12

 

 

 

Kim aveva ragione; dovevo consegnare la lettera a Naveed; ne avrebbe fatto un uso migliore del mio. Non aveva neanche torto quando mi metteva in guardia da me stesso perché, di tutte le assurdità, io ero la meno facile da ammettere. Mi ci è voluto del tempo per arrendermi all'evidenza. È una fortuna sfacciata che ne sia uscito intero, certo a mani vuote, non proprio indenne, ma ancora in piedi. Il fallimento di quest'avventura mi perseguiterà a lungo, tenace come un caso di coscienza, empio come una farsa. Alla fin fine, a cosa ha portato? Non ho fatto altro che girare intorno a un'illusione, come una falena intorno a un lume, ossessionata più dalle tentazioni della propria curiosità che stregata dalla luce mortale della candela. La botola che mi affannavo a sollevare non ha rivelato nessuno dei suoi segreti: si è limitata a gettarmi in faccia tanfo e ragnatele.

Non sento alcun bisogno di andare oltre.

Adesso che ho visto con i miei occhi che aspetto hanno un capo militare e un ispiratore di kamikaze, la presa dei miei demoni si è allentata. Ho deciso di smetterla: torno a Tel Aviv.

Kim ne è sollevata. Guida in silenzio, le mani aggrappate al volante come per accertarsi di non avere le allucinazioni e di riportarmi a casa per davvero. Fin dal mattino evita di dire una parola per paura di sbagliare, di vedermi cambiare opinione di punto in bianco. Si è alzata prima dell'aurora, ha imballato tutto senza rumore per svegliarmi solo dopo che aveva finito e l'auto era pronta, gran parte della nostra roba già nel bagagliaio.

Lasciamo il quartiere ebraico con i paraocchi alle tempie. Non è il caso di guardare a destra o a sinistra né di attardarsi su alcunché; una semplice distrazione potrebbe mandare tutto all'aria. Kim presta attenzione solo alla carreggiata che corre davanti a lei, dritto verso la porta di uscita dalla città. Liberata dalle angosce della notte, la giornata si annuncia radiosa. Un cielo immacolato si stiracchia pigramente, ancora greve del sonno del giusto. La città sembra strapparsi con fatica dal letto. Alcuni mattinieri emergono dalla penombra, furtivi, gli occhi gonfi di sogni abortiti; camminano rasente i muri simili a ombre cinesi. Qualche raro rumore crepita qua e là, rivelando una serranda che si alza, una macchina che parte. Un autobus fa volgari gargarismi mentre raggiunge l'autostazione. A Gerusalemme sono molto prudenti al mattino, per superstizione: di solito, sono i primi fatti e gesti dell'alba a plasmare il resto della giornata.

Kim approfitta del traffico scorrevole per andare veloce, molto veloce. Non si rende conto di quanto sia nervosa. Sembra che cerchi di prendere in contropiede i miei sbalzi di umore, che abbia paura che cambi opinione e decida di tornare a Betlemme.

Raddrizza la schiena solo quando gli ultimi sobborghi della città spariscono nel retrovisore.

«Non c'è fretta» le dico.

