L’interminabile questione ebraica
Dopo due saggi scritti a quattro mani, ho pensato che avrei potuto cavarmela da solo. Non che ai miei occhi fossi diventato uno scrittore: non avevo questa certezza, e dopo oltre quarant’anni trascorsi a mescolare e ponderare frasi, l’inquietudine continua a tormentarmi. Non mi sono mai riconosciuto nella mia professione. Ogni volta che mi viene ricordato, ho voglia di rettificare e dire: «Grazie del complimento, ma ha sbagliato persona. Ahimè, non sono quello che credete». Non si tratta di falsa modestia, fidatevi. Il medico, l’avvocato, l’architetto, il giardiniere, il falegname, il pilota di linea hanno delle competenze. Il loro saper fare si perfeziona con l’esperienza. Conoscono sempre meglio il mestiere. Ho invece la sensazione, per quanto mi riguarda, di inventare ogni giorno il mio: nel momento in cui mi metto al lavoro, non posso affidarmi ad alcuna definizione positiva. Ho certo diversi libri all’attivo. Ma questo io è un altro. Il mio passato non fa di me ciò che sono, mi mette alla prova. Sono una persona piena di debolezze. Niente mi fa sentire appagato, niente mi protegge, niente mi rassicura, niente colma il nulla che sono oggi.
Scrivendo L’ebreo immaginario1 non ho dunque obbedito a una vocazione irrefrenabile. Ho voluto, come nel Nuovo disordine amoroso, trovare le parole giuste per raccontare una maniera di essere al mondo che il discorso dell’epoca non prendeva in considerazione. In L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, il libro che aveva illuminato la mia adolescenza, Sartre oppone l’ebreo authentique, che dichiara la sua identità «nella fierezza o nell’umiliazione, a volte nell’orrore e nell’odio»2, all’ebreo inauthentique, che vuole, a tutti i costi, confondersi nella massa, rendersi indistinguibile, essere come tutti gli altri. Il primo si mostra, il secondo si nasconde e si nega. Amavo questa evidente dicotomia perché mi persuadeva che avevo optato per il coraggio. Paria piuttosto che parvenu: era questa la mia scelta originaria. «Non mi nascondo, mi arrabbio», avevo persino scritto sulla mia giacca. Poiché invece di attendere, a braccia conserte, che gli altri mi designassero come ebreo, giocavo d’anticipo, andavo oltre il semplice rifiuto di tradire i miei antenati nascondendo l’origine compromettente, mi proponevo di vendicarli rispondendo colpo su colpo.
I colpi, tuttavia, tardavano ad arrivare, e a poco a poco mi sono reso conto della parte di dissimulazione che vi era nella mia irriducibile autenticità. Mentre Sartre mi applaudiva per il fatto di essere sincero e di prendere le avversità per le corna, una vocina ironica cominciava a farsi sentire: «Impostore!», mormorava. «Pensando di aver accettato ciò che sei, fai il tuo teatrino, ti accontenti delle parole e per vivacizzare la tua vita di tutti i giorni ti appropri di una tragedia che non è più la tua. Aspiri alla verità, ma vivi nella menzogna. Ti ammanti della persecuzione, ma niente altera la tranquillità della tua esistenza. Rivendichi la tua parte di sofferenza, ma te la passi bene. Devi guardare in faccia la realtà una volta per tutte: la comodità è il tuo destino. La memoria che ti ordina di resistere e di affrontare la minaccia ti protegge, fortunatamente per te, dall’incubo che sogni. Vuoi combattere gli antisemiti. Ma svegliati: non ce ne sono più, o quasi, poiché Hitler, secondo le parole terribili e profonde di Bernanos, “ha disonorato l’antisemitismo”. Hai la sensazione, sventolando la tua ebraicità come uno stendardo, di far parte di un glorioso martirologio, nonostante il trauma della catastrofe ti metta al riparo da qualsiasi incontro spiacevole. Proscritto, tu? No: comodo e pacifico. Poco amato? No: megalomane. Più ti vorresti autentico e più l’aggettivo “istrionico” corrisponde al tuo comportamento».
Condividevo questo istrionismo identitario, questa malafede piena di buone intenzioni, con la maggioranza degli ebrei nati dopo Auschwitz. E ciò che mi ha spinto a vuotare il sacco sono le parole rabbiose e canzonatorie messe in bocca allo scrittore debuttante Nathan Zuckerman da Philip Roth, uno di quegli autori i cui libri non restano mai a lungo su una mensola, perché la vita mi porta costantemente a riprenderli in mano: «Se vuoi assistere a qualche atto di violenza fisica contro gli ebrei di Newark, va’ nel reparto di chirurgia plastica dove le ragazze si fanno rifare il naso. Ecco dove scorre sangue ebraico nella Essex County»3.
Ho sempre saputo, ovviamente, che i miei genitori non erano eterni. Ma durante i miei anni di formazione, questa consapevolezza restava astratta. Non mi toccava. Avevo altre preoccupazioni. E poi il tempo ha fatto il suo corso. Quando, leggendo per la prima volta Lo scrittore fantasma, mi sono imbattuto nella diatriba di Zuckerman e l’ho indirizzata contro la mia pantomima, l’astrazione aveva preso corpo. In maniera chiara e dolorosa, realizzavo, vedendoli invecchiare, che i miracolati che mi avevano messo al mondo avrebbero portato nella tomba, insieme al loro accento e al loro modo di essere, l’indicibile prova alla quale erano sopravvissuti. Il tempo dei reduci era contato e nessuno, nemmeno i loro figli, poteva prendere il loro posto. Tra il deportato e il figlio del deportato, l’abisso è insuperabile. Il pigiama a righe e la stella gialla non si indossano di generazione in generazione. Il testimone non passa il testimone, lascia un vuoto. Ecco quello che ho capito e la mia postura, alla luce della morte annunciata dei miei, mi è apparsa come un sacrilegio.
