IL VECCHIO
Quando la donna gli domandò se aveva un coltello, il forzato, lì in piedi con la divisa di tela gocciolante che gli aveva attirato gli spari, e la seconda volta i colpi di una mitragliatrice, nelle uniche due occasioni in cui aveva visto degli esseri umani da quando aveva lasciato l’argine quattro giorni prima, si sentì esattamente come s’era sentito nella barca trascinata dalla corrente, quando la donna gli aveva suggerito che avrebbero fatto bene ad affrettarsi. Provò lo stesso senso d’offesa di una condizione puramente morale, la stessa rabbiosa impotenza a trovare una risposta; cosicché, in piedi sopra di lei, spento, senza fiato e senza parole, gli ci volle un minuto prima di comprendere ciò che ora lei stava gridando: «Il barattolo! Il barattolo sulla barca!». Egli non immaginò a che cosa potesse servirle; non se lo chiese nemmeno, né indugiò a domandarglielo. Si volse di corsa, e questa volta pensò Ecco un altro serpente appena lo spesso corpo si accorciò in quel goffo riflesso che non aveva nulla di allarmato ma semplicemente di vigile, senza nemmeno spostare il passo benché sapesse che il suo piede, correndo, sarebbe caduto a meno di un metro da quella testa piatta. La prora della barca era in secco di un bel pezzo, ora, fin dove l’onda l’aveva sospinta, e dentro c’era un altro mocassino che stava strisciando dalla poppa, e quando egli si chinò per prendere il barattolo che era servito a gottare, vide che c’era qualcos’altro che nuotava verso la riva, non capì che cosa – una testa, un muso all’apice di una V di increspature. Afferrò il barattolo, e con una semplice giustapposizione di esso e dell’acqua lo trasse su pieno, mentre già si voltava. Vide nuovamente il daino, o un altro. Cioè vide un daino – un’occhiata di sbieco, l’ombra color fumo chiaro contro uno sfondo di cipressi, subito svanita, sparita, e senza fermarsi a guardarla tornò di corsa verso la donna, inginocchiandosi per avvicinarle il barattolo alle labbra finché lei non lo corresse.
Aveva contenuto una pinta di fagioli o di pomodori, qualcosa di sigillato ermeticamente e aperto con quattro colpi dati col rovescio di un’ascia, il coperchio metallico ripiegato all’insù, gli orli sfrangiati taglienti come un rasoio. Lei gli disse come, e lui l’adoperò come un coltello, si tolse un laccio da una scarpa e lo tagliò in due col barattolo. Poi lei voleva dell’acqua calda – «Se potessi avere un po’ d’acqua calda» disse con una debole voce serena, senza molta speranza; soltanto, quando lui pensò ai fiammiferi, si sentì di nuovo come quando la donna gli aveva domandato se aveva un coltello, finché lei si frugò nella tasca della giacca sbrindellata (aveva una doppia V su un polsino e una macchia più scura sulla spalla nel punto in cui le spalline e le mostrine divisionali erano state strappate via, ma tutto questo per lui non aveva alcun significato) e tirò fuori una scatola di fiammiferi ottenuta con due bossoli da fucile infilati l’uno nell’altro. Così, la trascinò un po’ più lontano dall’acqua e andò a cercare legna secca a sufficienza da poter bruciare, e questa volta pensò, È solo un altro mocassino, ma disse che avrebbe dovuto pensare altri diecimila serpenti; e ora capì che prima non era lo stesso daino perché ne vide tre in una volta, maschi o femmine non poté capire dato che erano senza corna, in maggio, e d’altronde non ne aveva mai visti prima salvo che su una cartolina di Natale; e poi il coniglio, affogato, o comunque morto, già sventrato, e l’uccello, il falco sopra di esso – il ciuffo eretto, il crudele, duro naso patrizio, l’occhio giallo famelico e spietato – e lo scalciò, mandandolo coi suoi calci a sbandare per aria ad ali aperte.
Quando tornò con la legna e il coniglio morto, il neonato, ravvolto nella giacca, giaceva incuneato tra due radici di cipresso e la donna non era in vista, ma mentre il forzato, in ginocchio nel fango, soffiava e alimentava il suo tisico focherello, tornò camminando debole e lenta dalla direzione dell’acqua. Poi, l’acqua infine calda, lei tirò fuori da chissà dove – lui non l’avrebbe mai saputo, e forse nemmeno lei l’avrebbe mai saputo fino al momento del bisogno, nessuna donna forse lo sa mai, soltanto che le donne non se lo domandano nemmeno – quel pezzetto di qualche cosa, tra la tela di sacco e la seta; e lui, accovacciato, gli indumenti bagnati che vaporavano al calore del fuoco, stette a osservare la donna che faceva il bagno al piccolo, con una stralunata curiosità, con uno stralunato interesse che si mutò in stupefatta incredulità, sì che alla fine rimase in piedi sopra di loro a guardare quella minuscola creatura del colore della terracotta che non assomigliava a nulla, pensando, E questo è tutto. Ecco che cosa mi ha staccato da tutto quello che conoscevo e che non desideravo lasciare e mi ha lanciato in un ambiente ch’ero fatto per temere, per raggiungere infine un posto che non avevo mai visto e dove non so nemmeno dove sono.
Poi tornò all’acqua e riempì il barattolo. Si era ormai vicini al tramonto (o a ciò che sarebbe stato tramonto se non vi fosse stata l’alta cortina delle nuvole) di quel giorno il cui principio non poteva nemmeno ricordare; quando tornò presso il fuoco, in mezzo all’oscuro intrico dei cipressi, nonostante la brevità di quella sua assenza la sera era davvero calata, come se anche l’oscurità avesse trovato rifugio in quell’angusto rialzo di terreno, in quell’Arca di terra uscita dalla Genesi, quella folta, umida, oscura desolazione formicolante di vita della cui posizione e lontananza da dove e da che cosa egli non aveva idea più di quanto non avesse idea di qual giorno del mese fosse quello – e ora, col tramonto del sole, fosse nuovamente strisciata fuori spargendosi sulle acque. Egli bollì il coniglio fatto a pezzi mentre il fuoco bruciava via via più rosso nell’oscurità nella quale i timidi occhi selvaggi dei piccoli animali – una volta l’alto, dolce sguardo, grande quasi come un piatto, d’uno dei daini – rilucevano e scomparivano e tornavano a rilucere, il brodo caldo e fetido dopo quei quattro giorni; gli parve d’udire il mugghio della propria saliva mentre guardava la donna sorbirne il primo barattolo. Poi bevve anche lui; mangiarono gli altri pezzi, che s’erano arrostiti e bruciacchiati, infilati in bacchetti di salice; era notte piena, ormai. «È meglio che lei e il bambino dormiate nella barca» disse il forzato. «Bisogna partire presto domattina». Spinse la prua in acqua, in modo che la barca si mettesse in piano, allungò la barbetta con un tralcio di rampicante e, tornato vicino al fuoco, si legò il tralcio attorno al polso e si distese a terra. Era fango quello su cui giaceva, ma sotto era solido, era terra, non si muoveva; se ci si cadeva sopra ci si poteva rompere le ossa contro la sua incontrovertibile passività, ma non ti accoglieva, immateriale, avviluppante, soffocante, giù, giù, sempre più giù; a volte era duro aprirla con un aratro, a volte al tramonto ti rimandava alla tua cuccetta esausto, sfinito, e ti faceva maledire le sue insaziabili richieste che duravano quanto durava la luce, ma non ti strappava violentemente da tutto ciò che ti era familiare e non ti spazzava via per giorni e giorni, schiavo e impotente a tornare. Non so dove mi trovo e mi sa che non so come fare ad andare dove voglio tornare, pensò. Ma almeno la barca s’è fermata quanto basta da darmi la possibilità di girarla.
Si svegliò all’alba, la debole luce, il cielo color giunchiglia; sarebbe stata una bella giornata. Il fuoco s’era spento; dall’altra parte delle ceneri fredde giacevano tre serpenti immobili e paralleli come sottolineature, e nella luce rapidamente crescente altri sembrarono materializzarsi: la terra che un istante prima era stata semplice terra si ruppe ora in spire e anella immobili, rami che un momento prima erano stati semplici rami diventavano ora statici festoni serpentini mentre il forzato si alzava pensando al mangiare, a qualcosa di caldo prima di partire. Ma decise di non farne di nulla, decise di non perdere altro tempo, giacché nella barca restavano parecchi di quegli oggetti simili a pietre che la donna del battello vi aveva gettato dentro, e d’altronde (pensava) per quanto velocemente e proficuamente fosse riuscito a far caccia, non sarebbe mai riuscito a provvedere cibo bastante per tornare indietro. Raggiunse quindi la barca seguendo la barbetta di rampicante, l’acqua sulla quale gravava una nebbia bassa, spessa come cotone battuto (seppure non molto alta, profonda) e dentro la quale la poppa della barca cominciava già a scomparire benché la prora toccasse quasi la riva. La donna si svegliò, si riscosse. «Partiamo ora?» disse.