Solleva il piede dall'acceleratore come se, all'improvviso, si fosse accorta di calpestare la coda di un serpente. In realtà è soprattutto lo sfacelo della mia voce a turbarla. Mi sento così stanco, così disperato. Cos'ero andato a cercare a Betlemme? Un tozzo di menzogna per risollevare quel che resta della mia immagine? Un pizzico di dignità quando nulla va come deve andare? Esibire la mia rabbia sulla pubblica piazza perché si sappia quanto mi fanno schifo quei porci, che hanno estirpato il mio sogno come fosse un ascesso?... Ammettiamo che tutti abbiano occhi solo per il mio dolore e il mio disgusto, che la gente si scansi al mio passaggio, che le nuche si pieghino al mio sguardo... E poi? Cosa cambierebbe? Quale piaga va cicatrizzata, quale va rimessa a posto?... Tra me e me non sono nemmeno sicuro di volere risalire fino alla radice della mia sventura. Certo, azzuffarmi non mi fa paura, ma come incrociare la spada con dei fantasmi? È evidente che non sono all'altezza. Non so niente dei guru e dei loro sbirri. Per tutta la vita ho girato ostinatamente le spalle alle diatribe degli uni e agli intrighi degli altri, aggrappato alle mie ambizioni come un fantino alla sua cavalcatura. Ho rinunciato alla mia tribù, accettato di separarmi da mia madre, acconsentito a una concessione dietro l'altra per dedicarmi solo alla mia carriera di chirurgo; non avevo il tempo d'interessarmi ai traumi che polverizzano gli appelli alla riconciliazione di due popoli eletti che hanno scelto di trasformare la terra benedetta da Dio in un campo di rabbia e orrore. Non ricordo di aver applaudito la lotta degli uni o condannato quella degli altri, poiché trovavo in tutti un atteggiamento irragionevole e irritante. Non mi sono mai sentito coinvolto, in alcun modo, nel conflitto sanguinoso che, in realtà, non fa che contrapporre senza scampo le vittime ai capri espiatori di una Storia scellerata sempre pronta a ripetersi. Ho conosciuto tanti odi spregevoli che il solo modo di non assomigliare a chi li rinfocolava era di non nutrirli a mia volta. Fra porgere l'altra guancia e restituire colpo su colpo, ho scelto di curare i pazienti. Esercito il più nobile mestiere degli uomini e per nulla al mondo vorrei minare l'orgoglio che m'ispira. La mia presenza a Betlemme sarà stata solo una fuga in avanti, il mio pseudo-coraggio una diversione. Chi sono io per pretendere di trionfare lì dove i servizi competenti ogni giorno si rompono le corna? Mi trovo davanti un'organizzazione perfettamente oliata, messa a punto in anni di complotti e fatti d'arme, che tiene testa ai più astuti segugi delle polizie segrete. Posso opporle solo le mie frustrazioni di marito ingannato, un furore drogato senza reali conseguenze. In questo duello non c'è posto per gli stati d'animo, ancor meno per la tenerezza; solo i cannoni, le cinture esplosive e i colpi bassi hanno voce in capitolo, e guai ai ventriloqui, le cui marionette s'inceppano. Un duello spietato e senza regole, in cui le esitazioni sono fatali e gli errori irreparabili, in cui il fine produce i propri mezzi, in cui la salvezza è fuori gioco, largamente soppiantata dalla vertigine delle rivincite e delle morti spettacolari. Ho sempre provato un sacrosanto orrore per i carri armati e le bombe, vedendo in loro solo la forma più compiuta di quel che la specie umana ha di peggio. Non ho nulla a che vedere con il mondo che ho profanato a Betlemme: non ne conosco i rituali, ne ignoro le esigenze e non credo di potermici familiarizzare. Odio le guerre e le rivoluzioni, e tutte queste storie di violenza redentrice che girano su se stesse come viti senza fine, trascinando generazioni intere attraverso le stesse micidiali assurdità senza che qualcosa scatti nella loro testa. Sono un chirurgo; trovo che ci sia abbastanza dolore nelle nostre carni perché gente sana di corpo e di mente ne reclami dell'altro in continuazione.

«Portami a casa» dico a Kim quando i grattacieli di Tel Aviv iniziano a brillare in un lontano riverbero.

«Devi prendere qualcosa?»

«No, voglio tornare a casa.»

Aggrotta la fronte.

«È troppo presto.»

«È casa mia, Kim. Prima o poi, dovrò tornarci.»

Kim si rende conto della gaffe. Con un gesto di fastidio allontana una ciocca dagli occhi.

«Non intendevo dire questo, Amin.»

«Non fa niente.»

Percorre alcune centinaia di metri mordendosi le labbra.

«È ancora per quel maledetto segnale che non hai saputo cogliere, vero?»

Non le rispondo.

Un trattore sobbalza sul fianco di una collina. Il ragazzo che lo conduce deve aggrapparsi al volante per non venire disarcionato. Due cani rossicci lo scortano ai fianchi del mezzo, uno con il muso per terra, l'altro distratto. Una casetta spunta dietro una siepe, piccola e tarlata, prima che un ciuffo di alberi la faccia sparire con la destrezza di un prestigiatore. I campi riprendono di nuovo la loro cavalcata dissennata attraverso la pianura; la stagione si annuncia ottima.