Mio padre e mia madre non vivevano più sotto lo sguardo degli altri. Dopo che i loro genitori erano stati inghiottiti, non avevano avuto il cuore di riannodare il filo, per loro già sottilissimo, della tradizione. Come eredità, mi trasmettevano così una sofferenza che non potevo ereditare. Per molto tempo ho pensato di venirne a capo attraverso l’identificazione. Ma non funzionava più. Ciò di cui avevo fantasticato improvvisamente mi riempiva di vergogna: da solo, avevo compreso profondamente me stesso. E mi sentivo in colpa per essere stato il beneficiario consenziente dello stupore reverenziale che si dipingeva sul volto dei miei interlocutori quando dicevo loro che mio padre era un sopravvissuto di Auschwitz. La farsa era finita, ne avevo abbastanza delle moine: ormai era una mia responsabilità essere fedele senza salire sul palco per testimoniare la mia fedeltà. Ho mantenuto la promessa? Quando ho letto Gli scomparsi 4, libro pubblicato nel 2007, mi sono reso conto che la risposta era no e che la demistificazione dell’Ebreo immaginario non mi aveva reso così attento come avrei dovuto essere. Questa inchiesta meticolosa e devota di Daniel Mendelsohn sui morti senza sepoltura della sua famiglia (sei fra sei milioni) mi ha ricordato la mia negligenza. I miei genitori non si sono mai trincerati nel silenzio, mi parlavano con molta naturalezza, con emozione e senza pathos, di ciò che avevano vissuto. Ma anche quando ho smesso di approfittare del loro calvario, non li ho sommersi di domande, non ho preso appunti, non li ho assillati. So, ma non con precisione, come sono morti i genitori di mia madre, suo fratello, sua sorella maggiore e suo nipote che tanto amava. Non ho chiesto a mio padre un resoconto ora per ora del suo viaggio verso Auschwitz-Birkenau né delle sue giornate nel campo. Non ero abbastanza avido di dettagli. Ero troppo assorbito dagli alti e bassi della vita quotidiana per fargli continuamente domande. Il tran tran familiare, inoltre, smorzava la mia curiosità. Conservo nella memoria aneddoti preziosi su di lui e sui suoi, naturalmente, ma ignoro molte cose. Con tutti i problemi che si presentavano di continuo, forse ho perso di vista l’essenziale. E ora è troppo tardi. Non riempirò mai i vuoti della mia storia familiare.
Dopo essermi confessato, pensavo di potere e dovere passare ad altro. A cosa? Non lo sapevo. Ero perplesso. Esitavo. Interrogavo me stesso. Cercavo ansiosamente un soggetto. Ma ciò di cui ero assolutamente certo era di aver detto ciò che dovevo sulla questione ebraica. Mi sbagliavo. Io avevo chiuso con lei, ma la questione ebraica non aveva chiuso con me. Mi aspettava al varco, e in una forma che vanificava tutti i miei sogni di avventura.
Soltanto pochi giorni dopo l’uscita dell’Ebreo immaginario, una mano anonima mi ha dato un volantino. Stavo per buttarlo via quando mi è saltata agli occhi questa «notizia»: le camere a gas non sono mai esistite. Così mi sono messo a leggere quel foglio, Notre Royaume est une prison: «Nel pensiero politico contemporaneo, il fascismo, più di ogni altra ideologia, ha il ruolo del diavolo. L’universo dei campi di concentramento fornisce uno degli inferni più convenienti. L’ideologia antifascista si propone con tutti i mezzi di salvare la democrazia dal fascismo e dalle dittature che ad esso sono più o meno assimilate per natura. Ma in realtà, questa ideologia è anzitutto lo strumento utilizzato per inficiare le sane prospettive del proletariato e per integrare questa classe nella difesa del mondo capitalistico»5.
Questo volantino non era uno slogan violento, era una dimostrazione. Non urlava: «Morte agli ebrei!», non conteneva nessun punto esclamativo, diceva con tranquillità, senza alzare la voce, che gli ebrei non erano morti come si era voluto far credere. Gli autori, peraltro, non erano nostalgici del Terzo Reich. Amavano la bandiera rossa, non la croce uncinata. Non appartenevano all’estrema destra, ma all’estrema sinistra. Ero disorientato. I miei punti di riferimento vacillavano. Avevo immaginato mille volte l’incontro con il Nemico, ma quello che appariva ai miei occhi, e con la massima calma trattava mio padre come un impostore, non aveva né le sembianze né il linguaggio che mi ero figurato. Cosa significava tutto questo? Dovevo assolutamente capirlo.
Charles Péguy, che avevo appena scoperto, mi ha chiarito le idee. Questo dreyfusardo aveva infatti combattuto su due fronti: contro l’avversione dei nazionalisti verso gli ebrei e contro l’avversione dei socialisti duri e puri per gli eventi inclassificabili. Mentre Maurice Barrès si soffermava sul «naso etnico» del capitano degradato e Léon Daudet lo descriveva come un «relitto del ghetto»6, Wilhelm Liebknecht, il fondatore, con August Bebel, del Partito operaio socialdemocratico tedesco, si chiedeva: «È verosimile, è ammissibile che un ufficiale dell’esercito francese, la cui famiglia e i cui genitori sono molto influenti, possa essere condannato per un crimine di alto tradimento che non ha commesso e restare dietro le sbarre per cinque anni consecutivi?». Forte della conoscenza delle leggi della Storia, rispondeva, naturalmente, in senso negativo. Per lui, non c’era alcun dubbio: la borghesia riserva ai suoi nemici la negazione della giustizia e i colpi bassi; ai suoi amici, invece, fa solo del bene. Liebknecht, in altre parole, non rimproverava nulla di particolare agli ebrei. Non augurava loro il male in quanto tali. Non era l’odio che dettava la sua posizione, era la logica. Jules Guesde, il suo omologo francese, rifiutava, dal canto suo, di vedere i socialisti abbandonare la loro battaglia e fare fronte comune con gli sfruttatori.