«Sì» disse il forzato. «Mica avrà intenzione di farne un altro stamattina, vero?». Entrò nella barca e si spinse al largo, e la riva immediatamente cominciò a dissolversi nella nebbia. «Mi dia il remo» disse al di sopra della spalla, senza voltarsi.
«Il remo?».
Girò il capo. «Il remo. Ci sta sdraiata sopra». Ma non era così. E per un istante, durante il quale la collinetta, l’isola, continuò a svanire lentamente nella nebbia che sembrava avvolgere la barca in un’imponderabile e impalpabile ovatta come un fragile ciondolo o un gioiello prezioso, il forzato rimase accoccolato, non con costernazione ma col senso di frenetica e attonita indignazione di uno che, essendo appena sfuggito a una cassaforte che gli stava cadendo addosso, viene colpito dal fermacarte di un etto che vi era posato sopra, e ciò era tanto più insopportabile in quanto egli sapeva che mai in vita sua aveva avuto meno tempo per starci a pensare. Non esitò. Afferrò la cima del tralcio e saltò in acqua, scomparendo nel violento sforzo d’arrampicarsi e riapparve, sempre arrampicandosi (lui che non aveva mai imparato a nuotare), agitandosi e dibattendosi, verso l’isolotto ormai quasi svanito, avanzando nell’acqua e poi sollevandosi su di essa, come ieri aveva fatto il daino, s’arrampicò su per la riva fangosa e giacque infine, esausto e ansimante, sempre con la cima del tralcio stretta in pugno.
Ora, la prima cosa che fece fu di scegliere quello che gli parve l’albero più adatto (per un istante nel quale seppe di essere pazzo pensò di segarlo col coperchio sfrangiato del barattolo) e vi accese un fuoco accanto alle radici. Poi andò in cerca di cibo. Passò i seguenti sei giorni in questa ricerca, mentre la base dell’albero bruciava e l’albero cadde, e ancora bruciò alla lunghezza conveniente, con lui che accendeva e manteneva piccoli, costanti, mirati focherelli lungo i fianchi del tronco in maniera da dargli una forma di remo, alimentandoli anche di notte mentre la donna e il piccolo (aveva cominciato a mangiare, adesso, a poppare, con lui che si voltava o addirittura si ritirava nel bosco ogni volta che lei si preparava ad aprire la giacca scolorita) dormivano nella barca. Imparò a osservare il repentino tuffarsi dei falchi e così trovò altri conigli e due volte degli opossum; mangiarono alcuni pesci morti che causarono loro prima uno sfogo, e poi una violenta dissenteria, e un serpente che la donna credette tartaruga e che non causò loro alcun malessere, e una notte piovve e lui si alzò e strappò un cespuglio e scuotendolo (adesso non pensava più È solo un altro mocassino, ma semplicemente si faceva da parte quando essi, avendone il tempo, irritati si contraevano per avventarglisi contro) ne scacciò via i serpenti col suo antico senso di invulnerabilità personale, e fabbricò un ricovero e la pioggia cessò d’un tratto e non ricominciò e la donna tornò nella barca.
Poi una notte – il lento, tedioso ramo che si carbonizzava era ormai quasi un remo – una notte, e lui era a letto, nel suo letto nella baracca del penitenziario e faceva freddo, e lui cercava di tirarsi su le coperte ma il suo mulo non glielo permetteva, lo colpiva e lo sospingeva pesantemente col muso, cercando d’entrare nell’angusto letto con lui e anche il letto adesso era diventato freddo e bagnato e lui cercava di uscirne ma il mulo non glielo permetteva, lo prendeva coi denti per la cintura, lo scuoteva e lo ributtava nel letto bagnato e poi chinò il muso verso di lui e gli spazzò la faccia con un colpo della sua fredda lingua flessibile e muscolosa e allora lui si svegliò, e non c’era più fuoco né combustibile nemmeno sotto il tronco in parte carbonizzato e ormai quasi ridotto a remo, e qualcos’altro di prolungato e di freddamente flessibile gli passò rapido sul corpo che giaceva in un palmo d’acqua mentre la prua della barca un momento tirava il tralcio di rampicante legato attorno alla sua vita e un altro lo colpiva e lo sospingeva di nuovo nell’acqua. Poi qualcos’altro gli venne spinto vicino e cominciò a toccargli la caviglia (il remo, era il remo), mentre lui brancolava frenetico in cerca della barca, udendo il rapido frusciare avanti e indietro dentro lo scafo, con la donna che cominciava ad agitarsi e a urlare. «Topi!» gridava. «È pieno di topi! ».
«Stia ferma!» gridò lui. «Sono solo serpenti. Non può star ferma finché trovo la barca?». Finalmente la trovò, e vi salì col remo incompiuto; di nuovo lo spesso corpo muscoloso s’agitò convulso sotto il suo piede; non colpì, lui non se ne sarebbe curato, intento a fissare a poppa dove riusciva a distinguere qualcosa – la debole lontana luminosità dell’acqua aperta. Spinse col remo in quella direzione, scostando i rami coi loro festoni di serpenti, il fondo della barca che risuonava appena dei pesanti tonfi sordi, la donna che continuava a strillare. Poi la barca uscì da sotto gli alberi, si distaccò dall’isolotto, e adesso sentì i corpi frustargli le caviglie e udì il raspare che facevano strisciando oltre il bordo. Di nuovo tirò a sé il tronco e lo spinse in avanti lungo il fondo della barca, e su, e fuori; contro l’acqua livida ne vide altri tre che si contorcevano in sferzanti convulsioni prima di sparire. «Stia zitta!» urlò. «Zitta! Magari fossi un serpente anch’io, così potrei andarmene!».
Quando, ancora una volta, la cialda pallida e fredda del primo sole sogguardò alla barca (il forzato non sapeva nemmeno se stessero avanzando o no) nel suo nimbo di fine ovatta, il forzato udì ancora quel rumore che aveva già udito due volte e che mai avrebbe dimenticato – quel suono d’acqua lenta e irresistibile e mostruosamente sconvolta. Ma ora non avrebbe saputo dire da quale direzione provenisse. Sembrava essere da ogni parte, talvolta vicino, talaltra lontano; era come un fantasma dietro la nebbia, un momento a miglia di distanza, un momento dopo sul punto di investire la barca tra un secondo: d’un tratto, nell’istante stesso in cui credeva (il suo corpo esausto stava per scattare e urlare) di star quasi per guidarvi la barca contro a capofitto, con un violento colpo del remo non finito, del colore e dell’aspetto di mattoni fuligginosi, come qualcosa di dieci chili che i castori avessero portato via, rosicchiandolo, da un vecchio camino, girava freneticamente la barca per subito ritrovarselo davanti. Poi qualcosa mugghiò in modo spaventoso sopra il suo capo, udì voci umane, una campana rintoccò e il rumore cessò di colpo e la nebbia si dissipò come quando si passa la mano sopra un vetro gelato, e la barca si trovò a galleggiare in uno specchio d’acqua bruna e lucente, a fianco d’un battello a vapore, a una trentina di metri da esso. I ponti erano affollati, gremiti di uomini, donne e bambini seduti o in piedi in mezzo a un guazzabuglio di mobili ammucchiati in fretta; guardavano in silenzio giù alla barca con aria lugubre, mentre il forzato e l’uomo col megafono nella cabina del pilota parlavano alternativamente, con deboli urla e muggiti sopra l’ansito delle macchine a controvapore.
«Che diavolo state facendo? Volete suicidarvi?».
«Da che parte si va per Vicksburg?».
«Vicksburg? Vicksburg? Accostate e salite a bordo».
«Prendete su anche la barca?».
«La barca? La barca?». Ora il megafono si mise a bestemmiare, le tonanti ondate di esclamazioni blasfeme e supposizioni biologiche vuote e cavernose e incorporee, a turno, come fosse stata l’acqua, l’aria, la nebbia a pronunciarle, tuonando le parole e poi riassorbendole senza produrre alcun male, senza lasciare alcuna traccia né offesa. «Se pigliassi a bordo tutte le scatole di sardine che voi topi di chiavica figli di puttana vorreste che pigliassi su, non avrei più posto neanche per lo scandagliatore a prua. Salite a bordo! Volete che stia qui a aspettarvi finché gela l’inferno?».
