I
Non mi piacciono le ragazze del mio paese. Se decido di sposarmi non andrò mai a prenderne una. Per la maggior parte di loro la ricerca del marito ha gli aspetti di una vera ossessione, tutte le energie e le attività e tutta la vita di tutti i giorni fissate su quell’unico scopo troppo scopertamente; ogni mezzo più sfruttato messo in opera; e a me questa caccia o questo mercato piace molto poco.
Le madri sono peggiori di qualunque cosa, e sarebbero da ammazzare tutte subito. Le allevano fin da piccole con quella idea fissa, e continuano a ruminare il medesimo discorso. Le ho sentite per strada o alle feste parlare delle villeggiature o del prezzo dei vestiti, e ce n’è sempre una che dice all’altra «la mia è più magra, e la sua è più grassa, ma quest’anno sono più di moda le magre delle grasse», oppure «la mia ha già fatto cinque balli, e la sua uno di meno, la mia non ne perde neanche uno, e quello che la fa ballare adesso è un ottimo partito, anche se è un po’ giovane, ma sta mettendo la testa a posto, e mi han detto che i suoi hanno una ottima posizione, ci siamo informati, poi hanno una zia ricchissima senza figli con case e terra…», e così sempre, il partito, il partito. In questo modo le rovinano già dai primi anni.
Queste povere ragazze tirate su piene di idee sbagliate, poi, vivono col terrore di essere «lasciate indietro», a vent’anni si sentono già vecchie, e in una situazione senza rimedio; salvo in seguito mutare opinione, dopo i venticinque anni, e sperare che dopo tutto non è mai troppo tardi; sospese fra il rischio di perdere la testa (e la faccia), la paura di buttarsi via per poco o niente, e un più deciso calcolo, ostinato, finiscono per stare a spiare ogni atto e ogni parola, li soppesano, ci ripensano a casa; scambiano un complimento gentile per la promessa irrevocabile; e l’illusione le trasforma in vere ventose che soltanto gli sforzi più espliciti riusciranno a distaccare.
La maggior parte ha genitori veramente insopportabili; prese in tempo, si sarebbero dovute separare con un taglio definitivo, e che non li vedessero mai più, per sottrarle a quella educazione sbagliatissima, e rifarle dal principio. Che cosa mi importa se suonano il piano e dipingono i fiori, quando so benissimo che questa commedia svogliata cessa immediatamente all’atto del matrimonio, e mi si trasformano in ambiziose esigenti; oppure, ottenuto lo scopo, si lasciano andare come serve impigrite, e si pettinano solo per uscire spettegolando?
Tutto il loro «saper stare al mondo» si riassume nel portare «due fiori» alle signore malate (o che festeggiano l’onomastico), verso le quattro del pomeriggio, e nel fermarsi per strada a intenerirsi su tutti i bambini piccoli che incontrano, belli o mostri che siano. Bacioni bagnati che si sentono dall’altro marciapiede. In tutte le altre circostanze non riesco a immaginarle, perché esse stesse non le hanno previste.
Ma io me li vedo chiaramente, per la maggior parte di loro, i risultati di cui possono essere capaci dopo le nozze avvenute. Immagino troppo bene la trasformazione delle madri che hanno raggiunto la meta economica, cariche di pretese e di prepotenze, finita la commedia delle false premure. Questa dei sorrisi è una «parte» che si fiuta forzata, si capisce dal tremito del labbro, faticano a sostenerla, mentre la loro vera natura è impaziente di rivelarsi.
I matrimoni che si fanno spesso confermano puntualmente l’esattezza delle previsioni. Come mi divertirei constatando: un anno dopo, due anni dopo; se non avessi la paura di passarci anch’io.
Ma da parecchio tempo sto seguendo con interesse le sorti di un gruppo di ragazze che si sviluppano. Le ho considerate una per una, da anni; quelle carine, s’intende.
Mai sbilanciato con nessuna di loro. Sono tutte del genere «buona-famiglia», cioè professionisticomedio, ma in questa città del cavolo il «parlare insieme» suscita in qualunque ambiente la medesima reazione fosca, mancherà probabilmente il fratello che chiede ragione con la pistola, ma è immancabile che la madre si prenda lo zoccolo in mano (o almeno il gesto, di istinto), e faccia le piazzate da portineria. Le hanno allevate in vista della «sistemazione», e a quel fine molte e varie «tattiche» sono state studiate.