I militanti dell’estrema sinistra non erano saltati fuori da un disastro oscuro. Si inserivano nella linea di questo antidreyfusismo. Non c’era nessuna passione antisemita in loro, ma una fedeltà fanatica al principio di ragione. Hegel aveva proclamato che la ragione si realizza nella Storia e Marx che la lotta di classe era il motore di questa Storia. Come comportarsi dunque di fronte allo sterminio nazista? Questo evento sfidava ogni comprensione. Che la classe dominante avesse ridotto in schiavitù una parte dei suoi, era difficile da digerire. Ma che invece di sfruttarli, scegliesse, nel bel mezzo della guerra, di ucciderli, non aveva alcun senso. L’apparizione di Robert Faurisson sulla scena pubblica fu, per i fanatici della ragione, una sorpresa divina. Dopo essersela presa con Rimbaud e Lautréamont, questo professore di Lettere attaccava ora il «mito» delle camere a gas. Mostrava, prove alla mano, che «mai Hitler aveva ordinato né accettato che una persona fosse uccisa in ragione della propria razza o della propria religione». Non procedeva per deduzione, bensì dimostrava per induzione da una lunga e minuziosa inchiesta come il genocidio ebraico fosse il «frutto di un’immaginazione infiammata dalla propaganda». Non c’era nessun a priori nella sua presentazione delle cose, ma l’a posteriori di ciò che oggi viene chiamato il fact-checking. Non affermava, verificava. Esaminava, riga per riga, i racconti e le testimonianze, e convalidava, a seguito delle ricerche, la conclusione dei logici. Il suo lavoro di detective rimandava l’inverosimile nel limbo del non accaduto. Grazie alla sua lettura ostinata dei documenti, la Storia tornava in sé. Lo spasmo si riconciliava con l’idea generale. L’assurdità era scongiurata, la violenza aveva nuovamente un senso. E, come ai tempi dell’Affaire, la deplorazione della sofferenza ebraica aveva una funzione ben precisa: distogliere le masse, attraverso la mobilitazione generale contro un male immaginario, dal male reale dello sfruttamento. «Lo spauracchio dell’arbitrio fascista non ha altri obiettivi se non quello di privilegiare l’arbitrio “democratico”. Ci tirano fuori Auschwitz per nascondere meglio il fatto che tutta la società sia diventata un campo di concentramento», si leggeva in un altro volantino firmato «LA BOÎTE DES PANDORES»7.
Le menti della guerra sociale erano dunque riconoscenti all’archivista puntiglioso per aver incrinato lo schermo dietro cui il capitalismo dissimulava i suoi crimini. «Le camere a gas sono una favola, gli ebrei non vi sono morti»: questa imperturbabile constatazione che, ripeto, supera per violenza le grida di odio e le esortazioni all’omicidio, è nata dall’incontro tra l’orgoglio della demistificazione e la «lotta» di classe. E ciò che da allora l’ha nutrita, che ha provocato il suo successo, che l’ha resa attraente e plausibile ben oltre il circolo degli ideologi dell’estrema sinistra, è l’odio nei confronti di Israele. Poco importano, effettivamente, le testimonianze dei sopravvissuti. Al diavolo mio padre, Ruth Klüger, Imre Kertész e Primo Levi! Lo sterminio degli ebrei conviene troppo allo Stato ebraico per non essere sospetto. Israele depreda i palestinesi, ma fonda la sua legittimità sulla Shoah. Dunque la Shoah è una menzogna planetaria. Ecco l’impeccabile sillogismo che ha reso globale la negazione. Elaborata da un anticapitalismo radicale, questa controstoria ha prosperato sulla radicalità dell’antisionismo.
«Globalizzazione» non significa successo globale. Sembrava potersi stringere un’alleanza tra i decostruzionisti che mettono in discussione ogni verità e i dottrinari che danno la caccia senza tregua alla verità nascosta dietro il discorso del potere. Ma il peggio, questa volta, non si è verificato. Il confronto tra i presunti «revisionisti» e lo «sterminazionismo» ufficiale non ha avuto luogo. Nonostante la seduzione esercitata sul pensiero critico dalla formula di Nietzsche, «non esistono i fatti, ma solo le interpretazioni», la dicotomia tra il vero e il falso ha resistito. Nonostante l’influenza del grande linguista Noam Chomsky, gli storici si sono rifiutati di difendere l’oltraggio alla realtà fattuale che veniva presentato loro in nome del «diritto alla libera espressione delle idee, delle conclusioni e delle credenze»8. Non sono caduti nella trappola del dibattito. E, il 27 dicembre 2008, quasi quarant’anni dopo la pubblicazione da parte di «Le Monde» di un articolo intitolato Il problema delle camere a gas e la diceria di Auschwitz9, il professor Faurisson ha ricevuto il premio dell’Infrequentabilità e dell’Insolenza dalle mani del comico Dieudonné sul palco dello Zenith di Parigi. Fatto che, ad alcuni intellettuali e giornalisti sempre bramosi di veder vacillare le certezze più solide, era apparso, dapprima, come un’iniziativa iconoclasta conclusasi in una farsa deplorevole. Il «nuovo Galileo», di fronte alla persecuzione della giustizia, ha vissuto i suoi ultimi giorni nei panni della spalla di un clown e il clown stesso oggi viene screditato, nonostante lo spazio sempre maggiore che gli intrattenitori hanno nella società dello spettacolo.
