CAPITOLO IV
Autenticità
1. Uno dei lati ironici dell’amore è che siamo seduttori molto più convincenti quando l’oggetto delle nostre attenzioni non ci attrae poi così tanto: l’intensità del desiderio, invece, soffoca in noi disinvoltura e spontaneità; l’attrazione provoca in noi un senso di inferiorità nel confronto con la perfezione che abbiamo attribuito all’essere amato. L’ amore per Chloe mi aveva fatto perdere ogni fiducia nel mio valore. Chi potevo essere io vicino a lei? Non era il massimo degli onori che avesse accettato l’invito a cena, si fosse abbigliata in maniera tanto elegante («Va bene così?» aveva chiesto in macchina, «spero di sì perché per la sesta volta non mi cambio»), che dimostrasse tanta disponibilità a rispondere ad alcune delle cose che potevano sfuggire (se mai avessi ritrovato la lingua) dalle mie labbra sventate?
2. Era venerdì sera. Chloe ed io sedevamo a un tavolo d’angolo a
«Les Liaisons Dangereuses», un ristorante francese da poco
inaugurato in fondo alla Fulham Road. Nessuna ambientazione avrebbe
potuto essere più appropriata alla bellezza di Chloe, i candelieri
gettavano ombre delicate sul suo viso, la tappezzeria verde chiaro
era perfettamente intonata ai suoi occhi. Come ammaliato
dall’angelo che mi guardava attraverso il tavolo, mi ritrovai
(pochi minuti dopo un’animata conversazione) privato di ogni
facoltà di pensare e parlare, capace solo di disegnare in silenzio
invisibili ghirigori sulla candida tovaglia inamidata e
sorseggiare, senza necessità, acqua minerale da un grande calice di
cristallo.
3. Percependo un senso di inferiorità, avvertii il bisogno di
assumere una personalità che, non essendo precisamente la mia,
fosse in grado, rispondendo alle sue inespresse richieste, di
sedurre quell’essere superiore. L’amore mi condannava a non essere
più me stesso? Forse non per sempre, ma in quello stadio della
seduzione sì, se mi induceva a chiedermi: Cosa
piacerebbe a lei? anziché: Cosa piace a
me? L’amore mi costringeva a guardare me stesso attraverso
il filtro critico che attribuivo all’amata. Non: Chi sono?, ma: Chi sono per lei?
E nel movimento riflesso di queste domande, il mio io non poteva
far altro che permearsi di malafede e falsità.
4. Non erano manifeste bugie, o paradossi, gli indizi di tale
ipocrisia, quanto semplicemente tentativi di prevenire ogni
possibile desiderio di Chloe, in modo da assumere il tono che la
parte richiedeva.
«Vuoi del vino?» le domandai.
«Non saprei, tu ne vuoi?» mi chiese a sua volta.
«Mi è indifferente, se piace a te.»
«Come preferisci tu, va bene quello che decidi.»
«Per me è lo stesso.»
«Anche per me.»
«Allora lo prendiamo o no?»
«A dire la verità, non credo che ne berrò», azzardò Chloe.
«Hai ragione, anch’io penso di non berne.»
«Allora niente vino», concluse.
«Bene, decidiamo per l’acqua.»
5. Una personalità autentica, che ha come suo imprescindibile
requisito un forte senso di identità, non si lascia condizionare
dalla compagnia: la serata, invece, si trasformò in breve in un
inammissibile tentativo di individuare i desideri di Chloe e
plasmare me stesso in relazione ad essi. Che cosa si aspettava da
un uomo? Quali erano i gusti e gli orientamenti cui avrei dovuto
uniformare il mio comportamento? Se restare fedeli a se stessi è
giudicato criterio essenziale di identità morale, allora la
seduzione mi aveva portato a fallire risolutamente la prova etica.