Io rappresento una «buona sistemazione», o un «ottimo partito», è fuori discussione, e per questo non ho mai ricevuto altro che le gentilezze ipocrite, ma tengo gli occhi bene aperti, e conosco quelle «tecniche» almeno come loro. E ci vuol poco: è un campo dove chi non ha intelligenza né fantasia è condannato a ripetere gli schemi più frusti. A un certo momento ci vuol altro!
Non è possibile andare avanti in questo modo. Non se ne può più. Le ragazze vivono come cretine in casa a far lavoretti che non servono a niente, oppure stan lì a far niente, escono per qualche commissione, spesso con la mamma, vanno in casa di qualche amica, e talvolta al Circolo insieme ai parenti col pretesto della televisione o della sala di lettura. Quelle che non hanno i parenti soci del Circolo potrebbero crepare anche subito.
Nelle due sale da ballo si trovano veramente solo le serve e le operaie con i ragazzacci di una vastissima zona agricola, che fino a pochi anni fa non se lo sarebbero neanche sognato, ma adesso noleggiano una macchina in cinque o sei la domenica sera, e calano giù col vestito a rigoni tipo fodera da materasso e i capelli lunghi. Le ragazze che dico io non ci metterebbero mai i piedi, solo ci vanno in occasione di qualche festa a invito, il Club Alpino, i Bancari, le Maestre, tutte di seguito in tempo di carnevale, un po’ mostrando di degnarsi, e un po’ frenetiche perché altre occasioni non avrebbero.
E qui occorre mettere in chiaro una cosa: loro sono le vere snob schifiltose e false, e non certo io che vado dappertutto, e per qualunque amorazzo, ci vuol altro, non ho mai domandato certo la dichiarazione dei redditi o il certificato di studio o la Wassermann; ma, per la Madonna, è del matrimonio che si sta parlando adesso, e la maledetta decisione che ti lega per tutta la vita, se non ti trovi già pronta la fata con tante virtù, devi ponderarla e rifletterci. Fin troppo.
La mamma e il papà sono una coppia da ammirare per motivi di fusione, intesa, armonia; dopo tanti anni hanno sempre argomenti di cui discorrere, e non mi pare che facciano fatica a trovarli, non si annoiano mai a vicenda; basta un gesto o un’allusione, l’altro intende a volo, e son contenti.
Io non voglio una donna soltanto da letto; né una soltanto splendida, e quando l’hai fatta vedere in giro tutto finisce lì e poi a che cos’altro serve, visto che è muta; né una trascurata che ciabatti in cucina; né una matta per i figli che badi soltanto a loro; né una intellettuale attaccabottoni; né una che vuole il suo mestiere e vivere la sua vita.
Cerco una ragazza serena e di buon senso. «È preparata?» chiedeva una certa suocera. Non si pretendono delle doti eccezionali. Che sia carina; e di buon gusto: è una virtù che si ha o non si ha; e quando una la possiede, si manifesta in tutto, nel vestire, nel camminare, nel muoversi, pettinarsi, mangiare, nel «tratto», nella «linea» (lasciamo perdere il mito della «classe», qui…); e nel parlare, soprattutto. Che abbia «una certa» cultura, nel senso che sappia almeno l’italiano, e «qualche cosetta» in più, per seguire i bambini, che poveretti, quante volte, tutto quel che imparano dalla madre è la confusione fra il condizionale e il congiuntivo.
Che non spenda come una pazza. Che sappia tenere una casa e farla andare avanti senza sbalzi, sappia imporsi alla cameriera con calma, sappia affrontare l’entrata degli ospiti senza l’angoscia, sappia inserire una ferma coerenza tra le altre virtù materne.
