Alla ricerca del tempo presente

Devo anche ai poeti e ai pensatori dell’Europa centrale l’aver preso coscienza della mia appartenenza e del mio attaccamento alla civiltà europea. Prima di leggerli e, in alcuni casi, di frequentarli, pensavo, come Julien Benda, che non esistesse un essere europeo1. Ai miei occhi, la peculiarità dell’Europa era di non avere peculiarità e di definirsi attraverso principi astratti e universali. L’Europa aveva inventato i diritti dell’uomo. Oggi era necessario che si riconoscesse solo in questa invenzione, perché sapevamo a cosa aveva portato l’assolutizzazione delle differenze collettive. Il dovere della memoria ordinava all’Europa di preparare la venuta di un’umanità che non avrebbe provocato alcuna separazione interna e di dare l’esempio separandosi da se stessa e dalla sua storia tenebrosa. Aveva il dovere di abbandonare l’identità per i valori. Poiché la civiltà europea aveva partorito due guerre mostruose, era giunto il momento di sostituirla, per garantire la pace, con le norme e le procedure della costruzione europea.

Il pensiero dissidente ha minato le mie certezze. Al termine degli anni di militanza, Kundera, Miłosz, Brandys e Kołakowski hanno fatto molto di più che riconciliarmi con il sistema politico nel quale, nato nella parte giusta della divisione di Yalta, avevo avuto la fortuna di crescere. Perché non parlavano solo di politica, non si limitavano alla demistificazione (peraltro indispensabile) dell’utopia rivoluzionaria. Non si accontentavano di opporre allo schema progressista di uno scontro tra comunismo e capitalismo la realtà del conflitto tra la democrazia e il totalitarismo, bensì indicavano, a chi si prendeva la briga di leggerli, quale fosse la sfida di civiltà della dominazione russo-sovietica sull’Europa centrale. Un Occidente sotto sequestro, scriveva Kundera nel 1983. L’articolo che aveva questo titolo sconvolgente si apriva con un aneddoto sul cui significato non ho ancora smesso di meditare: «Nel settembre del 1956, il direttore dell’agenzia di stampa ungherese, pochi minuti prima che il suo ufficio fosse distrutto dall’artiglieria, inviò al mondo intero via telex un messaggio disperato per annunciare l’offensiva russa, sferrata al mattino contro Budapest. Il messaggio terminava con queste parole: “Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa”. Cosa intendeva dire con questa frase? Sicuramente, voleva dire che i carri armati russi mettevano in pericolo l’Ungheria, e con essa l’Europa. Ma in che senso l’Europa era in pericolo? I carri armati russi erano pronti a varcare le frontiere ungheresi verso ovest? No. Il direttore dell’agenzia di stampa ungherese voleva dire che attaccando l’Ungheria era l’Europa stessa a essere attaccata. Era pronto a morire affinché l’Ungheria restasse Ungheria e restasse Europa»2. Che shock! Io che, rimasto scottato dai cataclismi del XX secolo, guardavo con sospetto tutte le patrie carnali, a eccezione di Israele, cadevo dalle nuvole. Io che pensavo che, per mettere a tacere i suoi vecchi demoni e rendersi inoffensivo, il Vecchio Continente dovesse entrare nell’era post-identitaria, ero improvvisamente chiamato a confrontarmi con una difesa dell’identità europea e dell’identità nazionale che non poteva, in alcun modo, essere assimilata al razzismo. L’Europa o la nazione, dicevo prima di leggere Kundera. Scoprivo, leggendolo, che l’Europa e la nazione potevano essere una sola e unica causa.

