II

«E così lei andrà all’estero, in Inghilterra» mi chiese la signora Campoli. «E non sa quando tornerà? Certo è una domanda inutile, come deve fare a sapere quando tornerà», lei tornata in città avrebbe badato a rimettere in ordine la casa. «Riallacceremo le vecchie amicizie trascurate, non vedo da secoli i Gavazzi, i Radice, i Litta, la loro bella villa». Le gite in Svizzera sarebbero ricominciate, il gelato serale a Campione – il confine è a pochi chilometri – i piccoli piaceri della domenica. Se qualcuno avesse bisogno di sigarette rare o cioccolato. I ragazzi di B*** seduti al bar del Grand Hôtel ascoltavano seri. Naturalmente in seguito. I canadesi facevano poco rumore, sparivano attraverso le porte come di lì a poco avrebbero fatto per sempre. Tutto era ancora difficile, e per poco lo sarebbe ancora stato, ma per poco, per poco… Restava solo il fumo, e odor di sapone.

«Tutto ritornerà come prima» andava dicendo la signora Campoli, di nuovo rivolta a me: raccontava della sua città e di se stessa. «La nostra vita è così semplice». Poche vecchie sicure amicizie. Semplice. Il bambino era messo a dormire. «Si ristabilisce il vecchio ordine». «Lo snobismo ripiglierà lena», immaginarsi, che neppure in quegli anni tremendi si era dato per vinto, ma non è che interessasse agli altri giovanotti di B***, si giocava meno ora e solo per me stava parlando forse la signora Campoli. Esaminava pensosa le sottocoppe: «Chiamiamole signore, chiamiamole pure così, quelle signore, di quella borghesia, media sa, un amico di mio marito sostiene che lo diverte tanto più del suo ambiente solito; queste signore che tentano scalate e arrembaggi, e si valgono dei pretesti più bizzarri. Incredibile. I bambini mandati a scuola nelle scuole migliori, tutta un’opera sorniona per attirare i compagni a merende e festine, in casa capisce, le famiglie per lo meno al telefono dovranno farsi vive a ringraziare, e da cosa nasce chi sa cosa, si capisce. Lei le vede sempre attive e zelanti nelle sedute delle opere di beneficenza, a mettersi in mostra con offerte, sobillare i curati perché facciano questo o quello, merito loro poi l’iniziativa, divise nuove ai ricoverati, la Fiera, la nuova Via Crucis. Le dirò che una di queste signore, che non conoscevo, è arrivata a fermarmi per strada facendomi gran complimenti “Che bel vestito che bel vestito. Le sta a pennello. Chi glie lo ha fatto così bene. Mi perdoni se oso”. Se potevo darle l’indirizzo della mia sarta; e io stupitissima, mai successo, mai pensato. Si intrufolano dappertutto. Una un pomeriggio in casa d’una mia vecchia amica. “C’è l’avvocato (il marito) perché avrei bisogno di un parere?”. Tutti sanno che lo studio non è lì, solo l’abitazione. “Non sapevo, mi scusi”. Fatta accomodare, a mezza voce, non si muove più. Discorre. Ritornerà. Dal marito non è mai andata, il parere, un pretesto. Credono che basti mettere un cammeo un collarino un fagottino di faille su una vecchia parente per mandarla avanti come battistrada con la scusa dell’obolo per le missioni. Calendario a capodanno. Una individua mi si presenta con la massima circospezione, quasi mistero. Parla di aiuti, vaga. Non capisco. Vien fuori che da parte di una signora decaduta che non vuol essere nominata ha da realizzare, esibisce due brillantini montati all’antica da una busta di cartavelina. Domani sarà il pellegrinaggio, o l’assistenza alle madri nubili, ai loro bambini, ai carcerati, ai minorenni traviati; la grotta di Lourdes che il commovente parroco sogna nel cinquantenario dell’ordinazione. Ma che se la sogni. E si piazzano lì a discorrere di chi non conoscono e non le conosce, però informatissime sulle vicende e parentele di chi vorrebbero avvicinare. “La signora Zelaschi? Già. Cugina dei Valfrè”. E l’avranno vista qualche volta per strada, avranno sentito parlare di lei dalla bustaia che serve tutte e due. Lo stendardo per i boy scouts, carini, fanno le gite. “Perché non manda anche il suo, i miei si divertono tanto”. Li mandano anche a lezioni private, li pettinano con la riga e la molletta. Piccola, piccola piccola borghesia, non hanno biancheria di ricambio decente e devono rimandare una operazione chirurgica per farsi una camicia da notte in fretta e furia, ma fermano in strada le domestiche altrui: “Quanto le dà la sua padrona, io le do di più, venga da me e si troverà bene”, e poi quando il colpo è riuscito “eh, di’ un po’, di’ un po’, la curano la curano la tavola quelli là, e che mobilio hanno, è vero che non vanno tanto d’accordo fra marito e moglie, di’ la verità, non vanno d’accordo, eh, perché non lo vuoi dire, ma lo so lo stesso”, poche, poche care, vecchie sicure amicizie affezionate, e basta» diceva la signora Campoli. «Dio ce ne liberi. Viviamo in casa, fra noi» mi diceva col suo luccicante sorriso. «E io sto seduta lì, servendo il tè a quei pochi amici…».

