Lo scandalo
«Visse, lavorò, morì»: questa frase di Heidegger a proposito di Aristotele non può, purtroppo, valere per lui. Certo, il pensiero fu l’attività più importante della sua vita, si consacrò ad esso indefessamente come Aristotele o, secondo la sua stessa espressione, come un falegname che «lavora a una cassapanca». Ma Heidegger ha trovato comunque il tempo di aderire alla rivoluzione nazionalsocialista.
Il filosofo più profondo dell’epoca ha creduto in Hitler, nonostante quest’ultimo non avesse peli sulla lingua e non avesse mai nascosto le sue intenzioni. Si è allineato a ciò che Hans Jonas, il suo discepolo ferito, chiamava «la marcia fragorosa dei battaglioni bruni»1. Da semplice lettore, ero io stesso scioccato e costernato, ma mi consolava il fatto di non trovare traccia nella sua opera di questo traviamento che, con un eufemismo, definiva una «grosse Dummheit»2. Analizzavo i testi e non mi accadeva la stessa cosa che avveniva con Kant o Nietzsche, per esempio. Non ero oggetto di nessuna aggressione concettuale. Heidegger non mi diceva che gli ebrei erano «il popolo più funesto della storia mondiale» né che erano inchiodati all’eteronomia.
In compenso, sono rimasto molto colpito da ciò che ero venuto a sapere a proposito del primo incontro tra Heidegger e Paul Celan, nella bella biografia di Rüdiger Safranski. Celan teneva una conferenza a Friburgo il 24 luglio 1967. Più di mille persone assistevano all’evento. Heidegger, che era in prima fila, aveva fatto il giro delle librerie della città nei giorni precedenti, e aveva chiesto che le raccolte di poesie di Celan fossero esposte ben in vista nelle vetrine. Camminando per le strade di Friburgo, il poeta vede il suo libro ovunque: «In occasione della sua prima passeggiata per la città il poeta vide ovunque nelle vetrine delle librerie il suo volumetto di poesie, e raccontò la cosa con gioia durante un incontro con alcuni conoscenti nel foyer dell’albergo, un’ora prima dell’inizio della lettura. Heidegger, che era presente, non rivelò di essere intervenuto in tal senso presso i librai»3.
Nello stesso periodo, Jean-Luc Marion era studente all’École normale supérieure di Parigi. C’era un insegnante che impartiva ripetizioni a coloro che parlavano male il tedesco. Insegnava «der, die, das» ai principianti assoluti: «Durante i suoi corsi c’era un baccano inaudito», e Marion confessa, con una sincerità che gli fa onore, che partecipava alla canea4. L’insegnante in questione era Celan. Quei giovani che avevano passato un’accurata selezione ignoravano completamente l’altra sua attività, e Derrida e Althusser, gli insegnanti già prestigiosi che li preparavano al concorso per diventare docenti, avevano all’epoca altro a cui pensare che attirare la loro attenzione sull’autore di questi versi:
Käme,
käme ein Mensch,
käme ein Mensch zur Welt, heute, mit dem Lichtbart der
Patriarchen: er dürfte,
spräch er von dieser
Zeit, er
dürfte
nur lallen und lallen,
immer-, immer-
zuzu5.
È stata oggetto di estenuanti critiche la frase inserita da Celan nel libro degli ospiti di Todtnauberg: «Nel libro della baita, con lo sguardo rivolto alla stella nel pozzo, con la speranza di una parola che viene nel cuore»6. Questa parola, forse, non è mai arrivata, ma Celan è tornato a Friburgo e ogni visita, ci dice Lévinas, che non possiamo certamente sospettare di indulgenza, «alterava profondamente»7 il suo ospite. Mentre la Francia, in cui il poeta viveva dal 1948, non prestava orecchio al suo balbettio, Heidegger lo ascoltava e sapeva rendergli omaggio. E le parole che non ha mai pronunciato pubblicamente, dacché riteneva di non dover dare nessuna spiegazione all’opinione pubblica gregaria e mutevole, le aveva scritte in una lettera a Karl Jaspers, l’8 aprile 1950: «Di anno in anno, quanto più si manifestava l’orrore, tanto più cresceva la vergogna di avervi, direttamente o indirettamente, contribuito»8.
Ero arrivato a questo punto nelle mie riflessioni quando sono stati pubblicati i primi volumi dei Quaderni neri. In questi testi, scritti tra il 1930 e il 1970, e con i quali Heidegger aveva voluto concludere le sue monumentali opere complete, appare la Weltjudentum, e non in un ruolo secondario. Non è una comparsa. Il disastro della modernità è parzialmente imputabile ad essa poiché «rivendica lo sradicamento di ogni ente dall’essere nella storia del mondo»9. Si poteva credere che una parete a tenuta stagna separasse l’ontologia heideggeriana dal suo funesto impegno. Ma le cose non stanno così ed eccoci costretti a spezzare definitivamente il legame con l’agrimensore dei cammini che conducono al peggio. Se mantenessimo questo legame, saremmo colpevoli, afferma Richard Wolin, di «perpetrare la logica di tradimento filosofico inaugurata dal maestro stesso». Emmanuel Faye rincara la dose: «Oggi più che mai è compito della filosofia lavorare per proteggere l’umanità e allertare le menti, per evitare che l’hitlerismo e il nazismo continuino a diffondersi attraverso gli scritti di Heidegger, con il rischio di generare nuove imprese di distruzione totale del pensiero e di sterminio dell’uomo»10.