Dopo essermi ripreso dalla mia incoerenza e dal mio smarrimento, ho fondato, nel 1986, il «Messager européen». Questa rivista ha vissuto dieci anni. L’ho animata con Élisabeth de Fontenay, Béatrice Berlowitz e Danièle Sallenave, prima che quest’ultima si imbarcasse, senza preavviso, per nuove (e brevi) avventure nella rivista «Les Temps Modernes». Volevo promuovere il dialogo tra le due Europe separate dal 1945 e permettere alla nostra, divenuta amnesica per quanto riguarda la vigilanza memoriale, di riconciliarsi con se stessa. Mi sono reso conto della necessità e allo stesso tempo della difficoltà di questo compito nel corso dell’ultimo conflitto europeo del XX secolo: la guerra dei Balcani. Tre mesi dopo l’assalto e la distruzione della città di Vukovar da parte dell’esercito serbo-jugoslavo, si è tenuto, al Palais de Chaillot, un grande convegno sul tema L’Europa o le tribù. Eravamo chiamati a scegliere tra l’universale e il particolare, lo spirito e l’etnia, l’adesione ai grandi principi e la continuità con una geografia e una storia. «Morire per la patria e per l’Europa» è una frase che non si sarebbe potuta sentire a Parigi. Essendomi azzardato a infrangere questo divieto e a denunciare il parallelismo indiscriminato, che paralizzava le grandi coscienze, tra la Croazia attuale e lo Stato ustascia insediato da Hitler, mi è stato affibbiato il soprannome «Finkielcroate». Ci è voluta l’aggressione della Bosnia-Erzegovina, che non era una nazione ma un mosaico, una miscela, un patchwork identitario, affinché l’intellighenzia occidentale si decidesse a scendere dall’Olimpo e a schierarsi.

Le cose hanno iniziato a cambiare con l’11 settembre 2001. Come ha scritto Pierre Manent, ci si è resi conto che l’umanità era caratterizzata da separazioni profonde e persino insanabili. Avevamo celebrato la caduta del muro di Berlino ed ecco che, con la «doppia razzia benedetta» contro il World Trade Center e il Pentagono, diventava manifesta l’«esistenza di un altro muro, l’impenetrabilità reciproca tra le comunità umane, nonostante la prodigiosa e sempre maggiore facilità delle comunicazioni»3. Dopo questa data fatidica, la jihad ha fatto il suo ingresso nel Vecchio Continente e a quelli che avevano occhi per vedere è rapidamente apparso chiaro come la forma parossistica di un fenomeno senza precedenti: lo scontro di civiltà all’interno delle comunità nazionali. Con l’immigrazione detta post-coloniale, la condivisione dello stesso patrimonio da parte degli autoctoni e dei nuovi arrivati ha smesso di essere scontata. Nei quartieri definiti in maniera bizzarra come «sensibili», e che sono in costante aumento, la questione sociale si pone con urgenza, ma in termini nuovi. Il fattore sociale, infatti, non si riduce più al fattore economico. Il nostro spontaneo materialismo è colto in fallo e si impone questa constatazione: gli individui non sono mossi soltanto dai loro interessi, ma anche dalle loro passioni, dalle loro credenze, dalle loro tradizioni, e oltre alla casta dei dominanti e alla massa dei dominati sono in gioco altre forze collettive. Affiorano divisioni, esplodono violenze, si manifestano una rabbia e un fanatismo che non hanno nulla a che vedere, neanche lontanamente, con la lotta di classe. I professori fanno lezione impauriti, i poliziotti, i gendarmi, ma anche i pompieri, i dottori, gli infermieri sono regolarmente presi di mira, gli atti e i gesti di rottura con il resto della nazione si moltiplicano, la sconfessione della cultura di accoglienza si riscontra finanche nell’abbigliamento e nel baccano di certe celebrazioni nuziali. Impossibile, a prescindere dagli sforzi ermeneutici compiuti, far rientrare nella categoria di una Francia indomita questi atti di insubordinazione. Per dirla con le parole di Élisabeth Badinter: «Una seconda società tenta di imporsi in maniera insidiosa nella nostra Repubblica, voltandole le spalle, e puntando esplicitamente al separatismo, se non addirittura alla secessione»4.