Kim aspetta di sorpassare un convoglio militare prima di tornare alla carica: «Non stai bene da me?».

Mi volto verso di lei: preferisce guardare dritto davanti a sé.

«Non sarei rimasto un secondo di più, Kim, e tu lo sai. Apprezzo la tua presenza accanto a me. Solo che ho bisogno di una pausa per fare l'inventario di questi ultimi giorni a mente fresca.»

Kim teme soprattutto che mi faccia del male, che non sopporti un faccia a faccia con me stesso, che finisca per cedere all'assedio del mio tormento. Mi crede a due passi dalla depressione, alla portata del gesto definitivo. Non ha bisogno di confessarmelo, tutto in lei ne rivela la profonda inquietudine: le dita che tamburellano su qualsiasi cosa, le labbra che non sanno che farsene delle loro smorfie, lo sguardo che sfugge non appena il mio si fa insistente, la gola che deve raschiare ogni volta che ha qualcosa da dirmi... Mi chiedo come faccia a non perdere il filo e continuare a braccarmi con una vigilanza così costante.

«D'accordo» concede. «Ti porto a casa e passo a prenderti stasera. Ceneremo a casa mia.»

La sua voce tradisce il disagio.

Aspetto pazientemente che si volti verso di me per dirle: «Ho bisogno di restare da solo per qualche tempo».

Finge di riflettere poi, storcendo la bocca, chiede: «Fino a quando?».

«Finché non andrà meglio.»

«Rischia di durare a lungo.» «Non sono messo così male, ti assicuro. Ho solo bisogno di fare il vuoto dentro di me.»

«Benissimo» replica con una punta di collera mal dissimulata.

Dopo un lungo silenzio: «Posso almeno passare a trovarti?».

«Ti chiamerò appena possibile.»

La sua suscettibilità accusa il colpo.

«Non prendertela, Kim. Non si tratta di te. Lo so, è complicato da spiegare, ma capisci perfettamente ciò che tento di dirti.»

«Non voglio che ti isoli, tutto qua. Penso che tu non sia ancora in grado di stare da solo. E non ci tengo a mordermi le poche dita che mi restano.»

«Me lo rimprovererei.»

«Perché non permettere al professor Menach di esaminarti? È un eminente psicologo e un tuo grande amico.»

«Andrò a trovarlo, promesso, ma non in questo stato. Prima ho bisogno di ricostruirmi da solo. Mi metterà in una condizione migliore per ascoltare.»

Mi porta a casa, non osa accompagnarmi dentro. Prima di chiudermi il cancello alle spalle, le sorrido. Mi fa tristemente l'occhiolino.

«Cerca di non consentire al tuo segnale di rovinarti l'esistenza, Amin. Alla lunga logora e, dopo, non potrai più riprenderti in mano senza sgretolarti come una mummia putrefatta.»

Mette in moto senza aspettare la mia reazione.

Quando il rumore della Nissan scompare e mi ritrovo di fronte a casa mia e al suo silenzio, realizzo quanto grande è la mia solitudine, Kim mi manca già...

Di nuovo solo... Non mi piace lasciarti solo, mi aveva detto Sihem il giorno prima di partire per Kafr Kanna. Di colpo, tutto mi torna in mente. Quando meno me lo aspettavo. Quella sera Sihem mi aveva preparato un banchetto da re: solo le pietanze per cui vado matto. Avevamo cenato a lume di candela, a tu per tu nel salotto. Lei non mangiava, si limitava a piluccare delicatamente dal suo piatto. Era così bella e, insieme, così lontana. «Perché sei triste, amore mio?» le avevo chiesto. «Non mi piace lasciarti solo, tesoro» mi aveva risposto. «Tre giorni non sono tanti» le avevo detto. «Per me sono un'eternità» aveva confessato. Era quello il suo messaggio, il segnale che non ho saputo cogliere. Ma come sospettare l'abisso dietro lo splendore dei suoi occhi, come intuire l'addio dietro tanta generosità, visto che quella notte si era data a me come mai prima?

Tremo per un'altra eternità sulla soglia di casa prima di oltrepassarla.

