«Ho bisogno di parlarle.»
«A che proposito?»
«Sono il dottor...»
«So chi è lei. Sono stato io a chiedere che la tenessero lontano dalla moschea. Non vedo cosa spera di trovare a Betlemme, e non penso che la sua presenza tra noi sia una buona idea.»
Posa il Corano sopra un minuscolo cavalletto accanto a lui e si alza. E piccolo, ascetico, ma la sua persona emana un'energia e una determinazione fuori del comune.
I suoi occhi di un nero impressionante gravano sui miei.
«Lei non è il benvenuto tra noi, dottor Jaafari. Lei non ha neppure il diritto di entrare in questo santuario senza abluzioni e senza essersi tolto le scarpe» aggiunge passandosi il dito agli angoli della bocca. «Se ha perso la testa, conservi almeno una parvenza di correttezza. Questo è un luogo di culto. Sappiamo che lei è un credente lassista, quasi un rinnegato, che non segue le orme dei suoi antenati né si conforma ai loro principi, e che da lungo tempo ha abiurato la loro Causa scegliendo un'altra nazionalità... Mi sbaglio?»
Di fronte al mio silenzio, abbozza una smorfia di disprezzo e decreta in tono sentenzioso: «Pertanto, non vedo di cosa possiamo discutere».
«Di mia moglie!»
«È morta» ribatte seccamente.
«Non mi sono ancora rassegnato alla sua perdita.»
«Questi sono affari suoi, dottore.»
Il tono arido, unito ai modi spicci, mi destabilizza. Non riesco a credere che un uomo che tutti reputano vicino a Dio possa essere così lontano dagli uomini, così insensibile al loro dolore.
«Non mi piace come mi parla.»
«Ci sono tantissime cose che non le piacciono, dottore, ma penso che questo non la dispensi da nulla. Ignoro chi si sia occupato della sua formazione. Una certezza: lei non è stato educato bene. D'altra parte, niente l'autorizza ad assumere quest'aria offesa o a porsi al di sopra dei comuni mortali: né i suoi successi professionali né il coraggio di sua moglie che, sia detto tra parentesi, non accresce minimamente la nostra stima nei suoi confronti. Per me, lei è solo un povero disgraziato, un miserabile orfano senza fede né salvezza che vaga come un sonnambulo in pieno giorno. Potrebbe camminare sulle acque, ma questo non la laverebbe dall'affronto che incarna. Perché il bastardo, quello vero, non è chi non conosce il proprio padre, ma chi non ha più punti di riferimento. Di tutte le pecore nere, è quella da compatire di più e compiangere di meno.»
Mi guarda, la bocca pronta a mordere: «Adesso se ne vada. Lei porta il malocchio nella nostra dimora».
«Le proibisco...»
«Fuori!»
Tende il braccio verso il paramento, tagliente come una spada.
«Ancora una cosa, dottore: fra integrarsi e disintegrarsi il margine di manovra è così stretto che il minimo errore potrebbe mandare tutto all'aria.»
«Sottospecie di visionario!»
«Illuminato» precisa.
«Lei si crede investito di una missione divina.»
«Ogni valoroso ne è investito. Altrimenti sarebbe solo un vanitoso, egoista e ingiusto.»
Batte le mani. Il discepolo, che evidentemente ascoltava dietro il paramento, torna a prendermi per la spalla. Lo respingo stizzito e mi volto verso l'imam.
«Non lascerò Betlemme prima di avere incontrato un responsabile del suo movimento.»
«Esca da casa mia, per favore» intima l'imam raccogliendo il libro sul cavalletto.
Si risiede sul cuscino e fa come se non fossi più davanti a lui.
Kim mi chiama sul cellulare. È seccata per il modo in cui l'ho piantata in asso. Per rimediare accetto che mi raggiunga a Betlemme e le do appuntamento in una stazione di servizio all'ingresso della città. Poi andiamo dalla mia sorella di latte che non si è ancora ripresa dall'ultima ricaduta.