Tuttavia, sarebbe un errore cantare vittoria. Il negazionismo non è morto. Su Internet, dove tutto è permesso e ciascuno può andare a pescare, ergendola a verità, la menzogna che soddisfa le proprie aspettative, esso offre uno sfogo allo sfinimento e all’esasperazione provocati in una piccola parte dell’opinione pubblica dall’insistente centralità della Shoah, prospera nelle terre dell’Islam, si insinua persino nei discorsi del successore moderato di Yasser Arafat a capo dell’Autorità palestinese e, soprattutto, non è altro che una manifestazione fra le altre di un fenomeno molto vasto: la ritorsione della Shoah contro gli ebrei. Ci sono quelli che sostengono che i sionisti abbiano forgiato la favola del genocidio senza eguali né precedenti per ingannare il mondo e ricattarlo fino alla fine dei tempi. Ci sono quelli che non contestano la veridicità dell’accaduto, ma che si indignano nel vederlo utilizzato come giustificazione incondizionata per le conquiste e i crimini di Israele: Norman Finkelstein denuncia a gran voce lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei da parte dell’«industria dell’Olocausto», e Tzvetan Todorov, con toni più pacati, «l’abuso di memoria» che, in nome dell’ingiustizia passata, apre agli ebrei nel presente una «linea di credito inesauribile». Jean-Luc Godard, cineasta universalmente acclamato per i suoi film e, ancor più, per i suoi vaticini, con una sola frase riesce a polverizzare il record di oscenità stabilito da Faurisson e che credevamo ineguagliabile: «Gli attentati suicidi dei palestinesi, per riuscire a far esistere uno Stato palestinese, assomigliano, in fin dei conti, a quanto fecero gli ebrei, lasciandosi guidare come pecore e sterminare nelle camere a gas, sacrificandosi così per permettere allo Stato d’Israele di esistere»10. Infine, ci sono quelli che nazificano, senza alcun processo, la politica israeliana: «Ad Auschwitz e a Mauthausen, a Sabra, Chatila e Gaza, il nazismo e il sionismo si danno la mano»11, scrive lo scrittore cileno Luis Sepúlveda. E il portoghese premio Nobel per la letteratura José Saramago: «Il popolo ebraico non merita alcuna compassione per le sofferenze subite durante l’Olocausto, perché ai palestinesi infligge le stesse sofferenze dell’Olocausto»12. E queste sofferenze non devono restare impunite. È con il pieno appoggio dei professori universitari e degli intellettuali francesi che si collocano, come proclamano con fierezza, «alla sinistra della sinistra», che Houria Bouteldja, la portavoce dei cosiddetti Indigeni della Repubblica13, accusa Sartre di aver scelto la fazione degli assassini, dacché si è rifiutato di completare la sua prefazione ai Dannati della terra, scrivendo: «Abbattere un israeliano è come prendere due piccioni con una fava, sopprimere allo stesso tempo un oppressore e un oppresso: restano un uomo morto e un uomo libero»14.
Invenzione della Shoah, strumentalizzazione della Shoah, riedizione della Shoah: sono queste le tre accuse attraverso cui l’odio si ripresenta all’Ebreo immaginario. E quest’odio lo colpisce tanto più in quanto non lo prende di mira come Altro, ma come boia dell’Altro. Ha invertito i ruoli. S’immaginava perseguitato, e ora quest’odio lo identifica con i persecutori della sua gente e difende l’unità del genere umano che lo Stato di cui è complice calpesta in teoria e in pratica dalla sua nascita. Nulla è più avvilente di questa collusione tra la memoria di Auschwitz e la negazione di Auschwitz. «Sporco ebreo!» era moralmente ignobile. «Sporco razzista!» è ignobilmente morale. Il Male che ora parla la lingua del Bene si propaga a tutta velocità senza che lo si possa disonorare.
«Se il destino ha decretato che fossimo ebrei, allora siamo tali»15, hanno detto, con Aharon Appelfeld, gli ebrei, anche i più assimilati, quando sono stati colpiti dall’antisemitismo. E i loro discendenti hanno voluto obbedire alla stessa «voce prescrittiva» fino all’isteria. Ma chi dirà mai: «Se il destino ha decretato che fossimo razzisti, allora siamo tali»? Gli ebrei presi di mira dall’antirazzismo non possono riscattare l’offesa dalla sua origine vile e farla diventare un vessillo. Sono condannati, dall’insostenibile aggettivo, all’indegnità.