Perché, riguardo quell’attraente lista dei vini, bene in risalto
sulla lavagna sopra la testa di Chloe, avevo mentito? Perché la mia
tentazione era subito sembrata inadeguata e grossolana vicino alla
sua sete minerale. La seduzione mi aveva spaccato in due, in uno
vero (alcolico) e in uno falso (acquatico).
6. Arrivò la prima portata, sistemata sui piatti con la simmetria
del più classico giardino alla francese.
«Troppo bello per toccarlo», disse Chloe (avevo intuito la sua sensibilità), «non ho mai mangiato tonno alla griglia come questo, prima.»
Cominciammo a mangiare, l’unico suono era quello dei coltelli sulla porcellana. Sembrava che non ci fosse niente da dire: per troppo tempo Chloe era stata il mio unico pensiero, ed era, quel pensiero, l’unico che in quel momento non potevo manifestare. Il silenzio era un’accusa incriminante. Il silenzio con una persona insignificante vuol dire che ti annoia. Il silenzio con una attraente conferma che ad essere estremamente tedioso sei tu.
7. Silenzio e goffaggine, tuttavia, meritano un po’ di indulgenza
quale prova, sebbene pietosa, di desiderio. Se relativamente facile
è sedurre qualcuno verso cui si è indifferenti, ne potrebbe
conseguire, con un giudizio generoso, che i seduttori più maldestri
sono i più sinceri. Mancare le parole giuste potrebbe, per ironia,
dimostrare che proprio su di esse si sta rimuginando (se solo si
riuscisse a esprimerle). Quando, nelle altre Liaisons, la marchesa de Merteuil scrive al visconte de
Valmont, lo critica per le sue lettere d’amore che giudica troppo
perfette, troppo logiche per essere le parole di un innamorato
sincero, al quale si addicono di più pensieri sconnessi e al quale
la bella frase sempre sfugge. Il linguaggio inciampa sull’amore, il
desiderio difetta di sintassi (ma quanto avrei desiderato in quel
momento barattare la mia aridità con il vocabolario del
visconte).
8. Il mio desiderio di sedurre Chloe esigeva che sul suo conto io
scoprissi di più. Come potevo rinunciare alla mia vera personalità
senza sapere esattamente quale altra fittizia dovevo adottare?
Certo non era compito facile, avrei dovuto ricordare che capire un
altro richiede ore di diligente attenzione e interpretazione, fino
a tessere un personaggio coerente con il filo di mille parole e
azioni. Purtroppo, la pazienza e l’intelligenza che lo scopo
richiedeva andavano ben oltre le capacità della mia ansiosa,
infatuata mente. Mi comportavo come uno schematico psicologo
sociale, ansioso di ricondurre una persona a semplicistiche
definizioni, riluttante ad applicare l’accuratezza propria del
romanziere quando rappresenta le mille sfaccettature della natura
umana. Durante tutta la prima portata la incalzai goffamente con
domande maldestre: Che cosa ti piace leggere? («Joyce, Henry James, Cosmo se ho
tempo»), Ti piace il tuo lavoro? («I lavori
fanno tutti schifo, non credi?»), In quale paese andresti a
vivere, se potessi scegliere? («Sto bene qui, e in
qualsiasi altro posto dove non si debba sostituire la spina del mio
asciugacapelli»), Che cosa ti piace fare nei fine settimana?
(«Andare al cinema il sabato, la domenica fare
scorta di cioccolata per la depressione serale»).
9. Dietro queste domande stupide (che una dopo l’altra sembravano
allontanarmi sempre di più dalla conoscenza di lei) c’era un
tentativo impaziente di arrivare alla più immediata di tutte:
«Chi sei tu?» (e quindi: «Chi dovrei essere io?») Un approccio così diretto era
ovviamente destinato a fallire, e quanto più ostinatamente lo
perseguivo, tanto più la mia vittima scappava tra le maglie della
rete, e pur informandomi sul quotidiano che leggeva e la musica che
ascoltava non mi faceva capire in alcun modo «chi» era,
rammentandomi, se ce ne fosse stato bisogno, l’abilità dell’«io» a
eludere se stesso.