Non l’ho mai vista scendere alla piscina, ma chi avrebbe potuto resistere fra le quattro reti metalliche senza far parte del gruppo Randaccio? Finché durarono le giornate calde la baronessa regnò senza contrasti, quando l’estate cominciava a ingiallire tutto finì. Magari il chitarrista era lasciato a casa per curare i cani. In un circolo d’amici sedeva la baronessa esponendo in uno splendido costume lo splendido corpo al sole e ai nostri occhi. Del marito chi aveva più sentito parlare da anni? Il colonnellone suo padre scendeva a cavallo dalla collina e sembrava godersi le reazioni di quella compagnia esclusivamente maschile, rideva compiaciutamente degli imbarazzi suscitati dal parlare aggressivo di lei, di assestamenti che provocavano ritirate improvvise, o tuffi precipitati. E a distanza di cinquanta metri analoghi effetti della baronessa eccitavano spaventosamente al di là della rete metallica i miei amici del paese: venivano fuori delle belle bestemmie. Ma tutto era lecito alla baronessa Randaccio; approvandola pienamente scendeva per i viottoli in ombra la contessa Bonamici, senza bastone e senza curarsi degli spasimi altrui, e il colonnellone tirandosi su il panama dagli occhi le faceva posto sul divano, lui vestito di bianco lei di blu stavano a guardare proprio sul cocuzzolo di fronte le ville cambiar di colore col trascorrere della giornata.

La baronessa raccontava storie e loro la ascoltavano, teneva testa all’intero gruppo seduto a terra in mutandine, certo molto spiritosamente gettava là parolacce che su altre bocche sarebbero certo parse stonate, alla caccia al tesoro, argomento ormai del giorno, si proponevano le più audaci varianti, e giustizia sommaria si faceva di persone messe in piazza con nome erezione e cognome; poi al crepuscolo quando si trasferivano al Grand Hôtel il colonnellone montava pittorescamente a cavallo per risalire sulla sua collina, e partiva acclamatissimo. Io non avrei mai osato sfoggiare i suoi foulards così scarlatti. Coi nostri maglioni ora semplicemente candidi e senza righini scendevamo io e Mira al primo buio lungo gli azzurri sentieri a incontrare i ‘colonnellonamenti’ Randaccio in marcia verso l’aperitivo. Noi venivamo dall’alto, il tennis dei Romano si orientava di là da un crinale, un’altra valletta, un altro paesaggio, nient’altro che pace di vigne e case di contadini, e il fumo che saliva celeste. Mira taceva ostinatamente disillusa in quei giorni della vita, disillusa di una borsa regalata che non puzzava affatto come invece l’autentica foca dovrebbe puzzare; cominciava la sera perfettamente dolce, tenera, e io ero molto contento di stare vicino a lei, anche senza parlare, e mi sentivo molto bene. Ma dietro il monumento a un igienista che nel secolo scorso aveva scoperto il valore medicamentoso delle sorgenti termali due figure tentavano di confondersi con la penombra dei cespugli, come se nessuno sapesse che quella era l’ora e il luogo del conte Bergonzoli e della signora Chessa. Mira sempre muta mi dava la mano, e più tardi fra i lumi e i farfalloni notturni la zia Laura appariva sulla porta di Casa Lunga come una donna di Campigli. Diceva «l’hanno mangiato i topi», «secondo me giuocava male», «non c’è corrente», «dove siete stati?».

