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Quando i bombardamenti sono finiti davanti alle prime foglie finiva anche l’inverno e noi non avevamo più nessuna voglia di tornare in città anche se le scuole non erano finite.
Tanto più quell’anno era l’ultimo che mi trovava disposto a studiare materie inutili: col successivo sarei entrato nella scuola degli interpreti a perfezionare le lingue, poi col primo mezzo possibile ero in attesa di andare dai nostri cugini in Scozia a imparare come funziona una fabbrica. Perciò a che scopo ricomparire nelle classi? Perché farsi rivedere fra le strade e le case? Su questo ci eravamo trovati tutti d’accordo.
Ora arrivavano notizie, arrivavano ospiti emozionanti, e secondo loro stava finendo la guerra di cui eravamo stufi perché era durata anche troppo. Il papà raccontava i suoi anni di Aberdeen. Ma erano anche le mie ultime vacanze lunghe.
Era passato quel terzo inverno in campagna più lungo degli altri, e non sempre avevamo preso il trenino singhiozzo per scendere a scuola. Neve ogni settimana, gli spazzaneve quasi mai. Ci ha tenuti caldi la Casa Lunga dell’orologio dove la mamma veniva ogni anno da bambina. L’orologio era fermo già allora sulla fila ordinata delle stanze e delle finestre, vero ordine di vecchio convento. Noi avevamo steso tappeti e stuoie sui pavimenti di mattoni, e si installarono stufe di terracotta a diversi piani durante i primi giorni freddi.
Tre anni. La casa fu presto occupata da nuovi ospiti, perché tutti gli appartamenti erano dati in affitto, divenne un rifugio, si riempì. Anche i contadini cedettero qualche stanza. Noi avevamo sopra le nostre porte i pannelli degli arabi e degli egiziani, e nella buona stagione chiudevamo la loggia che ci spettava con tendoni rigati che sventolavano fino alle prime piogge. Al sole che uscì ostinato per giorni e giorni verso la metà di gennaio noi uscivamo ogni pomeriggio molto presto a scavar solchi nelle carreggiate in discesa: fu pronta una pista che il gelo notturno consolidava, e ci buttavamo giù in slitta contro il vento arido. Ricordo la mamma in pelliccia di scimmia spelacchiata e foulard in testa partecipare al nostro gioco, partiva a testa in avanti perdendo immediatamente gli occhiali neri, e con le stesse calze di lanona rossa o verde vicino a noi ricordo Mira, anche lei per scavare toglieva il pellicciotto sportivo, il suo gattone.
Mira vicino a noi; Mira contro il cielo bianco; Mira biondissima fra i papaveri e il grano; Mira cacciata di classe, colpevole di ‘solidarietà nel male’, cioè di non aver studiato, secondo gli accordi comuni, una dose di lezione eccessiva; Mira in fuga davanti ai piccioni disturbati mentre covavano; a cavallo; pastora d’oche; vendemmiatrice; a fianco del radiogrammofono, girando interi pomeriggi il disco di Auprès de ma blonde e noi due cantavamo a gran voce, ma spesso una compagnia più numerosa, incerta fra il poker e Monopoli, insisteva per eternare ben altre esecuzioni; allora, preliminare necessario, il piano a coda veniva laboriosamente smosso e collocato, staccati gli apparecchi elettrici della casa, e dopo le prove più convincenti cominciava la seduta d’incisione, poi gli accidenti immancabili, ma così, rovinato il disco in ogni caso, chiunque era libero di scatenare gli istinti alla fine, e il fratellino di Mira ‘provava i bicchieri infrangibili’. «Il papà assicura che non si rompono». Si rompevano tutti. «È perché battono con lo spigolo. Altrimenti non si romperebbero».