«Senza la barca non ci vengo» disse il forzato. E allora parlò un’altra voce, così calma e mite e sensata che per un momento suonò più estranea e fuori posto perfino del muggito incorporeo e blasfemo del megafono.
«Dove state cercando di andare?».
«Non sto cercando» disse il forzato. «Vado. A Parchman». L’uomo che aveva parlato per ultimo si voltò e parve conversare con un terzo nella cabina del pilota. Poi si chinò di nuovo verso la barca.
«Carnarvon?».
«Cosa?» disse il forzato. «Parchman?».
«Sì. Andiamo da quella parte anche noi. Vi metteremo a terra nel punto in cui potrete andare a casa. Salite a bordo».
«Anche la barca?».
«Sì, sì. Salite. Stiamo bruciando carbone solo per star qui a parlare con voi». Così il forzato si mise contro la fiancata e li guardò mentre aiutavano la donna col bambino a scavalcare la battagliola, e poi salì a sua volta, ma sempre tenendo la cima della barbetta allungata col tralcio di rampicante, finché la barca non fu issata sul ponte. «Dio mio,» disse l’uomo, quello gentile «avete usato questa roba per remo?».
«Già» disse il forzato. «Ho perduto la tavola».
«La tavola,» ripeté l’uomo gentile (il forzato disse che parve sussurrarlo) «la tavola. Bene. Venite a mangiare qualcosa. La barca è al sicuro, ora».
«Mi sa che aspetterò qui» disse il forzato. Perché ora, disse, aveva cominciato a notare per la prima volta che l’altra gente, gli altri profughi che affollavano il ponte e che s’erano raccolti in un circolo silenzioso attorno alla barca capovolta sulla quale lui e la donna sedevano, il tralcio di rampicante avvolto in più giri attorno al suo polso e la cima stretta in pugno, fissando lui e la donna con una strana, tesa, lugubre intensità, non erano bianchi...
«Vuoi dire negri?» disse il forzato paffuto.
«No. Non americani».
«Non americani? Allora eri addirittura fuori dell’America?».
«Non lo so» disse quello alto. «La chiamavano Atchafalaya...». Perché dopo un poco aveva detto: «Cosa?» all’uomo, e l’uomo lo fece di nuovo, chiò-chiò...
«Chiò-chiò?» disse il forzato paffuto.
«È così che parlavano» disse quello alto. «Chiò-chiò, uang, cau-cau, tu-tu». E lui era rimasto lì a guardarli far chiò-chiò tra loro, e poi guardar di nuovo lui, poi si fecero indietro e l’uomo gentile (che portava il bracciale della Croce Rossa) tornò, seguito da un cameriere con un vassoio pieno di roba da mangiare. L’uomo gentile portava due bicchieri di whiskey.
«Bevete questo» disse l’uomo gentile. «Vi scalderà». La donna prese il suo e lo bevve, ma il forzato raccontò come l’avesse guardato pensando, Sono sette anni che non assaggio whiskey. E prima d’allora l’aveva assaggiato una sola volta, in una distilleria clandestina dentro una pineta; aveva diciassette anni, era andato là con quattro compagni, due dei quali erano già uomini fatti, uno di ventidue o ventitré anni e l’altro di circa quaranta; se ne ricordava bene. Cioè, ricordava sì e no un terzo di quella serata – un gran pandemonio nella luce infernale del fuoco, le botte in testa (e anche i suoi pugni sulle ossa dure di altri) e poi il risveglio, con la testa che gli scoppiava alla luce accecante del sole, in un posto, una tettoia per il bestiame, che non aveva mai visto e che poi risultò essere a venti miglia di distanza da casa sua. Disse che aveva pensato a tutto questo e si era guardato attorno, le facce che lo osservavano, e aveva detto: «Mi sa di no».
«Su, su» disse l’uomo gentile. «Beva».
«Non lo voglio».
«Sciocchezze» disse l’uomo gentile. «Io sono un medico. Su. Poi potrà mangiare». Così prese il bicchiere e anche allora esitò, ma di nuovo l’uomo gentile disse: «Avanti, lo butti giù; continua a farci perder tempo», con quella voce ancora calma e sensata ma anche un po’ aspra – la voce di un uomo che sa mantenersi calmo e affabile perché non è abituato a esser contrariato – e bevve il whiskey, e perfino in quel secondo tra il piacevole fuoco bruciante nella pancia e quando cominciò a succedere cercò di dire: «Ve l’avevo detto! Ho cercato di dirvelo! ». Ma ormai era troppo tardi nella pallida luce del suo decimo giorno di terrore e scoraggiamento e disperazione e impotenza e rabbia e indignazione ed erano lui e il mulo, il suo mulo (gli avevano permesso di mettergli un nome – John Henry), col quale nessun altro all’infuori di lui aveva arato da cinque anni a quella parte e le cui abitudini conosceva e rispettava e il quale a sua volta conosceva così bene le abitudini di lui che ciascuno poteva prevedere i movimenti e le intenzioni stesse dell’altro; erano lui e il suo mulo, le piccole facce che facevano chiò-chiò che fuggivano dinanzi a loro, le note, dure ossa del cranio che battevano contro i suoi pugni, la sua voce che gridava: «Forza, John Henry! Arali! Chioccali giù, ragazzo!» anche quando la calda onda rossa si rivoltò e la incontrò gioioso, felice, salendo e rimanendo sospeso, poi scagliandosi nello spazio, trionfante, urlando, e poi di nuovo il solito colpo che tramortiva sulla parte posteriore del cranio: giaceva sul ponte ora, supino, immobilizzato gambe e braccia e di nuovo ben lucido, di nuovo le narici fiottanti, l’uomo gentile chino su di lui con gli occhi più freddi che il forzato avesse mai visti, dietro i sottili occhiali non cerchiati – occhi che il forzato disse non guardavano lui ma il sangue che usciva a fiotti, e con null’altro al mondo che un interesse del tutto impersonale.
«Bravo» disse l’uomo gentile. «Piena di vita, eh?, questa vecchia carcassa. E anche di buon sangue rosso. Non gliel’ha mai detto nessuno che è emofiliaco?». («Cosa?» disse il forzato paffuto. «Emofiliaco? E che cosa vuol dire, lo sai?». Il forzato alto aveva acceso la sua sigaretta, ormai, il suo corpo piegato come un coltello a serramanico nello spazio stretto come una bara tra la cuccetta inferiore e quella superiore, snello, pulito, immobile, col fumo azzurrognolo che gl’incorniciava la sbarbata faccia magra, scura, aquilina. «È un vitello che è un toro e una vacca allo stesso tempo».
«No che non lo è» disse un terzo forzato. «È un vitello o un puledro che non è né l’uno né l’altro».
«Diavolo!» disse quello paffuto. «O l’uno o l’altro bisognerà pur che sia, se no affoga». Non aveva mai staccato gli occhi dal forzato alto nella cuccetta; e adesso gli parlò di nuovo: «E tu te lo sei lasciato dire?»). Quello alto se l’era lasciato dire. Non aveva risposto affatto al dottore (era stato a questo punto che aveva cessato di pensare a lui come all’uomo gentile). Non poteva neppure muoversi, benché si sentisse bene, si sentisse meglio di quanto non si fosse mai sentito in quei dieci giorni. Perciò lo aiutarono a rimettersi in piedi e lo tennero su e lo fecero rimettere a sedere sulla barca capovolta accanto alla donna, dove sedette chino in avanti, i gomiti sulle ginocchia, nel suo antico atteggiamento, osservando il suo sangue vermiglio che tingeva il ponte infangato, finché la mano linda e curata del dottore non apparve sotto il suo naso con una fiala.
«Fiuti» disse il dottore. «Forte». Il forzato aspirò, la pungente sensazione dell’ammoniaca gli bruciò le narici e la gola. «Ancora» disse il dottore. Il forzato, obbediente, aspirò di nuovo. Questa volta strangugliò e sputò un grumo di sangue, il naso che ora non era più sensibile dell’unghia di un piede, per quanto se lo sentisse delle dimensioni d’una pala lunga mezzo metro, e altrettanto freddo.
«Le chiedo scusa» disse. «Non avevo l’intenzione...».
