Amor mundi
Assieme ad alcuni privilegiati, il filosofo Jacques Taminiaux assisteva, nel 1973, a un seminario di Heidegger. La riflessione del maestro, ci dice Taminiaux, era molto intensa: «Evocava dei temi come la Tecnica, l’Abitare, la Gelassenheit1. I partecipanti – cinque francofoni – erano tutti trasportati dal “vento del pensiero”. Heidegger dialogava con se stesso, davanti a noi, il suo sguardo era altrove. Ma improvvisamente uscì dal suo raccoglimento e tornò fra noi. Ed ecco ciò che disse con voce ferma: “Il turismo dovrebbe essere vietato”»2. Lì per lì, Taminiaux non reagì. Solo una volta rientrato in hotel sentì nascere un sentimento di rivolta e di rabbia. Con questa riflessione, il pensiero meditante non era forse scivolato nel «decisionismo dispotico»? L’estrema volontà di proibire una pratica che si democratizza e che permette di cambiare aria non derivava forse dalla persistenza o dalla ricomparsa di un «nazionalismo duro e puro»3? Turbato, il fervente heideggeriano Taminiaux scelse, quel giorno, di affrancarsi e di prendere le distanze da Heidegger. D’accordo con Kant nel dire che il diritto di visitare i paesi stranieri e di soggiornarvi temporaneamente appartiene a ogni cittadino del mondo, intraprese una critica profonda del filosofo che lo aveva ammaliato.
Ciò che oggi definisce il turismo contemporaneo, è invece proprio l’arraisonnement4 e lo sfruttamento del patrimonio naturale e culturale. Per la tecnica, tutto è deposito. Il Reno, fornitore di pressione idraulica, rimane il fiume di questo paesaggio, «ma come? Solo come oggetto “impiegabile” per le escursioni organizzate da una società di viaggi, che vi ha messo su (bestellt) una industria delle vacanze»5. Le spiagge, le montagne, tanto quanto le città, i borghi, i musei e i monumenti diventano risorse e prodotti. Questo trattamento li prosciuga e talvolta li sfigura. Il paesino di Saint-Émilion, per sua sfortuna, è stato iscritto al Patrimonio mondiale dell’Unesco. Ecco il risultato descritto dall’antropologo Jean-Paul Loubes: «In ogni strada, il pianterreno degli edifici è diventato una vetrina per i produttori di vino e un punto vendita di qualsiasi tipo di prodotto generato dal turismo, i saponi di lusso, i fabbricanti di spade di legno e di costumi medievali […], ogni metro quadro dei marciapiedi, davanti alle porte d’ingresso, e dei piccoli cortili situati tra due case, è sfruttato al massimo con uno o più tavoli dai ristoranti. Galleria commerciale gigante che si estende lungo le stradine lastricate stracolme di turisti di ogni paese, venuti a toccare con mano il famoso cru bordolese nel suo imballaggio di patrimonio mondiale»6. Altre viuzze, come quelle di Positano, uno dei gioielli della Costiera amalfitana un tempo meravigliosa, sono invase da vacanzieri che si assomigliano tutti tra loro: il vacanziere non smette mai di pestare i piedi al vacanziere, persone interscambiabili (io e voi) si incrociano, si seguono, si agglutinano, in una deambulazione la cui assurdità è aggravata dalle cianfrusaglie e dai gingilli tutti ugualmente kitsch che i negozi di souvenir propongono allo scopo di eternare il loro passaggio. Le isole greche, oggi servite dagli aeroporti, spezzano il cuore agli amanti di Omero e degli dèi dell’Ellade. Con i palazzoni senz’anima che si innalzano lungo la riva del suo mare, la Costa Brava, oramai, è soltanto un’assolata periferia. L’efficacia dei promotori turistici ha avuto la meglio sullo splendore e la singolarità del luogo. Non meno razionali, non meno dinamiche, le stazioni sportive invernali hanno trasformato le sublimi Alpi in macchine per far scendere e risalire senza sosta schiere di sciatori e snowboarders. Il Nord resta il Nord, e il Sud resta il Sud. Ma gli stili di abbigliamento che hanno successo a Marrakech trionfano anche a San Pietroburgo. Così si prende l’auto, il treno, l’aereo per evadere, ma ci si riesce sempre meno. Ovunque si vada, o quasi, scatta la trappola. La folla implacabile arruola anche i refrattari: nolenti o volenti, i turisti non sono dei visitatori, ma degli occupanti. Attraversano le capitali, e in particolare Parigi, a bordo di autobus multicolore che degradano il paesaggio urbano per permettere loro di goderselo.
