CAPITOLO XV
Intermittenze del cuore
1. Con la sua stabilità il linguaggio blandisce le nostre indecisioni. Ci consente di schermarci dietro una illusoria permanenza e fissità, mentre il mondo di minuto in minuto evolve. «Nessun uomo si bagna nello stesso fiume due volte», diceva Eraclito, indicando l’ineluttabile fluire, e ignorando tuttavia il fatto che se la parola che sta per fiume non cambia, allora possiamo presumere che è sempre lo stesso fiume quello in cui è dato entrare. Io ero un uomo innamorato di una donna, ma quanto della volubilità e incostanza delle mie emozioni tale assunto poteva riflettere? Potevano le parole contenere tutta l’infedeltà, la noia, l’irritazione e l’indifferenza che spesso all’amore sono intrecciate? Era ragionevole sperare che le parole rispecchiassero esattamente il grado di ambivalenza al quale le mie emozioni sembravano destinate?
2. A identificarmi è un nome, destinato ad accompagnarmi per tutta
la vita: l’«io» che vedo in una fotografia che mi ritrae a sei
anni, e quello che forse vedrò in un ritratto dei sessanta, saranno
entrambi identificati dalle stesse lettere, anche se il tempo avrà
mutato la mia fisionomia fino a rendermi quasi irriconoscibile. Un
albero è sempre un albero, anche se, nel corso dell’anno, è
soggetto a cambiamenti. Dare all’albero un nome diverso in ogni
stagione creerebbe troppa confusione, così il linguaggio si
stabilizza nella continuità, trascurando che le foglie, presenti in
una certa stagione, in un’altra mancheranno.
3. Procediamo quindi per abbreviazione, scegliendo il carattere
dominante (di un albero, di uno stato emotivo) ed etichettando come
il tutto ciò che è solo una parte. Allo stesso modo, il resoconto
che facciamo di un evento si limita a un segmento della totalità
che il fatto ha compreso; appena narrato, l’evento perde la sua
molteplicità e ambivalenza nel nome di un significato astratto e di
un intento d’autore. La storia è la povertà del momento ricordato.
Chloe ed io vivevamo una storia d’amore che si dilatava in un lasso
di tempo, durante il quale i miei sentimenti si muovevano così
velocemente lungo lo spettro emotivo che parlare semplicemente di
amore sembrava assolutamente riduttivo.
Costretti dal tempo e dall’impazienza a semplificare, per non
essere sopraffatti dalla nostra ambiguità e mutevolezza, ci
ritroviamo a narrare e ricordare per ellissi. Il presente è
svilito, prima nella storia, poi nella nostalgia.
4. Chloe ed io trascorremmo insieme un bel weekend a Bath.
Visitammo le terme romane, cenammo in un ristorante italiano,
passeggiammo la domenica pomeriggio tra le caratteristiche
architetture. Di quel weekend a Bath cosa rimane? Poche istantanee
mentali - le tende color porpora della camera in cui abbiamo
dormito, la vista della città dal treno, un parco, un orologio
sopra un camino. Solo ruderi pittorici. E quelli emozionali, ancora
più lacunosi. Rammento di essere stato felice, ricordo di aver
amato Chloe. Eppure se mi sforzo di ripensare, di sperare in un
ricordo meno superficiale, richiamo alla memoria vicende più
complesse: frustrazione nella ressa al museo, ansia andando a letto
sabato notte, leggera indigestione per le scaloppe di vitello, un
fastidioso ritardo alla stazione di Bath, una discussione con Chloe
in taxi.