Sotto l’effetto di questo separatismo i cittadini, che avevano dimenticato il luogo in cui risiedevano e la loro affiliazione, prendono brutalmente coscienza di essere, secondo le parole di Péguy, «gli eredi e gli amministratori contabili e responsabili di un patrimonio incessantemente minacciato»5. Vedendo estendersi i territori in cui gli stranieri sono loro, hanno nostalgia di casa nel loro stesso paese. Questo esilio senza spostamento riesuma una «voce della memoria sommersa»6. Sono sempre stati laici, ma, fino a poco tempo fa, non davano troppa importanza alla questione, anzi, non vi prestavano nessuna attenzione, poiché, dalla separazione tra Stato e Chiesa, non avevano più un vero avversario. Quando è apparsa la questione del velo si sono ricordati chi erano. Incompresi e persino vilipesi, fuori dalle loro frontiere, da parte della maggioranza delle autorità morali per aver vietato l’esibizione dei simboli religiosi all’interno degli edifici scolastici, giungono alla conclusione che non sono le loro critiche a essere deliranti o anacronistiche, ma che la secolarizzazione abbia assunto, altrove in Occidente, una forma completamente diversa rispetto alla laicità alla francese. Non si percorre ovunque lo stesso cammino per uscire dalla Casa del Padre. Nella maggior parte delle democrazie, la scuola accetta in nome della libertà di coscienza ciò che vieta in Francia in nome della parità di genere e del libero arbitrio. Le posizioni sono inconciliabili e, dato che questi cittadini, risvegliati dall’evidenza, non intendono allinearsi al multiculturalismo maggioritario, ma neppure cadere nel ridicolo proclamandosi unici detentori dell’universale, identificano e difendono ormai la loro peculiarità in quanto tale: «Noi francesi, dobbiamo ridimensionare le nostre pretese: non abbiamo il monopolio dell’ideale, non possediamo la formula esclusiva dei diritti dell’uomo, non siamo il faro delle nazioni, siamo ciò che siamo e vogliamo continuare a esserlo. Dinanzi alla sfida islamista, le leggi laiche proteggono le nostre tradizioni e la nostra idea di libertà», si sorprendono ad affermare.

Erano stati istruiti a dare importanza solo ai valori e il rischio di aspettare senza agire fa capire loro quanto siano legati anche alle cose, agli oggetti familiari, a una forma di vita modellatasi nel tempo. Programmati per scuotere il governo dei morti, hanno l’improvvisa rivelazione che i morti non hanno ancora smesso di soffrire. Constatano che i morti possono ancora morire e che questa scomparsa li lascerebbe disorientati. Quando era saldamente consolidata, la componente francese della civiltà europea non significava nulla per loro. Ignoravano con superbia di esserne tributari, non faceva parte del loro pensiero politico, se non a titolo di realtà caduca o di finzione sospetta. Ora che la sua esistenza è messa in discussione, si riaffaccia alle loro menti. Scoprendola precaria, diventa per loro preziosa. La paura dell’esistenza determina la consapevolezza e conduce all’impegno. Le minacce pesano sull’identità nazionale e i mali che la colpiscono fanno dei cittadini, loro malgrado, i suoi custodi. A Notre-Dame, per esempio, non pensavano tutti i giorni. Ma vedendola abbandonata alle fiamme, si rendono conto di quanto le siano legati: questa cattedrale non è solamente un gioiello turistico, è, a prescindere dal fatto che siano cattolici o no, una parte del loro essere. Si consolano con l’idea che l’edificio potrà rinascere grazie alla maestria degli artigiani e, allo stesso tempo, pregano affinché l’impazienza e l’arroganza del contemporaneo non rovinino tutto, piangono per la foresta millenaria7 di Notre-Dame e nella loro rappresentazione della Storia irrompe all’improvviso il sentimento della fragilità delle cose.

Non bisogna dunque fraintendere: l’identità, secondo la definizione elaborata da Maurice Barrès – «la successione dei discendenti forma un solo essere» –, continua a suscitare in loro un sentimento di orrore e di paura. Hanno ritrovato il senso della continuità storica, ma non direbbero mai che l’«individuo naufraghi per poi ritrovarsi nella famiglia, nella razza, nella nazione»8. L’identità di cui si sentono depositari non è l’accettazione beata di un determinismo, ma è, sulla scia di Péguy, e, più vicino a noi, di Saint-Exupéry, un certo tipo di compromesso che richiede tanta più cura proprio perché è appeso a un filo: «Di ciò che ho amato, cosa resterà?», chiede l’autore di Terra degli uomini 9. E precisa: «Parlo degli Esseri tanto quanto di tradizioni, di intonazioni insostituibili, di una certa luce spirituale»10.