E gli esempi si potrebbero moltiplicare: dall’Islanda alla Thailandia, passando per la Croazia, lo Yucatán o la Tanzania che, per ragioni di attrattività turistica, espelle i Masai e le loro mandrie dal suo grande parco nazionale. I siti da evitare, se non si vuole partecipare all’invasione e al saccheggio, sono sempre più numerosi. Sogniamo di godere della bellezza (e questo sogno, ora, è alla portata di quasi tutte le tasche), ma talvolta possiamo mantenere viva la bellezza soltanto a condizione di non andare a vedere, e spesso, anzi, molto spesso, è già troppo tardi: il danno è fatto, e la folla ha devastato ciò che era venuta ad ammirare. La corsa a ciò che è rimasto incontaminato determina naturalmente la sua fine. E poi ci sono le metropoli ricche di storia, come Budapest, dove non si va più tanto per contemplare i suoi tesori architettonici o per conoscerne meglio gli abitanti, ma per sballarsi, per fare baldoria. In questo nuovo tipo di spedizioni, l’intensificazione della vita prevale sulla scoperta delle cose. Il segno di questa intensità è il chiasso. Un chiasso a cui, dal momento che permette di guadagnare molti soldi, non si pone alcun limite. Logica del profitto oblige, le richieste di rispetto della quiete pubblica vengono archiviate. Praga conosce la stessa sorte: ogni weekend, nella più bella città dell’Europa centrale, i casinisti internazionali la fanno da padrone. Talvolta, di fronte a questo vandalismo sonoro e agli altri danni del turismo contemporaneo, mi verrebbe voglia di proibirlo: che ognuno resti a casa propria, poiché i viaggi non formano più i giovani, ma contribuiscono potentemente alla standardizzazione e all’imbruttimento del mondo! Che nessuno si muova se le destinazioni magnifiche devono soffocare, una dopo l’altra, sotto lo sguardo estasiato e sognatore degli innumerevoli visitatori! Ma non credo in questa soluzione, non più di quanto ci credesse Heidegger. L’idea enunciata bruscamente nel bel mezzo di un monologo filosofico impervio e altero non deve essere presa alla lettera. Non è un eccesso di dispotismo, è una boutade disperata dinanzi all’esigenza di produrre e di consumare che niente riesce a fermare, che nulla seda, e che si è impossessata degli svaghi. Che siano di sinistra o di destra, o che si vantino di andare oltre questa vecchia dicotomia, i politici vogliono far funzionare la macchina al meglio. Accecati da questa ambizione, che non è certo deprecabile poiché ha come obiettivo il benessere di coloro che amministrano, non si interrogano più su ciò che bisogna preservare, impedire, riparare o cambiare affinché il mondo sia abitabile. Insomma, fanno politica dimenticando la politica. Le loro dottrine divergono, ma a loro importa che funzioni, non l’organizzazione della nostra permanenza sulla terra.
«Solo un dio può salvarci», ha detto Heidegger. Per quanto mi riguarda, spero in un risveglio e in un sussulto degli esseri umani. Esprimo il desiderio meno profetico, ma forse non meno irrealizzabile, che la politica, ossia, secondo la definizione di Hannah Arendt, l’amor mundi, torni a svolgere il ruolo che le appartiene. In attesa di questo improbabile evento, niente occupa il mio cuore e il mio spirito tanto quanto la crescente inabitabilità del mondo. Tra la nuova frattura sociale e il dominio devastatore dello spirito della tecnica in tutti gli ambiti della realtà, non smetto di rilevarne i sintomi. Se trovo ancora la forza di scrivere, nonostante la difficoltà che non ho mai superato, è su impulso di questo tormento.
1 «Abbandono sereno», «tranquillità distaccata» [N.d.T.].
2 J. Taminiaux, Arendt et Heidegger. La fille de Thrace et le penseur professionnel, Paris, Payot, 1992, p. 37.
3 Ibid.
4 Cfr. p. 77, nota 4 [N.d.T.].
5 M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1991, p. 12.
6 J.-P. Loubes, Tourisme. Arme de destruction massive, Paris, Éditions du Sextan, 2015, p. 42.