5. Se al linguaggio perdoniamo l’ipocrisia è perché esso ci
consente di ricordare un weekend a Bath con una sola parola -
bello - creando quindi un assetto mentale
maneggevole e un’identità. Eppure, a volte, ci si trova faccia a
faccia con ciò che alla parola è sotteso, l’acqua che scorre sotto
il fiume di Eraclito, e si ricerca con ansia
la semplicità che le cose assumono quando uniche guardiane dei loro
confini sono le lettere. Amavo Chloe, è facile dirlo, come
affermare che si ama il succo di mela o Marcel Proust. Eppure
quanto più complessa era la realtà! Tanto che io faccio fatica a
dire, di qualsiasi momento vissuto, alcunché di conclusivo, perché
affermare qualcosa vuol dire automaticamente tralasciarne un’altra
- essendo ogni asserzione quasi il simbolo della soppressione di un
migliaio di contro-asserzioni.
6. Quando la sua amica Alice ci invitò a cena un venerdì sera,
Chloe accettò e predisse che mi sarei innamorato di lei. Eravamo in
otto alla tavola di Alice, a urtarci i gomiti per portare il cibo
alla bocca in un tavolo costruito per quattro. Alice viveva sola,
all’ultimo piano di una casa a Balham, lavorava come segretaria
all’Arts Council e, dovetti ammetterlo, un po’ mi innamorai di
lei.
7. Qualunque sia il grado di felicità con la nostra compagna,
l’amore per lei ci è di ostacolo (a meno di non vivere in una
società poligamica) ad avviare altre relazioni romantiche. Ma
perché ciò dovrebbe essere causa di frustrazione, se davvero la
amiamo? Perché, se il nostro amore per lei è sempre vivo, dovremmo
sentire come un limite tale condizione? Forse perché, nel risolvere
il nostro bisogno di amare, non sempre riusciamo a risolvere il
nostro bisogno di desiderare.
8. Osservando Alice parlare, accendere una candela che si era
spenta, affrettarsi in cucina con i piatti e allontanare dal viso
una ciocca di capelli biondi, fui colto da nostalgia romantica.
Succede in genere quando ci ritroviamo di fronte a qualcuno che
avrebbe potuto essere nostro, e che la sorte ci ha invece negato.
Intravvedendo la possibilità di una vita amorosa alternativa, ci
vien fatto di considerare che la storia che ci vede coinvolti è
solo una delle miriadi di storie possibili: ed è probabilmente
l’impossibilità di viverle tutte che ci fa sprofondare nella
tristezza. Vagheggiamo un tempo in cui non dovevamo scegliere, un
tempo scevro dalla tristezza per l’inevitabile perdita che ogni
scelta (per quanto meravigliosa) implica.
9. Per le strade cittadine o nei ristoranti affollati, mi è spesso
capitato di considerare che centinaia (e implicitamente anche
milioni) di donne, la cui vita correva simultaneamente alla mia,
per me sarebbero rimaste un mistero. Sebbene amassi Chloe, la vista
di quelle donne a volte mi riempiva di rimpianto. Alla pensilina di
un treno, o in coda in banca, sbirciavo un certo volto, captavo un
frammento di conversazione (l’auto di tizio aveva avuto un guasto,
caio stava prendendo la laurea, la madre di sempronio era
malata...) e provavo una momentanea tristezza per l’impossibilità
di conoscere il resto della storia; mi consolavo inventando una
trama che potesse adattarvisi.
10. Avrei potuto scambiare quattro chiacchiere con Alice dopo cena,
ma qualcosa mi impedì di fare alcunché se non fantasticare. Il
volto di Alice evocava dentro di me un vuoto, senza alcuna chiara
dimensione o intenzione, che il mio amore per Chloe per certi versi
non aveva risolto. L’ignoto porta con sé uno specchio di tutti i
nostri più segreti, e inesprimibili, desideri. L’ignoto è la fatale
asserzione che un volto visto al di là di una stanza resisterà
sempre al noto. Forse amavo Chloe, ma dato che la conoscevo, non morivo dalla voglia di lei. L’anelito non
può ritornare senza fine a chi conosciamo, perché le sue qualità,
ormai familiari, mancano di quell’alone di mistero che il desiderio
struggente invoca. Un volto, visto per pochi attimi o poche ore
prima di sparire per sempre, è il necessario catalizzatore di sogni
inesprimibili, uno spazio vuoto, un incommensurabile struggimento
interiore che sembra indefinibile quanto insaziabile.