Quando aspettava me solo Mira voleva fissarmi l’ora. «Voglio riceverti con tutte le pompe». Così io arrivavo in anticipo di qualche minuto e aspettavo in fondo al giardino. I nostri orologi erano accordati. Entravo al momento giusto, e sul primo pianerottolo mi appariva lei in vecchi abiti da sera o costumi non suoi, soffocata in una nube di polvere di riso.
La sua casa era bianca come deve essere una casa fra le bougainvillee, e sotto i nostri piedi invecchiava nei fusti di rovere il vino che alla fine della guerra sarebbe ricomparso nei grandi alberghi d’Inghilterra e d’America. L’odore pesante nel seminterrato quando aprivamo la porta verde per prendere le biciclette ci veniva incontro familiare: anche da noi la rimessa troppo larga per l’automobile senza gomme si manteneva rimessa limitatamente a un angolo solo; il resto, invaso da tini e celle di cemento, andava incontro a funzioni di cantina modello per i tentativi di un vinaio dilettante, il papà, invaso dalla passione dei vini pregiati. Noi quando uscivamo sempre in bicicletta avevamo l’impressione di vederlo ogni giorno insieme al padre di Mira, in charrette con i cappelli tirolesi, avviarsi all’assemblea della cantina sociale ragionando con trasporto di tagli di travasamenti di metodi di lavorazione. Da curiosi apparecchi delicati nascevano sotto gli occhi dei cantinieri i passiti e i rosé da lanciare in confezione esclusiva per la Compagnia dei Vagoni Letto, ma lui, nostro padre, noi prevedevamo che sarebbe asfissiato in una botte come si legge sempre durante la vendemmia, o almeno finirebbe i suoi anni scosso dalla parkinsonite su una poltrona a rotelle.
Noi uscivamo con le biciclette a percorrere il bianco ottovolante delle strade su e giù per le colline, in discesa vincevo io la gara col trenino singhiozzo. Almeno mezza giornata passava così. Avevamo fanali con la dinamo e portapacchi d’alluminio. Abbiamo imparato il francese e l’inglese scendendo in città ogni lunedì e mercoledì e venerdì dopo colazione, per anni, io e Mira e tanti fratellini e sorelline e altri piccoli da raggiungere il numero di nove. Mademoiselle Pinoteau ci scaglionava a gruppetti di due o tre nel corso del pomeriggio, e in quelle lezioni facevamo soltanto chiacchiere, indifferentemente nell’una o nell’altra lingua, però con proibizione di usare anche una sola parola italiana, non avevamo compiti a casa di nessun genere, per non sovraccaricarci oltre a quelli di scuola, però lavoravamo secondo il tempo e la voglia, riassumendo per iscritto i più piccoli Perce-Neige o Petit Poucet capitolo per capitolo, io invece traducevo in prosa nell’altra lingua le liriche di Shelley o Les Fleurs du Mal. Mira andava cercando cotoni per sua madre, io dopo scovato un banjo in un negozio musicale avevo pure qualche lezione per imparare a suonarlo, la sorella di Mira che era più vecchia di lei aveva la bicicletta più bella, con specchietto retrovisivo sul manubrio, e andava a comprare la carne di frodo, al ritorno si fermava nel caffè di Leone a bere frappé sotto il tendone di tela e a raccontarsi storie col professor Bo e col dottor Piovene, e non la si vedeva più. Tutti, prima e dopo la lezione di lingue, ci asserragliavamo nell’unico cinema pomeridiano polverosissimo a vedere due film e parecchi cortometraggi; a tardissima ora una gara di inseguimento ci riportava a casa attaccati ai camion sotto gli occhi pieni di terrore delle madri che ci sorpassavano in autobus.
L’inizio della guerra ci ha sorpresi nelle attività di Città Melo; l’albero era tanto grande da contenere più di dieci case, oltre a strade e negozi sui rami sicuri. Sulla forcella più alta appollaiata come una saggia civetta una ragazzina malcresciuta che aveva quindici anni e ne dimostrava otto lasciava cadere parole di apparente buon senso. Le cucine erano ai piedi del melo, collettive; come scimmiette alcuni neonati che i contadini affidavano a certe bambine poco più alte di loro venivano tenuti buoni e affumicati intorno alle pentole con la cantilena: Ciciota ciciota / c’a vena a cà al pupà / al parta la mateena / e ’l vena a cà la siira.