10. Chloe detestava parlare di sé. E infatti la sua caratteristica
più evidente era forse una certa modestia e sottovalutazione di sé.
Ogni volta che la conversazione la portava sull’argomento, lo
affrontava nei termini più severi. Non era semplicemente «io»
oppure «Chloe», ma «una ...come me», oppure
«la vincitrice del premio Ofelia per nervi
calmi». Tanto più attraente era la sua discrezione, perché
sembrava scevra da velati appelli di autocommiserazione, quel
genere di sottovalutazione a scoppio ritardato del tipo
Sono stupida / No, non lo sei.
11. Non aveva avuto un’infanzia felice, ma ne parlava con accenti
stoici («Detesto le drammatizzazioni dell’infanzia
che fanno sembrare Giobbe un dilettante»). Era nata in una
famiglia di condizioni agiate. Il padre («Tutti i
suoi problemi cominciarono nel momento che i genitori lo chiamarono
Barry») era stato docente universitario di giurisprudenza,
la madre («Claire») aveva avuto per un certo
tempo un negozio di fiori. Chloe era la figlia di mezzo, una
bambina schiacciata tra due maschi, prediletti e idealizzati. Aveva
da poco compiuto otto anni quando il fratello maggiore era morto di
leucemia, e il dolore dei genitori si era espresso in rancore verso
quella figlia che, pigra a scuola e imbronciata a casa, si
attaccava ostinatamente alla vita al posto dell’amatissimo figlio.
Crebbe con un senso di colpa, come se fosse in qualche modo
responsabile per l’accaduto, e sua madre fece ben poco per
alleviarle tali sentimenti. Le piaceva criticare il punto debole di
una persona senza mai dare tregua: così aveva sempre rimproverato a
Chloe quanto mediocre fosse il suo rendimento scolastico a paragone
del compianto fratello, quanto lei fosse goffa, quanto disdicevoli
le sue amicizie (critiche non proprio veritiere, eppure a ogni
accenno sempre più esasperate). Chloe aveva cercato affetto nel
padre, ma l’uomo era così avaro con i sentimenti quanto prodigo con
la sua scienza giuridica, e proprio quest’ultima aveva cercato, in
sostituzione, e pedantemente, di riversare su di lei; fino
all’adolescenza, quando la frustrazione di Chloe nei suoi confronti
si era trasformata in rancore e lei aveva apertamente opposto
resistenza a lui e a quanto lui propugnava (che io non avessi
scelto la professione legale si dimostrò una vera fortuna).
12. Delle passate relazioni, solo qualche accenno: uno aveva
lavorato come tecnico di motociclette in Italia e l’aveva trattata
molto male; un altro, per cui aveva avuto cure materne, era finito
in prigione per detenzione di droga; in seguito c’era stato un
filosofo analitico della London University («Non
c’è bisogno di essere Freud per accorgersi che rappresentava il
padre con cui non ero mai andata a letto»), poi un pilota
collaudatore della Rover («Ancora oggi non so
spiegarmelo. Credo che mi piacesse il suo accento di
Birmingham»). Ma non ne veniva fuori un quadro chiaro e,
quindi, il ritratto del suo uomo ideale, che andava prendendo forma
nella mia testa, subiva continui ritocchi. C’erano cose, nell’uno e
negli altri, che lei elogiava e condannava, costringendomi a
frenetiche ridefinizioni della personalità che volevo assumere. A
un certo punto sembrò che apprezzasse la vulnerabilità emotiva,
subito dopo che la condannasse a vantaggio dell’indipendenza.
Esaltò l’onestà come il massimo dei valori, in seguito giustificò
l’adulterio quale conseguenza inevitabile dell’ipocrisia del
matrimonio.