«Che?» disse il dottore. «Ha dato vita a una delle più belle zuffe contro quaranta o cinquanta uomini ch’io abbia mai visto. Ha resistito per due secondi buoni. Ora può mangiare qualcosa. O ha paura che le faccia dare i numeri un’altra volta?».
Mangiarono tutt’e due, seduti sulla barca, le facce dei chiò-chiò non stavano più a guardarli, ora, il forzato masticava lentamente e a fatica il grosso sandwich, curvo, la faccia disposta di traverso rispetto al sandwich e parallela alla terra, come mangia un cane; il vapore continuava ad avanzare. A mezzogiorno ci fu minestra calda, e pane, e altro caffè; mangiarono anche questo seduti sulla barca l’uno accanto all’altra, il tralcio di rampicante sempre attorcigliato attorno al polso del forzato. Il piccolo si svegliò e succhiò e poi s’addormentò di nuovo, e loro parlarono a bassa voce:
«È a Parchman che ha detto che ci portano?».
«È là che gli ho detto di portarci».
«Non mi sembra che abbia detto proprio Parchman. Mi sembra che abbia detto un’altra cosa». Anche il forzato lo aveva pensato. Ci stava pensando piuttosto seriamente fin da quando erano saliti sul vapore, e molto seriamente da quando aveva notato l’aspetto degli altri passeggeri, quegli uomini e quelle donne decisamente un po’ più piccoli di lui e con la pelle un po’ diversa di colore da quella che può essere un’abbronzatura del sole, anche se gli occhi erano talvolta azzurri o grigi, e si parlavano in una lingua che non aveva mai sentita ed evidentemente non capivano la sua, gente come non ne aveva mai vista nella zona di Parchman né da nessun’altra parte e che non credeva andasse là o neanche oltre. Ma, secondo la zotica usanza delle sue parti e della sua gente, non avrebbe mai domandato, poiché per come era stato tirato su chiedere un’informazione equivaleva a chiedere un favore, e non si chiedono favori agli estranei; se te li offrivano loro, allora magari accettavi, esprimevi la tua gratitudine ripetendoti fin quasi alla noia, ma chiederli non li chiedevi. Così, guardava e aspettava, come aveva fatto prima, e agiva o cercava di agire quanto meglio gli permetteva la sua capacità secondo quanto meglio il suo giudizio gli dettava.
Quindi aspettò, e verso la metà del pomeriggio il vapore si cacciò sbuffando entro una strozzatura fiancheggiata di salici per poi riemergerne, e ora il forzato capì che si trovavano sul Fiume. Poteva crederlo, ora – l’immensa distesa, gialla e sonnolenta nella luce pomeridiana («È perché è troppo grosso» disse loro seriamente. «E non c’è inondazione al mondo che possa fargli altro che farlo salire un po’, in modo che possa guardare indietro per vedere dov’è la pulce, in modo che sappia esattamente dove si deve grattare. Sono quelli piccoli, i torrentelli insignificanti, che un giorno vanno in su e il giorno dopo vanno in giù, e si rovesciano addosso a un uomo pieni di muli morti e di pollai») – e il vapore lo imboccò (come una formica che attraversa un piatto, pensò il forzato seduto accanto alla donna sulla barca capovolta, col bambino che di nuovo si era messo a poppare e anche lui sembrava guardare oltre la distesa d’acqua, dove, a un miglio di distanza da ambo i lati, le due linee degli argini sembravano due fili galleggianti, paralleli e ininterrotti) ed era quasi al tramonto e lui cominciò a udire, a distinguere le voci del dottore e dell’uomo che per primo gli aveva urlato attraverso il megafono e che ora urlava di nuovo dalla cabina del pilota, in alto:
«Fermarmi? Fermarmi? Ma che sto forse guidando un tranvai?».
«Si fermi per la novità, allora» disse la voce cordiale del dottore. «Io non so quanti viaggi abbia fatto su e giù per questo fiume fino a laggiù né quanti topi di chiavica, come li chiama, abbia rastrellato. Ma questa è la prima volta che le capita di avere due persone – cioè, tre – che non soltanto conoscevano il nome di un posto dove volevano andare, ma cercavano effettivamente di andarvi». Così il forzato aspettò mentre il sole andava calando sempre più e il vapore-formica continuava ad avanzare lentamente attraverso il suo vuoto piatto gigantesco che sempre più si faceva di rame. Ma lui non fece domande, semplicemente attese. Forse ha detto Carollton, pensava. Cominciava per C. Ma non ci credeva nemmeno lui. Non sapeva dove si trovava, ma sapeva che non aveva niente a che fare con quella Carollton che ricordava da quel giorno, sette anni prima, quando, ammanettato polso a polso col vicesceriffo, ci era passato in treno – il lento, spaziato, ripetuto clangore dei vagoni che sbatacchiavano all’incrocio delle rotaie, tranquille casette bianche disseminate tra gli alberi su verdi colline rigogliose d’estate, una guglia additante, il dito della mano di Dio. Ma il fiume non c’era. E non si può mai essere vicini a questo fiume senza accorgersene, pensò. Poco importa chi uno sia o dove abbia vissuto tutta la vita. Poi la prua del vapore cominciò a tagliare la corrente, e così la sua ombra che gli si allungò davanti sull’acqua verso l’orlo vuoto della terra coperta di salici e deserta di vita. Non c’era assolutamente nulla, il forzato nemmeno vedeva se al di là di esso vi fosse terra o altra acqua; era come se il vapore stesse per sfondare lentamente la sottile, bassa, fragile barriera di salici per imbarcarsi nello spazio, oppure rallentare, virare, e sbarcare lui nello spazio, ammesso che stesse per sbarcarlo, ammesso che questo fosse quel posto che non era vicino a Parchman e neppure era Carollton, benché cominciasse per C. Poi volse la testa e vide il dottore chinarsi sulla donna, alzare la palpebra del bambino con l’indice e osservarlo.
«Chi altro c’era, quando è nato?» disse il dottore.
«Nessuno» disse il forzato.
«Avete fatto tutto da voi, eh?».
«Sì» disse il forzato. Poi il dottore si alzò e guardò il forzato. «Questo è Carnarvon» disse.
«Carnarvon?» disse il forzato. «Ma noi non...». S’interruppe, tacque. E poi la raccontò – gli occhi intenti e spassionati, come di ghiaccio, dietro gli occhiali non cerchiati, il volto rasato, vivace, di un uomo abituato a non essere contraddetto e a non lasciarsi raccontar balle. («Già» disse il forzato paffuto. «Proprio questo volevo chiederti. Quei vestiti. Chiunque li riconoscerebbe. Come va che questo dottore, se era così in gamba come dici...».
«Ci avevo dormito per dieci notti, quasi sempre nel fango» disse quello alto. «Ci avevo remato da mezzanotte in poi con quel tronco d’albero che avevo cercato di bruciare e non avevo avuto nemmeno il tempo di togliere la fuliggine. Ma sono gli spaventi e le preoccupazioni, e poi gli spaventi e le preoccupazioni ancora per giorni e giorni, che cambiano anche l’aspetto dei panni che porti addosso. Non intendo solo le mutande». Non rise. «Anche la faccia. Quel dottore se n’era accorto».
«Va bene» disse quello paffuto. «Va’ avanti»).
«Me ne sono accorto» disse il dottore. «L’ho scoperto quando era disteso sul ponte mentre riprendeva coscienza. Non mi racconti storie. Non mi piacciono le storie. Questo battello va a New Orleans».
«No» disse subito il forzato, pacatamente, con assoluta decisione. L’udiva ancora, il tuc-tuc-tuc sull’acqua dove si trovava un istante prima. Ma non pensava alle pallottole. Se n’era dimenticato, le aveva perdonate. Pensava a se stesso, raggomitolato, singhiozzante, ansimante, prima di fuggire di nuovo – la voce, l’accusa, il grido di finale, irrevocabile ripudio del vecchio, primitivo, sleale Manipolatore d’ogni brama, follia e ingiustizia: Io non desideravo altro che arrendermi, ripensandoci, ricordandolo, ma senza risentimento ora, senza passione, e in termini più concisi d’un epitaffio: No. Ho cercato di farlo una volta. Mi hanno sparato.
«Così, non vuole andare a New Orleans. E non è che volesse andare proprio a Carnarvon. Ma preferisce andare a Carnarvon piuttosto che a New Orleans». Il forzato non disse nulla. Il dottore lo guardò, le pupille ingrandite come due teste di chiodi da ponte. «Perché era dentro? L’ha pestato un po’ più forte del previsto, eh?».
«No. Ho tentato di svaligiare un treno».