11. «Allora, ti sei innamorato di lei?» chiese Chloe in
macchina.
«No, naturalmente.»
«È il tuo tipo.»
«No. E comunque sai che amo te.»
Nella più classica sceneggiatura del tradimento, uno chiede all’altro: «Come hai potuto tradirmi con x mentre dicevi che amavi me?» Ma non c’è incompatibilità fra un tradimento e una dichiarazione d’amore, quando nell’equazione entra il fattore tempo. «Ti amo» deve sempre essere inteso come «Ti amo ora». Non mentivo a Chloe dicendole che l’amavo, sulla strada del ritorno dalla festa di Alice, ma le mie parole erano sempre promesse circoscritte dal tempo.
12. Se i miei sentimenti verso Chloe cambiavano, si doveva anche al fatto che lei pure non era un essere immutabile, ma una connessione, perpetuamente mobile, di significati. La stabilità del suo lavoro e del suo numero telefonico era un’illusione o, piuttosto, una semplificazione. A un occhio attento, il suo volto registrava i più piccoli cambiamenti della sua condizione psicologica e fisiologica; si poteva cogliere un’alterazione del suo accento a seconda della persona con cui si trovava o del film che aveva visto, le sue spalle si abbassavano quando era stanca, la sua statura cresceva con l’autostima. C’era la faccia del lunedì e quella del venerdì, gli occhi di quando era triste e di quando si svegliava, le vene della sua mano quando leggeva il giornale e quando faceva la doccia. C’era il suo volto da una dozzina di angolazioni, al di là del tavolo, vicina per un bacio, sulla pensilina del treno. C’era Chloe con i genitori, e Chloe con l’amante, Chloe che sorrideva, e Chloe che passava il filo tra i denti.
13. Avrei dovuto essere un biografo instancabile per annotare tali
cambiamenti; d’abitudine, invece, ero una creatura pigra. Così,
spesso, scivolava via inosservata la parte più ricca della vita di
Chloe - la sua mutevolezza. Per lunghi intervalli non mi curavo di
notare (per via dell’acquisita familiarità)
tutti i cambiamenti che si manifestavano nel suo corpo o le linee
che si disegnavano sul suo viso, la differenza fra la Chloe del
lunedì e quella del venerdì. La nozione di lei divenne
un’abitudine, un’immagine stabile nell’occhio della mente.
14. Eppure c’erano momenti in cui, nella liscia superficie
dell’abitudine, si apriva una crepa; allora, una volta di più, ero
in grado di osservare Chloe nel modo corretto, con gli occhi di chi
non l’aveva mai vista prima. Durante un weekend, un guasto in
autostrada ci costrinse a chiamare il soccorso stradale. Quando, un
quarto d’ora dopo, arrivò il carro-attrezzi, Chloe andò a parlare
con il meccanico. Guardandola che discuteva con un estraneo (per
una forma di identificazione con lui) la donna, che conoscevo bene,
mi apparve all’improvviso sconosciuta. Osservavo il suo viso e
ascoltavo la sua voce senza quel velo di insensibilità dovuto alla
confidenza, la vedevo come appariva a uno che non aveva mai posato
gli occhi su lei, anziché come era diventata per me, la vedevo
spogliata dei pregiudizi che il tempo aveva sedimentato.
15. Tutt’a un tratto, osservandola che parlava di candele e filtri
dell’olio, mi prese un desiderio incontrollabile. La rottura di
un’abitudine aveva avuto un effetto di estraniamento, rendendo
Chloe sconosciuta ed esotica, e quindi desiderabile, con
l’intensità di qualcuno il cui corpo non abbiamo mai toccato. Al
meccanico occorsero solo pochi minuti per individuare il guasto,
aveva a che fare con la batteria, e fummo in grado di ripartire per
Londra. Ma il mio desiderio mandava altri segnali.