La donna delle pulizie non è ancora passata. Cerco di chiamarla ma incappo sempre nella segreteria telefonica. Decido di prendere in mano la situazione. La casa è nello stato in cui gli uomini del capitano Moshé l'hanno lasciata: camere sottosopra, cassetti per terra, il contenuto sparpagliato, armadi svuotati, scaffali rovesciati, mobili spostati, in qualche caso capovolti. Intanto la polvere e le foglie secche hanno invaso ogni cosa grazie ai vetri rotti e alle finestre che avevo dimenticato di chiudere. Il giardino è in disgrazia, cosparso di lattine, giornali e ogni sorta di oggetti che i linciatori dell'altro giorno si sono lasciati dietro per rifarsi dello smacco subito. Chiamo un vetraio di mia conoscenza: dice che ha del lavoro da sbrigare e promette di passare prima di notte. Per quanto mi riguarda, inizio a rimettere ordine nelle stanze, raccolgo quanto sta per terra, rialzo quel che era rovesciato, rimetto le scansie e i cassetti al loro posto, separo le cose rovinate da quelle che non lo sono. Quando il vetraio arriva, sto finendo di spazzare. Mi aiuta a portare fuori i sacchi dell'immondizia, va a controllare le finestre mentre io mi metto in cucina a fumare e bere un caffè, poi torna con un bloc-notes dove ha segnato i diversi interventi che l'attendono.

«Uragano o vandalismo?» domanda.

Gli offro una tazza di caffè che accetta volentieri. È un omone dai capelli rossi e il volto crivellato di lentiggini, che una larga bocca divora a metà, spalle curve e flaccide, gambe corte che finiscono subito in scarpe militari basse. Lo conosco da anni, ho operato due volte suo padre.

«C'è molto lavoro» mi dice. «Ventitré vetri da sostituire. Dovresti chiamare anche un falegname: hai due finestre scassate e qualche imposta da riparare.»

«Ne conosci uno bravo?»

Riflette increspando l'occhio.

«Ce n'è uno che non è male, ma non so se è disponibile. Io inizio domani. Oggi ho sgobbato parecchio e sono stanco. Sono passato solo per fare il preventivo. Ti va?»

Guardo l'orologio.

«D'accordo, a domani.»

Il vetraio beve il caffè in un sorso, rimette il bloc-notes in una cartellina dalle cinghie allentate e se ne va. Temevo che tornasse a parlare dell'attentato perché, sicuramente, sa come sono andate le cose, ma non ha detto nulla. Ha annotato quel che c'era da fare e basta. L'ho trovato ammirevole.

Dopo che se n'è andato, faccio la doccia e scendo in città. Un taxi mi porta prima nel garage dove avevo lasciato la macchina alla partenza per Gerusalemme poi, seduto comodamente al volante, percorro il lungomare. Il traffico intenso mi costringe a ripiegare verso un parcheggio di fronte al Mediterraneo. Coppiette e famiglie passeggiano tranquillamente lungo i piazzali. Ceno in un ristorantino discreto, mando giù qualche birra in un bar dall'altra parte della strada, poi vado a gironzolare sulla spiaggia fino a notte fonda. La risacca mi fa sentire quasi appagato. Torno a casa un po' brillo, ma con la mente sgombra da molte scorie.