Nel momento in cui si rivela deperibile, smettono di trattare quest’identità con disprezzo o di prenderla per oro colato. Ne riconoscono l’importanza vitale, e i bambini viziati che erano diventano grati ad essa. Non rinnegano la filosofia dell’emancipazione: hanno semplicemente imparato a dire «grazie» e, costi quel che costi, vogliono continuare a poterlo fare. Se sono diventati conservatori, senza che nulla li predisponesse a esserlo, non è perché invecchiando considerino nefasta ogni novità, e nemmeno perché abbiano aderito miseramente al partito dell’Ordine e della difesa dei privilegi; è perché rifiutano di veder scomparire l’ambiente che li ha nutriti e di essere sradicati dalla propria terra. Si sbaglia chi afferma, con piacere o con disgusto, che sono passati alla destra. La verità è che si preoccupano per la sopravvivenza della comunità storica in cui assume un senso e può svilupparsi il grande scontro tra destra e sinistra.

Ho citato ancora una volta Péguy perché, liberandoci dalle alternative semplicistiche, questo cattolico, patriota, dreyfusardo fino al midollo, ci ricorda chi siamo. L’autore della Nostra giovinezza è il nostro massimo mécontemporain11 e lo ha pagato a caro prezzo. All’inizio degli anni ottanta del XX secolo, Bernard-Henri Lévy, in un saggio che fece scalpore, lo consacrava addirittura come il fondatore, con Barrès, del nazional-socialismo alla francese. L’enfasi e alcune approssimazioni del nouveau philosophe12 suscitavano certo delle critiche, ma trovavano d’accordo, su questo punto in particolare, studiosi affermati come Henri Guillemin, il celebre biografo dai modi arcigni, o come il grande storico Zeev Sternhell, e il partito intellettuale, che all’epoca iniziava la sua grande virata antirazzista, sottoscriveva in massa la loro condanna a morte. Da Péguy a Pétain, la successione era giusta.

Con un libro, ho voluto interporre appello ed estinguere il debito degli ebrei nei confronti di colui che è stato in grado di vedere in Bernard Lazare un profeta di Israele, in un’epoca in cui, come ricorda Gershom Scholem, «gli stessi ebrei francesi, per imbarazzo o cattiveria, per rancore o stupidità, non hanno saputo fare nulla di meglio che condannare al silenzio, un silenzio di tomba, uno dei loro uomini più illustri»13.

Ma non è tutto. Mi sono messo a scrivere per contestare una sentenza iniqua e ho incontrato, strada facendo, un pensatore talmente fecondo e vivace che, senza dimenticare nemmeno per un momento la distanza che mi separa dal suo genio, ho cominciato ad amarlo come un fratello. Ogni volta che rileggo il racconto del percorso scolastico di questo figlio di un’impagliatrice di sedie, scendono le lacrime: «Il figlio della borghesia che comincia le scuole medie con la stessa naturalezza con cui ha delle domestiche non può nemmeno immaginare quale punto di svolta fosse per me entrarvi o non entrarvi; e quanto fosse incredibile entrarvi». Dopo aver ottenuto la sua licenza elementare, Péguy era stato iscritto, senza problemi, alla scuola media di Orléans. Ma il direttore Naudy aveva un’altra idea. «Deve studiare latino, aveva detto […]. Entrare alla scuola media, a Pasqua, fu per me lo stupore, la novità davanti a rosa, rosae, l’apertura di un intero mondo, completamente diverso, di un mondo nuovo, ecco cosa bisognerebbe dire, ma un mondo che mi avrebbe fatto vivere momenti teneri. L’insegnante che una volta, la prima, ha aperto la grammatica latina sulla declinazione di rosa, rosae, non ha mai saputo su quali aiuole di fiori dischiudeva l’anima del bambino»14.

Quale linguista, quale detentore dell’autorità pubblica, quale ex allievo si spingerebbe, oggi, a dire che il latino è «l’apertura di un mondo» e, incurante dell’evidenza cronologica, a qualificare questo mondo come «nuovo»? L’intervento del direttore Naudy è diventato ovviamente superfluo: tutti i bambini, oggi, entrano alla scuola media con la stessa naturalezza con cui vanno su Internet. Ma questa democratizzazione dell’istruzione generale va di pari passo con la progressiva soppressione di ciò che la rendeva eccellente. Attraverso la sua magnifica dichiarazione d’amore e la definizione dell’istitutore come il rappresentante della cultura, ossia dei poeti e degli artisti, dei filosofi e dei dotti, Péguy sottoscrive la sua appartenenza a ciò che Kundera chiama, con nostalgia, il «tempo passato dei Tempi moderni»15. Quando il Dio medievale si trasformò in Deus absconditus, «fu la cultura a divenire l’espressione dei valori supremi attraverso cui l’umanità europea si capiva, si definiva, si identificava»16.

