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Omr, decano della tribù, ultimo soffio di un'epopea che ha cullato le nostre veglie di un tempo... Omr, il mio prozio, quello che ha attraversato il secolo come una stella cadente, così esuberante che i suoi sogni non sono mai riusciti a raggiungerlo... È qui, nel cortile del patriarca, e mi sorride. E felice di rivedermi. Il volto solcato da rughe profonde freme di una gioia commovente, come quella di un bambino che riveda il padre dopo una lunga assenza. Più volte haj, ha conosciuto la gloria, gli onori e molti paesi, cavalcando leggendari purosangue attraverso terre in rivolta. Ha combattuto nelle truppe di Lawrence d'Arabia - «quell'Ibliss pallido venuto da terre brumose per sollevare i beduini contro gli Ottomani e seminare la discordia fra i maomettani» - e servito nella guardia pretoriana di re Ibn Saud, prima d'invaghirsi di una odalisca e scappare con lei dalla Penisola Arabica. I vagabondaggi, poi la rovina ebbero ragione di quella coppia. Abbandonato dalla sua ninfa Egeria, ha vagato di principato in sultanato a caccia di fortuna, poi ha fatto il brigante qua e là, per riciclarsi come trafficante di armi a Sana'a, mercante di tappeti ad Alessandria prima di essere gravemente ferito difendendo Al Quds nel 1947. L'ho conosciuto zoppicante per via del proiettile al ginocchio, poi appoggiato a un bastone in seguito a un infarto subito il giorno in cui ha visto i bulldozer israeliani devastare i frutteti del patriarca a profitto di una colonia ebraica. Oggi lo ritrovo paurosamente rattrappito, il volto cadaverico e lo sguardo spento; soltanto un fagotto di ossa dimenticato su una sedia a rotelle.

Gli ho baciato la mano e mi sono inginocchiato ai suoi piedi. Le dita ossute mi frugavano fra i capelli mentre cercava di riprendere fiato per dirmi quanto il mio ritorno all'ovile lo colmava di felicità. Ho appoggiato la testa sul suo petto, come una volta, quando, bambino viziato, venivo a piangere da lui i capricci che mi negavano.

«Il mio dottore» dice con voce tremante, «il mio dottore...»

Faten, sua nipote di trentacinque anni, è accanto a lui. Non l'avrei riconosciuta per strada. È passato tanto tempo. L'ho lasciata che era una monella scatenata, sempre pronta ad attaccare briga con i suoi cugini prima di svignarsela come se avesse il diavolo alle calcagna. Le notizie che mi giungevano sporadicamente a Tel Aviv la descrivevano come una scalognata. Le malelingue l'hanno soprannominata la "vedova vergine". Faten non ha davvero avuto fortuna. Il primo marito è morto durante il corteo nuziale per un testacoda a seguito di una malaugurata foratura; il secondo fidanzato è stato ucciso durante uno scontro con una pattuglia israeliana due giorni prima della notte di nozze. Subito le megere hanno sospettato che avesse il malocchio e più nessun pretendente ha bussato alla sua porta. È una ragazza ben piantata e dai modi rustici, forgiatasi nelle faccende domestiche e nell'austerità dei casolari isolati. Il suo abbraccio è robusto e il bacio sonoro.

Wissam si occupa del mio zaino poi, quando il decano consente a lasciarmi la mano, mi accompagna a vedere la camera. Mi sono addormentato prima ancora che la testa toccasse il cuscino. Verso sera torna a svegliarmi. Lui e Faten hanno apparecchiato la tavola sotto il pergolato. Non si sono risparmiati. Il decano è seduto a capotavola, ficcato nella sedia a rotelle. Neanche per un secondo stacca gli occhi da me: è in estasi. Ceniamo tutti e quattro all'aria aperta. Wissam ci racconta storielle dal fronte fino a notte fonda. Omr rideva con gli occhi, il mento nell'incavo della gola. Wissam è proprio divertente, fatico a credere che un ragazzo timido come lui possa aver sviluppato un umorismo così spassoso.

Torno in camera inebriato dai suoi racconti.