Mi addormento in poltrona, vestito, con le scarpe ai piedi, il sonno mi ha acciuffato tra una boccata di sigaretta e l'altra. Una finestra che sbatte mi sveglia di soprassalto. Mi accorgo di essere sudato fradicio. Credo di aver fatto un brutto sogno, ma non riesco a ricordarlo. Mi alzo barcollando. Il cuore si stringe; dei brividi mi graffiano la schiena. «C'è qualcuno?» mi sento gridare. Accendo la luce nell'ingresso, in cucina, nelle camere, a caccia di un rumore sospetto... «C'è qualcuno?» Una portafinestra è aperta al primo piano, la tenda gonfiata dal vento. Sul balcone non c'è nessuno. Chiudo le imposte e torno in salotto. Ma la presenza rimane, vaga e, insieme, vicina. I brividi si accentuano. È Sihem, di sicuro, o meglio il suo fantasma, oppure tutt'e due che ritornano... Sihem... Progressivamente lo spazio si riempie di lei. Pochi palpiti e la casa ne è piena come un uovo, lasciandomi solo una minuscola sacca d'aria per non soffocare. Tutto richiama la padrona di questa casa: i lampadari, i comò, le aste delle tendine, le mensole, i colori... I quadri, è stata lei a sceglierli, lei ad appenderli alle pareti. La rivedo indietreggiare di qualche passo, il dito contro il mento, chinare la testa a destra e a sinistra per essere sicura che il dipinto fosse dritto. Sihem era molto attenta ai dettagli. Non lasciava nulla al caso e poteva passare ore a interrogarsi sulla posizione di un quadro o la piega di una tenda. Dal soggiorno alla cucina, di stanza in stanza, ho la sensazione di starle alle calcagna. Scene quasi reali si sostituiscono ai ricordi. Sull'ottomana in pelle Sihem si rilassa, applicando delicati strati di rosa alle unghie. Ogni angolo trattiene un lembo della sua ombra, ogni specchio riflette uno schizzo della sua immagine, ogni fruscio la racconta. Mi basta tendere la mano per cogliere una risata, un sospiro, una voluta del suo profumo... «Vorrei che mi dessi una figlia» le dicevo nei primi tempi del nostro amore. «Bionda o bruna?» rispondeva arrossendo. «La voglio sana e bella. Non m'interessa il colore dei suoi occhi né quello dei suoi capelli. Voglio che abbia solamente il tuo sguardo e le tue fossette perché, quando sorride, divenga il tuo fedele ritratto...» Arrivo nel salotto del primo piano, drappeggiato di velluto granata, con tende lattescenti alle finestre e due imponenti poltrone in mezzo a un bel tappeto persiano guardato da un tavolo di vetro e acciaio. Una grande libreria in marasco ricopre tutta un'ala, da una parte all'altra, carica di volumi allineati con cura e soprammobili portati da paesi lontani. Questa stanza era la nostra torre d'avorio, mia e di Sihem. Nessun altro poteva entrarci. Era l'angolo della nostra intimità, il nostro rifugio dorato. Ogni tanto venivamo qui, per condividere i nostri silenzi e ristorare i sensi fiaccati dai rumori di tutti i giorni. Prendevamo un libro o mettevamo della musica, e partivamo. Leggevamo Kafka come Kahlil Gibran, ascoltavamo con la stessa gratitudine Oum Khalsum o Pavarotti... Di colpo, il corpo mi s'irrigidisce dalla testa ai piedi. Sento il suo respiro nell'incavo della nuca, denso, caldo, ansimante, sono sicuro che basterebbe voltarmi per trovarmi faccia a faccia con lei, sorprenderla in piedi nel balletto tumultuoso dei suoi ondeggiamenti, splendente, gli occhi immensi, più bella che nei miei sogni più folli...

Non mi volto.

Esco dal salotto camminando all'indietro finché il suo respiro si perde nell'aria, torno in camera ad accendere tutti gli abat-jour e tutte le luci per esorcizzare la penombra, mi spoglio, fumo l'ultima sigaretta, mando giù due tranquillanti e m'infilo a letto.

Senza spegnere.

 

Il giorno dopo mi sorprendo nel salotto al primo piano, il viso contro il vetro, ad aspettare il sorgere del sole. Come sono tornato in quella stanza infestata? Di mia volontà o da sonnambulo? Nessuna idea.

Il cielo di Tel Aviv dà il meglio di sé; neanche un lembo di nuvola in vista. La luna è ridotta a un ritaglio. Le ultime stelle della notte scompaiono lentamente nell'opalescenza del levante. Dall'altra parte del cancello, il mio dirimpettaio lustra il parabrezza della macchina. È sempre il primo ad alzarsi nel quartiere. Gestendo uno dei ristoranti più raffinati della città, ci tiene ad arrivare ai mercati generali prima della concorrenza. Qualche volta ci capitava di scambiarci convenevoli al buio, lui pronto ad andare al mercato, io di ritorno dall'ospedale. Dopo l'attentato fa come se non fossi mai esistito.

