringevano alla vita i calzoni trasparenti, lei abbassava le braccia e cominciava a slacciargli il colletto, a spogliarlo. Poi, facevano il bagno insieme. 

Non scambiavano quasi parola.

Col passar del tempo, l’idillio si trasformò in schiavitù, per il professore, il quale provò un certo sollievo allorché venne a sapere che il fachiro indiano, loro vicino di carovana, che dormiva sui chiodi e si versava piombo bollente negli occhi, e così via, era un insegnante fallito della facoltà di matematica della Università di Rawalpindi. Conversando con lui, il professore poté evitare di diventar pazzo. Pure, non ne poteva più. Detestava la ragazza e sognava solo il momento in cui lei lo avrebbe piantato. Ma lei non aveva alcuna intenzione di lasciarlo e continuava a piantarglisi davanti colle braccia alzate, battendo i piedini, graziosamente irritante come un gattino che continui a mordicchiarvi i piedi dopo che lo avete fatto giocare. 

Il professore incominciò a far tutto male, anche nel corso dello spettacolo, che del resto aveva smesso di interessarlo, dopo che aveva terminato di costruire il grande “tesseract”. Una volta sbagliò il colpo, e invece di introdurre la spada nel foro si infilzò un piede. Era una vera ferita, non diluita nel continuum dello spazio-tempo, che lo fece star male per una settimana. Ogni volta che camminava zoppicando, il dolore rafforzava la sua decisione di piantare la compagna, finché la sua fertile mente topologica non escogitò il sistema adatto. 

Disponendo di un’intera panoplia di spade con cui aumentava l’interesse del pubblico nel corso dello spettacolo, una notte si tenne a portata di mano, accanto al letto, una discreta imitazione di una daga romana. Ai tempi in cui era stata creata, aveva rappresentato un grande progresso nella fabbricazione delle armi, e la sua bellissima forma era oltremodo adatta per una rapida e sicura pugnalata mortale. Dopo essere tornati a casa, quella sera, mentre si asciugavano a vicenda dopo l’abituale amplesso e bagno in comune, il professore disse: «Mia cara, ti spiacerebbe se ripeto la ultima parte dello spettacolo? Mi sembra di non riuscire più a infilare bene la spada.» 

Lei fu così contenta di fargli un favore che corse a infilarsi nel “tesseract” di ricambio che tenevano in casa; qualche goccia dell’acqua del bagno le scintillava sulla pelle dei fianchi. Poi guardò il professore con un sorriso che per poco non lo indusse a rinviare il progetto; ma il ricordo dei mesi di noia indurì il cuore dell’uomo. Con gesto deciso chiuse il coperchio e, senza esitazione, le infilò la daga nel cuore, o almeno nel punto in cui gli pareva che ci fosse il cuore, dato il sottile tremolio temporale della plastica. Ciò fatto, spezzò la daga cosicché anch’essa venne a ritrovarsi nell’ambito dell’effetto prolungato e rallentato del campo temporale. Poi assestò alla costruzione un paio di colpi ben dati, che la fecero crollare su se stessa. Invece di un cilindro bitorzoluto, come sembrava quand’era un cubo espanso, adesso aveva l’apparenza di un semplice cubo di circa dodici centimetri di lato con le facce decorate da disegni astratti. 

Il cubo era molto più pesante di quanto non si potesse credere, ma non corrispondeva al peso corporeo della ragazza, in quanto una parte sostanziale della massa di lei era distribuita lungo l’intero continuum spazio temporale-cilindro-cono-sferico. Guardando la superficie lucida di una delle facce, il professore distinse un occhio e un sopracciglio allungati. Ma in quell’occhio non v’era espressione di panico né di consapevolezza. Sapeva che, per l’occupante di quel cubo, i movimenti che avvenivano all’esterno parevano così veloci da dare alle immagini un aspetto confuso. Fischiettando, il professore infilò nella borsa il pesante cubo, e uscì, fermandosi a salutare il suo vicino indù: «Addio, ce ne andiamo da questo circo di pulci.» 

Quando giunse alla stazione dell’autobus, Grax, lo Spadaccino del Tempo (questo era il suo nome d’arte), era scomparso per tornare ad essere il topologo di talento, che si era preso una lunga vacanza. 

Le delusioni che l’avevano tanto tormentato prima della sua avventura si erano placate ed erano scomparse. Il professore ottenne una cattedra in una nuova università, affermandosi nel suo campo. Sì e no una volta ogni cinque anni gli capitava di trovare uno studente realmente dotato, ma questa scarsità non lo affliggeva più. Salendo i gradini della scala accademica, riuscì a circondarsi di un gruppo di persone brillanti e si rese conto che la vita era bella come non era mai stata. 

Il pesante cubo fungeva da fermacarte sulla sua scrivania, e nessuno riconobbe mai, nei disegni astratti delle sue facce argentee, i contorni topologizzati di una donna morta. Di tanto in tanto, sull’una o l’altra faccia, gli capitava di riconoscere qualche particolare anatomico che ai suoi tempi aveva intimamente conosciuto; e allora provava un vago rimpianto per quel che aveva fatto e un senso d’inquietudine, quasi che, come il fuoco sotto la cenere, covasse ancora in lui il desiderio di avventura. Ma allora riempiva con calma la pipa, sfogliava le pagine del Giornale di Topologia, e tornava ad immergersi nella vita calma e piacevole della università. 

Aveva sessant’anni ed era quasi calvo, quando al suo corso si iscrisse lo studente che lui aveva sempre sognato, quello che capiva tutto ciò che lui diceva della sua arcana specialità e rispondeva con intuizioni fresche e brillanti in quel ramo della matematica che entrambi amavano. 