Al mattino, nell'ora in cui la notte solleva l'orlo sulle prime carezze del giorno, sono già in piedi. Ho dormito come un bambino. Forse ho fatto sogni molto belli, ma non ne ricordo nessuno. Mi sento fresco, depurato. Faten ha già fatto uscire il decano nel cortile; lo vedo dalla finestra, ieratico sul suo trono, simile a un totem convalescente. Aspetta che sorga il sole. Faten ha finito di preparare le focacce. Mi serve la colazione in salotto: caffellatte, olive e uova sode, frutta di stagione e tartine imburrate bagnate nel miele. Mangio da solo, Wissam dorme ancora. Faten viene a controllare di tanto in tanto se ho bisogno di qualcosa. Dopo colazione, raggiungo Omr nel cortile. Mi stringe forte la mano quando mi chino su di lui per baciarlo sulla fronte. Se non dice niente è per assaporare fino in fondo ogni istante che gli concedo. Faten va nel pollaio per dare da mangiare ai pulcini. Ogni volta che mi passa davanti mi rivolge lo stesso sorriso. Nonostante la dura vita della fattoria e il destino crudele, resiste. Lo sguardo è arido, i gesti sgraziati, ma il sorriso conserva gelosamente una pudica tenerezza.

«Vado a fare un giro» dico a Omr. «Chissà, potrei ritrovare il bottone di rame che ho perso qui più di quarant'anni fa.»

Omr dondola la testa dimenticandosi di lasciarmi la mano. Gli occhi stanchi, consumati dai venti del deserto e dai rovesci di fortuna, risplendono come gioielli imbrattati.

Taglio per l'orto, m'inoltro in quel che resta di un frutteto dagli alberi scheletrici alla ricerca delle vie della mia infanzia. I sentieri di un tempo sono scomparsi, ma le capre ne hanno tracciati di nuovi, meno ispirati forse, ma altrettanto spensierati. Intravedo la collina dalla quale partivo all'assalto della tranquillità. La capanna dove mio padre aveva sistemato il suo atelier è crollata; una parete rifiuta di abdicare, ma il resto sono solo macerie che gli acquazzoni hanno completamente disfatto. Arrivo davanti al muretto dietro al quale, con un mucchio di cugini, architettavamo imboscate contro eserciti invisibili. Un tratto di muro si è crepato, consegnando le proprie viscere alle erbacce. In questo punto preciso mia madre aveva seppellito il mio cucciolo, nato morto. Ero così triste che lei aveva pianto insieme a me. Mia madre... un'anima caritatevole che svanisce nella deriva dei ricordi, un amore perduto per sempre nel fragore degli anni. Mi siedo sopra una grossa pietra e ricordo. Non ero figlio di un sultano, ma è un principe che rivedo sorvolare a braccia distese come ali di uccello la miseria del mondo, come una preghiera i campi di battaglia, come un canto il silenzio di coloro che non ne possono più.

Adesso il sole colpisce i miei pensieri. Mi alzo e salgo la collina che pochi alberi irsuti ombreggiano. M'inerpico per un pendio, arrivo in cima: era il mio posto di osservazione al tempo delle guerre beate. Una volta, quando mi alzavo da quassù, il mio sguardo arrivava così lontano che con un po' di concentrazione potevo scorgere i confini del mondo. Oggi, frutto di chissà quale intenzione malvagia, un'orrida muraglia s'innalza sconciamente contro il mio cielo di un tempo, così oscena che i cani preferiscono alzare la zampa sui rovi piuttosto che ai suoi piedi.

«Sharon sta leggendo la Torah al contrario» dice una voce alle mie spalle.

Un vecchio vestito di un abito stinto ma pulito è dietro di me. Appoggiato a un grosso bastone, l'aria avvilita e la criniera incanutita, guarda sprezzante il bastione che occulta l'orizzonte. Sembra Mosè davanti al Vitello d'oro.

«L'ebreo è errante perché non sopporta i muri» dice senza fare caso a me. «Non è un caso se ne ha eretto uno per piangerci sopra. Sharon sta leggendo la Torah al contrario. Crede di difendere Israele dai suoi nemici e invece lo rinchiude in un altro ghetto, meno terribile, certo, ma altrettanto ingiusto...»

Finalmente, si volta verso di me.

«Mi scusi se la disturbo. L'ho vista arrivare dal sentiero, e ho creduto di rivedere un vecchio amico che non è più tra noi da dieci anni e che mi manca. Lei ne ha l'aspetto, l'andatura e, adesso che la vedo da vicino, un po' dei suoi tratti. Per caso, lei non è Amin, il figlio di Reduan, il pittore?»

