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Kim si precipita alla porta non appena sente suonare. Apre di scatto senza chiedere chi sia.

«Santo cielo!» esclama. «Dov'eri finito?»

Si accerta che mi regga ancora in piedi, che gli abiti e il viso non rechino segni di violenza e mi mostra il dorso delle mani: «Complimenti! Grazie a te sono tornata alle care, vecchie abitudini: mi mangio le unghie».

«Non ho trovato taxi a Betlemme e, per via dei posti di blocco, neanche un tassista abusivo si è offerto di accompagnarmi.»

«Potevi chiamarmi. Sarei venuta a prenderti.»

«Non avresti trovato la strada. Betlemme è una grossa borgata caotica. Una specie di coprifuoco entra in vigore al cadere della notte. Non sapevo dove darti appuntamento.»

«Bene» dice scansandosi per lasciarmi passare, «sei intero, è già qualcosa.»

Ha sistemato la tavola nel cortile e apparecchiato.

«Ho fatto qualche spesuccia durante la tua assenza. Non hai mangiato, spero, perché ti ho preparato una bella cenetta.» «Muoio di fame.»

«Ottima notizia» replica.

«Oggi ho sudato molto.»

«Lo immaginavo... Puoi usare il bagno.»

Vado in camera a prendere l'occorrente per la doccia.

Resto una ventina di minuti sotto il getto cocente, le mani contro il muro, la schiena curva e il mento ficcato nel collo. Lo scorrere dell'acqua lungo il corpo mi distende. Sento i muscoli rilassarsi e il respiro calmarsi. Kim mi porge un accappatoio da dietro la tenda. Il suo pudore esagerato mi fa sorridere. Con un ampio asciugamano mi strofino vigorosamente braccia e gambe, infilo l'accappatoio troppo grande di Benjamin e la raggiungo nella loggia.

Appena mi siedo, suonano alla porta. Io e Kim ci guardiamo interdetti.

«Aspetti qualcuno?» le chiedo.

«Non che io sappia» dice andando ad aprire.

Un omone in kippah e canottiera per poco non spintona Kim per entrare. Dà una rapida occhiata da sopra la sua testa, mi guarda e dice: «Sono il vicino del numero 38. Ho visto la luce, così sono venuto a salutare Benjamin».

«Benjamin non c'è» replica Kim, irritata dalla sua invadenza. «Sono la sorella, dottoressa Kim Yehuda.»

«La sorella? Non l'ho mai vista.»

«Adesso mi vede.»

Annuisce, poi torna a guardarmi.

«Bene» dice, «spero di non avervi disturbati.»

«Non fa niente.»

Si porta un dito alla tempia in un vago cenno di saluto e se ne va. Kim esce per guardarlo mentre va via prima di richiudere la porta.

«Che faccia tosta» brontola tornando a tavola.

Iniziamo a mangiare. Gli stridori della notte crescono intorno a noi. Una falena gigantesca ruota follemente nei pressi della lampada appesa al frontone di casa. Nel cielo, dove un tempo si perdevano tante romanze, una falce di luna abbraccia una nuvola. Sopra il muretto di recinzione è possibile vedere le luci di Gerusalemme, con i suoi minareti e i campanili delle sue chiese, che quel bastione sacrilego, miserabile e brutto, nato dall'inconsistenza degli uomini e dalle loro incorreggibili carognate, ormai sconcia. Eppure, nonostante l'affronto che le fa il Muro di tutte le discordie, Gerusalemme la sfigurata non si piega. È sempre lì, rannicchiata fra la clemenza delle sue pianure e i rigori del deserto di Giudea, e attinge la propria sopravvivenza alle sorgenti della sua eterna vocazione, alle quali né i re di un tempo né i ciarlatani di oggi avranno mai accesso. Sebbene crudelmente spossata dagli abusi degli uni e dal martirio degli altri, continua a conservare la fede, stasera più che mai. Sembra che si raccolga in mezzo ai suoi ceri, che riscopra l'intera portata delle sue profezie adesso che gli uomini si preparano a dormire. Il silenzio si vuole un porto di pace. La brezza fruscia nel fogliame, carica d'incenso e profumi del cosmo. Basterebbe prestare orecchio per sentire il polso degli dei, tendere la mano per cogliere la loro misericordia, avere presenza di spirito per fare corpo con loro.