13. La complessità delle sue opinioni portò a una certa
schizofrenia delle mie. Quali lati del mio carattere avrei dovuto
mettere in risalto? Come evitare di alienarmi lei senza apparire
mellifluo? Mentre ci destreggiavamo tra le portate (percorso a
ostacoli per giovani Valmont), mi ritrovai che azzardavo
un’opinione per alterarla abilmente un minuto dopo, allineandomi
con la sua. Ogni domanda di Chloe era un tranello, perché
involontariamente provocava una risposta che poteva offenderla
senza rimedio. La portata principale (l’anatra per me, il salmone
per lei) era una palude disseminata di mine: credevo io che due
persone potessero vivere esclusivamente l’una per l’altra? Era
stata difficile la mia infanzia? Ero mai stato davvero innamorato?
Cosa si provava? Ero una persona emotiva o razionale? Per chi avevo
votato alle ultime elezioni? Qual era il mio colore preferito?
Ritenevo le donne più volubili degli uomini?
14. Per non correre il rischio di deludere le sue attese abbandonai
ogni opinione originale. Mi ridussi a modificare me stesso secondo
quanto credevo di intuire in Chloe. Se a lei piacevano gli uomini
duri sarei stato un duro, se lei amava il surf sarei stato un
surfista, se detestava gli scacchi avrei odiato gli scacchi. Si
potrebbe paragonare la mia idea delle sue aspettative amorose a un
vestito attillato e il mio vero io a un uomo grasso, così che
l’andamento della serata fu qualcosa di simile a un uomo grasso che
cerca di indossare un abito troppo stretto per lui. C’era un
disperato tentativo di reprimere le sporgenze che non calzavano il
taglio del tessuto, stringere la vita, trattenere il respiro per
non strappare la stoffa. Nessuno stupore allora che il mio
atteggiamento non fosse spontaneo come avrei desiderato. Come
potrebbe essere a suo agio un uomo grasso in un vestito troppo
stretto? È talmente preoccupato che il vestito si strappi, che deve
starsene immobile trattenendo il respiro e pregando di portare a
termine la serata senza disastri. L’amore mi aveva paralizzato.
15. Chloe, invece, era alle prese con tutt’altro problema: doveva
scegliere il dessert, ma aveva più di un desiderio.
«Cosa dici, cioccolato o caramel?» chiese (tracce di colpevolezza apparvero sulla sua fronte). «Tu potresti prendere uno, io l’altro, così ce li dividiamo.»
Non desideravo né l’uno né l’altro, avevo problemi di digestione, ma non era questo il punto.
«Io adoro la cioccolata, tu no?» chiese Chloe. «Non riesco a capire come si possa non amare la cioccolata. Un tempo frequentavo un ragazzo, Robert, te ne ho parlato; non mi sentivo mai veramente a mio agio con lui, ma non riuscivo a capire perché. Poi un giorno fu tutto chiaro: non gli piaceva la cioccolata. Voglio dire, non era che non ne andasse pazzo, la detestava proprio. Avresti potuto mettergliene una tavoletta davanti, non l’avrebbe neanche toccata. Sai, è una cosa talmente inconcepibile per me. Be’, a quel punto fu chiaro che dovevamo rompere. »
«In questo caso dovremmo prendere tutti e due i dessert e scambiarcene un po’. Quale preferisci?»
«È lo stesso», mentì Chloe.
«Davvero? Se non ti dispiace, allora prenderò io la cioccolata, la tentazione è troppo forte. Vedi il dolce al doppio cioccolato, lì in fondo? Credo che ordinerò quello. Dà più l’idea del cioccolato.»
«Una scelta peccaminosa», disse Chloe, mordicchiandosi il labbro inferiore in un misto di anticipazione e colpa, «ma perché no? Hai proprio ragione. La vita è breve dopo tutto.»
16. Ancora una volta avevo mentito (cominciavo a sentire in cucina
il canto del gallo). Ho da sempre una sorta di allergia alla
cioccolata, ma come avrei potuto essere sincero sulle mie
preferenze in una situazione come quella, quando la passione per la
cioccolata era stata così inequivocabilmente indicata come criterio
fondamentale di «Chloe-compatibilità»?