Il vetraio arriva verso le 9 con un furgoncino scolorito. Accompagnato da due ragazzi in preda all'acne, scarica gli attrezzi e le lastre di vetro con le precauzioni di un artificiere. Mi avvisa che il falegname non dovrebbe tardare. Questi sbarca pochi istanti dopo da un camioncino telonato. È un tizio alto e secco, dal viso segnato e lo sguardo grave. Infagottato in una salopette consunta fino alla trama, chiede di vedere le finestre rotte. Il vetraio si occupa di mostrargliele. Io rimango al pianoterra, seduto in poltrona, a bere caffè e fumare. Per un attimo mi è venuta l'idea di andare a sgranchirmi le gambe e la mente in un piccolo parco non lontano da casa mia. È una bella giornata e il sole ricopre d'oro gli alberi intorno. Il rischio che un brutto incontro mi rovini la giornata mi dissuade.

Naveed Ronnen mi telefona quando suonano le 11. Intanto il falegname ha caricato sul furgone le finestre che deve riparare in bottega. Quanto al vetraio e ai suoi assistenti, sono saliti al primo piano e non si sentono nemmeno.

«Cosa ti è successo, vecchio mio?» butta là Naveed, contento di avermi all'altro capo del filo. «Soffri di amnesia o sei solo distratto? Te ne vai, ritorni, sparisci, poi ricompari, e neanche una volta che ti venga in mente di chiamare il tuo vecchio amico per dargli le tue coordinate.»

«Quali? Tu stesso riconosci che non riesco a stare fermo.»

Ride.

«Non è un ostacolo. Anch'io non sto mai fermo, però mia moglie sa esattamente dove raggiungermi quando vuole darmi dei punti. Com'è andata a Gerusalemme?»

«Come sai che ero a Gerusalemme?»

«Sono un poliziotto...» Una breve risata. «Ho telefonato a casa di Kim ma ha risposto Benjamin. È stato lui a dirmi dove eravate.»

«Chi ti ha detto che ero di ritorno?»

«Ho chiamato Benjamin e ha risposto Kim... Sei contento?... Bene, ti chiamo perché Margaret sarebbe molto contenta se venissi a cena da noi. E da un pezzo che non ti vede.»

«Non stasera, Naveed. Sto facendo eseguire delle riparazioni. Una squadra di vetrai è qui e stamattina è passato il falegname.»

«Allora domani.»

«Non so se avranno finito.»

Naveed si raschia la gola, riflette, poi mi propone: «Se c'è molto da fare, posso mandarti qualche aiuto».

«Si tratta di piccole riparazioni. C'è già abbastanza confusione.»

Naveed si raschia ancora la gola. È un tic che gli viene ogni volta che è imbarazzato.

«Non passeranno lì la notte, immagino.»

«No, ma quasi. Grazie per aver chiamato, salutami Margaret.»

Verso mezzogiorno, visto che Kim non si è ancora fatta viva, capisco che è stata lei ad aver spinto Naveed a telefonare, per vedere se ero ancora di questo mondo.

Il falegname riporta le finestre, le sistema da solo, controlla che funzionino in mia presenza. Mi fa firmare la fattura, intasca il denaro e se ne va, il mozzicone spento tra le labbra. Il vetraio e i suoi apprendisti se ne sono andati da un pezzo. Ritrovo casa mia, la sua quiete da convalescente e i misteri delle sue penombre; risalgo nel salotto al primo piano per sfidare i miei fantasmi. Negli angoli non si muove nulla. Sprofondo nella poltrona di fronte alla finestra appena riparata e guardo la notte calare sulla città come una mannaia, insanguinando l'orizzonte.

Sihem sorride da una cornice posta sopra lo stereo. Ha un occhio più grande dell'altro, forse perché l'espressione è forzata. Si sorride sempre al fotografo quando è persuasivo, anche se controvoglia. È una vecchia fotografia, una delle primissime scattate dopo il matrimonio. Ricordo che era per il rilascio di un passaporto. Sihem non voleva che andassimo all'estero a trascorrere la luna di miele. Sapeva che i miei mezzi erano limitati e preferiva investire in un appartamento meno lugubre di quello che occupavamo in periferia.