Non credo di richiedere tanto. Ma l’esperienza fa un quadro pessimistico: ricordo troppe osservazioni sceme, ricordo troppe ragazze da cui non ho mai udito che l’espressione «he, he» (risatina gutturale); oppure «che matto!» (anche se in tono ghiotto) dopo che assecondando puntualmente le loro aspettative, si era stati lì a intrattenerle per ore continue. Si dirà che la memoria gioca il cattivo scherzo di conservare solo i ricordi sgradevoli degli incontri; ma questa impressione di silenzi grevi, di cervelli chiusi e inerti, di «stare lì bella tranquilla» e basta, io non me la sono sognata. Si legge in ogni indizio il rudimentale calcolo: il bel nastro, il bel fazzoletto, sono per fare la carina adesso. Ma appena sono diventata una signora voglio un po’ vedere: «fare quel che voglio io». (E dietro le spalle si profila – sempre – l’ombra della madre ingombrante e trafficona, avida di imporsi e spadroneggiare con l’intrigo). Dopo quanti matrimoni si fa un controllo: dimenticato, scomparso, il fittizio interesse che lei mostrava, non so, per la musica, o la lettura, o la campagna, come mai esistito. Che cosa dire della sincerità di quell’atteggiamento ?
Eppure ci sono ragazze – nessuno chiede «che sappiano tutto» – ma sono in grado di sostenere una conversazione da treno, con i diversi argomenti che si toccano successivamente, come d’abitudine, senza ripetere una quantità insostenibile di luoghi comuni. E per esempio – non si pretende che siano al corrente con i vient-de-paraître – ma sanno perché Manzoni è diverso da D’Annunzio, sanno il nome dell’attuale presidente del consiglio (e forse anche se comanda più lui o il presidente della repubblica), sanno domandare una informazione stradale in qualche lingua straniera, conoscono alcune città importanti, hanno visto degli spettacoli, sono in grado di distinguere una cosa bella da una brutta, quello che si può dire e fare, e quello che è meglio di no. Un tempo c’erano da noi delle ragazze come queste (ragazze che si erano mosse, avevano visto, sapevano parlare, erano «preparate»), esistevano come ne esistono dappertutto, in qualunque luogo a partire da quel certo numero di abitanti; ma poi si sono tutte sposate o amareggiate o andate via.
Qualche volta ho paura di esagerare; temo di giudicarle male, di lasciarmi influenzare dalle più serve, o da quelle delle città grosse, o conosciute in villeggiatura, che invece più spesso mi sembrano vicine al mio ideale, o addirittura al di là, le sofisticatissime che uno può anche incominciare a temere.
Eppure no, non esagero; ogni volta che torno a considerarle da vicino, anche evitando i rovinosi confronti con quelle conosciute altrove, mi accorgo che avevo visto giusto.
Si può anche riflettere che loro fanno certamente una vita scema, però anche noi le vediamo soltanto a pezzi, e in fondo le conosciamo tutt’altro che bene, in tutti i loro momenti (non se ne può più…); ma forse le famiglie fanno apposta a tenerle chiuse in quel modo, per evitare che noi si possa conoscerle a fondo (è un modo di dire) prima che sia troppo tardi.
Riflettiamo: si vede subito: stanno in casa, e si sa. Escono, e va bene, accompagnate spesso, e in che occasioni, lo si vede continuamente. Ora, va ripetuto ogni tanto che io prendo in esame soltanto la soluzione matrimoniale, perché è ora. Se voglio morosare, succede qui come dappertutto con qualunque ragazza di qualunque ambiente e che non abbia proprio tutti gli scrupoli del mondo: le si fa la corte, e si riesce a tirarla fuori di casa con una certa regolarità, anche qui, poi dipende da alcuni fattori quel che si riesce a combinare con lei, e, finita la cosa, in che modo uno può uscirne senza conseguenze o complicazioni familiari; è allora che comincia il vero difficile.
Ma io mi occupo del matrimonio, cazzo. In quali occasioni ci si può frequentare e conoscere con calma, senza fini immediati di camera da letto? L’alone di malsana curiosità che circonda ogni incontro è da solo sufficiente a falsare qualunque prospettiva: come se fosse una attrice o una principessa dei rotocalchi, tutti affermano che una deve sposare presto chiunque le vedono insieme una sola volta.