Obiettivamente, il professore si rendeva conto che il giovane era ordinato e ben curato più che bello; pure, soggettivamente considerava il ragazzo “di bell’aspetto”. Questa sensazione lo turbava, finché un giorno, dovendo cambiar di posto a un mucchio di vecchi annuari universitari ed essendosi messo a sfogliarli, come succede in casi del genere, non gli capitò sotto gli occhi la sua fotografia di quand’era studente del secondo anno. Il suo miglior discepolo gli somigliava tanto da parere, se non proprio il suo sosia, un suo fratello minore. 

Poco tempo dopo, il professore narrò al ragazzo la storia della sua avventura. Non avrebbe saputo spiegare perché lo fece, e sapeva bene che non avrebbe dovuto parlare; ma lo studente cominciava a rivelare il suo stesso fatale talento nel mettere in pratica le astrazioni della topologia, ragion per cui, la storia gli venne fuori spontaneamente. Si era molto affezionato al suo discepolo, e il ragazzo, dotato dell’amoralità più completa di moda nella sua generazione, non ci trovò niente da ridire. Però, era perplesso. Preso il cubo, lo agitò, e disse: «Forse è ancora viva. Dopo tutto, all’interno è passato un solo istante. Apriamolo.» 

«Non dire stupidaggini» ribatté il professore, riprendendo il cubo e posandolo con gesto deciso sulla scrivania. «In primo luogo, non è viva, e finché sta qui dentro non ci sono prove del delitto. In secondo luogo, se fosse viva magari correrebbe alla polizia, o, peggio ancora, pretenderebbe di riallacciare con me quella orribile, noiosa relazione. E, in terzo luogo, non possiamo aprire il cubo. È per questo, che ho rotto la spada. Il cubo, adesso, è un sistema chiuso, e nessuna sua parte interna è accessibile a questo aspetto del tempo e dello spazio. Con tutta probabilità, la ragazza è distribuita in parti uguali attraverso tutto l’universo. No, assolutamente no! Ti proibisco anche di pensarci. Quando mi porterai la dissertazione sui reinvertebrati topologici?» 

La conversazione languì, e poco dopo lo studente se ne andò.

Un paio di giorni dopo, il professore lo trovò occupato a pasticciare intorno alle superfici del cubo con un congegno fatto di specchi; ne seguì una lite furibonda dopo la quale, tuttavia, ripresero i consueti, ottimi rapporti, insegnante-discepolo.

 

Un giorno, lo studente arrivò nell’appartamento del professore con un pezzetto di metallo lucente, di forma indefinibile. A1 professore pareva che l’oggetto tremolasse e scomparisse continuamente sotto i suoi occhi. «Cosa diavolo hai portato?» domandò irritato al ragazzo. 

«È un nastro di Möbius cromato, autoalimentato, retraibile, invertito, indissolubilmente saldato e totalmente rigurgitato» spiegò il giovanotto. 

Il professore scoppiò a ridere. Tutti gli scolari sanno che un nastro di Möbius è una striscia di cui un’estremità ha subìto un mezzo giro prima di venir unita all’estremità opposta onde formare un cerchio. Ne segue (provate a farlo) che a causa di quella torsione la fascia è una figura geometrica con un solo lato e un solo orlo, anche se, guardandola, si vedono due lati e due orli. Tuttavia, un tratto di matita tracciato lungo il centro di “un lato” si ritroverà a toccare il proprio punto iniziale e si vedrà allora che la linea è stata disegnata su “tutti e due i lati”... perché di lati ce n’è uno solo. Capito? 

E tutti gli scolari sanno che un nastro di Möbius è una curiosità, e nient’altro. Perciò, non serve a niente cromarlo o elettrificarlo o altro. Il professore disse tutto questo allo studente, in tono alquanto seccato. Concluse con queste parole: «E immagino che, secondo te, dovrebbe avere delle applicazioni pratiche.» 

«Sì» confermò il giovane. «Proprio così.» E prima che il professore potesse impedirglielo, si era avvicinato alla scrivania e aveva infilato nel cubo rilucente metà del nastro, estraendone i resti di una corta daga romana. 

Da un momento all’altro, il massiccio cubo fermacarte riprese l’antica forma e dimensione, e una ragazza completamente nuda balzò giù dalla scrivania. 

Stupefatto, il professore vide una piccola cicatrice rosea triangolare, ancora freschissima, sul suo torace, e notò sui fianchi alcune gocce di acqua che scintillavano.

«Tesoro!» esclamò la ragazza! «Perché hai adoperato quel coltello da macellaio? Ho faticato a schivarlo.» Detto questo, avvolse il giovane in un soffocante abbraccio. Un attimo dopo vide il professore, e indietreggiò inorridita. 

«Chi è questo vecchiaccio calvo?» domandò. «Non posso soffrire i vecchi sudicioni.» In un batter d’occhio, aiutata dallo studente afferrò il professore e lo cacciò dentro al cubo espanso, ripiegandolo poi su se stesso. 

 

Anche nell’attimo senza fine che esiste all’interno del congegno da lui escogitato, il tempo comincia a sembrare troppo lungo al topologo. Sa che il giovane e la ragazza sono ormai da molto ridotti in polvere nel roteante e caleidoscopico mondo esterno. Lui invece comincia a diventare trasparente, segno che la sua sostanza sta lentamente rivestendo tutto il continuum cilindro-sferico-spazio-temporale. Sa anche che quando lui sarà completamente distribuito, l’universo avrà fine, e, nella mente, ha composto una stupefacente teoria che spiega il fenomeno. Il suo unico rimpianto è che non potrà mai farla pubblicare dal Giornale di Topologia.