«Dobbiamo fermarci, andare in un hotel o parcheggiare in una stradina di campagna. Dobbiamo fare l’amore.»
«Perché? Che succede? Che stai facendo? Per favore, non ora, oddio... ohhh, Cristo, no... Hhhmmmm, OK, forse è meglio fermare l’auto, usciamo qui...»
16. L’attrazione per quella Chloe «estranea» mi portò a riflettere
sul rapporto tra movimento e sessualità, vale a dire il movimento
tra il corpo vestito e svestito. Ci fermammo in un viottolo appena
fuori dell’autostrada. La mia mano si mosse per accarezzarle il
seno attraverso la stoffa leggera del vestito, la carica erotica
emergendo dal ritorno a ciò che era stato estraniato, il corpo
perso e ritrovato. Fu un intervallo estatico tra nudità e vestito,
tra familiare ed estraneo, fra trasgressione e iniziazione.
17. Facemmo l’amore due volte, sul sedile posteriore della
Volkswagen di Chloe, circondati da bagagli e giornali vecchi. Ma
per quanto benvenuto, quell’improvviso e imprevedibile desiderio,
quell’impeto di afferrarci reciprocamente abiti e carne, mi ammonì
su quanto potesse essere distruttivo il flusso della passione. Se
la foga del desiderio ci aveva spinto ad abbandonare l’autostrada,
non poteva darsi che, in un momento successivo, fossimo trascinati
da un altro ormone? C’era probabilmente una certa, anche se non
realistica, logica nell’aver chiamato cicliche le nostre emozioni.
Il nostro amore assomigliava alla corrente impetuosa di un torrente
di montagna, più che al pacato succedersi delle stagioni.
18. Chloe ed io facevamo un gioco, parafrasando l’assunto
eracliteo, per valutare l’ondeggiamento delle nostre emozioni e
stemperare la pretesa comune che la fiamma dell’amore bruci con la
stabilità di una lampadina elettrica.
«Cosa c’è che non va? Non ti piaccio oggi?» chiedeva uno di noi.
«Mi piaci meno.»
«Davvero, molto meno?»
«No, non molto.»
«Rispetto a dieci?»
«Oggi? Oh, probabilmente sei e mezzo o, no, forse più sei e tre quarti. E che mi dici tu di me?»
«Dio, direi tre meno, però era dodici e mezzo, stamattina presto quando tu...»
19. Fu in un altro ristorante cinese (Chloe li prediligeva), che
compresi come gli incontri con gli altri fossero paragonabili al
girello che era al centro del tavolo e sul quale venivano messi i
piatti che, in tal modo, potevano ruotare offrendo a un commensale
ora i gamberetti, e subito dopo il maiale. Nell’amare qualcuno non
si ripeteva forse lo stesso schema circolare, in cui il bene e il
male, con l’andar del tempo, girano? Mutevoli per tutto il resto,
ci illudiamo erroneamente della stabilità delle emozioni umane;
operando una divisione netta tra amore e non-amore, pensiamo che
quest’ultimo si presenti solo due volte, all’inizio e alla fine di
una relazione, anziché nell’evoluzione perenne che si attua di
giorno in giorno, di ora in ora. C’è un impulso a frantumare
l’amore e a odiarne i pezzi, anziché vederli come legittimi
riscontri alle molte sfaccettature di un’unica persona. C’è un
bisogno infantile di amare il bene senza riserve e alla stessa
maniera odiare il male, di individuare un unico bersaglio,
indiscutibilmente appropriato, per gli istinti aggressivi così come
per quelli affettuosi. Ma con Chloe una stabilità simile era
impossibile. Bastava un attimo perché, sul personale girello cinese
di Chloe, ogni piatto ruotasse. Stordito dalla confusione che ne
derivava, mi accorgevo che lei poteva essere:

Figura 15.1
20. Non era facile, in genere, immaginare dove si sarebbe fermata