Cominciamo pure a escludere casa mia, le sale da ballo, e ugualmente ogni incontro per strada o in un bar; significherebbe una immediata sentenza infame da parte delle pie streghe della beneficenza e della maldicenza. A casa di lei? una sola volta, è tollerabile, per necessità o informazioni; ma a partire dalla seconda, sguardi interrogativi e mutismi seccati; la famiglia non sopporterà che la soluzione ufficiale, carte (economiche) in tavola fin dal principio, allora sì in casa di lei magari tutte le sere, in salotto coi dolcetti, ma allora lasciar perdere tutte le altre donne, cortesie a tutta la famiglia, già avviate le discussioni di interessi, ballare quasi esclusivamente con lei (o con sua sorella), accompagnarla ogni domenica in duomo alla messa di mezzogiorno. E a quella messa e a quell’ora è impossibile sottrarsi, perché è la pubblica manifestazione del proprio impegno; e la prova del suo successo; tangibile e rinnovata; lei avrà il sorriso trionfante, a salutare le altre, e un cappellino di foggia significativa. Questo è il preludio a ben altro cappellino, quello che insisterà per mettere, insieme al soprabito di fattura ben determinata, quando i familiari ci accompagneranno al treno; e per tutta la durata la farà individuare, inconfondibile, la sposina ridicola in viaggio di nozze.
Anche parlare al Circolo è una mezza compromissione, sotto la sorveglianza della madre oscena e l’indulgente sorriso delle amiche di famiglia che sbavano, strangolarle tutte. Nessun equivoco su cui giocare; convenzioni esplicite al più presto; e da ogni mutata opinione la faida ha origine.
Non ricordo che nessuna ragazza sopra i diciotto anni abbia più dato una festa di compleanno; nell’immediato dopoguerra una gara spasmodica di spendacciamenti in emulazione aveva dissuaso presto le competitrici. E oggi sono soltanto le licealine che invitano i loro pistolini compagni di scuola; le altre no.
I rapporti distesi, tranquilli, fecondi, i frequenti incontri che nelle città più grandi sono un dato così acquisito che non si avverte nemmeno, in occasioni continue, qui sembrano tanto poco immaginabili quanto attentati al buon costume.
Ricorrere al sotterfugio: che povero espediente. Ripiegare sulla relativa libertà dei quindici giorni di villeggiatura; sugli incontri al tennis o in piscina (davanti ai testimoni che rappresentano la cittadinanza intera); sui dialoghi in treno, perché alcune viaggiano per ragioni di vari studi fino alla città più vicina, dove trasferiscono, intatti, i loro provinciali «complessi» e complessini.
Qualche poverina che ha debuttato facendo la grande spregiudicata (ma si riduceva a fumare, camminare facendosi vedere spesso in giro, e, se non parlare audacemente come nei grandi centri, ripetere «vediamoci» o «combiniamo qualcosa» e magari «qualche cosa di diverso dal solito») l’ha scontato con anni di segregazione. E sono dovute ritornare al contegno delle altre, ferme tuttora al dilemma «se si sta in casa a far le brave c’è tutto da guadagnare, con la “buona nomina” si trova il “merlo”; e poi ci si sfoga», ma «rinunciare a tanti bei divertimenti varrà la pena? chi ci conosce se stiamo in casa?» – che le affanna e le strazia.
Sì, sì, però sono serve; camminano da serve; e davanti alle vetrine; e voltandosi in tralice, pronte alla critica; e al pettegolamento; a confidenze da comodino o da gabinetto; dicono «le estremità» invece dei piedi. E «il sacerdote» invece del prete. E come vestono; e come parlano; i film che vedono; e quel che ne capiscono, i commenti, dopo; i giornali che leggono; ogni loro discorso; e dietro sempre le ombre perenni e schifose delle madri; e le apparenze domenicali; proprio come le serve.