Come comportarsi quando si deve rispondere di questo nuovo peccato mortale, se non ribellandosi e denunciando, senza lasciarsi intimidire, il terribile smarrimento della virtù? Ma la protesta non è sufficiente. Ancora una volta devo capire e, a tale scopo, risalire con la memoria oltre il dovere della memoria. Quando si scava un po’, infatti, la novità si dissolve. Gli antirazzisti che avanzano pretese su Israele riprendono, credendo di parlare di politica, un vecchissimo anatema: la maledizione dell’Ebreo carnale confinato nel suo egoismo tribale. Pensano esplicitamente alla ghettizzazione degli ebrei durante la seconda guerra mondiale quando insorgono contro la barriera di sicurezza che, dalla seconda Intifada, isola gli israeliani dai palestinesi, ma è un altro muro che li ossessiona e che sovrappongono a questa barriera: il muro dell’inimicizia che il Cristo è venuto ad abbattere «annullando la legge fatta di prescrizioni e di decreti»16. L’attualità sulla terra della Bibbia rianima in questi miscredenti delle rappresentazioni sopite e Marcione si insinua, con loro, fra noi. Questo vescovo del II secolo ha fondato la sua Chiesa sull’opposizione tra il Dio vendicativo e geloso del Vecchio Testamento e il Dio d’amore della Nuova Alleanza. Nelle Antitesi, tratte dalle lettere di san Paolo, affermava in particolare: «Il Cristo degli ebrei è destinato esclusivamente dal Creatore del Mondo a riunire il popolo degli ebrei dispersi; il nostro Cristo, invece, è incaricato dal buon Dio di liberare il genere umano». E ancora: «Giosuè ha conquistato la terra con violenza e crudeltà; il Cristo, invece, vieta ogni violenza e predica la misericordia e la pace»17.
Marcione è tornato di moda. I suoi discendenti occupano la scena e, riaccendendo la sua collera contro la Vecchia Alleanza, chiudono la breve parentesi razzista della lunga storia dell’antigiudaismo. Risolutamente universalisti, stigmatizzano la decisione ebraica di fondare lo Stato sull’etnia, nel momento in cui per tutte le democrazie è giunta l’ora di convertirsi alla religione dell’umanità. Non hanno altro credo al di fuori della pari dignità delle persone e denunciano, nel suo nome, la preferenza per sé mostrata senza pudore dal popolo di Israele. Resta il fatto che se la loro animosità è palpabile e le loro parole incendiarie, è comunque un fuoco metaforico e sono ancora soltanto parole. Si guardano bene, per il momento, dal passare all’azione. Si accontentano di scusare, o di giustificare, quelli che lo fanno. L’ostilità di «gran parte della gioventù francese nera e araba nei confronti degli ebrei» non ha nulla a che vedere con l’antisemitismo storico né con i precetti del Corano o con la situazione in cui si trova la gente del Libro nelle terre dell’Islam, scrivono, per esempio, il filosofo Alain Badiou e l’editore Éric Hazan. È «fondamentalmente legata a ciò che accade in Palestina». Questi giovani «sanno che laggiù degli israeliani di confessione ebraica opprimono i palestinesi, che considerano, per evidenti ragioni storiche, come loro fratelli»18. Sotto l’effetto di questa fratellanza irrequieta, degli adolescenti che indossano la kippah vengono aggrediti per strada, interi quartieri si svuotano dei loro abitanti ebrei e le sinagoghe, le scuole, i centri culturali ebraici sono ormai diventati delle fortezze dotate di videocamere di sorveglianza e protette da soldati armati.
Va da sé, ma è meglio dirlo, che queste violenze e queste minacce non riguardano tutti gli immigrati e i loro figli, ma Badiou e Hazan hanno ragione: i responsabili sono per la stragrande maggioranza originari del Maghreb, dell’Africa sub-sahariana o del Medio Oriente. Giacché nulla sembra poter arrestare il flusso migratorio, la situazione si aggraverà inevitabilmente con la benedizione dei sostenitori dell’accoglienza incondizionata. Questi ultimi credono nel ritorno degli anni trenta e vogliono agire di conseguenza. Facendo leva sul ricordo della politica di esclusione condotta dal Terzo Reich fino allo sterminio finale, caldeggiano l’apertura delle frontiere. Nell’aprile 2015, dopo il naufragio di un barcone di migranti, la parlamentare svedese Cecilia Wikström ha stabilito un parallelo tra l’attuale situazione dei rifugiati e l’Olocausto. «Penso», ha scritto, «che i miei figli e i miei nipoti chiederanno perché non ci siamo prodigati di più per aiutare coloro che fuggivano dall’Isis, o dalla violenza in Eritrea o altrove, e abbiamo lasciato morire migliaia di persone. Riproporranno le stesse domande che circolavano dopo la guerra: “Se lo sapevate, perché non avete fatto niente?”»19. L’intervento di Cecilia Wikström non è rimasto inascoltato: la Svezia ha fatto ciò che doveva per riparare i suoi torti, la redenzione è avvenuta, e, mentre la nuova generazione si guardava ammirata allo specchio, Malmö – la terza città svedese – diventava judenrein20. Lungi dall’essere una prevenzione efficace contro la ricomparsa del peggiore dei mali, la denuncia solenne dell’antisemitismo di ieri e la volontà di trarne insegnamento spianano la strada all’antisemitismo che verrà. Questo paradosso è la prova inconfutabile dell’esistenza del diavolo.
