III
Mira mi raccontava: «Mia zia Duodo ha fatto praticamente morire suo marito con le pie pratiche e le opere di bene; quella che da principio sarà stata magari anche carità, non aliena da una voglietta di entrare in relazione con l’aristocrazia codina, è aumentata ogni anno come una mania, una volta fu presa dall’ossessione della mensa del povero. Aveva letto non so se in un libro edificante o se nell’autobiografia di Santayana di due nobili sposi che avevano sempre un terzo piatto alla loro tavola. “Per chi?” domandavano gli interlocutori. “Per il povero” si rispondeva. “Quale?”. Il povero, così, in genere. “E veniva qualche volta?” tornavano a domandare quelli. “Mai”. Alla fine della storia il buon Dio ricompensava i due coniugi per la loro virtù, e mia zia non ha resistito, anche lei volle il coperto per il povero. Per qualche giorno non è successo niente, ma una volta con loro enorme sorpresa (non l’avevano detto a nessuno, non ci si vanta delle buone azioni) all’ora di mezzogiorno si è presentato un vecchio povero molto sicuro del fatto suo e sono stati costretti a tenerlo lì. Il vecchio è regolarmente tornato, ma era un povero ingordo e repellente, e c’è voluto un paio di settimane per scoprire che era un cugino disoccupato del cameriere. Adesso mia zia ha dato via in beneficenza tutto il suo patrimonio e ogni tanto viene da noi a batter cassa. Il papà le risponde: se è per comprare cipria e rossetto, sì, tutto quello che vuoi, ma se è per i poveri ciechi neanche un bottone».
Le salvie della zia Laura cresciute macchiavano l’ora blu delle confidenze, io dicevo «Adesso senti, Mira» e vedevamo più chiare tante cose insieme. Partita, scomparsa la povera cocoritina. Quella commedia ci faceva ancora compassione, ma qualche cosa si sarebbe dovuta capire prima.
«Una volta, Mira, la signora Campoli mi ha raccontato una storia, avrebbe dovuto mettermi in sospetto. Una sua famosa zia, amica di mezzo mondo, m’ha detto, usciva, figurati, con la celebre Vita Nicolson dall’Hôtel de Paris per andare al teatro di Montecarlo. Inciampa nell’abito da sera, cade sui gradini e rompendosi una gamba urla fortissimo per il dolore, ma era così grassa che quando arriva l’ambulanza ce n’è voluto per farla portare in chirurgia e non alla sala delle partorienti. Avevano creduto, ma sì, e la conclusione della storia sarebbe: e così non ha potuto assistere alla création della Épreuve d’Amour. È rimasta in ospedale due mesi, amica di tutti per il suo buonumore, e uscendone ha organizzato un Bal des Éclopés per i suoi compagni di degenza. Ma allora era in corsia?».
Non so perché Mira non partecipasse alla rivista, ma le prove si trascinavano piuttosto straccamente, c’erano dei disaccordi, nessuno sapeva manovrare le luci e incidere bene i blues, ingaggiare un’orchestra non sarebbe stato neanche pensabile. E non ero certo io dei più assidui, mi aveva tratto da parte la visita di un personaggio sconcertante. Giampiero Bellani in passato non era che uno dei tanti altri amici di collegio, uno che faceva bene le traduzioni delle classi più avanti e declamava «Libertà vo cercando ch’è sì cara – come sa chi per lei va nella bara» con gli occhi fissi. Ricompariva adesso in velluto verde e impermeabile militare da un suo romanzo d’avventurosi episodi: una fuga iniziale, poi volontario nell’esercito perdente, stupidamente, una bizzarrissima prigionia. Ora considerava impossibile rientrare nella buonissima tranquilla famiglia rifiutata mesi prima, e mi è parso almeno sano accompagnarlo lavato più di una sera a casa di Mira: mamma al cestino da lavoro, sorella bas-bleu in poltrona, padre con occupazioni comunque pacifiche. Giampiero sembrava non potersi fermare più; quello che ha visto lo raccontava o no in quelle sere, morti, rovina, donne, ballo, negri, catene, avventura, e se lo avesse desiderato la mamma poteva impiegarlo al golf, ha mangiato da noi qualche giorno ma una mattina di rugiada tristissima volle partire senza parole curvo sotto il suo leggero bagaglio e tutto rotto dentro, me l’ha detto lui.