Convinto che gli uomini dell'imam si sarebbero fatti vivi, restiamo al capezzale di Leila. Yasser ci raggiunge poco dopo. Trova Kim intenta a occuparsi di sua moglie e non cerca di sapere se si tratta di una mia amica o di un medico chiamato per emergenza. Ci ritiriamo in una stanza per chiacchierare. Per impedirmi di guastargli quel che resta della sua giornata, elenca i pericoli che minacciano il suo frantoio, i debiti che si accumulano, i ricatti dei creditori. L'ascolto finché non perde il fiato. Poi gli racconto il mio sbrigativo incontro con l'imam. Si limita a scuotere la testa, la fronte solcata da una ruga profonda. Per prudenza non arrischia alcuna osservazione, ma l'atteggiamento dell'imam nei miei confronti lo preoccupa molto.
La sera, visto che non è successo niente, decido di tornare alla moschea. Due uomini mi piombano addosso in un vicolo. Il primo mi afferra per il bavero e mi falcia le gambe con il piede; l'altro mi dà una ginocchiata nell'anca prima che cada a terra. Infilo il polso ferito sotto un'ascella e, il volto nascosto dal braccio, mi rannicchio per ripararmi dai colpi che piovono da ogni parte. I due uomini si accaniscono contro di me promettendomi di linciarmi su due piedi se mi sorprenderanno ancora a gironzolare nei paraggi. Cerco di rialzarmi o di trascinarmi verso un portone; mi tirano per le gambe verso il centro della carreggiata e mi prendono a calci nella schiena e alle gambe. I pochi curiosi che compaiono nel vicolo battono subito in ritirata, abbandonandomi alla furia degli aggressori. Fra grida e contorcimenti, qualcosa mi esplode in testa e perdo conoscenza...
Riprendendo i sensi, scopro un nugolo di bambini intorno a me. Uno di loro chiede se sono morto, un altro risponde che forse ero ubriaco... Fanno tutti un balzo indietro quando mi metto a sedere.
È scesa la notte. Barcollo appoggiandomi ai muri, le gambe tremanti e la testa che mi ronza. Devo fare mille acrobazie per raggiungere la casa di mio cognato.
«Dio mio!» urla Kim.
Insieme a Yasser mi aiuta a distendermi sopra una panca imbottita e inizia a sbottonarmi la camicia. Si tranquillizza quando constata che, tranne contusioni e scalfitture, sul corpo non ci sono tracce di armi bianche né da fuoco. Dopo avermi prestato le prime cure, afferra il telefono per chiamare la polizia: Yasser rischia quasi un infarto. Dico a Kim che non è il caso e che non ho intenzione di squagliarmela, soprattutto dopo il pestaggio che mi hanno appena inflitto. Reagisce, dice che sono un pazzo e mi supplica di seguirla all'istante a Gerusalemme; rifiuto in modo categorico di lasciare Betlemme. Kim si rende conto che sono accecato dall'odio e che nulla mi farà rinunciare alla mia idea fissa.
Il giorno dopo, il corpo a pezzi e trascinando i piedi, torno nella moschea. Nessuno viene a buttarmi fuori. Qualche fedele, notando che non mi alzo per la preghiera, mi scambia per un ritardato.
La sera qualcuno chiama da Yasser per dirgli che passeranno a prendermi tra una mezzora. Kim mi avverte che certamente si tratta di una trappola, non ci bado. Sono stanco di sfidare il diavolo ed essere preso a calci: voglio vederlo per intero, a rischio di pentirmene per il resto dei miei giorni.
È un bambino a presentarsi per primo da Yasser. Mi chiede di seguirlo fino alla piazza, dove un adolescente gli dà il cambio. Quest'ultimo mi fa camminare a lungo per un sobborgo immerso nelle tenebre; sospetto che giri in tondo per disorientarmi. Alla fine raggiungiamo un negozio abbandonato. Un uomo ci aspetta accanto a una saracinesca abbassata a metà. Congeda il ragazzo e m'invita a seguirlo dentro il fabbricato. In fondo a un corridoio cosparso di cassoni vuoti e cartoni sventrati, un secondo uomo mi prende in consegna. Attraversiamo un cortiletto per entrare in un cortile fiocamente illuminato. In una stanza spoglia mi chiedono di svestirmi e infilarmi una tuta e un paio di espadrillas nuove. L'uomo mi spiega che si tratta di precauzioni perché lo Shin Bet potrebbe avermi appiccicato una cimice elettronica in grado di fornirgli la mia posizione in ogni momento; ne approfitta per accertarsi che non porti un microfono o altri gadget di quel genere su di me. Un'ora dopo, un furgone viene a prendermi. Mi bendano gli occhi e m'inchiodano al pavimento. Dopo svariate deviazioni, sento un portone cigolare e poi richiudersi dietro il veicolo. Un cane si mette ad abbaiare, subito zittito da una voce d'uomo. Delle braccia mi sollevano e mi tolgono la benda. Mi trovo in un ampio cortile, in fondo al quale ombre armate mi aspettano a piè fermo. Per un attimo un brivido spinoso mi graffia la schiena; improvvisamente ho paura e mi sento in trappola come un topo.