«Come? Ripeta». Il forzato ripeté. «Ebbene? Avanti. Non può dire una cosa del genere, nel 1927, e fermarsi lì». E così il forzato aveva raccontato il fatto, spassionatamente – i giornaletti, la pistola che non sparava, la maschera e la lanterna cieca senza tiraggio per cui la candela s’era spenta quasi contemporaneamente al fiammifero e tuttavia aveva arroventato il metallo da non poterlo tenere in mano, il tutto guadagnato con gli abbonamenti. Solo che non mi sta guardando gli occhi o la bocca, pensava. È come se stesse guardando come mi crescono i capelli in testa. «Capisco» disse il dottore. «Però qualcosa non funzionò. Ma ormai ha avuto tutto il tempo per ripensarci. Per decidere che cosa non funzionò, che cosa omise di fare».
«Sì» disse il forzato. «Ho avuto un bel pezzo per ripensarci».
«Perciò la prossima volta non lo commetterà più, quell’errore».
«Non lo so» disse il forzato. «Non ci sarà una prossima volta».
«Perché? Se lo sa, che cosa non funzionò, la prossima volta non l’acchiapperanno».
Il forzato guardò fisso il dottore. Si guardarono fissi; quelle due paia d’occhi non erano poi tanto diverse, dopo tutto. «Credo di capire che cosa intende» disse d’un tratto il forzato. «Allora avevo diciotto anni. Adesso ne ho venticinque».
«Oh» disse il dottore. Ora (il forzato cercò di raccontarlo) il dottore non si mosse, semplicemente smise di guardarlo. Tirò fuori dalla giacca un pacchetto di sigarette ordinarie. «Fuma?» disse.
«Non ci tengo» disse il forzato.
«Bene» disse il dottore con quella voce affabile, asciutta. Mise via le sigarette. «È stato conferito alla mia razza (la razza dei Medici) anche il potere di vincolare e di sciogliere – se non forse da Geova, certo dall’Associazione medica americana nella quale, tra l’altro, in questo giorno del Signore, investirei il mio denaro, in qualsiasi circostanza, per qualsiasi ammontare, in qualsiasi momento. Non so esattamente di quanto io ne oltrepassi i limiti in questa specifica occasione, ma credo che lo verificheremo». Si mise le mani attorno alla bocca, e rivolto verso la cabina del pilota, «Capitano!» gridò. «Sbarchiamo qui questi tre passeggeri». Di nuovo si volse verso il forzato. «Già» disse. «Credo che lascerò che il vostro Stato d’origine si lecchi il suo vomito. Prenda». Di nuovo la sua mano emerse dalla tasca, questa volta con un biglietto di banca.
«No» disse il forzato.
«Avanti, avanti; non mi piace essere contraddetto».
«No» disse il forzato. «Non ho modo di restituirglieli».
«E chi le ha chiesto di restituirmeli?».
«No» disse il forzato. «Neppure io le ho chiesto di prestarmeli».
Così, una volta ancora si trovò sulla terraferma, lui che già due volte si era trovato a esser lo zimbello di quella beffarda e concentrata potenza dell’acqua, una volta più di quanto dovrebbe accadere alla maggior parte degli uomini in tutta la vita, mentre a lui era riservata un’altra incredibile ripetizione, lui e la donna in piedi sull’argine deserto, il bimbo addormentato avvolto nella giacca scolorita e il tralcio di rampicante sempre attorcigliato intorno al polso del forzato, a guardare il vapore far retromarcia e virare e riprendere ad avanzare lentamente sulla piatta, deserta distesa d’acqua sempre più tendente al rosso rame, il fumo che si trascinava dietro in lenti fiotti orlati di rame dissiparsi impallidendo, svanendo attraverso il deserto vasto e sereno, il vapore che si faceva sempre più piccolo fino a che parve non più avanzare ma restare sospeso, stazionario, nell’aereo e immateriale tramonto, dissolvendosi nel nulla come un grumo di fango galleggiante.
Allora egli si voltò e per la prima volta si guardò attorno e dietro, e arretrò, non già per paura, ma per un semplice riflesso, e non del corpo ma dell’animo, lo spirito, quella profonda, seria, vigilante attenzione del montanaro che non vuol chiedere nulla all’estraneo, nemmeno un’informazione, pensando quietamente, No. Questo non è nemmeno Carollton. Perché ora guardava giù per il pendio dell’argine quasi perpendicolare da una distanza di venti metri di spazio assoluto, su una superficie, un terreno piatto come una cialda e del colore d’una cialda o magari del mantello estivo d’un cavallo giallo e provvista di quella stessa densità pelosa di tappeto o di pelliccia, che s’estendeva senza ondulazioni e tuttavia con la curiosa apparenza d’imponderabile solidità di un fluido, rotta qua e là da spesse protuberanze d’un verde arsenico che non sembravano tuttavia possedere alcun rilievo, e da vene tortuose del colore dell’inchiostro ch’egli incominciò a sospettare essere autentica acqua, ma senza pronunciarsi ancora, e non si pronunciò nemmeno quando poco dopo si trovò a camminarvi dentro. Ecco ciò che disse, che raccontò: e così erano andati avanti. Non disse come da solo avesse sollevato la barca su per la massicciata, oltre la cresta e giù per il salto di venti metri dalla parte opposta; disse semplicemente ch’era andato avanti in una roteante nube di zanzare simile a cenere infocata, cacciandosi, tuffandosi nell’erba seghettata e tagliente, alta più di lui, e che gli frustava le braccia e il viso come coltelli flessibili, tirandosi dietro col tralcio di rampicante la barca entro la quale sedeva la donna, avanzando a fatica e affondando fino al ginocchio in qualcosa ch’era più acqua che terra, lungo uno di quei tortuosi canali neri ch’erano più terra che acqua: e poi (era entrato nella barca anche lui, ora, e s’era messo a remare col tronco carbonizzato, dopo che trenta minuti prima gli era mancata d’un tratto la terra sotto i piedi, senza preavviso, così che solo la bolla d’aria della sua blusa era rimasta a ballonzolare leggera sull’acqua crepuscolare e, tornato a galla, s’era arrampicato sulla barca) la casa, la capanna appena un po’ più grande del box d’un cavallo, fatta di tavole di cipresso e un tetto di lamiera, su palafitte di tre metri sottili come zampe di ragno, come una povera creatura colpita a morte (e probabilmente velenosa) che a guado fosse arrivata fin là in quella piatta desolazione e fosse morta senza nulla in vista ove potersi posare, con una piroga legata al piede d’una rozza scala a pioli, e un uomo in piedi sulla porta, che teneva una lanterna alta sopra il capo (era ormai buio) e che faceva chiò-chiò anche lui.
Lo raccontò – dei seguenti otto o nove o dieci giorni, non ricordava quanti, durante i quali loro quattro – lui e la donna e il bambino e l’ometto secco coi denti bacati e i miti occhi selvaggi brillanti come quelli d’un topo o d’uno scoiattolo, e la cui lingua nessuno di loro riusciva a capire – vissero in una stanza e mezza. Non lo raccontò in questo modo, così come evidentemente aveva considerato non valer la pena di raccontare come avesse sollevato da solo quella barca di oltre settanta chili su per l’argine alto venti metri e l’avesse poi fatta ridiscendere dall’altra parte. Disse semplicemente: «Dopo un po’ arrivammo a una casa e ci rimanemmo otto o nove giorni, poi fecero saltare l’argine con la dinamite e ce ne dovemmo andare». Questo fu tutto. Ricordava, ma tranquillamente, ora, con il sigaro, ora, quello buono che gli aveva dato il direttore (benché ancora non l’avesse acceso), nella mano calma e ferma, ricordava quella prima mattina quando si svegliò sul sottile giaciglio accanto al suo ospite (la donna e il bambino dormivano nell’unico letto) col sole violento che già trapelava attraverso il tavolato sconnesso della parete, e uscì sulla veranda sgangherata, guardando al piatto e rigoglioso deserto né terra né acqua dove perfino i sensi dubitavano di che si trattasse, quale fosse ricca aria massiccia e quale impalpabile e confusa vegetazione, e pensò quietamente, Bisogna pure che faccia qualcosa, qui, per mangiare e campare. Ma non riesco a immaginare che cosa. E finché non potrò rimettermi in cammino, finché non potrò sapere dove mi trovo e come passare quella città senza che mi vedano, dovrò aiutarlo così potremo mangiare e campare anche noi, solo che non so che cosa fa. Ed ebbe anche di che cambiarsi, quasi subito, quella prima mattina, senza dire di più di quanto non avesse detto circa la barca e l’argine, sul come avesse mendicato, preso in prestito o comprato, dall’uomo che aveva visto per la prima volta dodici ore prima e col quale il giorno in cui lo vide per l’ultima volta ancora non era riuscito a scambiare una parola, il cencioso paio di calzoni che perfino il Cajun9 aveva scartato come non più portabili, sporchi, senza bottoni, i gambali stracciati e sfrangiati come in un’amaca del 1890, e ch’egli indossò, restando nudo dalla cintola in su, dando a lei il maglione incrostato di fango e sporco di fuliggine e la tuta, quando la donna si svegliò quella prima mattina sul rozzo giaciglio inchiodato in un angolo e riempito d’erba secca, dicendo: «Li lavi. Per bene. Voglio via tutte quelle macchie. Tutte».
