Incontri
Torniamo indietro nel tempo.
Un giorno del giugno 1977 a Berkeley, al termine del mio primo anno da visiting assistant professor, mi telefonò Pascal Bruckner per annunciarmi che aveva appena ricevuto una lettera di elogi da parte di Michel Foucault a proposito del nostro Nuovo disordine amoroso, di recente pubblicazione. Gli piaceva in particolare, mi disse Pascal, che avessimo scritto che la liberazione sessuale, a cui si dava grande importanza, non rendeva giustizia né al desiderio né all’amore. Ero sbalordito, non credevo alle mie orecchie. Foucault, all’epoca, riassumeva i pregi della filosofia, della radicalità critica, dell’erudizione e dello stile. La sua scrittura era brillante, il suo sapere affascinante, e la sua opera, per di più, faceva sentire «il rumore sordo della battaglia»1. Era il più grande fra i grandi, spiccava per intelligenza, dava l’impressione di aver letto tutti i libri e incoronava me, il nulla assoluto, il principiante timoroso e pieno di incertezze! Feci salti di gioia sul mio letto californiano, quella notte non chiusi occhio e, poche settimane dopo, Pascal mi presentò all’autore di Sorvegliare e punire. Il suo approccio fu talmente diretto, la sua conversazione talmente vivace e la sua curiosità talmente insaziabile, che non ricordo di essere stato timido. Si creò subito un legame. Dopo il mio ritorno definitivo in Francia, ci vedevamo regolarmente. Una domenica d’inverno fui invitato da alcuni dei suoi giovani amici a provare dell’acido, in rue de Vaugirard. Non ero un gran consumatore ma, non essendo mai riuscito a inalare il fumo correttamente, apprezzavo l’Lsd, che si assumeva sotto forma di pillole e i cui effetti erano garantiti. Con l’acido, ero sicuro che non sarei rimasto escluso. Mi recai quindi all’indirizzo indicato. Mi aprì la porta Foucault. Era sobrio e quel giorno aveva assolutamente intenzione di rimanere tale. Invece di ridacchiare e gorgheggiare seduti sulla moquette in preda alla dolce euforia di leggere allucinazioni, preferii seguirlo nel suo studio dove parlammo fino al tramonto.
Nonostante l’influenza che esercitava su di me e sulla mia generazione, non sono diventato un discepolo di Foucault. Ho persino preso le distanze da ciò che capivo della sua riflessione filosofica, ma sono rimasto colpito dallo sforzo immenso che ha compiuto, negli ultimi anni, per sbarazzarsi, attraverso una storia dell’etica, di se stesso, ossia della propensione a dedurre i comportamenti umani dai dispositivi di potere. Non tutti i pensatori sono in grado di togliere le sbarre al proprio sistema di pensiero. Inoltre, gli sono stato sempre riconoscente per aver qualificato come «vergognosa»2 la risoluzione dell’Onu che ha assimilato il sionismo a una forma di razzismo, nel momento in cui Deleuze e tutto il movimento post-sessantottino cominciavano a criminalizzare l’esistenza di Israele, e questa amicizia, della quale i suoi discepoli vorrebbero cancellare la macchia, mi è cara a tal punto che soffro ogni volta che sento parlar male di lui.
Nel 1978, Foucault si è messo d’accordo con il «Corriere della Sera» per proporre ad alcuni scrittori e filosofi, ossia a dei non-giornalisti, di fare dei reportage di idee, perché, a suo avviso, non bisognava farsi ingannare dal discorso sulla fine delle ideologie: «Il mondo contemporaneo brulica di idee che nascono, si agitano, scompaiono e riappaiono, scuotendo cose e persone. E questo non solo nei circoli intellettuali o nelle università dell’Europa occidentale: ma su scala mondiale e, tra molti altri, presso minoranze o popoli che la storia fino ad ora non ha mai abituato a parlare o a farsi ascoltare»3. In collaborazione con il corrispondente del «Corriere» a Parigi, sono stato incaricato di animare l’équipe voluta da Foucault e io stesso ho condotto un’inchiesta sull’ascesa della destra libertaria negli Stati Uniti; poi, con Benny Lévy in Israele e in Egitto, sul significato della pace nata dagli accordi di Camp David. Ho proposto in seguito un’intervista a Milan Kundera. Foucault, entusiasta, mi ha dato il via libera. Kundera, con cui era difficile entrare in contatto, alla fine mi ha detto di sì, e questo incontro ha cambiato la mia vita.
Mi sono reso conto, a contatto con Kundera, che l’ermetismo non era garanzia di superiorità intellettuale. Ho smesso di essere intimidito dall’oscurità. Kundera conciliava straordinariamente la limpidezza e la profondità, e la sua ironia sempre viva mi ha aperto gli occhi sul lato comico di ogni situazione umana: «Niente e nessuno è esente dal ridicolo, che è la nostra condizione, la nostra ombra, il nostro sollievo, la nostra condanna»4. Abito in un paese che tende all’enfasi e ai melodrammi. In Francia amiamo adornarci di sonore illusioni. Kundera mi ha guarito da questo difetto smascherando senza pietà la prosa nascosta dietro le pose e in particolare quelle che avevo potuto assumere durante la mia fervida giovinezza: «Quella parola infinitamente ridicola: lotta. Qual era stata la loro lotta? Avevano partecipato ad interminabili assemblee, avevano le piaghe sul sedere, ma nell’istante in cui si alzavano dalla sedia per esprimere qualche opinione molto radicale (bisogna colpire ancora più a fondo il nemico di classe, o qualche altra idea formulata con ancora maggiore intransigenza) avevano la sensazione di somigliare a personaggi di dipinti eroici»5. Grazie a Kundera, ho completato il viaggio iniziato con L’ebreo immaginario, e sono definitivamente tornato sulla terra. Questo realismo non ha fatto di me uno scrittore di romanzi. Ma so, attraverso Kundera e anche attraverso Proust riletto alla luce dei suoi lavori e del suo pensiero, che il romanzo è il partito preso della prosa, la scelta di «raccogliere tutto ciò che le più alte muse della filosofia e dell’arte hanno rifiutato»6.