Il conducente del furgone mi prende per il gomito e mi spinge verso una casa sulla destra. Non mi accompagna oltre. Un tizio ben piantato dall'aspetto di un Ercole da baraccone m'invita a entrare in un salotto ricoperto da tappeti di lana dove un giovane uomo in kamis nero con maniche e colletto ricamati mi accoglie a braccia aperte.
«Fratello Amin, è un privilegio riceverti nella mia modesta dimora» dice con un leggero accento libanese.
Il suo volto non mi dice nulla. Non penso di averlo mai visto né incontrato prima. È bello, gli occhi chiari e i lineamenti delicati, che un paio di baffi troppo folti per essere veri deturpano; non deve avere più di trent'anni.
Si avvicina e mi abbraccia battendomi le mani sulla schiena alla maniera dei mujaheddin.
«Fratello Amin, amico mio, mio destino. Non puoi immaginare quanto sia onorato.»
Ritengo inutile ricordargli il pestaggio che i suoi sbirri mi hanno inflitto il giorno prima.
«Vieni» dice prendendomi per mano, «prendi posto su questa panca e siediti accanto a me.»
Guardo il colosso di guardia davanti alla porta. Con un impercettibile cenno del capo il mio ospite lo congeda.
«Desolato per ieri» confessa, «ma riconosci che te la sei un po' cercata.»
«Se è il prezzo da pagare per incontrarla, trovo il conto un po' salato.»
Ride.
«Altri prima di te non se la sono cavata così a buon mercato» mi confida con una punta di arroganza.
«Viviamo tempi in cui nulla va lasciato al caso. La minima negligenza, e tutto può andare all'aria.»
Si rimbocca le falde del kamis e si siede a gambe incrociate sopra una stuoia.
«Il tuo dolore mi commuove nel più profondo dell'anima, fratello Amin. Dio mi è testimone, soffro quanto te.»
«Ne dubito. Ci sono cose che non si possono condividere.»
«Anch'io ho perso i miei.»
«Non ne ho sofferto quanto lei.»
Stringe le labbra: «D'accordo...».
«Non è una visita di cortesia» gli dico.
«Lo so... Cosa posso fare per te?»
«Mia moglie è morta. Ma prima di andare a farsi esplodere in mezzo a un gruppo di scolari, era venuta in questa città per incontrare il suo guru. Sono molto irritato che abbia preferito gli integralisti a me» aggiungo, incapace di contenere la rabbia che mi sta invadendo come una marea buia. «Per di più, accorgendomi che non avevo capito niente. Confesso che sono molto più irritato per non essermi reso conto di niente che per il resto. Mia moglie un'islamista? E da quando? La cosa non mi torna. Era una donna del proprio tempo. Le piaceva viaggiare e nuotare, sorseggiare una limonata sulla terrazza delle gelaterie, ed era troppo orgogliosa dei suoi capelli per nasconderli sotto un velo... Cosa le avete raccontato per fare di lei un mostro, una terrorista, un'integralista suicida, lei che non sopportava il gemito di un cucciolo?»
È deluso. L'opera di seduzione che ha dovuto rifinire per ore prima di ricevermi sembra fare acqua.