Brusco risveglio, a ogni modo, per colui che, dopo aver recitato la tragedia, aveva messo fine al suo spettacolo e si rallegrava per la propria sobrietà riconquistata: l’ossessione di Adolf Hitler mette gli ebrei in grave pericolo. Per una terribile ironia della sorte, l’assillo dei tempi bui rischia di essere loro fatale. Non sono i protetti, ma i primi bersagli del dovere della memoria. Il rimedio sarebbe dunque l’oblio? Mai e poi mai. «Come si può accettare di non sapere? Leggiamo libri su Auschwitz. Il desiderio di tutti, laggiù, l’ultimo desiderio: sappiate ciò che è successo, non dimenticatelo e, allo stesso tempo, sappiate che non saprete mai»21. Non si può dimenticare. Per quanto informati possiamo essere, ogni nuovo dettaglio ci lascia sconcertati e senza parole. Ciò che bisogna fare è demarcionizzare la memoria, rifiutando di catalogare Israele come razzista, o, peggio, nazista. E c’è molto lavoro da fare, perché l’analogia infuria. Ho citato Sepúlveda e Saramago. Ecco qui, in ordine sparso, altri esempi: nel 1983, in un articolo intitolato Grandezza di Yasser Arafat, Gilles Deleuze, uno dei maggiori filosofi francesi, formulava questa implacabile requisitoria: «I conquistatori erano proprio coloro che avevano subito il più grande genocidio della Storia. E di questo genocidio i sionisti avevano fatto un male assoluto. Ma trasformare il più grande genocidio della Storia in male assoluto, è una visione religiosa e mistica, non una visione storica. Non ferma il male; semmai lo propaga, lo fa ricadere su altri innocenti, esige un risarcimento che fa subire a questi altri una parte di ciò che hanno subito gli ebrei (l’espulsione, la ghettizzazione, la scomparsa in quanto popolo). Con mezzi più “freddi” del genocidio si vuole giungere allo stesso risultato»22. Nel 2002, la giurista Monique Chemillier-Gendreau scriveva: «Incaponirsi sull’idea di uno Stato ebraico, significa sostenere l’edificazione di una società di apartheid e accettare, in nome della reciprocità, che ovunque nel mondo si costruiscano degli Stati puri, follia che sempre sfiora lo sterminio e spesso lo mette in pratica»23. Nel 2003, lo storico inglese Tony Judt denunciava l’«anacronismo» di uno Stato che utilizza criteri etnico-religiosi per designare e classificare i suoi cittadini in un mondo dove le nazioni e gli uomini si mescolano sempre di più. Nel 2004, la scrittrice e saggista francese Danièle Sallenave afferma, in un libro sconcertante, che la lotta contro l’antisemitismo e il comunitarismo arabo-musulmano sono la «maschera del sostegno incondizionato a Israele», questo Stato violento che, non pago di martirizzare i palestinesi, pratica, secondo una logica terrena, il traffico di organi con la Moldavia e, ogni anno, abbandona alla prostituzione centinaia di donne e adolescenti originarie dell’ex Unione Sovietica24. Nel 2006, due eminenti professori universitari americani, John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, hanno sostenuto che il loro paese dovesse dissociarsi da Israele perché quell’alleanza era, secondo loro, controproducente e, soprattutto, contro natura: «L’argomento della “comune natura democratica” è indebolito anche da certi aspetti della democrazia israeliana, in contrasto con i valori fondamentali degli americani. Gli Stati Uniti sono una democrazia liberale in cui persone di ogni razza, religione o etnia possono godere di uguali diritti. Nonostante ospiti cittadini di estrazione eterogenea, come arabi, musulmani, cristiani, ecc., Israele nacque esplicitamente come Stato ebraico, e il fatto che un cittadino sia considerato ebreo dipende di norma dai suoi rapporti di parentela»25. Nel 2008, in un’opera intitolata La violence monothéiste, l’ex diplomatico e professore di Lettere Jean Soler spingeva l’accusa ancora più in là. Secondo questo meticoloso lettore delle Scritture, non sarebbero i sionisti a comportarsi come nazisti, ma i nazisti che, prima dei sionisti, avrebbero agito come zelanti discepoli della Bibbia ebraica. Con la soluzione finale, scrive Soler, «Hitler si è deciso ad applicare i principi che preconizzava nel Mein Kampf per la politica nazionalsocialista: nessun compromesso, nessuna mezza misura. Ha voluto annientare in un colpo solo, e una volta per sempre, tutti gli ebrei d’Europa. Era la logica del Tutto o Niente. L’ideologia di Gerico»26. Gerico, ricordiamolo, è la città conquistata da Giosuè «con violenza e crudeltà». Per infliggere ai palestinesi «le stesse sofferenze dell’Olocausto», gli ebrei non avrebbero dunque avuto bisogno di imitare i loro persecutori. Avevano tutto in magazzino. Erano i loro persecutori, invece, ad aver copiato da loro. Si deve al Vecchio Testamento, infatti, l’invenzione del razzismo, e cos’è la distruzione dei cananei se non il modello al quale tutte le iniziative di genocidio si sono ispirate? Hitler non lo sapeva, ma era l’emulo di Mosè. Ebreo razzista, un pleonasmo.
Gli scrittori e gli intellettuali che ho appena elencato rileggono la storia del XX secolo con gli occhi di Marcione. E non sono i soli. Potrei citarne molti altri, da Louis Sala-Molins27, autore di un’edizione critica del Code noir che è passata alla storia, a Gianni Vattimo, il filosofo del «pensiero debole»28. L’esistenza d’Israele ha reso nuovamente attuali le Antitesi del vescovo scomunicato. Incredibile paradosso: nel momento in cui le Chiese cristiane, prese dall’orrore per la Shoah, abbandonano finalmente il loro secolare insegnamento del disprezzo a favore del dialogo fraterno, la teologia più radicalmente ostile ai figli di Abramo riemerge quando meno ce lo si aspettava: la maledizione dell’Ebreo carnale è diventata un luogo comune del pensiero post-religioso e post-hitleriano.
A questo scandalo storico e metafisico, contrapporrò la testimonianza sconvolgente di Wladimir Rabinovitch, detto «Rabi», al termine della catastrofe: «Siamo stati reinseriti nella nostra condizione di uomini liberi. Abbiamo ricominciato a essere cittadini francesi. Abbiamo ripreso la nostra attività professionale, o almeno quelli che hanno potuto farlo. Ma ciò di cui non parliamo è questa ossessione costante, questo lancinante dolore segreto dietro ogni nostro atto e ogni nostra frase. No, non saremo mai più come gli altri. Non possiamo dimenticare. Non dimenticheremo mai. Siamo stati la spazzatura del mondo: contro di noi, ogni persona era autorizzata a fare quello che voleva»29. Quelli che Rabi chiama «i separati» hanno tratto dal loro dolore la seguente conclusione: mai più, mai più questa miseria, questo abbandono, questa solitudine. Andiamo in qualche luogo della terra per ritrovare le nostre prerogative di popolo.