Da studente di lettere, mi avevano presentato la realtà in maniera completamente diversa. I miei maestri – soprattutto Roland Barthes, il più intimo e a me più caro – mi insegnavano che la letteratura aveva come oggetto se stessa. Come reazione alla sua grossolana strumentalizzazione da parte dell’impegno sartriano, celebravano il carattere intransitivo della scrittura letteraria, e si spingevano fino a distinguere la Storia in due momenti antitetici: un tempo antico in cui regnava la mimesis e al quale alcuni continuavano ad aggrapparsi; una modernità caratterizzata dalla rottura con la rappresentazione e che, alla scrittura di un’avventura, sostituiva, in un chiasmo vertiginoso, l’avventura della scrittura. Barthes, a quel tempo, metteva in guardia contro l’«illusione referenziale», a cui contrapponeva «l’incanto del significante»; Blanchot affermava che «l’opera è orientata solo verso la ricerca di se stessa» e Foucault rincarava la dose dicendo che la letteratura «non ha più allora che da incurvarsi in un perpetuo ritorno su di sé, come se il suo discorso non potesse avere per contenuto che di dire la propria forma»7.
Questa circolarità mi ammaliava e, allo stesso tempo, mi soffocava. Dopo l’abilitazione all’insegnamento di lettere moderne, ho rivolto la mia attenzione verso la fenomenologia, perché non volevo rinunciare, per le gioie senza gioia dell’acosmismo testuale, a indagare l’universo della vita. La forma mi importava, certo, ma non mi bastava. Avevo bisogno di opere che lasciassero un segno oltre se stesse. Ed ecco arrivare Kundera che, senza darlo a vedere, ridistribuisce i ruoli. Assegna al romanzo la missione che credevo fosse riservata ad alcuni filosofi e, insensibile al fascino della rottura, vaccinato dalla sua esperienza storica contro la volontà di fare tabula rasa del passato, dà del modernismo una definizione che non avevo mai sentito: «Avanzare, mediante nuove scoperte, sulla strada ereditata». Affermando, dopo Flaubert, che lo scrittore di romanzi si sforza di «andare all’anima delle cose»8 e, dopo Proust, che «l’opera dello scrittore non è che una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di scorgere ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in se stesso»9, Kundera mi ha fatto appassionare di nuovo alla verità romanzesca. Mi ha permesso di uscire, attraverso la letteratura, dal «funereo terreno di gioco per mandarini astratti»10 che era diventato lo spazio letterario. Non ho più chiesto soltanto a Lévinas, Sartre o Hannah Arendt di illuminarmi sui principali aspetti della condizione umana; ho riaperto, per appagare la mia sete di conoscenza, i romanzi di Madame de La Fayette, Dostoevskij, Henry James, Joseph Conrad, Vasilij Grossman, Kundera, Camus, Bergman, Philip Roth e Karen Blixen. I grandi libri ci leggono: ecco ciò che durante il periodo di formazione universitaria mi era stato tolto dalla testa e riscoprivo. Provvisto di questo viatico, potevo cimentarmi nell’esegesi.
Ma non è tutto. Imbattendomi, nel corso della mia ricerca, nelle prime parole della prefazione del Negro del Narciso – «in un’opera che aspiri, per quanto umilmente, alla dignità dell’arte, ogni riga dovrebbe darne giustificazione»11 –, me ne sono impadronito. Non sono uno scrittore di romanzi e mi guardo bene dal paragonarmi agli autori che fanno parte della mia biblioteca ideale. Ma non per questo posso sottrarmi a tale comandamento. Riguarda anche me. Nella forma del saggio e con ciò di cui dispongo, mi sforzo di obbedirgli.
1 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2014, p. 340 (ed. or. Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975, p. 315).
2 Id., Bio-histoire et bio-politique, in Id., Dits et écrits, vol. III, Paris, Gallimard, 1994, p. 96.
3 Id., Les «reportages d’idées», ibid., p. 707.
4 M. Kundera, citato in J. Rupnik, L’autre Europe. Crise et fin du communisme, Paris, Odile Jacob, 1990, p. 257.
5 M. Kundera, Il libro del riso e dell’oblio, Milano, Adelphi, 1998, p. 30 (ed. or. Le livre du rire et l’oubli, Paris, Gallimard, 2002, p. 36).
6 M. Proust, citato in V. Descombes, Proust. Philosophie du roman, Paris, Les Éditions de Minuit, 1987, p. 30.
7 M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Bur, 1978, pp. 324-325 (ed. or. Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Paris, Gallimard, 1966, p. 73).
8 G. Flaubert, citato in M. Kundera, Il sipario, Milano, Adelphi, 2005, p. 72 (ed. or. Le rideau, Paris, Gallimard, 2005, p. 76).
9 M. Proust, citato ibid., p. 107 (nell’ed. or., p. 114).
10 M. Fumaroli, Pour les humains, in Id., Partis pris. Littérature, esthétique, politique, a cura di P.-V. Desarbres, Paris, Robert Laffont, 2019, p. 660.
11 J. Conrad, prefazione a Il negro del Narciso, in Id., Note ai miei libri, Roma, Elliot, 2015.