«Esatto.»

«Ne ero sicuro. È pazzesco quanto gli assomiglia. Per un attimo l'ho scambiata per il suo fantasma.»

Mi tende una mano stanca.

«Il mio nome è Shlomi Hirsch, ma gli arabi mi chiamano Zeev l'Eremita. Per via di un asceta d'altri tempi. Abito la baracca laggiù, dietro l'aranceto. Prima, rivendevo per conto del vostro patriarca. Dopo che ha perso le sue terre mi sono riciclato come ciarlatano. Tutti sanno che non ho poteri maggiori dei polli che immolo sull'altare del tempo perso, ma a nessuno sembra importare. Vengono ancora a chiedermi miracoli che non sono in grado di fare. Prometto giorni migliori in cambio di pochi, miseri sheqel, siccome non ne traggo grandi guadagni, nessun cliente se la prende se sbaglio.»

Gli stringo la mano.

«La disturbo?»

«Adesso no» lo rassicuro.

«Meglio così. È raro che qualcuno passi da queste parti negli ultimi tempi. Per via del Muro. È davvero tremendo, vero? Com'è possibile costruire simili orrori?»

«Gli orrori non dipendono solo dalle infrastrutture.»

«Giusto, ma in questo caso, francamente, potevano trovare di meglio. Un muro? Cosa significa? L'ebreo è nato libero come il vento, inafferrabile come il deserto di Giudea. Se ha dimenticato di delimitare i confini della sua patria al punto da rischiare che gliela confiscassero, significa che ha creduto a lungo che la Terra promessa fosse anzitutto quella in cui nessun muro impedisce al suo sguardo di arrivare più lontano del suo grido.»

«E del grido degli altri, cosa se ne fa?»

Il vecchio abbassa la testa.

Raccoglie una manciata di terra e la sbriciola fra le dita.

«"Che m'importa dei molti vostri sacrifici?, dice il Signore. Io li odio."»

«Isaia, 1,11» dico.

Il vecchio inarca le sopracciglia, ammirato: «Bravo».

«"Come si è prostituita la città fedele, in cui abitava la giustizia?"» gli recito. «"La giustizia diventata ora covo di assassini?"»

«"Le guide di questo popolo lo conducono nell'errore e i guidati vanno in rovina."»

«"Per l'ira del Signore degli eserciti il paese è stato incendiato e il popolo è diventato preda delle fiamme. Nessuno risparmia suo fratello. Si mangia a destra e si ha fame, si mangia a sinistra e non si è sazi, ognuno mangia la carne del suo compagno."»

«"Quando il Signore avrà compiuto tutta l'opera sua riguardo al monte Sion e a Gerusalemme, castigherà il frutto superbo del cuore del re di Assur e l'arroganza dei suoi occhi alteri."»

«E Sharon dovrà rigare dritto, amen!»

Scoppiamo a ridere.

«Mi fai rimanere a bocca aperta» riconosce. «Dove hai imparato questi versetti di Isaia?»

«Ogni ebreo di Palestina è un po' arabo e nessun arabo d'Israele può pretendere di non essere un po' ebreo.»

«Totalmente d'accordo con te. Ma, allora, perché così tanto odio fra consanguinei?»

«Perché non abbiamo capito granché delle profezie né delle più elementari regole di vita.»

Annuisce, triste.

«Allora, cosa possiamo fare?» chiede.

«Prima di tutto, restituire la libertà al buon Dio. Da troppo tempo è ostaggio della nostra bigotteria.»

Un'auto arriva dalla fattoria, sollevando una lunga scia di polvere.

«Di sicuro è per te» mi avverte il vecchio. «A me vengono a far visita solo a dorso di mulo.»

Gli porgo la mano, lo saluto e scendo rapidamente il fianco della collina in direzione della pista carrozzabile.