«Ma il maglione...» disse lei. «Non ha anche una vecchia camicia? Con questo sole e queste zanzare...». Ma lui non rispose nemmeno, e neanche lei aggiunse altro, e quando lui e il Cajun tornarono, a notte, gli indumenti erano puliti, ancora un po’ macchiati dal fango e dalla fuliggine ma puliti, avevano nuovamente l’aspetto che dovevano avere, quando lui (le braccia e la schiena già d’un rosso acceso che domani si sarebbe cambiato in vesciche) li distese per esaminarli e poi li arrotolò con cura in un giornale di New Orleans vecchio di sei mesi, ficcando l’involto dietro un travicello dove rimase per giorni e giorni mentre le vesciche sulla sua schiena si rompevano e suppuravano e lui sedeva, la faccia inespressiva come una maschera di legno sotto il sudore mentre il Cajun gli ungeva la schiena con un cencio sporco imbevuto di un qualche cosa che prendeva da un piattino sporco, e lei sempre zitta poiché anche lei senza dubbio conosceva le sue ragioni, non per quel rapporto coniugale conferitole dalle due settimane in cui avevano sofferto insieme tutte le crisi emotive sociali economiche e anche morali che non sempre capitano in cinquant’anni di un’ordinaria vita matrimoniale (i vecchi coniugi: le avete viste, le riproduzioni in dagherrotipo, le migliaia di identiche facce accoppiate dove soltanto il bottoncino di una camicia senza colletto o un fichu alla Louisa Alcott denotano il sesso, appaiate come la coppia di cani vincente dopo una gara di ferma, che emergono dalle colonne fitte di disastri e apprensione e infondata sicurezza e speranza e incredibile mancanza di sensibilità e distacco dal domani, tenute su da mille zuccheriere o caffettiere mattutine; oppure da soli, a dondolarsi sulla sedia a dondolo della veranda, o seduti al sole sotto il porticato macchiato di tabacco di mille municipi di contea, come se con la morte dell’altro avessero ereditato una sorta di ringiovanimento, d’immortalità; vedovi, riprendono nuova lena e sembrano vivere per sempre, come se quella carne che l’antica cerimonia aveva moralmente purificato e reso legalmente una fosse divenuta effettivamente tale con la lunga e tediosa abitudine e lui o lei che per primo era rientrato nella terra se la fosse portata tutta con sé, lasciando soltanto lo scheletro durevole e permanente, libero e senza più pastoie) – non per questa ragione ma perché anche lei a un certo punto era scaturita dallo stesso oscuro Abramo montanaro.
Così l’involto rimase dietro il travicello per giorni e giorni mentre lui e il suo socio (aveva fatto società col suo ospite, ora, cacciando alligatori a mezzo, come lo chiamò... «A mezzo?» disse il forzato paffuto. «Ma come hai potuto fare un patto d’affari con uno col quale a sentir te non riuscivi a scambiare una parola?».
«Non ho mai avuto bisogno di parlargli» disse quello alto. «I soldi hanno una lingua sola») partivano tutte le mattine all’alba, in principio insieme, nella piroga, ma in seguito ciascuno per suo conto, l’uno con la piroga e l’altro con la barca, l’uno col vecchio fucile scassato, l’altro col coltello e un pezzo di corda a nodo scorsoio e un randello di legno leggero delle dimensioni, del peso e della forma d’una mazza turingia, per dar la caccia ai loro incubi pleistocenici su e giù per i segreti canali color inchiostro serpeggianti nella piatta landa di bronzo. Ricordava anche questo: quella prima mattina, quando voltandosi nella luce dell’alba sulla piattaforma sconquassata vide la pelle inchiodata sulla parete a seccare e si fermò di botto a fissarla, muto, pensando quietamente e pacatamente, Ecco che cosa fa per campare, sapendo che era una pelle, ma di quale animale, per associazione, ragionamento e nemmeno reminiscenza di qualche figura rievocata dalla sua morta gioventù egli non sapeva, ma sapeva esser quella la ragione, la spiegazione di quella sperduta casetta dalle zampe di ragno (che già aveva cominciato a morire, a putrefarsi dalle zampe, su su, quasi prima ancora che il tetto vi fosse inchiodato) posata su quella rigogliosa e innumere desolazione, racchiusa e perduta entro il furioso amplesso tra la fluente cavalla-terra e lo stallone-sole, indovinando per un puro rapporto tra tipo e tipo, tra lo zotico campagnolo e il sorcio di palude, due tipi di una stessa identica specie a causa della stessa reticente dispensazione e dello stesso maligno destino di duro e incessante lavoro non per conquistarsi una futura sicurezza, un conto in banca o semplicemente un barattolo di quattrini sotterrato per una vecchiaia pigra e tranquilla, ma semplicemente il permesso di sopravvivere, di resistere, per comperare aria da sentire e sole da bere d’istante in istante, pensando (il forzato), Be’, a ogni modo sto per scoprire di che bestia si tratti più presto di quanto immaginassi, e così fece, rientrò nella casa ove la donna stava giusto svegliandosi nell’unico miserabile giaciglio incassato riempito di paglia che il Cajun le aveva ceduto, e mangiò la colazione (il riso, una massa semiliquida, violenta per il pepe e soprattutto per il pesce piccantissimo, e il caffè di cicoria) e, senza camicia, seguì quell’ometto agile e scattante, coi suoi occhi accesi e i denti bacati, giù per la scaletta e dentro la piroga. Non aveva mai visto nemmeno una piroga e non credeva potesse galleggiare – non perché era leggera e mal equilibrata, con la sua parte superiore aperta, ma perché c’era una qualità inerente al legno, al tronco stesso, una qualche dinamica e insonne legge naturale, quasi una volontà, che la sua presente posizione offendeva e violava – e tuttavia accettò anche questo, come aveva accettato il fatto che quella pelle era appartenuta a qualcosa di più grosso di un vitello o di un maiale, e che qualsiasi cosa che dall’esterno avesse quell’aspetto molto probabilmente doveva avere anche denti e artigli, e accettò tutto questo mentre stava acquattato nella piroga, afferrandosi ai bordi, rigido e immobile come se tenesse in bocca un uovo pieno di nitroglicerina, respirando appena, pensando, Se si tratta di questo, allora posso farlo anch’io e anche se lui non può dirmi come si fa mi sa che posso guardare lui e imparare. E così fece, se lo ricordava, ancora con calma pensando, Era così che credevo si dovesse fare, e mi sa che continuerei a crederlo anche se dovessi farlo di nuovo per la prima volta – il giorno di ottone già feroce sulla sua schiena nuda, il canaletto tortuoso come un serpeggiante filo d’inchiostro, la piroga che avanzava spedita sotto l’impulso della pagaia che entrava e usciva dall’acqua senz’alcun rumore; poi l’improvviso cessare della pagaia dietro di lui e il feroce sibilante chiò-chiò del Cajun alle sue spalle, e lui acquattato, che appena respirava; con l’intensa immobilità e la perfetta calma d’un cieco in ascolto, mentre il fragile guscio di legno scivolava lungo l’apice morente del solco da esso stesso aperto nell’acqua. In seguito s’era ricordato anche del fucile – quell’arma scassata e arrugginita, a un solo colpo, il calcio tenuto insieme alla meglio col fil di ferro e una canna nella quale si poteva far entrare un tappo da whiskey, che il Cajun s’era portato nella barca – ma non ora; ora se ne stava semplicemente lì, acquattato, rattratto, immobile, respirando con una cura infinitesimale, lo sguardo calmo che vagava qua e là, senza posa, mentre pensava, Che cos’è? che cos’è? Non soltanto non so che cosa sto cercando, ma non so nemmeno dove cercarlo. Poi sentì il movimento della piroga come il Cajun si mosse e poi l’intenso