Non si aspettava la mia reazione e sperava, grazie alla rocambolesca messinscena che ha accompagnato l'abboccamento e, successivamente, il mio "rapimento" consensuale, di avermi impressionato abbastanza da mettermi in una posizione di debolezza. Io stesso non capisco da dove mi venga l'aggressiva insolenza che mi fa tremare le mani senza incrinare la voce, battere il cuore senza che le ginocchia si pieghino. Preso nella morsa fra la precarietà della mia situazione e la rabbia che lo zelo altero del mio ospite e il suo travestimento di cattivo gusto provocano in me, scelgo l'audacia. Ho bisogno di far vedere chiaramente a questo rais da operetta che non ho paura di lui, di sputargli in faccia la ripugnanza e il livore che i fanatici della sua specie suscitano in me.
A lungo il comandante si tortura le dita non sapendo da dove iniziare.
«Non mi piace la violenza delle tue accuse, fratello Amin» finisce per dire in un sospiro. «Ma la metto sul conto del tuo dolore.»
«Se la metta dove le pare.»
Il suo volto s'infiamma.
«Ti prego, niente volgarità. Non le sopporto. Soprattutto non sulla bocca di un eminente chirurgo. Ho accettato di riceverti per una ragione molto semplice: spiegarti una volta per tutte che il tuo show nella nostra città non serve a niente. Qui non c'è nulla che ti riguardi. Volevi incontrare un responsabile del nostro movimento. Ecco fatto. Adesso torna a Tel Aviv e metti una pietra sopra il nostro incontro. Un'altra cosa: personalmente non ho conosciuto tua moglie. Non agiva per noi, ma abbiamo apprezzato il suo gesto.»
Mi guarda con occhi di brace.
«Un'ultima cosa, dottore. A furia di voler assomigliare ai tuoi fratelli adottivi, non riconosci più quelli veri. Un islamista è un militante politico. Ha una sola ambizione: instaurare uno Stato teocratico nel proprio paese e godere pienamente della sua sovranità e indipendenza... Un integralista è uno jihadista oltranzista. Non crede alla sovranità degli stati musulmani né alla loro autonomia. Per lui sono solo stati vassalli che dovranno dissolversi a profitto di un unico califfato. Perché l'integralista sogna l'umma unica e indivisibile che si estende dall'Indonesia al Marocco per assoggettare o distruggere l'Occidente, se non si converte all'Islam... Noi non siamo islamisti né integralisti, dottor Jaafari. Siamo solo i figli di un popolo depredato e deriso che si battono con i mezzi a loro disposizione per riconquistare la propria patria e la propria dignità, niente di più, niente di meno.»
Mi osserva un istante per controllare che abbia capito; poi, ripiombando nella contemplazione delle proprie unghie dal candore immacolato, continua: «Non ho conosciuto tua moglie, e mi dispiace. Tua moglie avrebbe meritato che le si baciassero i piedi. Quello che ci ha regalato, con il suo sacrificio, è per noi di conforto e di esempio. Capisco che ti senta ingannato. È perché non hai ancora compreso l'importanza del suo gesto. Per il momento è il tuo orgoglio di marito che si ribella. Un giorno finirà per abbassare la cresta e allora vedrai più chiaro e più lontano. Se tua moglie non ti ha detto niente riguardo alla propria militanza non vuol dire che ti ha tradito. Non aveva niente da dirti. Non doveva rendere conto a nessuno. Perché si rimetteva a Dio... Non ti chiedo di perdonarla... Cos'è mai il perdono di un marito quando si è ricevuta la grazia del Signore? Ti chiedo di voltare pagina. Il romanzo continua».
«Voglio sapere perché» dico stupidamente.
«Perché, cosa? È la sua storia, una storia che non ti riguarda.»
«Ero suo marito.»
«Non lo ignorava. Se non ha voluto confidarti niente, aveva le sue ragioni. Così facendo, ti teneva fuori.»
«Sciocchezze! Aveva degli obblighi verso di me. Non si pianta così il proprio marito. In ogni caso, non me. Non le ho mai mancato di rispetto. Ed è la mia vita che ha distrutto. Non solo la sua. La mia vita e quella di diciassette persone che non aveva mai visto né conosciuto. E tu mi chiedi perché voglio sapere? Bene, voglio sapere tutto, tutta la verità.»