Sono stato colpito al cuore dai frammenti dei Quaderni neri che ho avuto modo di consultare, e non mi lancerò certo in un’esegesi contorta per attenuare lo scandalo. Non cercherò di discolpare Heidegger, argomentando che le critiche che egli rivolge al cristianesimo sono molto più numerose e virulente. Nessun discepolo devoto riuscirà a farmi digerire frasi come: «e […] “vince” la più grande assenza di suolo che, a nulla vincolata, tutto quanto si asservisce (l’ebraismo)»11. Ma non per questo cederò alla diffida degli indignati poiché, se c’è lo scandalo, è proprio perché l’opera è grande, vale a dire illuminante. Heidegger, in realtà, non è mai stato così presente fra noi, il suo pensiero ci descrive, che lo si voglia o no, la sua diagnosi trova ogni giorno una nuova conferma e quelli che fustigano con maggior asprezza la sua nostalgia delle radici si ostinano, ignari, a dargli ragione. «Siamo legati a un mestiere tanto quanto lo siamo a una nazione o a una qualsiasi identità», scrive il filosofo Pierre Lévy in nome della nuova umanità nomade e planetaria: «Mangiamo alla tavola universale, vaniglia e kiwi, coriandolo e cioccolato, cucina cinese e cucina indiana […]. Ascoltiamo la musica di ogni angolo del mondo: raï, rap, reggae, samba, jazz, pop, sonorità dell’Africa e dell’India, del Brasile e delle Antille, musica celtica o musica araba, uscite dagli studi di Nashville o di Bristol…»12. Nell’open society che guarda con paternalismo compassionevole il piccolo mondo di un tempo, non c’è più posto per il senso dell’indisponibile: tutto deve poter essere comprato. Nell’epoca del gender, il sesso stesso tende a diventare opzionale o, per dirla con i termini impeccabilmente heideggeriani della militante Lgbt Beatriz Preciado (nel frattempo diventata Paul B. Preciado), «sintetico, malleabile, variabile, aperto alle trasformazioni, imitabile e infine prodotto e riprodotto tecnicamente»13. Basta con i menù fissi, il mondo si degusta à la carte. Basta con le appartenenze che non sono frutto di una scelta: al supermercato della diversità, ognuno fa il proprio shopping. L’epoca incantata dà a questa festa del consumo il glorioso nome di «meticciato». Così regna il Gestell e l’antirazzismo, pur vituperando Heidegger, va di pari passo con la sua diffusione.
Meglio ancora: lo giudaizza. I globalisti sono fortunati. La filosofia contemporanea li adora: celebra la loro inappartenenza, blandisce il loro cosmopolitismo, non ha parole sufficientemente elogiative per definirli. Secondo Michel Serres, sono degli angeli che, dotati del dono dell’ubiquità, seppelliscono gioiosamente il Dasein. Yuri Slezkine li definisce i «mercuriani» (dal nome del dio messaggero) e conferisce loro la più alta distinzione dell’era post-hitleriana: «L’Età moderna», scrive, «è l’Età degli ebrei, e il XX secolo è il secolo degli ebrei. La modernità significa che ognuno di noi diventa urbano, mobile, istruito, professionalmente flessibile»14. Siamo in pieno Heidegger: lo spirito ebraico si confonde con lo spirito della tecnica, lo sradicamento di ogni ente dall’essere è imputato al Weltjudentum15. Ma nessuno gliene vuole più per questo; al contrario, le si è riconoscenti. Non è più sotto accusa, ma celebrata. La si ammira, persino, per ciò che un tempo la rendeva ancora minacciosa. Il suo difetto insormontabile – la mancanza di fondamento – diventa, alla luce tenebrosa del Blut und Boden (sangue e terra), il suo principale titolo di gloria. E ciò che rattrista oggi l’opinione illuminata è che gli ebrei, per un fatale anacronismo, cambino orientamento e non siano più fedeli a loro stessi. Mentre i somewhere si trasformano in anywhere16, gli ebrei compiono la metamorfosi opposta. Venivano da ogni parte, ed eccoli stabilirsi da qualche parte. Controcorrente, barattano la leggerezza chagalliana con la pesantezza dell’esser-ci. Gli ebrei, per tanto tempo liberi dai paesaggi, scoprono e riscoprono il fascino dell’autoctonia. Questi magnifici esiliati cadono nella superstizione del Luogo. Hanno una fissazione inopportuna «in un mondo assoggettato al regno universale di Mercurio». Ossessionati da un lembo di terra, che ci vivano o meno, con il cuore che batte per Sion, scelgono il momento preciso in cui l’avanguardia goy17 si fa ebrea affinché loro stessi possano smettere di esserlo. Questo rinnegamento (o secondo alcuni, lo abbiamo visto, questo ritorno alle origini ebraiche) è il crimine di cui ora devono rispondere. Non sono più accusati di tradire l’umanità con la giudeità, ma la giudeità e l’umanità con il radicamento. È in virtù della loro vocazione errante che si ha di nuovo il permesso, se non addirittura l’obbligo, di odiarli. È in nome del loro genio diasporico che ci si indigna, con accenti marcioniti, di vederli optare per la difesa appassionata di una patria carnale.