Ho molto amato Gerusalemme quand'ero adolescente. Provavo lo stesso brivido, sia davanti alla cupola di al-Aqsa che ai piedi del Muro del pianto, e non potevo rimanere insensibile alla quiete che emana la basilica del Santo Sepolcro. Passavo da un quartiere all'altro come da una fiaba askenazita a un racconto beduino, con la medesima felicità, e non avevo bisogno di essere un obiettore di coscienza per non dare credito alle teorie delle armi e ai sermoni virulenti. Mi bastava alzare gli occhi sulle facciate intorno per oppormi a tutto quello che poteva scalfirne l'immutabile maestosità. Ancora oggi, divisa fra un orgasmo da odalisca e un ritegno da santa, Gerusalemme ha sete di ebbrezza e spasimanti, e vive malissimo la cagnara dei suoi figli, sperando contro venti e maree che una schiarita liberi le menti dal loro oscuro tormento. Di volta in volta Olimpo e ghetto, ninfa Egeria e concubina, tempio e arena, soffre di non poter ispirare i poeti senza che le passioni degenerino e, con la morte nel cuore, si sfalda a seconda degli umori come si frangono le sue preghiere nella bestemmia dei cannoni...

«Com'è andata?» mi chiede Kim.

«Cosa?»

«La tua giornata.»

Mi asciugo la bocca con il tovagliolo.

«Non si aspettavano di vedermi spuntare all'improvviso» dico. «Adesso che mi hanno fra i piedi non sanno dove sbattere la testa.»

«Nientemeno!... Qual è la tua strategia?»

«Non ne ho. Non sapendo da dove cominciare, colpisco nel mucchio.»

Mi versa l'acqua frizzante. La mano è un po' nervosa.

«Pensi che ti lasceranno fare?»

«Non ne ho la minima idea.»

«In tal caso, dove vuoi arrivare?»

«Spetta a loro dirmelo, Kim. Non sono un poliziotto né un giornalista che fa inchieste. Provo una gran rabbia e mi mangerebbe vivo se mi mettessi a braccia conserte. Per essere franchi, non so di preciso cosa voglio. Obbedisco a qualcosa che è in me e mi manovra come vuole. Non so dove vado, e non me ne importa. Ma ti assicuro che mi sento già meglio adesso che ho dato una pedata al formicaio. Dovevi vederli quando mi mettevo di nuovo sulla loro strada... Capisci cosa voglio dire?»

«Non proprio, Amin. I tuoi maneggi non portano nulla di buono. Secondo me hai sbagliato persona. Ti ci vuole uno psicologo, non un guru. Quella gente non ha alcuna spiegazione da darti.»

«Hanno ucciso mia moglie.»

«Sihem si è uccisa, Amin» mi dice dolcemente, come se temesse di risvegliare i miei vecchi demoni. «Sapeva quello che faceva. Aveva scelto il proprio destino. Non è la stessa cosa.»

Le parole di Kim mi esasperano.

Mi prende la mano.

«Se non sai cosa vuoi, perché ostinarti a colpire nel mucchio? Non è la strada giusta. Ammettiamo che quella gente si degni d'incontrarti, cosa pensi di ottenere da loro? Ti diranno che tua moglie è morta per la causa e t'inviteranno a fare altrettanto. È gente che ha rinunciato a questo mondo, Amin. Ricorda quello che ti diceva Naveed: sono dei martiri in attesa, aspettano il semaforo verde per andarsene in fumo. Ti assicuro che stai sbagliando strada. Torniamo a casa e lasciamo fare alla polizia.»

Ritiro la mano dalla sua.

«Non so cosa mi stia capitando, Kim. Sono del tutto lucido, ma provo un bisogno terribile di fare solo di testa mia. Ho la sensazione che mi rassegnerò alla perdita di mia moglie solo dopo aver visto con i miei occhi il porco che le ha usurpato la mente. Non m'importa sapere cosa avrò da dirgli o sputargli sul muso. Voglio solo vedere la sua faccia, capire cos'ha più di me... È difficile da spiegare, Kim. Succedono tante cose nel mio animo. Certe volte me la prendo a morte con me stesso. Altre volte Sihem mi appare peggiore di tutte le troie messe insieme. Devo sapere chi, fra noi due, ha sbagliato nei confronti dell'altro.»

«E pensi di trovare la risposta fra quella gente?»

«E che ne so!»

Il mio urlo risuona nel silenzio come un'esplosione. Kim rimane folgorata sulla sedia, uno strofinaccio contro la bocca, gli occhi sbarrati.

Alzo le mani all'altezza delle spalle per calmarmi. «Ti chiedo scusa... Tutta questa storia mi sconvolge, è evidente. Ma dovete lasciarmi fare quel che voglio. Se mi capita qualcosa, significa che forse è quel che cerco.»

«Sono preoccupata per te.»

«Non ne ho mai dubitato, Kim. Ogni tanto mi vergogno a comportarmi così, eppure mi rifiuto di rinsavire. Più tentano di farmi ragionare, meno ho voglia di tornare in me... Mi capisci?»

Kim posa lo strofinaccio accanto a sé senza rispondere. Le labbra le tremano per un lungo minuto, prima di trovare le parole. Fa un respiro profondo, posa su di me occhi dolenti e mi dice: «Ho conosciuto qualcuno, molto tempo fa. Era un ragazzo normale, solo che mi ha colpita non appena l'ho visto. Era gentile e dolce. Non so come ha fatto, ma dopo un flirt è riuscito a diventare per me il centro dell'universo.