Péguy ebbe il presentimento di ciò che sarebbe accaduto: la cultura, a sua volta, avrebbe ceduto il posto. Ma ignorava che sarebbe stata detronizzata da qualcosa che prendeva il nome da lei. A un tratto, la cultura svaniva nel «culturale», e ciò che caratterizza questa nuova entità è la sua capacità di inglobare tutto. Non lasciando nulla alla natura, essa copre il campo intero dell’esperienza, inghiotte avidamente la totalità del fenomeno umano. Non ha nient’altro, nessun altrove assegnabile: nessuna pratica le è estranea o la precede, nessun modo di essere o di sentire si situa al di sotto o al di sopra della sua giurisdizione. Non si accede alla cultura attraverso i libri o i maestri, ci si immerge nella cultura, si è già dentro senza neppure doverci entrare, qualunque cosa si dica o si faccia. Non vi è nulla che non meriti questa denominazione, che un tempo era ancora molto controllata. L’incultura è sparita con un sapiente tocco di bacchetta magica: «Tutto è culturale», proclamano le scienze sociali, e se ne deduce che tutto il rap sia musica, ogni rigurgito verbale, poesia, ogni oscenità, un fiore del Male. Nessuno, un tempo, poteva uscire dalla palude in cui cadeva tirandosi da solo per i capelli come il barone di Münchhausen. Oggi, la palude è la cultura. Per avvicinarsi ad essa non è più necessario elevarsi. La parola che indicava allo stesso tempo il cammino e la destinazione santifica ciò che esiste già, qualsiasi forma prenda.

In questa nuova configurazione del terreno dello spirito, gli ussari neri della Repubblica non sono più esempi, ma contro-modelli. I tempi del fervore péguysta sono finiti: la diffidenza prevale sulla riconoscenza, il sospetto succede all’elogio e individua, con Pierre Bourdieu, una violenza simbolica nell’esercizio stesso della loro vocazione. La trasmissione della cultura si ritraduce in «imposizione, da parte di un potere arbitrario, di un arbitrio culturale»17. Quelli che si erano attribuiti la missione di offrire al maggior numero di persone possibili «l’eredità della nobiltà del mondo» sono accusati di aver contribuito alla riproduzione dell’ordine sociale. La nobiltà, per i nuovi difensori del popolo, è, in ogni caso, l’Ancien Régime. La cultura umanistica non sfugge alla regola e perde quell’aura di cui l’aveva circondata la tradizione. La sua grandezza è vista come arroganza, il suo prestigio come un sotterfugio dei dominanti, il suo universalismo dichiarato come un particolarismo che non sa di esserlo. Ora deve farsi piccola e accettare, per sopravvivere, di essere ricollocata nella categoria dei gusti e dei colori. Les aristocrates à la lanterne! Poiché la sociologia critica ha ridotto la scelta delle opere ricercate e dei piaceri difficili alla distinzione, ossia alla volontà ossessiva e ostentata di distinguersi dalla volgarità, è divenuto inopportuno stilare classifiche: a ognuno piace ciò che piace, ognuno si diverte come vuole; ci sono ancora dei giudizi, ma si vigila, in ossequio al motto repubblicano, affinché non ci siano più criteri. Nella palude dove tutti sguazzano, nessuno è superiore a nessuno. Nessuna gerarchia è valida, nessuna trascendenza è ammessa, l’uguaglianza generalizzata si vendica della grandezza: «Noi vogliamo compiere vendetta e oltraggio contro tutti coloro che non sono come noi»18. Questo desiderio attribuito da Nietzsche alle tarantole, figure dell’«Ultimo Uomo», è stato alfine esaudito. Il risentimento ha preso il sopravvento sulle altre passioni democratiche ammantandosi della virtù, ossia della lotta contro le discriminazioni e i privilegi.