Al tempo delle ultime cannonate che ogni giorno si credeva di sentir più vicine, Città Melo incontrava un successo non diminuito fra i piccoli che avevano cinque anni meno di noi; mentre io e Mira tagliando fuori il mio fratello secondo che pretendeva di seguirci dopo la partita di tennis scendevamo da Leone per la gara di frappé. Tutt’e due le nostre cannucce pescavano nel medesimo bicchiere, perciò occorreva succhiare con la velocità più sguaiata: per non lasciar bere l’avversario era consentito farlo ridere e anche schiacciargli la cannuccia fra le dita. Ai tavoli vicini avevamo l’incarico di invitare a qualche tè delle madri la signora Odero o la scrittrice Ferri esperta di rose o ‘la contessa De Biquet – viaggia solo in cabriolet’. Veniva spesso in quella primavera da noi un professore, nascosto perché ebreo, con la moglie fantasiosa; avevano diretto la scuola archeologica di Atene e raccontavano i loro frequenti pranzi a palazzo reale. Uscivano prima del tramonto in vera estasi davanti a una valletta di peri fioriti di bianco, simili a fontane o a nuvole posate sull’erba alta. «Una crinolina, un cappello di paglia» esclamava zia Laura affondata nel verde fino alle ginocchia, ma tentava un’arabesque, la vecchia. «Ecco la Garbo in Margherita Gautier».
Le cannonate si sentivano di giorno e di notte, e i piccoli issati sulle più alte piccionaie spiavano ‘l’avanzata’. Da Monteceneri l’orchestra d’archi Nino Bell trasmetteva musica leggera. Noi aspettavamo. Un contadino che dormiva ai piedi di Città Melo disertata alle tre del pomeriggio balzò in piedi svegliato da un nostro arrivo chiedendo: «È già ora di scappare?». Ma avevamo tutti una gran voglia di gettare le radio dalla finestra. Abbiamo poi visto giungere qualche macchina alleata dai parapetti del tennis mentre aspettavamo che quattro stupidini di complessivi anni cinquantacinque finissero quello che chiamavano un doppio. Il giorno seguente si venne a sapere che erano canadesi e avevano requisito un pezzo di Grand Hôtel; si sentivano certe loro secche canzoni da casa nostra lontana due chilometri, e da allora i turni del tennis si sono complicati, perché venivano loro a tutte le ore, finché noi stufi morti di aspettare e aspettare abbiamo persuaso i Romano a rimettere in ordine il loro campetto, e siamo poi sempre andati a giocare là.
Un altro cambiamento nella stagione fu un risveglio di vitalità fittizia in quel paese giallo e sonnolento, e anch’io ho cominciato a andarci spesso, una cosa che prima non facevo. B*** è un luogo d’acque termali che anni e anni fa era addirittura alla moda e ben frequentato: i servizi d’autobus che lo univano alle città grosse portavano giù oltre ai malati bisognosi di cure anche il solito pubblico delle stazioncine climatiche: coniugi vecchi, professionisti esauriti, puerpere col lattante. Poi la concorrenza con i grandi posti di cura ha incominciato a sviare la clientela, e invano Ada Negri ospitata gratuitamente per due mesi è andata a sedersi ogni giorno sotto il platano di Ada Negri elaborando slogans che i dépliants turistici han tentato di rendere popolari. Infine la guerra; durante gli anni peggiori nelle terme vecchie e cadenti si tentava di produrre il sale dalle acque medicamentose e forse anche i tabacchi, il circolo dei forestieri andato in malora era stato suddiviso in appartamenti d’affitto senza gabinetti, e i grandi alberghi dopo i soggiorni degli sfollati avrebbero avuto il bisogno di rinfrescar muri e suppellettili, ma non c’erano i capitali e mancava l’iniziativa a rimodernare terme alberghi pensioni caffè e camere ammobiliate. La piscina riapriva in quei giorni le sue cabine scricchiolanti e marce; però il fondo di cemento si scrostava e i due infelici ingaggiati per pulirlo non trovando l’energia di portar fuori la ghiaia e la melma a mucchi l’avevano tutta quanta scopata dentro la buca del trampolino, così quando la si è riempita d’acqua veniva a galla una schiumetta verdastra che nuotando bisognava allontanar con la mano.