Avevo il colpo di fulmine ogni volta che mi sorrideva, tanto che quando gli capitava di tenermi il broncio dovevo accendere tutte le lampade in pieno giorno per vedere chiaro intorno a me. L'ho amato come è raro amare qualcuno. Ogni tanto, al colmo della felicità, mi ponevo questa terribile domanda: e se mi lasciasse? Vedevo la mia anima separarsi dal corpo. Senza di lui ero finita. Eppure, una sera, senza avvisare, ha messo le sue cose in una valigia ed è uscito dalla mia vita. Per anni mi sono sentita un involucro dimenticato dopo la muta. Un involucro trasparente sospeso nel vuoto. Poi, altri anni sono passati, e mi sono accorta che ero ancora qui, la mia anima non mi aveva abbandonato e, improvvisamente, sono tornata in me...».

Le sue dita covano le mie, le triturano.

«Quel che voglio dire è semplice, Amin. Possiamo anche aspettarci il peggio, ci coglierà sempre di sorpresa. Se, per disgrazia, ci capita di toccare il fondo, dipenderà da noi, e da noi soli, restarci o risalire in superficie. Fra il caldo e il freddo c'è solo un passo. Si tratta di sapere dove mettere i piedi. È molto facile sbandare. Troppa fretta, e si finisce nel fossato. Ma, è la fine del mondo? Non credo. Per riprendere il sopravvento, basta solo farsene una ragione.»

Fuori, una macchina si ferma stridendo i freni; le portiere sbattono e un rumore di passi copre lo stridio. Bussano alla porta; poi suonano. Kim va ad aprire. È la polizia che accompagna il vicino del 38. L'ufficiale è un uomo biondo di una certa età, esile e cortese. Lo scortano tre agenti armati fino ai denti. Si scusa per averci disturbato e chiede di vedere i nostri documenti. Andiamo nelle nostre camere a cercarli, seguiti a un passo dai poliziotti.

L'ufficiale controlla le nostre carte d'identità e professionali, si sofferma sulle mie.

«Lei è israeliano, signor Jaafari?»

«Le crea qualche problema?»

Mi squadra, irritato dalla mia domanda, ci restituisce i documenti e si rivolge a Kim.

«Lei è la sorella di Benjamin Yehuda, signora?»

«Sì.»

«Suo fratello è una vecchia conoscenza. Non è ancora tornato dagli Stati Uniti?»

«È a Tel Aviv. Sta preparando un convegno.»

«È vero, l'avevo dimenticato. Ho sentito dire che è stato operato ultimamente. Spero che adesso stia meglio...»

«Mio fratello non ha mai messo piede in una sala operatoria, signor ufficiale.»

Annuisce, la saluta e fa segno ai suoi uomini di seguirlo in strada. Prima di richiudere la porta sentiamo il vicino del 38 dire che non aveva mai sentito Benjamin parlargli di una sorella. Le portiere sbattono di nuovo e la macchina parte sgommando.

«La fiducia regna» dico a Kim.

«Eccome!» fa lei tornando a tavola.

 

Non chiudo occhio tutta notte. Fissando il soffitto fino a bucarlo, succhiando l'ennesima sigaretta, rumino le parole di Kim fino alla nausea senza trovarvi alcun sapore. Kim non mi capisce; ancor peggio, io non mi capisco più di lei. Eppure, non sopporto più che mi diano lezioni. Voglio ascoltare solo questa cosa che mi ha invaso la testa e mi trascina, mio malgrado, verso l'unico tunnel che mi propone un barlume di luce nel momento in cui tutte le altre vie d'uscita mi respingono.

La mattina, molto presto, approfitto del sonno di Kim per uscire di casa in punta di piedi e salto dentro un taxi diretto a Betlemme. La Grande Moschea è semideserta. Un fedele, intento a sistemare i libri in una biblioteca di fortuna, non ha il tempo di raggiungermi. Attraverso in un lampo la sala della preghiera, sollevo il paramento dietro il minbar e sbuco in una stanza spoglia dove un giovane uomo in kamis bianco e con un tocco in testa legge nel Corano. È seduto come un fachiro sopra un cuscino, un tavolo basso dinanzi a lui. Il fedele entra di corsa dietro di me e mi prende per le spalle; lo respingo e mi piazzo di fronte all'imam che, offeso dalla mia intrusione, prega il discepolo di starsene tranquillo. Quest'ultimo se ne va brontolando. L'imam chiude il libro per squadrarmi. Sprizza rabbia dagli occhi.

«Questo non è un albergo.»

«Mi dispiace, ma è il solo modo di avvicinarla.»

«Non è una buona ragione.»