Gli ussari neri non sono spariti. Conosco dei giovani professori qualificati, uomini e soprattutto donne, che, per il loro atteggiamento, il loro rigore e la loro dedizione, sono all’altezza dei maestri che Péguy santificava. Ma non facciamoci illusioni: diventa sempre più difficile esercitare il mestiere di professore nella Francia di oggi. E non solo per la mancanza di fondi, per le classi sovraffollate o la grande trasformazione dell’universo scolastico. Nel 2017, un’insegnante di francese, stanca delle continue lamentele sul calo del livello di preparazione, ha creato un sito partecipativo con l’obiettivo di raccogliere le «antiperle», ossia i colpi di genio dei maturandi. Ecco l’esempio riportato con entusiasmo nella rassegna stampa della radio più ascoltata di Francia: un’allieva che discute sull’eroismo di Cyrano de Bergerac. Dopo averla ascoltata esporre quello che aveva imparato, l’esaminatore le chiede di mettere fine al teatrino e di essere sincera: lei cosa pensa veramente del personaggio di Edmond Rostand? Incoraggiata in questo modo, l’adolescente si comporta come sui social network, si lascia andare: «Questo tipo è troppo scemo», dice in sostanza. «Essere bloccato da un complesso ridicolo a causa del suo naso e morire schiacciato da un tronco gettato da un tetto, è da stupidi». Avversione per i perdenti, disprezzo dell’inutile, impermeabilità ai fasti dello stile e a tutto ciò che va oltre la pura perseveranza vitale: questa è l’«antiperla» davanti a cui l’istituzione va in visibilio, perché non c’è nulla di più tedioso dell’ammirazione convenzionale dei valori ricevuti in eredità. Sparate sul conformismo scolastico! Basta con gli elogi stereotipati e le esposizioni con il pilota automatico! Lode alle soggettività disinibite! Con loro, quantomeno, ci si diverte. Proprio lì dove ci si sforzava di fornire gli strumenti per comprendere la bellezza delle opere, ora, dato che non ci si crede più, si ricompensa l’incantevole audacia e la rinfrescante autenticità di quelli che se ne infischiano. Restano degli intercessori, e il loro attuale ministro19 li sostiene, ma dinanzi ai liquidatori prodotti dalla dinamica democratica, non possono nulla.

La nostra società, che conta sempre più nemici dichiarati tra i popoli che entrano a farne parte, combatte, parlando di «elitismo» e di «etnocentrismo», la predilezione per i suoi tesori. Vedendo nel passato non una risorsa, ma un limite, spezza tutti i legami – dalla fedeltà alla nostalgia – che la legavano ancora ad esso, si svuota, si sbarazza di sé nel momento preciso in cui viene attaccata per ciò che rappresenta. Il sogno di Jean Dubuffet in Asfissiante cultura del 1968 sta diventando realtà. Ora ci sono gli «istituti di deculturizzazione», dove dei «negatori solidamente addestrati» sviluppano «con esercizi appropriati, la vivificante capacità dell’oblio» e proclamano la vacuità della nozione di valore estetico. «Classici sono i libri che si leggono con previo fervore e una misteriosa lealtà», diceva Borges. Come sperava, senza crederci veramente, l’artista partito in guerra contro la religione dell’arte, il «“piacere” puro spogliato di ogni garanzia costituzionale»20 ha avuto la meglio su questa fede secolare. Il patrimonio non è più necessario. Al fanatismo islamico, la Francia e l’Europa rispondono con il nichilismo egualitario. Dai tempi della Sconfitta del pensiero21, mi sforzo di combattere il primo senza cedere al secondo. La battaglia non è vinta. Si può persino affermare, senza cadere nel catastrofismo, che le possibilità di successo siano esigue.