Invece di rimediare agli anni d’incuria che erano cominciati molto prima della guerra (e sarebbe stata necessaria prima di tutto molta dinamite) i proprietari del luogo brigavano per l’autorizzazione a aprire una casa da gioco, onde attirar gente e poi vendere tutto approfittando del momento favorevole. Già una roulette semiclandestina battezzata ruota della fortuna girava con tenebrosi scopi assistenziali al bar del Grand Hôtel.
Al tennis che non avevamo mai saputo se appartenesse in realtà a qualcuno fu rivendicata una tripla barriera di pagamenti, che naturalmente non valeva per i canadesi: il parco pubblico dove fino a qualche giorno prima i paesani facevano legna fu promosso a giardino di delizie ridicolo e vigilato da una guardia comunale che riscuoteva un primo obolo (biglietto bianco); la sorella della maestra percepiva puttaneggiando il secondo (biglietto giallo) all’ingresso della piscina, e appena si entrava al tennis un mutilato che non aveva mai il resto arrancava pietosamente vociando che bisognava pagare anche lì (biglietto verde) indossando preferibilmente i calzoni bianchi lunghi che neanche alla Coppa Davis si portano più. Li portava un maestro di tennis vieux garçon che le signore assoldavano per le ore lasciate libere dai canadesi. Li portavano i guardiani del posteggio che si sentivano nati piuttosto a un destino di redditieri. Seguendo un loro tradizionale costume, nessuno dei giovanotti di B*** si dedicava a un qualsiasi lavoro continuo, anzi se non proprio di anno in anno tiravano avanti da un mese all’altro a insegnare tennis nuoto poker equitazione per la possibilità di avvicinare le signore, e nell’ordine preferivano i flirt con le anziane, giocare a carte con i forestieri, offrire la loro mediazione in materia d’affitti e compravendita di immobili, invitare a gite notturne in carrozzella i signori soli come fanno i gondolieri di Venezia, organizzare festine da ballo e piccoli furti non certo di, soltanto sulle automobili. La guerra aveva arricchito pochi di loro, della maggior parte ridotta in stato un po’ da compassione io ho fatto conoscenza quella estate per mezzo del mio cavallo Piero. Non tutti proprio giovani giovani, tutti con una gran voglia di rifarsi, di combinare. Avevamo comprato Piero moribondo agli inizi dell’anno, quando per paura dell’avanzata imminente sgomberavano il bestiame dall’Emilia vicina alla linea del fuoco, e lo svendevano da noi in lugubri condizioni dopo la fuga a tappe, denutrito, sfinito, ammalato, portarono Piero da noi una sera, e pareva prossimo a morire. Quando un cavallo giace sdraiato immobile per ore e ore, che tristo segno, peggio ancora un puledro di due anni uscito da chi sa quali tribolazioni. I veterinari sono andati e venuti per parecchi giorni, e lo sostenevano coi cardiocinetici. Piero debole come un adolescente in crisi finalmente uscito al pascolo ci seguiva insieme ai cani, e i miei fratelli piccoli non spiarono più ansiosi le sue occhiate smorte, rialzò la testa in elegante andatura, e a Pasqua pieno di vitalità cominciavamo a montarlo, però nessuno di noi pesava tanto.