 

C'è gente in casa del patriarca. Zia Najet in persona è lì; era dalla figlia a Tubas ed è rientrata non appena ha saputo del mio ritorno all'ovile. A novant'anni è ancora in forma. Sempre ben piantata sulle gambe, lo sguardo luminoso e i gesti precisi. È la madre di tutti noi, la moglie più giovane e l'unica vedova del patriarca. Quando mia madre voleva sgridarmi, bastava che urlassi il suo nome per essere risparmiato... Piange sulla mia camicia. Altri cugini, zii, nipoti, parenti aspettano pazientemente il proprio turno per abbracciarmi. Nessuno mi rimprovera per essere andato lontano ed esserci rimasto a lungo. Tutti sono contenti di rivedermi e riavermi con loro per la durata di un abbraccio; tutti mi perdonano per averli ignorati in questi anni, per aver preferito i grattacieli scintillanti alle aride colline, i grandi viali alle mulattiere, i lustrini illusori alle cose semplici della vita. Vedendo tutta questa gente che mi ama e potendo condividere con loro soltanto un sorriso, mi accorgo di quanto mi sia impoverito. Voltando le spalle a queste terre sconvolte e imbavagliate, ho creduto di rompere i ponti. Non volevo assomigliare ai miei, subire la loro miseria e nutrirmi del loro stoicismo. Ricordo che trottavo continuamente dietro mio padre che, la tela come scudo e il pennello in resta, si ostinava a braccare la sua chimera attraverso un paese in cui le leggende rendono tristi. Ogni volta che un mercante d'arte gli faceva di no con la testa, ci cancellava entrambi. Era mostruoso. Mio padre non gettava la spugna, convinto che avrebbe finito per provocare il miracolo. I suoi insuccessi mi facevano infuriare, la sua perseveranza mi fortificava. È stato per non dipendere da un banale cenno del capo che ho rinunciato ai frutteti del nonno, ai giochi d'infanzia, persino a mia madre; mi sembrava che fosse l'unica maniera per trasformare il mio destino in un'epopea poiché tutte le altre mi escludevano d'ufficio...

Wissam ha sgozzato tre montoni per onorarci con un banchetto degno delle grandi occasioni. Il ritrovarsi è commovente, mi reggo a stento sulle gambe. Tutta un'epoca ritorna al galoppo, superba come una fantasia di cavalieri arabi. Mi presentano bambini intimiditi, nuovi fidanzamenti, futuri parenti. Arrivano i vicini, vecchie conoscenze, amici di mio padre e antichi compagni di giochi. La festa impazza fino all'alba.

Al quarto giorno, la casa del patriarca ritrova la quiete abituale. Faten riprende in mano la situazione. Zia Najet e il decano passano le loro giornate nel cortile a guardare il balletto delle zanzare sull'orto. Wissam ci chiede il permesso di tornare a Jenin. Una telefonata l'ha richiamato all'ordine. Prepara la borsa, abbraccia i vecchi, la sorella Faten. Prima di lasciarci mi dice quanto è stato fortunato ad avermi conosciuto in tempo. Non ho colto il senso di in tempo; non ero tranquillo vedendolo partire: qualcosa, nel suo sguardo, mi ha ricordato Sihem all'autostazione e Adel paralizzato nel cortiletto pietroso di Jenin.

Non mi dispiace questa tappa dai miei. Il loro calore mi riconforta, la loro generosità mi rassicura. Divido le mie giornate tra la fattoria, dove tengo compagnia al decano e a hajja Najet, e la collina, dove ritrovo il vecchio Zeev e i suoi esilaranti racconti sulla credulità della gente semplice.

Zeev è un tipo affascinante, un po' matto ma saggio, una specie di santo di ritorno dall'esilio prima del tempo, che preferisce accettare le cose come vengono, inizialmente alla rinfusa, prima di procedere alla cernita, come si prende il treno di corsa con la scusa che ogni scoperta contribuisce ad arricchire l'essere, anche se si va verso un destino inclemente. Se dipendesse da lui, baratterebbe volentieri il suo bastone da Mosè con una scopa da strega e si divertirebbe a rendere i propri sortilegi altrettanto terapeutici dei miracoli promessi ai dannati che vengono a implorare la sua misericordia scambiando la sua miseria per astinenza e la sua emarginazione per ascesi. Da lui ho imparato molto sulla gente e su me stesso. Il suo umorismo alleggerisce il fardello delle vicissitudini, la sua sobrietà tiene a distanza le malefatte di una realtà dimentica delle proprie promesse, assassina delle proprie speranze. Mi basta ascoltarlo per fare il vuoto nei miei pensieri. Quando si lancia nelle sue filippiche torrenziali contro la furia degli uomini e la loro vanità, più nulla lo trattiene; travolge tutto al proprio passaggio, me per primo. «La vita di un uomo vale molto di più di un sacrificio, per quanto supremo possa essere» confessa sostenendo il mio sguardo. «Perché la più grande, la più giusta, la più nobile delle cause sulla Terra è il diritto alla vita...» Una delizia, quest'uomo. Ha il talento di non farsi soverchiare dagli eventi, la decenza di non cedere all'assedio dei rovesci di fortuna. Il suo regno? La baracca dove abita. Il suo banchetto? Il pranzo che divide con quelli che apprezza. La sua gloria? Un semplice pensiero nel ricordo di quelli che gli sopravvivranno.