Finiva anche la caccia al tesoro nei suoi ultimi sgangherati episodi alla piscina in fondo al parco, attraverso i cespugli, attraverso i sentieri gridi bianchi giungevano fino a noi; bevevamo birra sedendo sulla terrazza del Grand Hôtel. Mira non più muta aveva smesso di annusare pellami e notava che non era presente la signora Campoli. Ci sembrò singolare che il bambino comparisse a un tratto fra noi: era sempre a letto, o altrove, e non lo vedevamo quando ci si intratteneva con la signora. Un bambino un po’ troppo grasso, un po’ troppo piccolo per la sua età, occhi celesti belli ma il naso un po’ storto, forse proprio deficiente no, certo un po’ tonto. Un bambino tardo nei movimenti, di nome Maurizio. Chi mai si era potuto far sentire, un commento o una qualche impressione? Guardando basso fra lacrimoni sconcertanti il bambino s’avvicinò al gruppo seduto ai tavolini e disse: «Non sono mica un scemo, io; piangevo perché mi veniva in mente la mia povera nonna».

Dopo l’albero della cuccagna e i tuffi vestiti, dopo la retromarcia fra i birilli, dopo che le dame furono spinte sull’altalena dai guidatori fino a far scattare coi piedi il segnale luminoso la gimkana era finita, ma la signora Campoli non comparve; era rimasta in camera sua tutto il giorno perché non si sentiva tanto bene.

La mamma scese da un’automobile in tailleur di seta, e io e Mira ammiravamo la linea che riusciva a conservare: non mangiava stupidaggini e stava attenta ai farinacei. Ora giocava al golf, il percorso era quasi a posto: campo magnifico, però le costruzioni erano ancora indietro, forse prima dell’inverno non sarebbero state pronte, e allora bisognava rimandare la festa all’anno dopo. La sorella di Mira tosava l’erba con la macchina. La contessa Bonamici s’avvicinava, e fu fatta sedere con affettate effusioni. Era riuscita a farsi regalare una pelliccia di persiano da una ditta famosa, unicamente con lusinghe e smorfie, figuriamoci se non ce l’avrebbe fatta a scroccare un Negroni offerto al bar del Grand Hôtel. Mira sosteneva d’averla vista far pipì in piedi a gambe larghe dietro un muro. Non toglieva mai i suoi enormi brillanti né la mattina né la sera. Mira era stufa, dopo aver rotto tutte le cannucce presa la bicicletta fece un giro, tornò per dirmi senza neanche scendere «e pela il salame con le dita», e se ne andò davvero.

Non c’erano a B*** né il papà né l’architetto; così quella sera ho accompagnato io a casa la mamma. «Ma che cosa ha di speciale quella cocoritina?» mi chiese lungo la salita, però mi sono accorto subito che la interessava ben poco. L’orologio fermo sulla Casa Lunga sembrava fosforescente sotto la luna. Erano partiti gli ebrei, partiti altri amici, ben pochi sfollati erano rimasti e della casa andavamo finalmente riprendendo possesso, a puntate.