Ho detto prima che Péguy ci restituisce a noi stessi. Aggiungerei, citando Bernanos, che «è un uomo che, anche da morto, resta a portata di voce e persino più vicino, alla nostra portata, alla portata di ognuno di noi, che risponde ogni volta che viene evocato»22. Ma occorre constatare che non tutti lo evocano, tutt’altro. Un’opinione pubblica potente si scatena addirittura contro quelli che lo fanno, perché si sentono, come lui, «gli eredi e gli amministratori contabili e responsabili di un patrimonio incessantemente minacciato». Questi eredi sono vittime, da parte della suddetta opinione, di una doppia scomunica. Un’opinione che impugna contro di loro la promessa del «mai più» e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Che rimprovera loro di fare una selezione tra le opere dell’umanità e di voler mantenere gli individui sotto il giogo dei loro predecessori. E le critiche piovono da ogni parte. Un insegnante-ricercatore di Storia dell’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne fustiga i loro «discorsi abietti» e le loro «putrescenti intenzioni»23. Nel suo rapporto sulla rifondazione delle politiche di integrazione, un consigliere di Stato, con una virulenza inusuale in quegli ambienti, li accusa di preferire al presente aperto, multiplo, gioioso, le «immagini ottimistiche ingiallite e appassite del romanzo nazionale». Pieno di disprezzo nei confronti dei difensori di una Francia «balbettante e intrappolata in tradizioni immaginarie», questo alto funzionario su di giri prende di mira con il suo sarcasmo le «maiuscole appariscenti e rutilanti» con cui amano adornare i loro discorsi: «Diritti e Doveri! Storia! Opera! Civiltà francese! Patria!»24. In nome dell’Altro, sono etichettati come razzisti, e in nome della libertà e dell’uguaglianza, come reazionari. «R» è la nuova lettera scarlatta.

Parlo per esperienza. Da un po’ di tempo, ormai, questo marchio d’infamia è apposto dall’intellighenzia «progressista» a tutto ciò che malauguratamente dico o scrivo. Per gli universitari, gli scrittori, i giornalisti e gli artisti che contrappongono il loro senso dell’ospitalità alla scelta della chiusura, sono, per via della mia sofferenza patriottica e del mio rapporto con Israele, ciò che in altri tempi veniva definito uno «scellerato». Per la maggior parte dei sociologi, inoltre, un discorso non scientifico come il mio non merita di essere preso in considerazione, e insistono sulla riprovazione morale con la smorfia di disprezzo del ricercatore qualificato. La mia incompetenza fa concorrenza all’insensibilità: non solo vile, ma anche incapace. Mentirei se dicessi che questa situazione mi lascia indifferente: mi fa tanto più male perché, già due volte, delle piccole folle vociferanti hanno tradotto in insulti e in sputi gli anatemi fomentati dalla frangia radicale del partito intellettuale. Ormai, sono una persona non grata nei pressi delle manifestazioni e dei comizi, così come all’École normale supérieure dove, qualche anno fa, uno studente aveva voluto invitarmi, ma era stato costretto a rinunciarvi per paura dei disordini che avrebbe sicuramente provocato la mia visita. E se ho potuto, di recente, tenere una conferenza a Sciences Po, è stato solo perché ero scortato dalla polizia. Si compensa lo scandalo della mia presenza nei media cacciandomi dai templi del sapere. Non è più il potere ma la contestazione che oggi pratica la censura e cerca di imbavagliare i malpensanti. «Brutta merda! Razzista! Odiatore!», urla il nemico volgare. «Accademico del suprematismo occidentale, venuto dai profondi abissi della tendenza reazionaria», scrive il mandarino Badiou, professore emerito all’École normale supérieure, il quale, inoltre, assicura il suo amichevole sostegno a «tutte le vittime, dirette o indirette, della vanità del parassita pieno d’odio delle manifestazioni progressiste»25. Per quanto sia marginale, questa alleanza che si è creata contro di me tra un’élite sofisticata e una plebaglia inferocita, mi fa venir voglia di gettare la spugna. Accetto la polemica, non temo il contraddittorio, ma il resto, ossia le umiliazioni pubbliche dei portavoce disumanizzati dell’umanità sofferente, non riesco a mandarle giù. Resisto, tuttavia, agli assalti dell’«a che serve» e al sogno di indipendenza: continuo, mi ostino, peggioro il mio caso per una semplice ragione, meravigliosamente formulata da Léon Werth nel Diario che ha tenuto durante l’occupazione tedesca. Il 21 ottobre 1940, il grande amico ebreo di Saint-Exupéry scrive: «Tengo a una civiltà, alla Francia. Non ho altri modi di vestirmi. Non posso uscire nudo»26.


1 Cfr. J. Benda, Discorso alla nazione europea, Venezia, Marsilio, 1999 (ed. or. Discours à la nation européenne, Paris, Gallimard, 1933).