Discutiamo ore intere in cima alla collina, seduti sopra un grosso sasso, le spalle al Muro, ostinatamente rivolti ai pochi frutteti che ancora resistono in territorio tribale...

È congedandomi da lui, una sera, che la disgrazia mi riagguanta...

Donne in nero affollano il cortile. Faten se ne sta in disparte, la testa fra le mani. I singhiozzi s'intercalano ai gemiti, riempiendo la fattoria di funesti presagi. Alcuni uomini chiacchierano accanto al pollaio; qualche parente, qualche vicino.

Cerco il decano, ma non lo vedo da nessuna parte.

È lui che è morto?

«È in camera sua» mi dice un cugino. «Hajja è accanto a lui. Ha preso molto male la notizia...»

«Quale notizia?»

«Wissam... È caduto sul campo dell'onore, stamattina. Ha imbottito l'auto di esplosivo e si è scagliato contro un posto di blocco israeliano...»

I soldati investono il frutteto al sorgere del sole. Arrivano all'improvviso a bordo di mezzi muniti di grate, circondano la casa del patriarca. Li segue un camion che trasporta un bulldozer. L'ufficiale chiede di vedere il decano. Visto che Omr non sta bene, sono io a rappresentarlo. L'ufficiale m'informa che in seguito all'attacco kamikaze compiuto da Wissam Jaafari contro un posto di blocco, e conformemente agli ordini ricevuti dai suoi superiori, abbiamo mezzora per evacuare la casa e permettergli di procedere alla sua distruzione.

«Cosa?» protesto. «Volete distruggere la casa?»

«Vi restano ventinove minuti, signore.»

«Neanche a pensarci. Non vi lasceremo distruggere la nostra casa. Che storia è questa? Dove andrà la gente che abita qui? Ci sono due vecchi quasi centenari che cercano di congedarsi con dignità dai pochi giorni che restano loro. Non avete il diritto... Questa è la casa del patriarca, il punto di riferimento più importante di tutta la tribù. Sloggiate di qui, e in fretta.»

«Ventotto minuti, signore.»

«Rimarremo dentro. Non ci muoveremo da qui.»

«Non è un mio problema» dice l'ufficiale. «Il bulldozer è cieco. Quando parte, va fino in fondo. Siete avvisati.»

«Vieni via» mi dice Faten tirandomi per il braccio. «Questa gente non ha più cuore del loro cingolato. Salviamo quel che possiamo e andiamocene.»

«Ma distruggeranno la casa» grido.

«Cos'è mai una casa quando si è perso un paese?» sospira.

I soldati fanno scendere il bulldozer dal camion. Altri tengono a distanza i vicini che cominciano ad arrivare. Faten aiuta il decano a ficcarsi nella sedia a rotelle e lo mette al riparo nel cortile. Najet non vuole portare via niente con sé. Sono tutte cose di casa, dice. Nei tempi antichi si seppellivano i signori con i loro beni. Questa casa merita di conservare i propri. È una memoria che si spegne con i suoi sogni e i suoi ricordi.