«Ci resterà Mira un giorno per arrivare alla fine di questo bosco?». Non giungeva mai al di là delle felci inaridite la nostra piccola vittoria sui bambini seccanti in triciclo. E lei toglieva un sasso dalla scarpa. «Le mie ultime calze di cotone. Da non rammendare. Le porterò lunghe di seta presto». «Mira è stato bello finora, ma noi cambieremo e avremo infinitamente più obblighi». Un sospiro. «Anche peggio che imparare a memoria a scuola». «Le famose barriere…».
Forse la rivista non si sarebbe più fatta. Giorgio e Marcello nascondevano i foruncoli sotto centinaia di cerotti, e si aggiravano per la casa ammiccando in punta di piedi «Ssst, il Divino», perché la radio trasmetteva un qualunque disco di Toscanini. Quando ci siamo accorti che la vendemmia era cominciata dovevamo smettere di giocare al tennis sempre più presto nel crepuscolo pungente. La contessa Bonamici esagerava con le giacche di maglia, ma non si bevevano più frappé sotto la tenda di Leone. L’ultima polverosa uva americana cadeva appena toccata fra le ragnatele. Con Mira ci eravamo preoccupati per le nostre mamme, inquietissime a causa della tremenda età che stavano affrontando, e non bastandoci di perdonare ogni irritabilità avremmo anche voluto far qualche cosa per loro. Forse non potevamo fare niente.
Non si riusciva più a fermare l’avanzata dei piccolini in triciclo nella radura, più noiosi e più audaci di prima oltre le bambinaie in grida, e il buio azzurro anticipava ogni sera l’uscita dal folto. Cominciavamo a percorrere un tenero sentiero d’affetti disegnati sulle foglie o sull’acqua: l’ultima notte di Giampiero svelava Mira indifferente dolore aperto finalmente sciolto, d’altronde sul mutevole cielo gialloverde Mira ha iscritto una figura bionda fissata a cavallo sul campo al vociar dei megafoni «… tempo… penalità…». Una cravatta di seta cruda sarebbe forse un regalo più gradito di un’Antologia della Lirica Italiana? In tinta unita? Ora il fornaio miracolato a Lourdes preparava panini sempre più viennesi e leggeri.
Per i cammini del parco ripercorrevamo tennis cespugli sentieri e i nostri mesi. «Non voglio dimenticarli anche se la nostra libera confidenza finisce perché non siamo più i bambini», mentre la statua dell’igienista si ritraeva come un santone senza oroscopi.
La vendemmia ha reso parecchio, ma la rivista non si sarebbe più fatta. Un giorno era bastato perché i tacchini divorassero tutte le verbene. Il colonnellone accendeva il camino e domandava notizie delle prime castagne. Prima di quando prevedessimo furono riposte affrettatamente le racchette anche se quel giallo autunno sembrava non avere mai fine; noi dovevamo tornare in città per assistere la zia Laura che entrava in clinica. Non ci eravamo neanche accorti che da gran tempo aveva smesso di andare in bicicletta perché era cresciuto cresciuto il fibroma che l’avrebbe fatta morire.
Addio giallo paese che ricade nel sonno, Grand Hôtel sepolcrale, ombroso parco spazzato dal vento, addio bosco tennis piscina ore pungenti, giorni che da oggi in poi rimpiangerò, addio legni marci graffiati coi chiodi, scritte di cuori e di evviva, cabine bucate per spiare le belle, addio orinatoio rugginoso, addio crocicchi illuminati, addio Casa Lunga, addio fiori scale orologio immobile giochi perduti; non sarò ragazzo mai più e neanch’io lo vorrei, però mi è piaciuto molto.