«Quale? La tua o la sua? Quella di una donna che ha capito qual era il suo dovere oppure quella di un uomo che crede che basti voltare le spalle a una tragedia per lavarsene le mani? Quale verità vuoi conoscere, dottor Amin Jaafari? Quella dell'arabo che pensa di essersela cavata con un passaporto israeliano? Quella del bougnoule di servizio per antonomasia che viene onorato a ogni piè sospinto e invitato a ricevimenti esclusivi per far vedere a tutti quanto si è tolleranti e pieni di riguardi? Quella di qualcuno che, voltando gabbana, crede di aver cambiato pelle e aver eseguito la più riuscita delle mute? È questa verità che stai cercando o è la stessa che rifiuti?... No, ma su quale pianeta vivi, signore? Viviamo in un mondo che si dilania ogni giorno che Dio manda in Terra.
Passiamo le serate a raccogliere i nostri morti e le mattine a seppellirli. La nostra patria è violentata in lungo e in largo, i nostri figli non sanno più cosa sia la scuola, le nostre figlie non sognano più da quando i loro principi azzurri preferiscono l'Intifada, le nostre città crollano sotto i mezzi cingolati e i nostri santi protettori non sanno dove sbattere la testa; e tu, solo perché te ne stai bene al caldo nella tua gabbia dorata, rifiuti di vedere il nostro inferno. È un tuo diritto, dopotutto. Ognuno si barcamena come può. Ma, per piacere, non venire a ficcare il naso tra coloro che, stomacati dalla tua indifferenza e dal tuo egoismo, non esitano a donare la propria vita per aprirti gli occhi... Tua moglie è morta per la tua redenzione, signor Jaafari.»
«Tu mi parli di redenzione!» anch'io gli do del tu. «Ma sei tu ad averne bisogno. Osi parlare di egoismo a me, dopo avermi strappato l'essere che più amavo al mondo? Osi stordirmi con le tue storie di coraggio e dignità quando te ne stai nel tuo covo a mandare donne e bambini al macello? Apri gli occhi: viviamo sullo stesso pianeta, fratello mio, solo che non siamo sulla stessa barca. Tu hai scelto di uccidere, io di salvare. Quello che per te è un nemico, per me è un paziente. Non sono egoista né indifferente e ho lo stesso amor proprio di chiunque altro. Voglio solo vivere la mia vita senza essere costretto a rubarla agli altri. Non credo alle profezie che privilegiano il supplizio a danno del buonsenso. Sono venuto al mondo nudo, lo lascerò nudo; quel che possiedo non mi appartiene. Non più della vita degli altri. Le disgrazie degli uomini nascono da questo malinteso: quel che Dio ti presta, devi saperlo restituire. Niente sulla Terra ti appartiene davvero. Né la patria di cui parli né la tomba in cui tornerai polvere fra la polvere.»
Ho ancora il dito puntato contro di lui. Il capo militare non si muove. Mi ascolta fino in fondo, gli occhi fissi sulle unghie, senza degnarsi di asciugare gli schizzi della mia saliva sul suo volto.
Dopo un lungo silenzio, che mi sembra interminabile, inarca leggermente un sopracciglio, fa un lungo respiro e alza finalmente gli occhi su di me.
«Sono sbalordito per quello che ho appena sentito, Amin, mi spezza il cuore e l'anima. Per quanto grande sia il tuo dolore, non hai il diritto di bestemmiare così. Mi parli di tua moglie, e non mi ascolti quando parlo della tua patria. Se rifiuti di averne una, non obbligare gli altri a rinunciare alla loro. Chi la rivendica con insistenza, ogni giorno e ogni notte offre la propria vita. Per loro, non è il caso di consumarsi nel disprezzo degli altri e di se stessi. O la decenza o la morte, o la libertà o la tomba, o la dignità o il cimitero. Nessun dolore, nessun lutto impedirà loro di battersi per quello che considerano, giustamente d'altra parte, l'essenza della vita: l'onore. "La felicità non è la ricompensa della virtù. È la virtù stessa."»
Batte le mani. La porta si apre sul colosso. L'incontro è finito.
Prima di congedarmi, aggiunge: «Sono molto addolorato per te, dottor Amin Jaafari. È evidente, non abbiamo preso la stessa strada. Potremmo passare mesi e anni a cercare di intenderci senza che nessuno dei due voglia ascoltare l'altro. Inutile continuare. Torna a casa. Non abbiamo più niente da dirci».