L’indomani la cocoritina ricomparve, sarebbe morta la signora Campoli se avesse sospettato che qualcuno la chiamava così. «Quando mio padre studiava a Pisa,» mi raccontò nel pomeriggio «avevano casa insieme, lui e un suo cugino pure studente». Ma notavo minori velleità, non faceva più domande, evitava di incrociare la contessa nell’unica via. Una astratta rassegnazione mascherata da superiorità, si ritirava. «Avevano un servo briccone come in una commedia classica». Né incontri nei negozi. Solo le carte, ogni sera. E la sera i ragazzi fumavano, ogni sera le colline oscure, le logge illuminate, e al bar del Grand Hôtel i ragazzi non sapevano che cosa dire. Del resto negli immaginari campi elisi delle ville si giuocava egualmente a carte, si sentivano dischi, si prendeva il ghiaccio dalla ghiacciaia, la mamma faceva delle chiacchiere con degli amici, la contessa Bonamici tormentava la figlia e il genero con l’accusa di averle tirato un sasso quattro anni prima in giardino per toglierla di mezzo vendere la vigna e andare ad abitare a Roma; il colonnellone andava a letto presto a sognare il concorso ippico e la giuria di cui avrebbe fatto parte, sua figlia preparava per la notte i cani e il suonatore di chitarra, Mira non so che cosa facesse, forse leggeva o dormiva o forse non faceva nulla, il conte Bergonzoli inventava storie a sua moglie, e così poi la signora Campoli andava sospirando a dormire (il bambino c’era già), e da certi discorsi fatti io immagino che pensasse che in fondo i soldi non contano gran che e si vale per quello che si è e non per quello che si ha. E quando era abbastanza tardi io stavo coi giovanotti di B*** sui crocicchi a bestemmiare come cani alla luna per passare il tempo.

Per il concorso ippico mi ha scritto, e lo avremmo ospitato con gioia, Nicky Serlupi, un pezzo di passato che ritorna (e ci voleva la fine della guerra per rincontrarsi): il collegio alpino, i letti sovrapposti, e noi in fila nella corte dei grandi a ricevere i soldi della settimana; le nostre domeniche folli in libera uscita, tra le funicolari e i dolci all’osteria. Trovavamo divertentissimo persino portar via le scarpe a un grassone che si ritirava nel bosco per stare più tranquillo a leggere Americana e Moby Dick. Ora scendevo io in paese a prendere giornali e panini viennesi a mezzogiorno, perché mio fratello doveva andare a caccia di frodo; mi pareva di essere tornato a quei vecchi tempi, alle mattutine uscite a turno per calar giù a fare gli acquisti alimentari per tutti, a spedire lettere non consentite. Così l’ho annunciato a Mira: «vedrai!». Infatti prevedevamo giorni belli, gran mangiate di salame di P***. I nostri due padri davano una impressione di continua, leggera ebbrezza, compravano grappe e le distillavano con miscugli di vermut e zucchero, ma noi eravamo contenti che si divertissero di così poco. Tranquillissimi: non li vedevamo quasi mai. Ma l’esempio stavolta veniva dal mio. Nicky arrivato davanti al bicchiere che gli veniva porto ha creduto di morire. Poi il concorso ippico ha riportato vecchie facce e vecchie amicizie, chi ingrassato, chi invecchiato, chi sposato e con tanti bambini, e bisognava anche star lì a sentire tutte le loro storie sotto i bombardamenti.

Era solo a metà quella irripetibile estate che mi sembrava una dimensione del nostro spirito, una categoria privata e senza confini, come se non esistesse più per niente un futuro, e il passato era solo una musichetta orecchiabile, ma non mi toccava né riguardava più: unica realtà quell’acqua fredda di torrente che ci solleticava i piedi mentre facevamo bere il cavallo; da Nicky a Mira muovevo lo sguardo, eravamo tre biondi scalzi, e i nostri sei stivali buttati in un campo a spaventare le quaglie. Ma Nicky più tardi m’ha chiesto una cosa, e venuta la sera l’ho messo nelle mani d’uno dei miei amici fanatici, questo gli procurò una ragazza prezzolata, e ho saputo più tardi quante cosine porcherose Nicky si sia fatto fare. Che ambiente.