Ma se si considera l’oggetto delle loro paure – far la fine della povera Anna Maria (o della Carla, della Marisa, della Pupa) – allora ci spaventiamo anche noi. Naturalmente è capitato che si stesse lì, anzi parecchie volte, a parlare con queste dolorose che sono sulla trentina; e fanno le disincantate, affettano disinvoltura, o noncuranza, o distacco, non si capisce bene da che cosa. Se hanno studiato parlano di arte moda cultura politica, o male delle persone e del proprio lavoro, le altre dicono le solite cretinerie da paese; e fanno le sciatte, oppure si vestono sportivamente, però male, anche la domenica, affettando un disinteresse anche qui, ma poco sincero per chi ricorda i loro furiosi tentativi di eleganza, solo pochi anni addietro. Non riescono a ingannare nessuno: il loro pensiero è soltanto uno, riuscire a chiavare, lo palesa ogni loro discorso indiretto, o allusione, o confidenza, il cenno obliquo o la smorfia che fra loro si scambiano, la barzelletta grossolana raccontata senza garbo; e subito l’aria è più greve e mefitica. Fumano e bevono. E fra i diversivi d’ogni conversazione ritorna puntuale l’espressione sconcia. Chi ha fortuna in amore non pensa mai a queste cose perché non ne sente il bisogno, è sgombro, è tranquillo. Non le tollera.
Come queste quasi megere in cui si notano soprattutto sudore e peluria si sarà trasformata fra qualche anno più d’una delle ragazzine che considero? Questo è sufficiente per commuovermi davanti alla loro stupidità cieca e indifesa. La povera topolina di oggi non sa proprio niente…
Ma che cosa vogliono, infine? Bisogna guardarsi dal semplificare banalmente. Se consideriamo quelle aspirazioni, il risultato curioso molto spesso è che noi le vediamo riposare soddisfatte proprio là dove noi sentiamo più vivo il pungolo a raggiungere di più o dell’altro. E puntualmente il contrario: di quante cose ci si sente comunque appagati, cose alle quali non si attribuisce importanza, secondarissime o meramente strumentali; ma queste medesime sono l’oggetto dei loro sogni e delle loro speranze più alte.
Ancora due parole e basta sullo spirito «classista» di certe ragazze. Si può intenderlo riassumendone i vari aspetti.
Qui si allude soprattutto allo snobismo classificatorio, per cui loro vengono dividendosi in categorie infinite secondo quei giudizi di simpatie e antipatie che per noi è anche troppo facile definire come «dettati dall’utero» (pardon, «salpinge»). E così per esempio a seconda della posizione sociale o collocazione mondana della famiglia, o dell’arredamento della casa, o del tono delle «relazioni», o dell’eleganza personale; o secondo la bellezza, le gambe, le calze, l’autorità o la timidezza, il successo con i ragazzi e il peso delle parentele bene e delle amicizie tradite. Anche se nei nostri riguardi mostrano generalmente compatta la loro solidarietà di gruppo, quante complicate storie di alleanze rovesciate e improvvisi abbandoni si intuiscono, vedendo regger la coda a una o isolarne un’altra. È molto difficile tener dietro ai repentini mutamenti d’umore; «Ma fino a ieri eravate amiche, non passavate giorno senza vedervi». «E adesso non ci salutiamo più».
Questo snobbare qualcuno all’improvviso, noi non lo si pratica; e chi, se non per i motivi più fondati, conosce quei risentimenti duraturi? Ma c’è ancora una cosa che mi dà fastidio più che farmi piacere. Se una donna ti fa capire che ti vuole, in un primo momento sarai lusingato; ma se si smolla ti smonti, tante volte. Qualche cosa di simile lo puoi provare con le morose degli amici. Mettiamo che lei non ti abbia mai interessato altro che mediocremente; e che lui sia un povero diavolo mai più in grado di competere con te, e tutto felice di starle insieme, anzi medita già propositi seri… Ora se lei (da te per niente incoraggiata), con gli sguardi, parlando o dando la mano, o tanto più ballando insieme, ti fa capire che aspetta nient’altro che un tuo segno per piantare il suo, e lo considera come una vera merda, però intanto in faccia glie le fa tutte buone, e se lo stringe con i complimenti, povero illuso contento, e tu pensi che basterebbe farle segno… in questi casi vien voglia di comportarsi come quel personaggio di Pratolini, dire «col permesso del tuo uomo che non lo fa, due belle sberle bisogna proprio che te le lasci andare io».