Mi alzo e vado a guardare il ritratto da vicino. Alla mia sinistra, sopra una scansia piena di dischi, un album di foto ricoperto di pelle. Lo prendo quasi automaticamente, torno in poltrona e mi metto a sfogliarlo. Non provo alcuna emozione particolare. È come se sfogliassi una rivista aspettando il mio turno per entrare dal dentista. Le foto si susseguono sotto i miei occhi, prigioniere dell'istante in cui sono state scattate, fredde come la carta patinata sulla quale si raccontano, prive di ogni carica affettiva in grado d'intenerirmi... Sihem sotto un ombrellone, il viso nascosto da giganteschi occhiali da sole, a Sharm-el-Sheikh; Sihem sugli Champs-Élysées, a Parigi; noi due in posa accanto a una guardia di Sua maestà britannica; con mio nipote Adel in giardino; a una serata mondana; durante un ricevimento in mio onore; con sua nonna nella fattoria di Kafr Kanna; suo zio Abbas con gli stivaloni di gomma e il fango fino alle ginocchia; Sihem davanti alla moschea del quartiere dov'è nata, a Nazareth... Continuo a sfiorare i ricordi, senza soffermarmici più di tanto. È come se voltassi le pagine di una vita precedente, di una storia finita... Poi una foto richiama la mia attenzione. Raffigura mio nipote Adel che ride, le mani sulle anche, davanti a una moschea di Nazareth. Torno indietro, risalgo fino a quella di Sihem in posa davanti alla moschea della sua infanzia. È una foto recente, risale a meno di un anno fa, per via della borsetta che le avevo regalato per il compleanno, nel gennaio scorso. Sulla destra si vede il cofano di un'automobile rossa e un ragazzino accovacciato davanti a un cucciolo. Torno a quella di Adel. L'automobile rossa è sempre lì, insieme al ragazzino e al cucciolo. Si tratta quindi di due foto scattate nello stesso momento, probabilmente a turno dalle due persone ritratte. Ci metto un po' ad ammetterlo. Sihem andava regolarmente a Nazareth quando si tratteneva da sua nonna. Adorava la sua città natale. Ma Adel?... Non ricordo di averlo mai incontrato laggiù. Non era il suo ambiente. Veniva spesso a trovarci a Tel Aviv, quando i suoi affari lo spingevano fuori Betlemme, ma da qui a immaginarlo a Nazareth... Ho una fitta al cuore. Cado in preda a un vago malessere. Le due fotografie mi atterriscono. Cerco di trovare loro una scusa, una ragione, un'ipotesi: invano. Mia moglie non usciva mai con un conoscente senza che io lo sapessi.

Mi diceva sempre da chi andava, chi aveva incontrato, chi l'aveva cercata al telefono. È vero che le piaceva Adel per l'umorismo e la spontaneità, ma che lo vedesse fuori casa, fuori Tel Aviv senza che me ne parlasse, non era nelle sue abitudini.

Quella coincidenza mi ossessiona. Mi raggiunge al ristorante, mi rovina la cena. M'intercetta dentro casa. Mi tiene sveglio nonostante due sonniferi... Adel, Sihem... Sihem, Adel... L'autobus Tel Aviv-Nazareth... Con la scusa di un'emergenza è scesa dall'autobus per salire su un'automobile che ci seguiva... Una Mercedes vecchio modello, color crema... Identica a quella intravista nel deposito abbandonato di Betlemme... È di Adel, mi aveva confidato con orgoglio Yasser... Sihem a Betlemme, ultima tappa prima dell'attentato... Troppe coincidenze nuocciono al caso.

Scosto le lenzuola. La sveglia indica le cinque del mattino. Mi vesto, raggiungo l'auto e punto su Kafr Kanna.

Alla fattoria non trovo nessuno. Un vicino m'informa che la nonna è stata portata all'ospedale di Nazareth e che suo nipote Abbas era con lei. All'ospedale non mi lasciano vedere la paziente, trasferita d'urgenza in sala operatoria. Emorragia cerebrale, mi dice un'infermiera. Abbas è in sala d'aspetto, semiaddormentato sopra una panca. Non si alza nemmeno quando mi vede. È fatto così, scatta con difficoltà come un vecchio moschetto. Ancora celibe a cinquantacinque anni, non essendo mai uscito dalla fattoria, diffida delle donne e della gente di città, che evita come la peste, e preferisce ammazzarsi di fatica per tutta la giornata piuttosto che doversi mettere a tavola e mangiare un boccone con qualcuno che non puzzi di lavoro nei campi e sudore della fronte. È uno zotico tagliato con l'accetta, dalla lingua velenosa e la testa dura. Porta stivali macchiati di fango, una camicia scolorita sotto le ascelle e un paio di pantaloni ruvidi e orrendi, che sembrano ricavati da un telone. Mi spiega brevemente che ha trovato la nonna per terra a bocca aperta, che è lì da ore e che ha dimenticato di slegare i cani. Più che commuoverlo, il colpo apoplettico della nonna lo disturba.