Quel «mai più» era quello dei miei genitori e di tutti i sopravvissuti, che abbiano scelto o meno di stabilirsi in Israele. L’esistenza di questo paese li consolava, li tranquillizzava, era un balsamo per il loro cuore. Non esigevano il pentimento, non avevano bisogno di un mea culpa nazionale, volevano soltanto essere compresi e che si permettesse a Israele di esistere. Facendo spazio nella loro memoria ferita alla battaglia delle forze francesi libere e al patriottismo di tutti coloro che hanno partecipato alla Resistenza, non chiedevano al presidente della Repubblica di incriminare l’intera Francia per la partecipazione del regime di Vichy alla soluzione finale. E non immaginavano, nemmeno nei loro peggiori incubi, che sarebbe arrivato il giorno in cui un opinionista di una trasmissione televisiva molto seguita si sarebbe rivolto al regista di un film sul sequestro, la tortura e l’assassinio di un giovane ebreo da parte di una gang di periferia, in questi termini: «E perché non parla dei bambini palestinesi uccisi dall’esercito israeliano?». Nonostante la loro diffidenza cronica («oilem golem», «il popolo è un golem», aveva l’abitudine di dire mio padre), non potevano nemmeno immaginare che in occasione di un movimento di protesta di cittadini dimenticati dalla globalizzazione e dalla previdenza sociale, alcuni contestatori avrebbero designato la «mafia sionista» come il loro principale nemico. Insomma, erano ben lungi dall’immaginare che l’odio verso Israele avrebbe portato ad appuntare la croce uncinata sul petto degli ebrei e che questi avrebbero dovuto essere difesi sotto la bandiera di «Sos Antiracisme»30.
Ho smesso di confondere fedeltà e spavalderia, non mi faccio più illusioni. Sono consapevole di ciò che mi separa dai separati, ma ho fatto mio il loro «mai più». Rivendico con forza questa eredità, ed è per me un costante motivo di stupore vedere il minuscolo Stato, dove si esprimono tutti i dissidi dell’animo ebraico, tener testa, fin da quando è nato, ai nemici che lo circondano. L’amore, tuttavia, non mi rende cieco: non essendo ancora capace di vedere ciò che credo, ma di credere in ciò che vedo, da ormai quarant’anni sono favorevole alla fine dell’occupazione e alla soluzione dei due Stati. E mi intestardisco, torno instancabilmente alla carica, rischio persino di vaneggiare, perché lo status quo è un inganno che dissimula il continuo deteriorarsi della situazione. Non dimentico che Israele, per il suo ritiro dalla striscia di Gaza e dal Sud del Libano, è stato ripagato con un aumento di aggressività su questi due confini. Non prendo alla leggera l’approssimarsi della minaccia iraniana. Avendo letto lo Statuto di Hamas, so che, per questa organizzazione che regna su Gaza e rischierebbe di vincere in Cisgiordania nel caso in cui si tenessero oggi delle elezioni, la comunità di riferimento non è la nazione, ma la umma (la comunità dei credenti): «La terra di Palestina è una terra islamica (waqf) per tutte le generazioni di musulmani fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad essa o a parte di essa, separarsene totalmente o in parte» (articolo 11). Gli israeliani, di cui si denuncia regolarmente la hybris e lo spirito di conquista, sono in realtà mossi, e non senza motivo, dalla diffidenza e dalla paura. Ma per quanto possano essere giustificati, questi sentimenti devono essere temperati da altre considerazioni. La prima, che non si può ignorare, è il diritto di tutti i palestinesi di non vivere più sotto tutela. La seconda è che al ritmo con cui avanza la colonizzazione di popolamento a ovest del fiume Giordano, sarà presto troppo tardi per tornare indietro: gli ebrei non saranno più la maggioranza nello Stato che hanno creato per poterlo essere. I coloni danzanti e quelli che li sostengono non realizzano, come dicono con vanto, il progetto sionista: lo assassinano. Hanno ritenuto opportuno affermare nella Costituzione il carattere ebraico di Israele, quando in realtà lavorano senza tregua alla sua degiudaizzazione. È per questo motivo, nonostante gli ostacoli sempre più inquietanti rappresentati dall’annessionismo degli uni e dal panislamismo degli altri o dalla loro rivendicazione ostinata di un diritto al ritorno all’interno delle frontiere di Israele, che non cambio idea, e rimango fedele a questa frase del grande storico Jacob Leib Talmon, in una lettera aperta indirizzata a Menachem Begin, pubblicata dal quotidiano «Haaretz» il 30 marzo 1980: «Di questi tempi, l’unico modo per giungere a una coesistenza tra i popoli, benché ciò possa sembrare paradossale e spiacevole, è separarli»31.
Talmon non era un ingenuo sognatore. Duecentottantasei generali in pensione dell’esercito, del Mossad, dello Shin Bet32 e della polizia si sono riuniti, poco tempo fa, sotto il nome di «Commanders for Israel’s Security». Dopo aver analizzato nel dettaglio le ripercussioni negative che l’annessione della Giudea e Samaria avrebbe sulla sicurezza di Israele, invocano solennemente un «governo di separazione nazionale». Considerando la loro posizione, difficilmente possono essere tacciati di ingenuità. Sono persone pragmatiche. Ma basterà questa garanzia? I soldati che hanno affrontato e dato la caccia al nemico verranno ascoltati più del professore universitario dalle mani pure? O la paura porterà gli israeliani a fare la scelta peggiore? In tutta sincerità, io non sono pronto a voltare pagina.