Io ho imparato presto, senza nessun apparato, in calzoni corti; poi abbiamo incominciato a adoperare come si deve sella stivali e frustino, e questo fatto stupiva i giovanotti del paese rialzando ridicolmente il mio prestigio, invece i cani abbaiavano irritati vedendomi così in alto. Preso da passione per gli airedales che sono i più intelligenti e i più terribili il papà aveva incominciato un allevamento già anni prima, dopo concertati scambi di idee e di cuccioli con la baronessa Randaccio e il conte Bergonzoli, i soli della nostra zona che ne tenessero, gli unici in grado di apprezzare medaglieri e C. A. C. e memorie di concorsi vinti. Con i suoi cani il papà trascorreva ore di tenerezza, e noi prevedevamo che dopo neanche troppo loro avrebbero imparato a parlare, e lui abbaierebbe.
Gli airedales di razza pura devono essere neri-rosso focati, muso quadrato sguardo vivissimo coda mozza, tosati, ma non a zero, quel tanto che basta perché il pelo si arricci appena e prenda il lucido; possono diventare ferocissimi. I contadini sostenevano che se entrava da noi uno sconosciuto di sera i cani s’agitavano al punto che le loro catene «facevano il fuoco», e i mendicanti secondo loro venivano «spogliati nudi, la signora doveva tener sempre pronti i vestiti vecchi per ricoprirli». La presenza del cavallo e di quei cani che mi accompagnavano sempre, magari a prendere il latte fra due ali di terrore, è valsa a influenzare i ragazzi di B*** che mi invitavano a giocare a carte nei bar fino a tarda notte, ma a soldi, non a gettoni come con Mira e con sua madre. Quando i bar chiudevano passavamo al Grand Hôtel per la porta laterale, e i canadesi venivano vicini con i bicchieri. Forse credevano di pelarmi: speranze balorde, dopo l’allenamento degli anni in collegio me la cavavo un po’ bene, e finiva spesso che andava sotto qualcuno di loro e venivano a domandarmi in prestito le due o le trecento lire. Che le rendessero o no mi importava poco, in fondo non pagavo caro il diritto di metterli a tacere in qualunque momento, per esempio con la paura che potessi venir fuori davanti agli altri con un «Faresti meglio a pagare i debiti invece di portar la morosa al cinema».
Del resto non ci voleva molto a renderseli amici, bastava offrire qualche aperitivo o portarli in giro una volta in timonella o sui carrozzini ‘militari’ che il papà prendeva e vendeva quando non gli piacevano più. Era una smania messagli addosso dalle offerte dei suoi vecchi amici di San Siro che adesso avevano smontato le scuderie e vivacchiavano commerciando in calessi e finimenti. Anche la mamma contagiata imparava a guidare, e siccome si fidava solo di Piero il nostro puledro cominciò una nuova carriera: anche il trotto! Ora che gli amici si ritrovavano avevamo spesso gente fino a tardi la sera, così alle mie sortite nessuno badava troppo. Una signora congiunta dei nostri zii veneziani passando a salutarci il giorno della sua uscita dal campo di concentramento è rimasta per delle ore in salone dicendo: «Lasciatemi riabituare; è da tanto che non vedo delle belle cose».
In maglione giallo-uovo gettato in ridere da Mira andavo giù al paese in bicicletta continuamente. I ragazzi sedevano al bar in attesa dei forestieri; pur di scroccare una qualsiasi cosa si mostravano servizievoli anche con me, specialmente nelle sere feriali. C’era da riconoscer loro una certa fantasia nell’inventar pretesti che mi divertivano: sono rimasto un’altra volta senza sigarette, se avessimo una macchina a disposizione c’è una festa fantastica a dieci chilometri di qui. Mi divertivano i loro giochi quasi spontanei di adulazione, che bella camicia, ah ma che belle cifre che hai; quanto costano quelle scarpe lì, ma da dove vengono? Le macchine a metano o carbonella non tanto disprezzate ci portavano qualche volta a M*** o a T***, gli altri paesini dei dintorni che tentavano di sfruttare le marginali sorgenti salsobromoiodiche con terme sommarie e pensioni di terz’ordine.