I soldati ci obbligano a stare lontani dal cantiere. In cima a una brulla collinetta, Omr se ne sta sprofondato nella sedia a rotelle. Credo che non si renda conto di quel che succede; osserva l'agitazione intorno a sé senza notarla davvero. Hajja Najet se ne sta dignitosamente in piedi dietro di lui, Faten alla sua sinistra, io alla sua destra. Il bulldozer barrisce emettendo una densa nube dal camino. I cingoli d'acciaio lacerano crudelmente il terreno ruotando su se stessi. I vicini aggirano il cordone di sicurezza creato dai soldati e ci raggiungono in silenzio. L'ufficiale ordina a una pattuglia dei suoi uomini di controllare che dentro la casa non sia rimasto nessuno. Dopo essersi accertato che l'abitazione sia vuota, fa un cenno al conducente del bulldozer. Nel momento in cui il muretto di recinzione crolla, la rabbia m'invade e mi lancio contro il cingolato. Un soldato mi sbarra la strada, lo spintono e mi avvento contro il mostro che sta devastando la mia storia. «Fermatevi» urlo... «Si fermi» intima l'ufficiale. Un altro soldato m'intercetta; il calcio del suo fucile mi colpisce alla mascella e mi accascio come una tenda che venga staccata.

 

Sono rimasto tutta la giornata sulla collinetta a contemplare il cumulo di macerie che molti anni luce fa, sotto un cielo radioso, fu il mio castello di piccolo principe dai piedi scalzi. Il mio bisnonno l'aveva costruito con le sue mani, pietra su pietra; diverse generazioni vi sono nate, gli occhi più grandi dell'orizzonte, diverse speranze sono germogliate nei suoi giardini. È bastato un bulldozer per ridurre in polvere, in pochi minuti, l'eternità intera.

Verso sera, mentre il sole si barrica dietro il Muro laggiù, un cugino viene a cercarmi.

«Non serve a niente restare qui» mi dice. «Quel che è fatto è fatto.»

Hajja Najet è tornata dalla figlia a Tubas.

Il decano ha trovato rifugio in casa di un pronipote in un casolare non lontano dai frutteti.

Faten si è murata in un mutismo impenetrabile. Ha scelto di rimanere accanto al decano, nella stamberga del pronipote. Si è sempre occupata del vecchio e sa quanto sia gravoso questo compito. Senza di lei, Omr non reggerebbe il colpo. Gli altri ne avrebbero cura i primi tempi, poi finirebbero per trascurarlo. Ecco perché Faten ha preferito vivere nella casa del patriarca. Omr era come un figlio. Ma quando il bulldozer se n'è andato, si è portato via anche l'anima di Faten. Adesso è una donna stroncata, sconvolta, silenziosa, un'ombra dimenticata in un angolo che aspetta la notte per mimetizzarsi. Una sera è tornata a piedi nel frutteto devastato, i capelli sciolti lungo la schiena - lei che non sapeva disfarsi del velo - ed è rimasta in piedi tutta la notte davanti alle macerie sotto le quali giaceva la sua intera vita. Si è rifiutata di seguirmi quando sono andato a cercarla. Non una lacrima è scesa dagli occhi vuoti, dallo sguardo vitreo che non inganna e che ho imparato a temere. Il giorno dopo, nessuna traccia di Faten. Abbiamo smosso mari e monti per ritrovarla: volatilizzata. Vedendomi intenzionato a battere i casolari vicini e temendo che la situazione s'inasprisse, il pronipote mi prende da parte e mi confida: «L'ho accompagnata io a Jenin. Ha insistito a lungo. In ogni modo, nessuno può farci niente. È sempre stato così».

«Cosa intendi dire?»

«Niente...»

«Perché è andata a Jenin, e da chi?»

Il pronipote di Omr alza le spalle.

«Sono cose che la gente come te non capisce» mi dice allontanandosi.

Allora ho capito.

Prendo un taxi e torno a Jenin, sorprendo Khalil in casa sua. Crede che sia venuto a regolare i conti con lui. Lo tranquillizzo. Cerco solo di contattare Adel. Adel arriva subito. Lo informo della scomparsa di Faten, dei miei sospetti riguardo ai motivi della sua fuga.

«Nessuna donna ha raggiunto i nostri ranghi questa settimana» mi rassicura.

«Cerca d'informarti dalla jihad islamica o da altre milizie.»

«Non ne vale la pena... Già facciamo fatica a intenderci sull'essenziale. E poi nessuno deve rendere conto a nessuno. Ognuno conduce la propria Guerra santa come meglio crede. Se Faten è da qualche parte, inutile cercare di raggiungerla. È maggiorenne e perfettamente libera di fare quel che vuole della sua vita. E della sua morte. Non ci sono due pesi e due misure, dottore. Quando si accetta di prendere le armi, si deve accettare che gli altri facciano altrettanto. Ognuno ha diritto alla propria parte di gloria. Non si sceglie il proprio destino, ma è bene scegliere la propria fine. È un modo democratico di mandare affanculo la fatalità.»