la ruota, in movimento da un’emozione all’altra. Poteva capitare
che, vedendo Chloe seduta in una certa posa, o sentendola fare una
determinata affermazione, ne fossi all’improvviso irritato, quando
solo un minuto prima tutto era dolcezza e splendore. Non capitava
solo a me però, c’erano volte in cui anche Chloe aveva nei miei
riguardi moti aggressivi. Una sera che, con un gruppo di amici,
commentavamo un film, Chloe all’improvviso si era lanciata in
un’animata requisitoria contro la mia accondiscendenza verso
preferenze e opinioni altrui. Sul momento ne fui sconcertato, non
avevo ancora aperto bocca; poi intuii che a irritarla doveva essere
stato altro, qualcosa che avevo fatto prima, e che lei si serviva
di quell’opportunità per dare sfogo alla sua frustrazione; oppure a
turbarla era stato qualcun altro e io sostituivo un bersaglio al
momento assente in quel momento. In molte delle nostre discussioni
entrava in gioco questo fattore di slealtà, nel senso che erano
pretesti per esternare sentimenti che poco o niente avevano a che
fare con la situazione presente o con noi stessi. Mi arrabbiavo con
Chloe non per la ragione contingente (stava facendo rumore
svuotando la lavastoviglie, mentre io cercavo di seguire il
notiziario), ma perché ero carico di ansia e sensi di colpa per non
aver risposto prima, in ufficio, a una telefonata di lavoro
piuttosto imbarazzante. Quanto a Chloe, non era da escludere che
provocasse intenzionalmente tutto quel rumore, per comunicarmi una
collera che la mattina non era riuscita a manifestarmi. (Potremmo
allora definire maturità - questa meta irraggiungibile - la
capacità di dare agli altri ciò che meritano, quando lo meritano; e
di distinguere i sentimenti che appartengono solo a noi, quindi a
noi dovrebbero essere circoscritti, da quelli che hanno un
referente che li ha provocati e che non vanno trasferiti su tardive
e innocenti comparse.)
21. È legittimo domandarsi perché chi afferma di amarci covi, allo
stesso tempo, ostilità e risentimento apparentemente ingiusti. La
verità è che dentro di noi nascondiamo una quantità di
inconfessate, contrastanti emozioni, stratificazioni di
comportamenti infantili, su cui abbiamo scarso, o nullo, controllo.
Collere, impulsi cannibaleschi, fantasie distruttive, bisessualità
e paranoia infantile si intrecciano tutte a più rispettabili
pulsioni. «Mai dovremmo dire di altri che sono malvagi», scriveva
il filoso francese Alain, «dovremmo limitarci a cercare lo spillo»
- vale a dire quel fattore irritante che sta dietro a una
discussione o a un’offesa. Chloe ed io eravamo ben disposti a
tentare, ma ad aver la meglio erano, a volte, le complicazioni,
fossero queste impulsi sessuali un po’ stravaganti o conseguenze di
traumi infantili.
22. Se i filosofi hanno tradizionalmente sostenuto la superiorità
della vita vissuta secondo ragione, condannando, nel suo nome, la
vita dominata dalle passioni, è perché la ragione è il fondamento
della continuità, non ha una dimensione temporalmente limitata, non
ha una data di scadenza. A differenza del romantico, il filosofo,
per esempio, non lascia che il suo interesse vaghi follemente da
Chloe ad Alice, per tornare ancora a Chloe: solidi criteri
avvalorano ogni scelta compiuta. Nel suo desiderio il filosofo
vedrà soltanto evoluzioni, non strappi. In amore sarà fedele e
costante, la sua vita definita come la traiettoria di una freccia
in volo.
23. Ma, ed è l’aspetto più importante, al filosofo è assicurata
un’identità. Cosa vuol dire identità?