E quando i globalisti, liberi da ogni radicamento, accolgono, alla discesa dai barconi, dei migranti, ossia degli esseri definiti non più dalla loro origine o dalla loro destinazione, ma solo ed esclusivamente dall’erranza, sono, secondo la teoria di Slezkine, degli ebrei che soccorrono altri ebrei. I benefattori e i beneficiari condividono la stessa leggerezza. Sono, gli uni e gli altri, senza terra, e sostengono, ognuno a modo proprio, la preminenza della circolazione rispetto all’abitazione. «Benvenuti a casa vostra!». Non a casa nostra, ma vostra. Vostra, nostra, è la stessa cosa. L’una vale l’altra. Chi ospita non si distingue più da chi viene ospitato: entrambi sono mercuriani, il movimento è la loro condizione comune. Sotto lo sguardo della tecnica, non c’è un qui, non c’è un altrove, non c’è identità, non ci sono sedentarietà né casa propria che tengano; ci sono solo stoccaggi e flussi, mescolanze e passaggi. Le frontiere svaniscono, le nazioni perdono i loro confini, tutto si muove, tutto si sposta, tutto si sostituisce, niente resiste. Gli uomini stessi sono considerati interscambiabili e, colmo dei colmi, si arriva a considerare il trionfo di questo sistema come il raggiungimento del Bene.
Questa confusione deve cessare. Mi sforzo di mettervi fine togliendo al processo in corso l’aura giudaica di cui lo rivestono sia Heidegger che i suoi detrattori, gli uni per santificarlo, l’altro per maledirlo. Ma forse è una causa persa. I globalisti non si lasceranno facilmente privare della loro immagine lusinghiera e rischiano di raccontarsi ancora a lungo che i popoli che non vogliono fare le spese del grande trasloco del mondo sono conquistati dal «populismo» e soccombono al male identitario.
1 H. Jonas, Souvenirs, Paris, Payot & Rivages, 2005, pp. 225-226.
2 «Grossa sciocchezza» [N.d.T.].
3 R. Safranski, Heidegger e il suo tempo. Una biografia filosofica, a cura di M. Bonola, Milano, Garzanti, 2019, p. 508.
4 J.-L. Marion, La rigueur des choses. Entretiens avec Dan Arbib, Paris, Flammarion, 2012, p. 38.
5 «Venisse, / venisse un uomo, / venisse al mondo un uomo, oggi, / con la barba di luce che fu / dei patriarchi; potrebbe, / se parlasse di questo / tempo, solamente / bal-balbettare / conti-, conti-, / nuamente, mente», P. Celan, Tübingen, Jänner, in Id., Poesie, a cura di G. Bevilacqua, Milano, Mondadori, 1998, p. 381.
6 Citato in Safranski, Heidegger e il suo tempo, cit., p. 509.
7 E. Lévinas, Paul Celan, in Id., Noms propres, Saint-Clément-de-Rivière, Fata Morgana, 1976, p. 187.
8 M. Heidegger, K. Jaspers, Lettere 1920-1963, a cura di W. Biemel e H. Saner, Milano, Raffaello Cortina, 2009, p. 187.
9 Citato in P. Trawny, Heidegger et l’antisémitisme. Sur les «Cahiers noirs», Paris, Éditions du Seuil, 2014, p. 53.
10 E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, Roma, L’Asino d’oro, 2012, p. 455 (ed. or. Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie. Autour des séminaires inédits de 1933-1935, Paris, Albin Michel, 2005, p. 518).
11 M. Heidegger, Quaderni neri 1938-1939 (Riflessioni VII-XI), a cura di P. Trawny, Milano, Bompiani, 2016, p. 129.
12 P. Lévy, World philosophie. Le marché, le cyberspace, la conscience, Paris, Odile Jacob, 2000, pp. 15-16.
13 P.B. Preciado, Testo tossico. Sesso, droghe e biopolitiche nell’era farmacopornografica, Roma, Fandango, 2015, p. 95.
14 Y. Slezkine, Le siècle juif, Paris, La Découverte, 2009, p. 7.
15 Nei Quaderni neri Heidegger imputa al Weltjudentum, l’ebraismo mondiale, lo Entwurzelung, lo straniamento dell’essere, quindi l’autoestraniazione dei popoli e la bastardizzazione del mondo [N.d.T.].
16 Vedi D. Goodhart, The Road to Somewhere: The Populist Revolt and the Future of Politics, London, Hurst & Co., 2017.
17 Termine ebraico che significa «popolo», «nazione», utilizzato principalmente per indicare i non ebrei [N.d.T.].