2 M. Kundera, Un Occident kidnappé, ou la tragédie de l’Europe centrale, in «Le Débat», n. 27, 1983, p. 3.

3 P. Manent, La raison des nations. Réflexions sur la démocratie en Europe, Paris, Gallimard, 2006, p. 42.

4 É. Badinter, citata in Une France soumise. Les voix du refus, a cura di G. Bensoussan, Paris, Albin Michel, 2017, p. 13.

5 C. Péguy, Par ce demi-clair matin, in Id., Œuvres en prose complètes, a cura di R. Burac, tomo II, Paris, Gallimard, 1987, p. 96.

6 Id., Notre Patrie, ibid., p. 61.

7 È il tetto in legno della cattedrale gotica parigina, crollato durante l’incendio verificatosi tra il 15 e il 16 aprile 2019. «La struttura del XIII secolo è chiamata “foresta” perché ha richiesto una foresta di alberi per costruirla», ha spiegato monsignor Patrick Chauvet, il rettore della cattedrale. In tutto sono stati necessari 1300 alberi di quercia per realizzare la forêt [N.d.T.].

8 M. Barrès, citato in Z. Sternhell, Maurice Barrès et le nationalisme français, Bruxelles, Éditions Complexes, 1985, pp. 259-260.

9 A. de Saint-Exupéry, Terra degli uomini, Milano, Mursia, 2013 (ed. or. Terre des hommes, Paris, Gallimard, 1939).

10 Id., Lettre non envoyée déstinée au Général X, juin 1943, in Id., Écrits de guerre. 1939-1944, Paris, Gallimard, 1994, p. 282.

11 A. Finkielkraut, L’incontemporaneo. Péguy, lettore del mondo moderno, Torino, Lindau, 2012 (ed. or. Le mécontemporain. Péguy, lecteur du monde moderne, Paris, Gallimard, 1991).

12 La nouvelle philosophie (nuova filosofia) indica una corrente filosofica molto eterogenea nata in Francia, a metà degli anni settanta, e rappresentata da autori usciti dalla sinistra radicale francese, in rottura polemica con il marxismo. Tra questi André Glucksmann e, appunto, Bernard-Henri Lévy [N.d.T.].

13 G. Scholem, Juifs et Allemands, in Id., Fidélité et utopie. Essais sur le judaïsme contemporain, Paris, Calmann-Lévy, 1978, p. 95.

14 C. Péguy, L’argent, in Id., Œuvres en prose complètes, cit., tomo III, p. 817.

15 Kundera, Un Occident kidnappé, cit., p. 22.

16 Ibid., p. 17.

17 P. Bourdieu, J.-C. Passeron, La reproduction. Éléments pour une théorie du système d’enseignement, Paris, Les Éditions de Minuit, 1970, p. 19.

18 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1992), a cura di M.F. Occhipinti, Milano, Mondadori, 2010, p. 90.

19 Jean-Michel Blanquer, ministro dell’Istruzione del governo di Parigi, strenuo difensore della meritocrazia repubblicana e con posizioni critiche verso l’egualitarismo di matrice sessantottina, colpevole, secondo l’autore, del livellamento verso il basso della scuola francese [N.d.T.].

20 J. Dubuffet, Asfissiante cultura, Milano, Abscondita, 2006, pp. 51, 84-85 (ed. or. Asphyxiante culture, Paris, Les Éditions de Minuit, 1986, pp. 66, 115-116).

21 A. Finkielkraut, La sconfitta del pensiero, a cura di B. Romani, Roma, Lucarini, 1989.

22 G. Bernanos, Les enfants humiliés. Journal 1939-1940, Paris, Gallimard, 1949, edizione aggiornata 1976, p. 95.

23 N. Offenstadt, citato in Face aux réacs, ils résistent, in «Libération», 16 octobre 2015.

24 T. Tuot, La grande nation pour une société inclusive (La grande nazione per una società inclusiva), rapporto consegnato al primo ministro sulla rifondazione delle politiche di integrazione il 1° febbraio 2013. Per elaborare questo rapporto sono stati impegnati cinque gruppi di lavoro.

25 A. Badiou, Sinistre comédie d’un raciste habillé en anti-raciste, in «Le Média», 20 février 2019.

26 L. Werth, Déposition. Journal de guerre 1940-1944, Paris, Viviane Hamy, 1992, p. 65.