chiò-chiò, quasi un sibilo, rapido e represso, contro il suo collo e le orecchie, e abbassando gli occhi vide, proiettata da dietro, tra il braccio e il corpo, la mano del Cajun che stringeva il coltello, e alzando di nuovo lo sguardo vide la piatta, spessa lingua di fango che, come la guardava, si divise e divenne uno spesso tronco color fango che a sua volta sembrò, pur restando immobile, rilevarsi improvvisamente nella sua rètina in tre – anzi, quattro – dimensioni: volume, solidità, forma, e un’altra: non paura ma pura e intensa speculazione, e guardò la scagliosa forma immobile, non pensando, Sembra pericoloso ma Sembra grosso, pensando, Già, magari anche un mulo in mezzo a un campo sembra grosso a uno che non gli si sia mai avvicinato con una cavezza in mano, pensando, Se solo potesse dirmi che debbo fare risparmieremmo tempo, la piroga che ora si avvicinava, appena muovendosi ora, senza nemmeno una crespa ora, e a lui pareva addirittura di udire il fiato trattenuto del compagno, e ora prendeva il coltello dalla mano dell’altro e senza nemmeno pensarvi perché fu troppo rapido, un lampo; non era una resa, non una rassegnazione, era troppo calmo, era una parte di lui, l’aveva succhiata col latte di sua madre e vi aveva vissuto per tutta la vita: Dopo tutto un uomo non può fare soltanto quello che deve fare, con ciò che ha per farlo, con ciò che ha imparato, come meglio gli consiglia il suo giudizio. E mi sa che un maiale sia sempre un maiale, qualunque cosa possa sembrare. Perciò avanti, restando seduto ancora un istante finché la prua della piroga non approdò più lieve d’una foglia che cade e saltò fuori e ancora si fermò per un solo istante mentre le parole Sembra davvero grosso restavano sospese per un secondo, pacate e banali, in qualche punto ove qualche frammento della sua attenzione poté vederle e svanirono, e si chinò a gambe aperte, vibrando il coltello già nell’afferrare la zampa davanti più vicina, tutto ciò nell'istante medesimo in cui la coda lo colpiva sul dorso con una spaventosa sferzata. Ma il coltello era giunto a segno, se ne rese conto anche spalle a terra nella melma con tutto il peso dell'animale che gli gravava addosso dibattendosi, il dorso crestato stretto contro il suo petto, mentre lui circondava col braccio la gola dell'animale, la testa sibilante pressata contro la mascella, la coda furiosa che frustava e sferzava, mentre il coltello nell'altra mano gli cercava la vita e gliela trovava, il caldo, violento fiotto: e ora, seduto accanto alla profonda carcassa rovesciata a pancia all'aria, la testa di nuovo tra le ginocchia, nel solito atteggiamento, mentre il suo proprio sangue inondava l'altro che lo stava bagnando, È di nuovo il mio maledetto naso.
Così rimase lì seduto, con la testa, la faccia grondante, china tra le ginocchia in un atteggiamento non abbattuto ma profondamente perplesso, meditativo, mentre l’acuta voce del Cajun sembrava ronzargli alle orecchie da un’enorme distanza; dopo un poco alzò gli occhi sulla grottesca, asciutta figura che blaterava isterica attorno a lui, la faccia selvaggia e sogghignante, la voce alta e chioccia; mentre lui, attento a tenere la faccia inclinata in modo che il sangue potesse scorrer libero, lo guardava con la fredda intensità d’un conservatore o d’un custode di museo dinanzi a una delle sue bacheche di vetro, il Cajun alzò il fucile e gridò: «Bum... bum... bum!...», lo lasciò cadere e in pantomima rifece la scena di poco prima, e infine agitando le mani si mise a gridare: «Magnifique! Magnifique! Cent d’argent! Mille d’argent! Tout l’argent sous le ciel de Dieu!». Ma già il forzato s’era rimesso a guardare in terra, e facendo coppa con le mani si portava alla faccia l’acqua color caffè, osservando il costante flusso vermiglio che la marmorizzava e pensando, È un po’ tardi dirmelo ora, ma non si fermò molto a pensarvi poiché adesso erano di nuovo sulla piroga, il forzato di nuovo acquattato con quella immobile rigidità come se, trattenendo il fiato, cercasse di diminuire il proprio peso, la pelle sanguinante sulla prua dinanzi a lui, e lui guardandola, pensando, E non posso nemmeno chiedergli quanto sarà la mia metà.
Ma nemmeno questo pensiero durò a lungo, poiché, come disse in seguito al forzato paffuto, il denaro ha una sola lingua. Ricordò anche questo (erano tornati a casa, ora, la pelle distesa sulla piattaforma, dove, a beneficio della donna questa volta, il Cajun rifece la pantomima – il fucile che non era stato adoperato, la lotta corpo a corpo; per la seconda volta l’alligatore invisibile fu massacrato in mezzo a grida, il vincitore si alzò e vide che questa volta nemmeno la donna lo stava guardando. Stava guardando la faccia del forzato, ancora una volta gonfia e infiammata. «Vuol dire che l’ha colpito proprio in faccia?».
«Macché» disse il forzato con voce aspra, selvaggia. «Non ce ne sarebbe bisogno. Pare sia arrivato al punto che se anche quel bambino mi sparasse un pisello sul sedere con una cerbottana, il naso mi si metterebbe a sanguinare») – ricordò anche questo, ma non cercò di dirlo. Forse non ci sarebbe riuscito – come due persone che nemmeno si potevano parlare avessero fatto un patto che entrambe non soltanto comprendevano ma che ciascuna sapeva l’altra avrebbe lentamente mantenuto e onorato (forse per questa ragione) meglio che con un contratto scritto e con tanto di testimoni. Essi discussero perfino, in qualche modo, e convennero di cacciare separatamente, ciascuno sulla propria imbarcazione, per raddoppiare le possibilità di trovare preda. Ma fu facile: il forzato poté quasi comprendere le parole con le quali il Cajun disse: «Non hai bisogno di me e del fucile; ti daremmo soltanto noia, saremmo d’impiccio». E più ancora che questo, perfino si misero d’accordo sul secondo fucile: c’era qualcuno, non importa chi – un amico, un vicino, forse qualcuno nello stesso ramo – dal quale avrebbero potuto prendere a prestito un secondo fucile; coi loro due dialetti, l’uno nel suo inglese bastardo, l’altro nel suo bastardo francese – questi loquace, con i suoi vivaci occhi selvaggi e la bocca loquace piena di mozziconi di denti, l’altro serio, quasi arcigno, gonfio in faccia e col dorso nudo pieno di vesciche e d’escoriazioni come carne di bue – ne discussero, accovacciati di qua e di là della pelle inchiodata, come due soci d’una grande impresa a un tavolo di mogano l’uno di faccia all’altro, e decisero di scartare quell’idea, il forzato decise: «Mi sa di no» disse. «Mi sa che se avessi avuto abbastanza cervello da aspettare per cominciare con un fucile, continuerei a quel modo. Ma visto che ho cominciato senza, mi sa che non cambierò». Poiché era una questione di denaro in termini di tempo, di giorni. (Strano a dirsi, questa era l’unica cosa che il Cajun non poteva dirgli: a quanto sarebbe ammontata la sua metà. Ma il forzato sapeva che sarebbe stata la metà). Egli disponeva di così pochi giorni. Avrebbe dovuto proseguire presto, pensando (il forzato), Tutte queste stupidaggini finiranno presto e potrò tornare indietro, e poi improvvisamente si sorprese a pensare, Dovrò tornare indietro, e rimase immobile e guardò il ricco, strano deserto che lo circondava nel quale era temporaneamente sperduto in pace e speranza e nel quale gli ultimi sette anni erano affondati come altrettanti sassolini in uno stagno, senza lasciar traccia, e pensò, calmo, con una specie di perplesso stupore, Già, mi sa che m’ero dimenticato come era bello far soldi. Avere il permesso di farli.