Il concorso ippico è durato tre giorni, e le belle principesse sono venute a sedersi sotto l’ombrellone delle autorità; noi tre sempre insieme vivevamo nel recinto, allegri al punto di amarci, fuori del tempo come le macchie rosse bianche e nere dei cavalieri che decoravano l’ingiallito fondo, parterre e cielo, del campo.

La finale distribuzione delle coppe ha disperso ogni cosa come uno scoppio. Mira fiorita d’organza è venuta da noi l’ultima sera e abbiamo cenato in giardino. La zia Laura inconsolabile che il grillotalpa rovinasse le sue salvie ascoltava alla radio il Concerto di Max Bruch. Il papà di Mira derideva le sue opinioni politiche, e lei ribatteva senza stare allo scherzo; riuscivano a trovarsi uniti d’accordo solo guidando processioni di piccoli a pipettare gocce d’olio nei fichi immaturi sulle piante. Altre convinzioni comuni non dovevano avere. Abbiamo fumato e bevuto e chiacchierato a lungo, poi abbiamo accompagnato Mira bellissima a casa con un cestino di frutta, e di ritorno a Casa Lunga abbiamo bevuto ancora cercando di infilar fichi al volo nelle sfere dell’orologio. I cani Randaccio protestavano in fondo al giardino, ma furono tenuti buoni a suon di chitarra. Abbiamo parlato per quasi tutta la notte, come fra i letti sovrapposti del collegio.

Mi ha raccontato Nicky una storia di suo padre, innamorato di una ex-segretaria, nell’età più pericolosa. Nicky lo segue quando esce per andare a trovarla, ma il padre sostiene che è solo un rapporto d’affari, lei è una trafficante nata, così lo aiuterebbe servendo anche da prestanome nelle operazioni in borsa. Loro l’hanno fatta pedinare da una agenzia, senza pensar di chiedere specificamente informazioni sulla moralità, così le hanno avute commerciali buonissime e che non servono a niente. Tutta la famiglia molto seccata e piena di paura che il padre spenda dei soldi per quella donna.

Ho accompagnato Nicky al trenino singhiozzo e ha promesso di tornare. Poco dopo, casuale incontro con la signora Campoli vestita di bianco; usciva dalle terme con il bambino; abbiamo combinato per la sera, niente bar, festa da ballo, in realtà poi abbiamo ballato pochissimo, e fu tuttavia una serata brillante sedere al tavolo e osservare le persone. Io dovetti imitare Mira nell’imitazione della contessa Bonamici inosservata che prende la fetta di prosciutto con due dita, rovescia indietro la testa, e la risucchia in bocca tutta intera facendo vortice.

La signora Campoli senza badar più alle contesse mi faceva osservare i numeri più vistosi: «Ecco la tipica moglie del professionista che si è fatto da sé: sono risaliti, hanno soldi, ma lei è rimasta quella che era. Hanno pochissime conoscenze. Frequentano solo qualche collega.

«Notare quelle due: impiegate, si capisce oltre a tutto il resto dalle unghie. La enorme è il vero tipo della dattilografona trentacinquenne che tiene testa agli uomini, giaguara, notare la scollatura, e squala poi, guardi un po’ com’è seduta. Quell’altra la chiameremo la crisi, viene da una famiglia a modo ma adesso non hanno più niente, e lei povera e sfiorita ha dovuto mettersi a lavorare; ha il diploma di maestra, o delle “complementari”, vive con la madre sola e escono insieme la domenica pomeriggio; la madre vuol sapere tutto, chi incontra per la strada, che cosa dicono in ufficio, adesso per settimane la povera crisi dovrà raccontare tutto quello che han fatto in questi due giorni di vacanza. Bevono aranciata? Sì, aranciata. Il golf che ha la giaguara apparterrebbe in realtà alla crisi, è la vecchia madre che glie lo ha lavorato all’uncinetto, ci ha impiegato tutto l’inverno e glie lo ha dato dietro con mille raccomandazioni (io credo che per procurarsi la lana abbia disfatto un suo capo da sposa); e subito quell’altra pantera se lo fa prestare perché ha le spalle nude e ha freddo, “tanto,” dice “tu stai bene lo stesso, basta un niente per farti far bella figura”».