17. La mia bugia era davvero perversa, soprattutto perché, in
merito ai miei gusti e abitudini, convalidava il presupposto che
fossero inesorabilmente secondari rispetto a quelli di Chloe, e che
lei si sarebbe infastidita per ogni eventuale divergenza. Avrei
potuto inventare un racconto commovente sul mio rapporto con la
cioccolata («L’amavo più di qualsiasi altra cosa al
mondo, ma una schiera di medici mi hanno messo in guardia che
rischiavo la morte se ne avessi mangiata ancora. Sono stato in
terapia per tre anni») e avrei forse suscitato in Chloe la
più generosa comprensione: giudicai il rischio troppo alto.
18. La mia bugia, tanto disonorevole quanto necessaria, mi portò a
riflettere sulla distinzione tra due tipi di menzogna, mentire per salvarsi e mentire per
essere amato. Le bugie nella seduzione hanno, rispetto a
tutte le altre, una connotazione peculiare. Se, quando vengo
fermato, inganno la polizia sulla velocità della mia guida, lo
faccio per una ragione assolutamente evidente, scongiurare la multa
o l’arresto. Ma la bugia detta per suscitare amore porta con sé
l’assunto più perverso: Se non mento, non posso
essere amato. È un atteggiamento che vede nella seduzione la
rinuncia a tutte le caratteristiche personali (perché
potenzialmente divergenti), essendo il vero io giudicato come
irrevocabilmente in conflitto con (e quindi indegno di) la
perfezione intuita nell’amata.
19. Avevo mentito, ma piacevo di più a Chloe per questo? Stava
cercando la mia mano o suggerendo di saltare il dolce (forse ne
avevamo ordinato troppo) per dirigerci a casa? Certamente no, si
limitò a esprimere un certo disappunto di fronte al gusto inferiore
del caramel, e per il fatto che avevo insistito tanto per prendere
io la cioccolata, aggiungendo, con un tono asciutto, che un
cioccofilo era alla fin fine un problema quanto un cioccofobo.
20. La seduzione è una forma di recitazione, la sostituzione di un
contegno spontaneo con un comportamento mistificato, in funzione di
un certo pubblico. Proprio come l’attore deve intuire le
aspettative degli spettatori, anche al seduttore è richiesto di
percepire i desideri dell’amata; all’attore, tuttavia, è lecito
ignorare cosa commuoverà il suo pubblico: questo dovrebbe essere un
argomento decisivo contro il ricorso alla menzogna in campo
amoroso. A giustificare la recitazione è proprio l’efficacia che
tale mezzo espressivo raggiunge rispetto alla spontaneità; nel mio
caso, però, vista la complessità del carattere di Chloe, e i dubbi
sul fascino che su di lei avrebbe potuto esercitare un
comportamento camaleontico, non credo che avrei compromesso la
possibilità di sedurla esprimendomi in maniera sincera e spontanea.
La falsità, infatti, sembrava costringermi soltanto a capriole
farsesche di carattere e opinione.
21. È per coincidenza, più che per calcolo, che la maggior parte
delle volte raggiungiamo i nostri obiettivi. Tale considerazione
può deprimere il seduttore, permeato com’è da uno spirito
positivista e razionalista, e convinto che una ricerca attenta, di
tipo scientifico, può indagare le leggi dell’innamoramento. A
muovere i seduttori è la speranza di individuare i
tranelli d’amore per attirare nella trappola l’amata: un
certo sorriso, un’opinione, il modo di tenere la forchetta... La
realtà è, purtroppo, che ognuno ha, in amore, i suoi punti
vulnerabili e che se nel corso della seduzione li scopriamo è più
per fortuna che per calcolo. Dopo tutto, cosa era stato a farmi
innamorare di Chloe? Sicuramente mi affascinava di più il modo
adorabile con cui aveva chiesto il burro al cameriere del fatto che
condividesse le mie opinioni sui meriti di Essere e
tempo di Heidegger.