Probabilmente qualcosa che si sagoma sulle aspirazioni del
soggetto: sono ciò che amo. Ciò che sono dipende in gran parte da ciò che voglio. Se all’età di dieci anni amavo il golf,
e a centoventi è ancora il mio sport preferito, allora la mia
identità (di golfista e indirettamente di persona) si dimostra
salda. Se mantengo la mia fede nel Cattolicesimo dai due ai
novant’anni, posso scongiurare le crisi di identità di un ebreo che
matura a trentacinque anni il desiderio di diventare vescovo, o di
un papa che alla fine della vita si converte all’Islam.
24. Molto diversa è la vita dell’emotivo, scandita dalle
vertiginose rivoluzioni dell’orologio, per cui il «cosa vuole» cambia così rapidamente che il «chi è» viene posto costantemente in discussione. Se
l’uomo sensibile un giorno ama Samantha e quello dopo Sally, chi è
davvero? Se io una notte facevo l’amore con Chloe e il mattino dopo
mi svegliavo con sentimenti di odio per lei, chi ero in realtà? Non è che avessi rinunciato del tutto
al progetto di diventare una persona più ragionevole. Semplicemente
mi trovavo di fronte l’ostinato problema di individuare solide
ragioni per l’amare e il non-amare Chloe.
Oggettivamente, non c’erano giustificazioni convincenti per
entrambi i sentimenti, il che rendeva la mia occasionale ambiguità
verso di lei ancor più irresolubile. Se ci fossero state valide,
inoppugnabili (oserei dire logiche) ragioni per amare o odiare, ci
sarebbero stati punti di riferimento cui rivolgersi. Ma, come la
fessura tra gli incisivi non poteva essere considerata ragione
valida per cadere ai suoi piedi, potevo chiamare in causa, a
giustificazione dell’odio, il suo modo di grattarsi il gomito?
Qualsiasi motivo si possa consapevolmente addurre, solo in parte
siamo consci dei fondamenti della nostra attrazione (e quindi dell’irreversibile e tragico processo che
l’innamoramento comporta...).
25. In contrapposizione alle discontinuità, c’era una naturale
esigenza omeostatica: il mantenimento della
stabilità del contesto emozionale. L’impulso omeostatico
mitigava le oscillazioni, puntava alla regolarità e allo scansare
la turbolenza, desiderava continuità e coerenza. L’omeostasi mi
ancorava a una storia d’amore lineare, quella di Chloe e me, avendo
la meglio su di me quando si manifestava l’impulso a sviluppare
intrecci secondari, a tralasciare, o mettere in discussione, la mia
storia con la schizofrenia di un romanzo moderno. Svegliandomi da
un sogno erotico, passato con una sintesi di due volti visti il
giorno prima in un negozio, io provavo subito il bisogno di
ritrovare la mia dimensione cercando Chloe accanto a me.
Riconducevo alla stereotipia le mie potenzialità, ritornavo al
ruolo che il mio stesso romanzo mi aveva assegnato, mi piegavo alla
spietata autorità di ciò che già esiste.
26. Gli ondeggiamenti erano tenuti a bada dalla stabilità
dell’ambiente, dalle più salde convinzioni di quelli intorno a noi.
Ricordo un litigio furioso scoppiato un sabato, pochi minuti prima
di vedere alcuni amici. Ci rendemmo conto entrambi, quella volta,
che la lite era davvero seria, che potevamo arrivare alla rottura.
Eppure, l’eventualità di porre fine alla nostra storia fu
scongiurata dagli amici, che non potevano neanche immaginare una
simile evenienza. Bevendo il caffè, rivolsero a noi, alla coppia
felice, domande che non tenevano in alcuna considerazione la
possibilità di una rottura tra di noi e che aiutarono quindi a
evitarla. La presenza di altri stemperava le nostre vibrazioni;
quando eravamo insicuri di cosa volevamo e quindi di chi eravamo,
trovavamo riparo sotto la confortevole analisi di chi rimaneva al
di fuori, consapevole soltanto della continuità, ignaro che non
c’era niente di inviolabile nel nostro intreccio.