Si ballava addirittura in ogni spiazzo, e i miei amici vantavano conoscenze, e promesse di dir due parole per me a qualche ragazzina. «Perché non chiedi a tuo padre di prendere l’automobile?» mi dicevano sdegnati più che stupiti di vedere in bicicletta me e Mira. Siamo scesi in città una volta tanto con la sorella maggiore a veder la sfilata del presidio brasiliano, e una fanfara gialla ci ha travolti suonando in modo originalissimo e vispissimo. Degli indiani entusiasti in turbante hanno fatto a tutti noi delle proposte probabilmente oscene, in indiano. Poi, come sempre, al cinema, ora a far pompa delle nostre conoscenze davanti a innominabili film parlati in inglese. Alle sei avevo appuntamento con la mamma che usciva dal parrucchiere, per accompagnarla al trenino con una spiritiera comprata. Una ragazza in verde si è accostata in biglietteria a chiederci con maniere educate di scusare se si permetteva, aveva visto che la mamma era diretta a B*** e voleva domandare qualche informazione, se erano riaperti gli alberghi, com’era frequentato il Grand Hôtel. Credo che ne abbiano parlato in viaggio.
La mamma cominciava in quei giorni a occuparsi con impegno del Golf Club. Bisognava far tutto dal principio perché nella nostra zona un golf mancava, e già sulla scelta del terreno era complicato metter d’accordo i promotori. Se ne era già discusso in molte sedute ogni volta in una casa diversa, negli incontri delle signore che scendevano a V*** a far le spese, e avendo deciso che non si trovava più un bar decoroso da frequentare finivano per vedersi nella salumeria Adelaide. Furono convocati architetti, sottoscrizioni lanciate con zelo. Fra quelli che se ne interessavano la più zelante non avrebbe tirato fuori una lira né avrebbe giocato mai perché aveva ottantadue anni: la contessa Bonamici, implacabile fustigatrice delle mezze calze di cui buttava in ridere le certezze più sacre. Per la mamma aveva una gran simpatia perché al suo primo ballo bianco, continuava a dire, «suo padre, cara signora, che era presidente del Circolo di Lodi, mi ha accolto con parole così appropriate così carine che non dimenticherò mai, e sono entrata in salone al suo braccio». «Ma non poteva essere il papà…». «Un bellissimo vecchio, diritto, ex ufficiale nelle Guide, coi baffoni bianchi?». «Era il nonno». La mamma era sempre insieme a un giovane architetto figlio del marchese Cornaggia, specialista nel mettere in tutti i soggiorni due mezze colonne vis-à-vis con le foglie verdi che pendevano dal capitello, ma credo che non ci fosse niente di male: tendenzialmente è sempre stata una frigida, amica solo della buona compagnia e di un gran parlare. Il terreno verde fu designato per i lavori, in riva a un ginepreto.
Ho scoperto una sera che la ragazza in verde incontrata al trenino singhiozzo era invece signora sentendola chiamare così dal barman del Grand Hôtel, né mi ero proprio accorto che avesse un figlio con lei. «Non nego che preferirei un po’ di conversazione, però prendo in mano le carte volentieri» diceva a un tavolo della sala da gioco. Salutata mi ha riconosciuto subito, e non so come lo sapesse m’ha chiesto se vivevo in quella Casa Lunga dell’orologio. «È bella, è bella, sì» diceva con un sorriso bianco. Non so come, dopo non più di tre giorni conosceva già parecchi dei miei amici, però ho notato che li trattava con un certo distacco, e la loro correttezza. Modi insoliti. Ma dopo qualche giorno ancora di sorrisi tersi al bar del Grand Hôtel si ravvivavano i gruppi solo intorno a lei, mai vista meno che seria, però insomma entrava e conosceva tutti, e in breve tempo di nome o di vista anche tutte le signore delle ville.