22. Le insidie d’amore si accompagnano a una buona dose di
idiosincrasia, che apparentemente sfida tutte le leggi
logicocausali. Gli accorgimenti, cui avevano in maniera esplicita
fatto ricorso donne che volevano sedurmi, raramente erano stati ai
miei occhi la ragione vera del loro fascino. A farmi innamorare
erano, in genere, malizie incidentali o inconsapevoli, le uniche
che il seduttore, non avendone piena coscienza, non esibisce
sfacciatamente. Una volta mi ero innamorato di una donna che aveva
tracce di peluria sul labbro superiore. Un particolare che
normalmente mi avrebbe disgustato ma che, in quel caso, mi aveva
misteriosamente attratto, spingendo risolutamente il mio desiderio
a soddisfarsi lì piuttosto che altrove, nel caldo sorriso, tra i
lunghi capelli biondi, o con l’intelligente conversazione. Quando
parlai con amici dell’attrazione che provavo per quella donna, mi
affannai a suggerire che doveva essere per un’indefinibile «aura»
che lei possedeva; a me stesso, però, non potevo nascondere il
fatto che mi ero innamorato proprio di un labbro baffuto. Quando la
rividi, qualcuno doveva averle suggerito un intervento di
elettrolisi perché la peluria era scomparsa, e con essa
immediatamente (nonostante le sue molte qualità) anche il mio
desiderio.
23. La Euston Road era ancora intasata di traffico quando
riprendemmo la strada verso Islington. Che avrei accompagnato Chloe
a casa era stato stabilito molto prima che la proposta potesse
caricarsi di significati, nondimeno il dilemma del seduttore
(Baciare, o non baciare) rimaneva
un’ingombrante presenza nella macchina, con noi. C’è un momento,
nel corso della seduzione, in cui il protagonista gioca il tutto
per tutto e, correndo il rischio di perdere il suo pubblico, si
spoglia del suo comportamento mimetico. Il bacio può cambiare
tutto, il contatto delle pelli può capovolgere irrevocabilmente la
situazione, ponendo fine al linguaggio in codice ed esplicitando il
significato nascosto. Comunque, raggiungendo la porta 23a di
Liverpool Road, intimorito dal pericolo che poteva derivare da
segnali fraintesi, arrivai alla conclusione che il momento di
proporre una metaforica tazza di caffè non era ancora arrivato.
24. Ma, dopo un pranzo carico d’ansia e sovrabbondante di
cioccolato, il mio ventre aveva sviluppato all’improvviso una
priorità di tutt’altra natura, e fui costretto a chiederle di
salire in casa. Seguii Chloe su per le scale, poi nel soggiorno e
fui indirizzato al bagno. Riemergendone pochi minuti dopo, sempre
saldo nelle mie intenzioni, raggiunsi il soprabito e annunciai al
mio amore, con la ponderata autorevolezza di un uomo che ha deciso
che la cosa migliore è il riserbo e che le fantasie vagheggiate
nelle settimane precedenti tali dovevano rimanere, che avevo
passato una bella serata, che speravo di rivederla presto e che le
avrei telefonato dopo le vacanze di Natale. Compiaciuto per un
congedo così compassato la baciai sulle guance, le augurai la buona
notte e mi girai per lasciare l’appartamento.
25. Date le circostanze, fu una fortuna che Chloe, non del tutto
persuasa, arrestasse il mio volo grazie ai lembi della sciarpa. Mi
sospinse indietro nella stanza, mise le sue braccia intorno a me e,
guardandomi negli occhi con la stessa smorfia che aveva avuto
prima, a proposito della cioccolata, sussurrò: «Non
siamo bambini, sai».
26. E con queste parole, posò le sue labbra sulle mie e dette
inizio al bacio più lungo e meraviglioso che il genere umano abbia
mai conosciuto.