Aspettiamo fino a quando un medico non viene ad annunciare la fine dell'intervento. Le condizioni della nonna sono stazionarie, ma le possibilità che si riprenda sembrano minime. Abbas chiede il permesso di tornare alla fattoria.

«Devo dare da mangiare ai polli» brontola senza interessarsi davvero al resoconto del dottore.

Salta sul camioncino arrugginito e parte in quarta per Kafr Kanna. Lo seguo a bordo della mia auto. Solo quando ha portato a termine le svariate incombenze della fattoria, ossia alla fine della giornata, si accorge che sono ancora lì.

Ammette di aver visto più di una volta Sihem in compagnia del ragazzo sulla foto. La prima volta, raggiungendola dal parrucchiere per consegnarle il portamonete che aveva dimenticato sul sedile del camioncino. Lì aveva sorpreso Sihem discutere con quel ragazzo. All'inizio Abbas non aveva pensato male. Ma dopo, rivedendoli insieme in diversi posti, aveva iniziato a nutrire sospetti. Quando il ragazzo sulla foto aveva osato gironzolare dalle parti della fattoria, Abbas aveva minacciato di rompergli la testa con una zappa. Sihem aveva preso molto male l'alterco. Da allora non ha più rimesso piede a Kafr Kanna.

«Non è possibile» gli dico. «Sihem ha trascorso il festeggiamento degli ultimi due Aid da sua nonna.»

«Non è più tornata da quando ho messo a posto quel mascalzone, ti dico.»

Poi prendendo il coraggio a due mani gli chiedo quale fosse la natura dei rapporti fra mia moglie e il ragazzo sulla foto. Stupito per l'ingenuità della mia domanda, mi guarda con un ghigno di stizza e sbotta: «Devo farti un disegno?».

«Hai almeno una prova?»

«Ci sono segni che non ingannano. Non avevo bisogno di sorprenderli l'uno nelle braccia dell'altro. Il loro modo di camminare rasente i muri mi è bastato.»

«Perché non mi hai detto niente?»

«Perché non me lo hai chiesto. E poi io mi faccio gli affari miei.»

In quel preciso momento l'ho odiato come non ho mai odiato nessuno in vita mia.

Torno all'auto e mi avvio senza guardare nel retrovisore. Il piede sull'acceleratore, non vedo nemmeno dove sto andando. Prendere male una curva o incastrarmi sotto un rimorchio a tutta velocità: nessun pericolo mi risveglia. Credo che sia proprio quello che voglio, ma la carreggiata è crudelmente deserta. «Chi sogna troppo dimentica di vivere» diceva mia madre a mio padre. Mio padre non l'ascoltava. Non vedeva la sua disperazione di amante né la sua solitudine di compagna. C'era come un invisibile diaframma fra di loro, sottile come una lente, ma che li faceva essere agli antipodi. Mio padre aveva occhi solo per il suo quadro, lo stesso, che dipingeva d'inverno come d'estate, sovraccaricandolo finché non spariva sotto i ritocchi prima di riprodurlo tale e quale sopra un altro cavalletto, sempre lo stesso, fin quasi al minimo dettaglio, certo di fare della sua Madonna ammanettata una Gioconda, che gli avrebbe spalancato gli orizzonti tappezzando di allori le prestigiose sale in cui l'avrebbe esposta. Siccome aveva gli occhi abbacinati da quell'impossibile consacrazione, non notava nient'altro intorno a sé, né la frustrazione di una moglie trascurata, né l'ira di un patriarca deluso... Forse mi è capitata la stessa cosa con Sihem. Era il mio quadro, la mia consacrazione maggiore. Vedevo solo la gioia che mi trasmetteva e non sospettavo che fosse triste o in difficoltà... Non la vivevo davvero, no, altrimenti l'avrei idealizzata e isolata meno. Adesso che ci penso, come potevo viverla visto che non smettevo di sognarla?