Per quanto il bambino facesse le nebulizzazioni alle terme devo riconoscere che non ci ha mai parlato delle sue tonsille. Si chiamava signora Campoli e chiacchierava ogni pomeriggio seduta nella veranda, sovente alzandosi dai tavolini da gioco per lavorare a maglia, faceva un golfino e dava giudizi sui libri di Huxley, di Maurois, sul giardino che Mira madre e sorella facevano riordinare: «Una bella natura, colori stupendi, al punto che le farfalle sembrano di garza e si ha l’impressione che i fiori siano profumati di Chanel numero cinque». A proposito del giovanotto effeminato mica male che viveva in casa della baronessa Randaccio, lei era certa che si trattasse del rampollo d’una buonissima famiglia senese e non del qualunque sonatore di chitarra che avevamo supposto noi.
Ho chiesto a Mira che non sacrificasse alle verbene il quadrato di fragole da noi ogni primavera devastato; lei tosava cespugli come un giardiniere, e con i calzoni sporchi di terra scendevamo a fare un bagno verso le quattro. I cani costretti ad aspettarci fuori della piscina s’arrabbiavano vedendoci giocare a palla nell’acqua. Per farli sfuriare c’era il torrente. E il bosco per noi, oltre il settore vicino battuto dalle balie; al di là si diceva che le radure di felci nascondessero vipere, e i fratellini piccoli con cerbottana e triciclo finalmente non ci seguivano più.
«Mira, l’estate finirà e dopo tre anni qui ce ne andremo tutti».
«Non so se mi piacerà; prenderanno una nurse che baderà anche a me, non solo ai bambini, vedrai».
«Dovrai chiedere il permesso quando vuoi uscire?».
«La vita che ci aspetta in città, ti rendi conto, noi praticamente non la conosciamo; addio libertà, ho paura».
«Ma non siamo più bambini, Mira, io appena possibile vado in Inghilterra, di sera esco».
«Sì, sì, e appena possibile mi spediranno a Montreux, ma sarà come dalle monache, pressapoco. E tu appena avrai diciotto anni puoi prendere la patente per l’automobile, ma i miei non ne vogliono sapere».
«Ma verrò a trovarti, faremo grandi giri».
«Ho paura che sarò ridotta a sfogarmi al telefono. Parliamo d’altro». E parlavamo del giardino.
Usciti dal bosco nell’ora blu andavamo a provare l’irrigazione a pioggia sulle aiuole, a far due risate con la zia Laura che si faceva fare una cura di elettroshock e ci fermava nei corridoi chiedendo a tutti: «Ma tu chi sei?». Finita la guerra era finita un’epoca di serate semiclandestine con un film dei fratelli Marx o su un disco portato dentro via Svizzera, di tante oche allevate in ogni cortile e ne eravamo talmente sazi che i piccolini si divertivano ancora a ripetere «Mamma non fare più l’oca», mettendoci tutta la voluttà delle cose proibite. Casa Lunga fu assediata dagli imbianchini: che risparmiassero l’orologio, si raccomandava in un rovinar di calcina sulle palme, le muse care alla mamma. Vane tutte le proteste. In termini di «Oh, come vi capisco» una lamentela s’era levata in fondo al parco. La baronessa Randaccio il suo amico giovane e una inquietante famiglia di airedales estromessi invocavano testimonianze circa una vicissitudine di parquets malissimo lamati, di radici secolari gonfie a sollevar pavimenti. L’espressione ‘pelo sullo stomaco’ fu udita fra i pioppi e il cielo verde, e la signora Campoli mostrava di interessarsi vivamente a tristezze simili nel corso delle nostre chiacchierate sulla veranda. «Non si sta male qui, vero?» volgeva il capo grazioso. C’era una pergola nel giardino. Una rustica pace: quella dell’albergo Milano «che io» diceva «mi creda, ho preferito subito al lusso del Grand Hôtel, lusso, cioè, una pacchianeria facilona». Lei, moglie del dentista Campoli e probabilmente nobildonna, ma senza che lo facesse notare, preferiva sentirsi a suo agio sotto la pergola del Milano con un libro e un tricot nella sacca. Soprattutto per riposare era venuta lì. Al bar del Grand Hôtel due ore ogni sera, ma di più non sarebbe possibile: proprio perché non c’era altro luogo decente. Ma anche lì l’ambiente era abbastanza misto, guardassi attorno, avevo notato? In quell’inizio di stagione scarsissimi erano quelli che le agenzie chiamano ‘i villeggianti’, ogni sera il nostro gruppo di giovanotti sedeva intorno a lei. Il bambino era messo a letto, e la signora Campoli parlava intrattenendoci; buon per lei se cadendo fuori da un libro la lettera della signora Fede Cheti almeno io ero in grado di collocare quelle tende in un quadro più vasto. E rendere gli altri eventualmente edotti.
«Che cosa fanno di sera, di giorno?» tornò a chiedere con lieve insofferenza. «Si trovano nelle ville, giocano, ricevono, la sua mamma che cosa fa di bello?», ma portandole io tutti i saluti dietro incarico la mamma ha chiesto: «Chi? la cocorita del trenino?», e infatti il profilo del naso della signora Campoli richiamava subito l’idea del becco, a noi più che familiare: preso da sviscerato amore il papà andava comprando decine di cocorite e pappagallini verdi e blu da un ometto imbroglione proprietario d’un merlo parlante di cui a nessun prezzo si sarebbe disfatto. Una gabbia monumentale con torri e balconi li ospitava tutti, ma i più cattivi per scappare allargavano col becco le sbarrette smaltate di bianco. Allora a finestre chiuse si scatenava la caccia, il papà chiamava a aiutarlo noi armati di scopini e lattughe. Gli prevedevamo puntualmente la psittacosi e tutti i suoi orrori, ma niente da fare, era una passione molto vecchia. Di ritorno da un viaggio in Marocco prima della guerra lui e la mamma si erano trovati con i due Odero in un albergo di Madrid, carichi tutti di acquisti, avevano cuscini di cuoio oggetti d’artigianato strumenti musicali e sei gabbie appunto di pappagallini. Decidono di tornare in treno, e mentre i miei pagavano l’albergo tante ore prima della partenza, gli Odero vanno avanti alla stazione con i bagagli di tutti su due tassì; li consegnano ai facchini «da sistemare sul treno di mezzogiorno per Barcellona», ignorando che sulla stessa linea partiva sia il loro diretto che un omnibus subito dopo, e loro poveretti proprio sull’omnibus vengono fatti salire. Mettono a posto bene valige e cappelliere, e non si stupiscono del vagone un po’ dubbio «perché in Spagna c’è da aspettarsi di tutto». Del resto mute ma rassicuranti due signore anziane, molto velate e molto comme il faut, siedono di fronte a loro, distintissime e vestite di nero. Gli Odero collocano anche le sei gabbie sulle reticelle, riempiono d’acqua e di miglio le vaschette, aspettano, e aspettano con un certo nervosismo perché mezzogiorno si avvicina e non compaiono padre e madre miei, che a loro volta molto impensieriti fremevano sull’altro treno. Cinque minuti prima della partenza si sono visti dai finestrini: trasbordo frenetico di bagagli gettati giù dalla vettura, corse pazze avanti e indietro da un treno all’altro, la polizia che li fermava ogni volta sui binari ululando per mandarli nel sottopassaggio, tutta l’acqua e il miglio rovesciati sulle due povere velate che non hanno detto una parola.