«Chissà perché vanno in giro insieme» mi stupivo io.

«Ma è chiaro. La giaguara non ha una buona reputazione, è stata con questo e con quello, dice sempre che sta per sposarsi, poi tutto va a monte, e in ufficio si fanno sul conto suo certi discorsi. Andando con l’altra cerca di darsi un’aria rispettabile, e poi spera sempre di imparar qualche cosa dalla crisi (pur disprezzandola un po’), per esempio le belle maniere, non è che la crisi vada in società, per carità, povera diavola, ma dopo tutto ha ancora delle parentele buone, e in occasione di battesimi e funerali qualche volta la invitano. D’altra parte la crisi viene spinta in compagnia della giaguara proprio da sua madre, che la giudica un po’ timida, sta troppo in casa, e spera che così si sveglierà un po’, non come quell’altra, sarebbe troppo e non le piacerebbe, ma un po’ sì, ci vorrebbe.

«Quella specie di dama coi fioroni sulla spalla non è poi una dama, deve essere una che affitta le camere o spaccia droghe. Quello è un impiegato al catasto, si vede subito dall’occhiale. Ma guardate la cammella pettinata alla maschio; vista di dietro sembra un carabiniere, così neri e leccati quei capellacci, ma no, troppa brillantina per un carabiniere, piuttosto sembra un barbiere-sarto di paese, di fronte. Quella è una cassiera, abituata a trattare con i clienti, ma potrebbe anche essere una pedicure: è informata, sa tutto, le villeggiature, che cosa si porta quest’anno, le parentele delle dive…

«Ecco, ecco il classico tipo dell’insegnante…».

Nessuno si è salvato quantunque il tono si mantenesse ilare: andavo paragonando quei commenti infine divertiti della signora Campoli a certe implacabili demolizioni del prossimo per bocca dello zio Arturo, luminare della medicina e ipocondriaco al punto di rifiutarsi di sedere a tavola con i propri figli; quando mangiava, da solo, la zia Elvira che era una santa e anche una scema era tenuta a contare di fronte a lui battendo il tempo, perché ogni boccone doveva essere masticato non meno di trentatré volte e lui perdeva il conto.

Del resto il nonno di Mira aveva la mania di ritagliare articoli dai giornali d’ogni paese con lunghissime affilatissime forbici, da anni passava così le serate e lo schedario invadeva una dopo l’altra tutte le stanze dell’appartamento, per niente. La signora Campoli sorrideva e non diceva niente, certo tenendo in serbo qualche altro episodio pisano di un suo parente.

«Resterò fino alla fine d’agosto» annunciava «e mi spiace andarmene tanto presto perché mi trovavo bene, ma ogni anno dobbiamo organizzare una pesca di beneficenza con Annarosa Cicogna».

Il giorno dopo in un décor ben differente mi avrebbe ricevuto la baronessa Randaccio perché vedessi una cucciolata nuova che stabiliva un altro rapporto di parentela fra gli airedales nostri e i suoi; e io dovevo scegliere un piccolo che il papà mi permetteva di tenere in casa durante l’inverno.