«Ti prego, ritrovala.»

Adel scuote la testa, irritato: «Continui a non capire niente, ammou. Adesso devo scappare. Lo sceicco Marwan arriverà da un momento all'altro. Terrà un sermone tra un'oretta nella moschea del quartiere. Dovresti ascoltarlo».

È così, ho pensato: probabilmente Faten è a Jenin per ricevere la benedizione dallo sceicco.

 

La moschea è piena fino a scoppiare. Cordoni di miliziani proteggono il santuario. Mi posiziono all'angolo della strada e sorveglio l'ala riservata alle donne. Le ritardatarie si affrettano a raggiungere la sala della preghiera attraverso una porta segreta nel retro della moschea, alcune imbacuccate in abiti neri, altre coperte di veli dai colori vivaci. Nessuna Faten in vista. Aggiro un isolato per avvicinarmi alla porta segreta dove una signora corpulenta monta di guardia.

È scandalizzata nel trovarmi da questo lato del santuario dove neanche i miliziani osano farsi vedere, per pudore.

«Gli uomini dall'altra parte» intima.

«Lo so, sorella, ma ho bisogno di parlare a mia nipote, Faten Jaafari. È urgente.»

«Lo sceicco è già sul minbar.»

«Mi dispiace, sorella, ma devo parlare a mia nipote.»

«Come faccio a raggiungerla?» s'innervosisce. «Dentro ci sono centinaia di donne e lo sceicco sta per cominciare il sermone. Non andrò certo a rubargli il microfono. Torni dopo la preghiera.»

«Per caso la conosce, sorella, si trova qui?»

«Cosa? Non è neanche sicuro che sia qui e viene a scocciarci in un momento simile? Se ne vada, altrimenti chiamo i miliziani.»

 

Mi tocca aspettare la fine del sermone.

Torno alla mia postazione, all'angolo della strada, in modo da non perdere di vista la moschea e l'ala riservata alle donne. La voce seducente dell'imam Marwan rimbomba nell'altoparlante, sovrana nel silenzio siderale che piomba sul quartiere. È più o meno lo stesso discorso sentito nel taxi abusivo preso a Betlemme. Ogni tanto, fragorosi applausi salutano gli slanci lirici dell'oratore...