27. Nei momenti migliori, ci confortava l’illusione di un futuro
delineato. Se c’era un fondamento logico nella considerazione che
l’amore poteva finire all’improvviso così come era cominciato, era
naturale che rafforzassimo il presente vagheggiando un futuro
comune, che durasse almeno fino alla nostra morte. Sognavamo il
posto dove avremmo vissuto, quanti bambini ci sarebbero nati, quale
schema pensionistico avremmo adottato; ci identificavamo nei
vecchi, che portavano per mano i loro nipoti a passeggiare a
Kensington Gardens. Per preservare noi stessi dalla fine
dell’amore, ci dilettavamo a pianificare la nostra vita insieme, in
una grandiosa dimensione temporale. C’erano case a Notting Hill che
piacevano a entrambi, lavoravamo di fantasia per arredarle,
completandole con due piccoli studi nella mansarda e una grande
cucina nel seminterrato, perfettamente attrezzata dei più moderni
elettrodomestici, e un giardino pieno di fiori e alberi. Sebbene le
cose non sembrassero mai potersi spingere tanto lontano,
dovevamo credere che non c’era ragione che non
andassero così. Come si può amare qualcuno e nello stesso
tempo immaginare di separarsene, sposandosi e arredando una casa
con qualcun altro? No, era indispensabile, per noi, immaginare come
sarebbe stato invecchiare insieme e ritirarsi con le nostre
dentiere in una casetta vicino al mare. Se avessimo creduto a ciò,
avremmo potuto progettare il matrimonio, il più crudele dei
tentativi legali di costringere il cuore all’amore eterno.
28. Il mio disagio a parlare con Chloe di ex fidanzate rientrava
probabilmente nella stessa volontà che le cose durassero per
sempre. Queste ex riportavano alla memoria situazioni che a un
certo punto avevo ritenuto stabili e, in realtà, così non erano
state, avvisandomi che la relazione con Chloe poteva subire la
stessa sorte. Una sera, nella libreria della Hayward Gallery, vidi
al di là della sala una mia vecchia fiamma che sfogliava un libro
su Picasso. Chloe era a qualche passo da me, assorta nella scelta
di cartoline da spedire agli amici. Picasso aveva significato molto
per quella ex fidanzata e per me. Sarebbe stato facile andare a
salutarla. Dopotutto avevo incontrato parecchi ex di Chloe, molti
dei quali lei continuava a vedere. Provai invece un certo disagio:
quella donna mi ricordava la volubilità dei miei sentimenti, che
preferivo ignorare. Temevo che l’intimità che avevo raggiunto con
lei, e avevo poi perso, indicasse un paradigma che poteva ripetersi
con Chloe.
29. La tragedia dell’amore è che non sfugge le dimensioni
temporali. Se ti trovi con la fidanzata di oggi, ti vien fatto di
pensare che è crudele la tua indifferenza verso gli amori passati.
C’è qualcosa di orribile nell’idea che la persona per cui oggi
sacrificheresti tutto, tra pochi mesi potrebbe indurti, pur di
evitarla, ad attraversare la strada (o la libreria). Capii che se
il mio amore per Chloe costituiva, al momento, la mia ragion
d’essere, la fine del mio amore per lei avrebbe significato niente
di meno che la morte di una parte di me.
30. Se Chloe ed io continuammo, nonostante tutto, a credere di
essere innamorati, era forse perché, in definitiva, i momenti di
amore erano molto più significativi (per il momento almeno) dei
momenti di noia o indifferenza. Eppure non dimenticavamo mai che
ciò che avevamo scelto di chiamare amore poteva essere la
semplificazione di una realtà molto più complessa, e in definitiva
meno gradevole.