La Bebe e il suo amico mi hanno ricevuto senza alzarsi dal letto per quanto fossero le cinque p.m.; sono entrato con qualche imbarazzo nel vederli in pigiama aperto e facevo l’atto di volgermi a un tavolino, di prendere in mano Luce d’Agosto, ma non si sono mossi con la maggior cordialità e mi hanno invitato a sedere vicino a loro con ghiaccio e tutto, abbiamo bevuto e chiacchierato a lungo di uno spettacolo che la baronessa avrebbe voluto metter su prima che l’estate finisse; più tardi sopraggiunsero Giorgio e Marcello Caprotti, anche loro interessati a questa rivista. Prima delle partenze autunnali bisognava affrettarsi a debuttare.

La baronessa aveva già in mente i quadri principali, ma le coreografie la preoccupavano grandemente. «Finché si tratta di recitare e cantare tutti si prestano, le signore come le ragazzine; ma spogliarsi? Non si possono fare tutti balletti vestiti». Perciò aveva pensato una cosa. Considerava che sarebbe stato ben difficile mettere insieme otto o dieci ragazze carine da denudare, e viceversa ricorrendo a una troupe di vaccone professioniste sarebbe stato sì più funzionale ma avrebbe suscitato problemi da non venirne più fuori con gli altri. «Allora meglio un balletto maschile: gli uomini vestiti da donna fanno goliardico ma han sempre fatto ridere come se fosse la prima volta. Anzi, io ho pensato a due balletti maschili» diceva la baronessa. «Uno di carini, giovani giovani, alti uguali, da manovrare spogliatissimi con figurazioni eccitanti; e un altro, detto dei mostri, quelli grassissimi, quelli con le gambette, riservato alle scene comiche; parodierebbero il french can-can, con giarrettiere plurime, o la danza classica, veli, ninfe in tutù, negre in blues».

Il chitarrista metteva già insieme la partitura. Le prove – che grande risorsa – avrebbero aiutato a passare i giorni di ferragosto di lì a poco. Sono uscito con i fratelli Caprotti che avevano lasciato la macchina in fondo al parco, e si parlava della loro madre brunissima così tutta antracite; vedova e non anziana li preoccupava a mio parere non invano. La trovavano giù di giri. «Occorrerebbe procurare a mamma un maschio di infinito vigore, le farebbe più che bene» diceva Giorgio; e Marcello: «Molto improbabile, sai; purtroppo mamma è donna di infinita virtù».

Il terzo fratellino molto più piccolo restava sempre nella macchina chiusa ai posteggi come un cane o una valigia, ma non se ne lamentava affatto, lo vedevamo saltare dietro i vetri alzati come un canarino nell’uccelliera. Era anche lui biondissimo, gli abbiamo fatto fare pipì, poi mi hanno accompagnato su e giù per B*** parecchie volte; a casa era venuta Mira a cercarmi, e per due ore aveva sciolto nell’acqua ragia i colori della zia Laura che dipingeva di fiori falsi la cassapanca dell’anticamera. Poi era andata via.

Sono passati loro a riprendermi due giorni dopo, era già la vigilia di ferragosto e scorrazzando per la via principale su e giù si è fatta attenzione a un singolare spettacolo: veniva dalla stazione la signora Campoli col bambino e un ometto, certamente il marito; e se fosse stata con noi in macchina a ricostruire la situazione avrebbe diagnosticato in quel suo divertente modo: arrivano i mariti che hanno solo pochi giorni di ferie, e lei in mezzo alla folla va a aspettarlo, si vergogna un po’ di lui e vorrebbe condurlo subito all’albergo, via dalla circolazione, subito, che i miti non crollino, bisogna posare i pacchi, ma non si vedono da parecchie settimane, e mentre lei rimane male a quell’incontro lui si consola, sta facendo sacrifici pesanti per mantenere quella villeggiatura, vuol sapere come si trovano, vuole vedere i luoghi, dice che non si sente affatto stanco, ha certamente portato i dolci ed è allegro. Io prima ho capito male, poi sono rimasto con una grande pena: quel marito dal collo dimesso portava doppiopetto e calzoni di stoffette scompagnate, pressoché invernali, una triste valigetta. E le scarpe bianche di pezza.