Un'auto si ferma in tutta fretta davanti alla moschea, ne scendono due miliziani agitando i walkie-talkie. Sembra una cosa seria. Uno dei nuovi arrivati indica nervosamente il cielo con un dito. Gli altri confabulano prima di andare a cercare un responsabile; è l'uomo con il giubbotto da paracadutista, il mio carceriere. Porta il binocolo agli occhi e scruta il cielo per diversi minuti. Intorno al santuario si scatena l'agitazione. I miliziani si mettono a correre da tutte le parti, tre di loro vengono verso di me e mi superano ansimando... «Se non si vedono elicotteri, allora si tratta di un drone» ipotizza uno di loro. Li guardo risalire la strada a tutta velocità. Un'altra automobile frena davanti alla moschea. Gli occupanti gridano qualcosa all'uomo con il giubbotto da paracadutista, fanno marcia indietro rombando in modo inquietante e filano verso la piazza. Il sermone viene interrotto. Qualcuno s'impadronisce del microfono e chiede ai fedeli di mantenere la calma perché potrebbe trattarsi di un falso allarme. Due fuoristrada arrivano come bolidi. Alcuni fedeli iniziano a evacuare la moschea. Mi accorgo che mi nascondono l'ala riservata alle donne. Non posso aggirare l'isolato senza rischiare di lasciarmi sfuggire Faten nel caso in cui uscisse a sua volta dalla porta segreta. Decido di passare davanti alla porta principale, fendere la folla e sbucare direttamente sull'ala riservata alle donne... «Scansatevi, per favore» grida un miliziano. «Lasciate passare lo sceicco...» I fedeli sgomitano per vedere lo sceicco da vicino, sfiorare un lembo del kamis. Quando l'imam compare sulla soglia della moschea vengo risucchiato in mezzo alla calca. Cerco invano di liberarmi dai corpi in estasi che mi stritolano. Lo sceicco s'infila in macchina, agita la mano dietro il vetro blindato mentre due guardie del corpo prendono posto accanto a lui... Poi più niente. Qualcosa fende il cielo e balena in mezzo alla carreggiata come un lampo, l'onda d'urto mi colpisce in pieno, disperdendo l'assembramento che mi tiene prigioniero della propria ipnosi. In una frazione di secondo, il cielo sprofonda e la strada, un attimo prima gravida di fervore, si ritrova sottosopra. Il corpo di un uomo, oppure di un bambino, attraversa la mia vertigine come un flash senza luce. Cos'è successo?... Una valanga di fuoco e di polvere mi afferra e mi scaglia in mezzo a mille schegge. Ho la vaga sensazione di sfilacciarmi e dissolvermi nel soffio dell'esplosione... A qualche metro l'auto dello sceicco è in fiamme. Due spettri insanguinati cercano di sottrarre l'imam da quel rogo. A mani nude scorticano i rottami incandescenti, rompono i vetri, si accaniscono sulle portiere. Non riesco a rialzarmi... L'ululare di un'ambulanza... Qualcuno si china sopra di me, ausculta sommariamente le mie ferite e si allontana senza voltarsi. Lo vedo accovacciarsi davanti a un ammasso di carne carbonizzata, tastargli il polso, poi fare un cenno ai barellieri. Un altro viene a sollevarmi la mano per poi lasciarla cadere... «Questo è spacciato...» Nell'ambulanza che mi trasporta, mia madre mi sorride. Voglio tendere la mano verso il suo viso, ma più niente mi obbedisce. Ho freddo, sto male, soffro. L'ambulanza piomba muggendo nel cortile dell'ospedale, le portiere si spalancano sui barellieri, vengo sollevato e deposto per terra lungo un corridoio. Le infermiere mi scavalcano correndo in tutte le direzioni. Le lettighe passano e ripassano in un balletto vertiginoso, cariche di feriti e di orrore. Aspetto pazientemente che vengano a occuparsi di me. Non capisco perché nessuno si attarda al mio capezzale; si fermano, mi guardano e se ne vanno: non è normale. Altri corpi sono allineati accanto al mio. Alcuni hanno radunato qualche parente, scatenando i pianti e le urla delle donne. Altri sono irriconoscibili, non si riesce a identificarli. Solo un vecchio s'inginocchia davanti a me. Evoca il nome del Signore, appoggia la mano sul mio volto, mi chiude le palpebre. Di colpo, tutte le luci e tutti i rumori del mondo si smorzano. Una paura assoluta mi afferra. Perché mi chiudono gli occhi?... Visto che non riesco a riaprirli, capisco: è così, dunque, è finita, non sono più...

Cerco di riprendermi in mano in un estremo sussulto, in me non palpita neanche una fibra. C'è soltanto questo rumore cosmico che ronza, m'investe poco alla volta, e già mi annienta... Poi, d'un tratto, in fondo agli abissi, un microscopico barlume...

Guizza, si avvicina, si profila lentamente: è un bambino... che corre, la sua fantastica falcata fa arretrare la penombra e il buio... Corri, gli grida la voce del padre, corri... Un'aurora boreale si alza sui frutteti in festa, i rami si mettono subito a germogliare, fiorire, a piegarsi sotto i frutti. Il bambino rasenta le erbacce e si scaglia contro il Muro che crolla come un castello di carte, spalancando l'orizzonte ed esorcizzando i campi che si stendono sopra pianure a perdita d'occhio... Corri... E il bambino corre fra scoppi di risa, le braccia distese come ali di uccello. La casa del patriarca risorge dalle rovine, le pietre si spolverano, tornano a posto in una magica coreografia, i muri si raddrizzano, le travi del soffitto si ricoprono di tegole, la casa del nonno è in piedi nel sole, più bella che mai. Il bambino corre più veloce del dolore, più veloce del destino, più veloce del tempo... E sogna, gli intima l'artista, sogna di essere bello, felice e immortale... Come liberatosi dell'angoscia, il bambino corre sul crinale delle colline battendo le braccia, il visetto raggiante, le pupille in visibilio e si lancia verso il cielo, trascinato dalla voce del padre: possono toglierti tutto, le proprietà, gli anni più belli, ogni tua gioia, ogni tuo merito, fino all'ultima camicia. Ti resteranno sempre i tuoi sogni per reinventare il mondo che ti hanno negato.