1 A. Finkielkraut, L’ebreo immaginario, Genova, Marietti, 1990 (ed. or. Le Juif imaginaire, Paris, Éditions du Seuil, 1980).
2 J.-P. Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, Milano, Edizioni di Comunità, 1982, p. 65 (ed. or. Réflexions sur la question juive, Paris, Gallimard, 1986).
3 P. Roth, Lo scrittore fantasma, Torino, Einaudi, 2004, p. 86.
4 D. Mendelsohn, Gli scomparsi, Torino, Einaudi, 2018.
5 Citato in V. Igounet, Histoire du négationnisme en France, Paris, Éditions du Seuil, 2000, p. 295.
6 Citato in J.-D. Bredin, L’Affaire (1983), Paris, Fayard-Julliard, 1993, p. 14.
7 Citato in Igounet, Histoire du négationnisme en France, cit., p. 290.
8 N. Chomsky, prefazione a R. Faurisson, Mémoire en défense. Contre ceux qui m’accusent de falsifier l’Histoire. La question des chambres à gaz, Paris, La Vieille Taupe, 1980, p. 6.
9 Nell’articolo, pubblicato il 29 dicembre 1978, Robert Faurisson sosteneva l’inesistenza delle camere a gas e invitava a presentare prove incontrovertibili che contraddicessero la sua tesi [N.d.T.].
10 J.-L. Godard, citato in A. Fleischer, Courts-circuits, Paris, Le Cherche Midi, 2009, p. 289.
11 L. Sepúlveda, Una sporca storia, Milano, Tea, 2006, p. 61.
12 J. Saramago, citato in P.-A. Taguieff, La nouvelle propagande anti-juive, Paris, Puf, 2010, p. 49.
13 Partito fondato nel 2005 dalla militante franco-algerina Houria Bouteldja. Di posizioni radicali, i membri degli Indigènes de la République si definiscono antirazzisti e decolonialisti, difensori dei diritti delle minoranze e contrari al meticciato con i bianchi [N.d.T.].
14 H. Bouteldja, Les Blancs, les Juifs et nous. Vers une politique de l’amour révolutionnaire, Paris, La fabrique éditions, 2016, pp. 17-18.
15 A. Appelfeld, L’héritage nu, Paris, Éditions de l’Olivier, 2006, p. 84.
16 Paolo di Tarso, Lettera agli Efesini (2, 15), in La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, Edizioni Dehoniane Bologna, 1991, pp. 2512-2513.
17 Vedi A. von Harnack, Marcion. L’évangile du Dieu étranger, Paris, Les éditions du Cerf, 2003, p. 113.
18 A. Badiou, É. Hazan, L’antisèmitisme partout. Aujourd’hui en France, Paris, La fabrique éditions, 2011, p. 18.
19 Citata in D. Murray, La strana morte dell’Europa. Immigrazione, identità, Islam, Vicenza, Neri Pozza, 2018.
20 Termine tedesco per «ripulito da ogni presenza ebraica» [N.d.T.].
21 M. Blanchot, L’écriture du désastre, Paris, Gallimard, 1980, p. 131.
22 G. Deleuze, Grandezza di Yasser Arafat, in Id., Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, a cura di D. Borca Torino, Einaudi, 2010, p. 194 (ed. or. Deux régimes de fou. Textes et entretiens, 1975-1995, a cura di D. Lapoujade, Paris, Les Éditions de Minuit, 2003, p. 223).
23 M. Chemillier-Gendreau, in Le Droit au retour. Le problème des réfugiés palestiniens, a cura di F. Mardam-Bey ed E. Sanbar, Arles, Sindbad, 2002, p. 394.
24 D. Sallenave, Dieu.com, Paris, Gallimard, 2004.
25 J.J. Mearsheimer, S.M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Milano, Mondadori, 2007, p. 112.
26 J. Soler, La violence monothéiste, Paris, Éditions de Fallois, 2008, p. 386.
27 Vedi L. Sala-Molins, Le Code noir ou le calvaire de Canaan (Paris, Puf, 1998), e soprattutto Id., Le livre rouge de Yahvé (Paris, La Dispute, 2004); questa riscrittura carica d’odio del Pentateuco fa pronunciare a Mosè le seguenti parole: «Nelle città di quei popoli che Dio ti lascia in eredità, non permetterai a nessun essere vivente di sopravvivere. Ne sterminerai tutti gli abitanti. È l’anatema, è il genocidio, le parole cambiano, non la sostanza, non puoi sbagliarti: è “tu esisti, hai torto, ti uccido”» (p. 222). La Dispute, tengo a precisarlo, è un editore di estrema sinistra.
28 Vedi G. Vattimo, How to Become an Anti-Zionist, in Deconstructing Zionism: A Critique of Political Metaphysics, a cura di G. Vattimo, M. Marder, New York, Bloomsbury, 2014.
29 W. Rabinovitch, citato in R. Poznanski, Propagandes et persécutions. La Résistance et le «problème juif». 1940-1944, Paris, Fayard, 2008, p. 584.
30 Il riferimento è all’associazione «Sos Racisme», creata nel 1984 con l’obiettivo di contrastare il razzismo, l’antisemitismo e più in generale ogni forma di discriminazione [N.d.T.].
31 J.L. Talmon, La patrie en danger. Lettre ouverte de Jacob Talmon à Menahem Begin, in «Le Débat», n. 11, 1981, p. 58.
32 L’agenzia di intelligence per gli affari interni di Israele [N.d.T.].