Così non usò fucile, ma la corda a nodo scorsoio e la mazza turingia, e ogni mattina lui e il Cajun prendevano ciascuno la propria strada nelle due imbarcazioni per setacciare furtivi i canali segreti e misteriosi in giro per quella landa deserta, da cui (o fuori della quale) ogni tanto apparivano altri uomini piccoli e scuri che, col loro chiò-chiò, sbucavano improvvisi dal nulla come per magia, in altri tronchi scavati, e che lo seguivano in silenzio, assistendo ai suoi combattimenti corpo a corpo – uomini chiamati Tine o Toto o Thoule, non molto più grossi e notevolmente somiglianti ai topi muschiati che il Cajun (l'ospite faceva anche questo, pensava anche alla cucina, aveva detto anche questo come la faccenda del fucile, nella sua lingua, e il forzato aveva capito anche questo come se fosse stato inglese: «Non preoccuparti per il cibo, o Ercole. Acchiappa gli alligatori, che al mangiare ci penso io») prendeva ogni tanto dalle trappole come, al bisogno, si prende un porcellino dal porcile, variando l'eterno riso e pesce (il forzato lo raccontò, questo: come la sera, nella capanna, dopo aver tappato contro le zanzare la porta e l'unica finestra senza imposte – un atto pro forma, un rito, altrettanto vano quanto l'incrociare le dita, o toccar legno – seduti accanto alla lanterna posata in mezzo a una nube d'insetti svolazzanti sulla tavola grezza, a una temperatura vicina a quella del sangue, egli guardasse i pezzetti di carne che nuotavano nella sua scodella fumante, pensando, Deve essere Thoule. Era quello grasso) – l’uno dopo l’altro, identici e pacati, i giorni passarono, ciascuno uguale al precedente e al seguente, mentre la sua teorica metà di una somma calcolabile in centesimi, dollari, o decine di dollari egli non sapeva, andava crescendo – le mattine quando usciva e trovava ad attenderlo, come il matador è atteso dai suoi aficionados, il solito gruppetto d’immancabili e deferenti piroghe, poi i meriggi roventi quando in mezzo a un semicerchio di piccoli immobili gusci egli combatteva le sue solitarie tenzoni, e le sere, i ritorni, le piroghe che si dileguavano a una a una infilandosi in canaletti e passaggi che nei primi giorni non riusciva nemmeno a distinguere, poi la piattaforma, nel crepuscolo, ove dinanzi alla donna statica e col bambino che poppava in continuazione e l’una o le due pelli sanguinanti della giornata, il Cajun recitava la sua rituale, vittoriosa pantomima dinanzi alle due file di tacche sempre più lunghe fatte col coltello su una tavola della parete; e poi le notti, quando, la donna e il bambino nell’unica cuccetta, e il Cajun che già russava sul giaciglio, accanto alla lanterna puzzolente, lui (il forzato) sedeva sui talloni nudi, grondando sudore, il volto estenuato e calmo, assorto e indomabile, la schiena curva scorticata e selvaggia come un costato di bue sotto le vecchie vesciche suppuranti e i segni feroci delle code, a raschiare e scheggiare quel tronco bruciacchiato ch’era ormai divenuto quasi una pagaia, interrompendosi ogni tanto per alzar la testa intorno alla quale volteggiavano ronzando nugoli di zanzare, e guardar la parete di fronte a sé fino a che, dopo un poco, le tavole grezze finivano per svanire permettendo al suo sguardo vuoto di proseguire incontrastato attraverso la ricca e ignara oscurità, e forse anche oltre, forse anche oltre i sette anni perduti durante i quali, se ne accorgeva appena ora, gli era stato permesso di sgobbare ma non di lavorare. Poi si ritirava, dava un ultimo sguardo all’involto dietro il travicello, spegneva la lanterna e si metteva giù, accanto al suo socio russante, e giaceva sudando (bocconi, poiché sulla schiena non poteva sopportare il minimo contatto) nell’oscurità ronzante e arroventata piena del desolato e selvatico muggito degli alligatori, non pensando, Non mi hanno mai dato tempo d’imparare, ma Avevo dimenticato come è bello lavorare.
Poi, il decimo giorno, accadde. Accadde per la terza volta. A tutta prima si rifiutò di credervi, non che pensasse d’aver ormai terminato il suo tirocinio e saldato i conti con la cattiva sorte, d’aver raggiunto e attraversato, con la nascita del bambino, la cima del suo Golgota, e che una discesa a ruota libera giù per l’altro versante gli venisse non tanto concessa quanto data per scontata. Non pensava affatto questo. Ciò che si rifiutava di accettare era il fatto che una potenza, una forza ch’era stata così perseverante da concentrarsi su di lui con mortale costanza per settimane e settimane con tutta la ricchezza di disastri e di cosmica violenza cui poteva attingere, dovesse essere così povera d’inventiva e d’immaginazione, così mancante di senso artistico e di ingegnosità, da ripetersi per due volte. Una volta l’aveva accettata, due l’aveva perfino perdonata, ma tre volte semplicemente si rifiutava di crederlo, specie poi quando dovette alla fine persuadersi che questa terza volta doveva essere istigata non dalla cieca potenza del volume e del movimento ma dalla direzione e dall’opera umana: che ora il burlone cosmico, visti sventati per due volte i suoi tiri, con vendicativa determinazione si abbassava a impiegare la dinamite.
Non raccontò questo. Senza dubbio non sapeva nemmeno come fosse accaduto, che cosa stesse accadendo. Ma senza dubbio ricordava (però senza parlare, sopra il sigaro grosso e ancora intatto nella mano pulita e ferma) ciò che aveva pensato, che aveva indovinato. Era sera, la nona sera, lui e la donna sedevano ai due lati del posto vuoto del loro ospite, dinanzi al pasto serale, udiva le voci, all’esterno, ma non cessava di mangiare, continuava a masticare senza interruzione poiché sarebbe stato lo stesso anche se le avesse viste – le due o tre o quattro piroghe galleggianti sull’acqua scura sotto la piattaforma sulla quale stava il loro ospite, le incomprensibili voci chioccianti e gracidanti piene non già di spavento né esattamente di rabbia o forse anche nemmeno di sorpresa ma semplicemente d’una sorta di cacofonia, come di uccelli acquatici disturbati, mentre lui non cessava di masticare, limitandosi ad alzare lo sguardo, tranquillamente, e magari senza neanche una grande espressione interrogativa o di sorpresa, quando il Cajun irruppe di nuovo nella capanna restando ritto davanti a loro, la faccia stravolta, gli occhi sbarrati, i denti anneriti aperti sull’orifizio d’inchiostro della bocca spalancata, osservandolo (il forzato) mentre il Cajun eseguiva la violenta pantomima di violenta evacuazione, espulsione, raccogliendo qualcosa di invisibile nelle braccia e scaraventandolo via, facendolo ricadere, e nell’istante in cui completava il gesto si tramutò da provocatore a vittima di ciò che aveva messo in pantomimico moto, afferrando il capo tra le mani e, curvo ma senza muoversi altrimenti, fece la mimica d’esser cacciato innanzi da qualche cosa, gridando: «Bum! Bum! Bum!» con il forzato che lo guardava, aveva smesso di masticare ora, benché solo per un momento, pensando, Cosa? Che cos’è che sta cercando di dirmi? pensando (anche questo in un lampo, giacché non avrebbe potuto esprimerlo, e pertanto non sapeva nemmeno di averlo pensato) che per quanto la sua vita fosse stata scaraventata lì, circoscritta da quell’ambiente, accettata da quell’ambiente e a sua volta accettandolo (e le cose gli si erano messe bene, lì – questo in silenzio, in tutta serietà, se fosse stato capace di metterlo in parole, di pensarlo invece di semplicemente saperlo –, meglio di quanto gli fossero mai andate, lui che finora nemmeno sapeva come potesse esser bello lavorare, far soldi) tuttavia non era la sua vita, egli era ancora e sarebbe sempre rimasto l’insetto d’acqua sulla superficie della palude, le cui insondabili e latenti profondità non avrebbe mai conosciuto perché l’unico, effettivo contatto che con essa aveva erano i momenti in cui, sulle lingue di fango deserte e accecanti sotto il sole spietato e al centro del suo anfiteatro di piroghe immobili inchiodate a guardare, egli accettava il gioco che non si era scelto, entrava nel raggio sferzante della coda armata e percuoteva col randello di legno la testa che si dibatteva e sibilava, oppure, se questo non bastava, con la fragile struttura di carne e di ossa nella quale camminava e viveva abbracciava senza esitazione il corpo corazzato e cercava quella vita furibonda con una lama lunga venticinque centimetri.
Così lui e la donna guardarono il Cajun che metteva in scena l’intera sciarada dell’espulsione – l’ometto asciutto, gesticolante e selvaggio, la sua ombra isterica che balzava e ricadeva sulla grezza parete com’egli procedeva nella sua pantomima di abbandonare la capanna, raccogliendo in pantomima le sue misere cose dagli angoli e dalle pareti – oggetti che nessun altro avrebbe voluto e di cui soltanto qualche potenza o forza come la cieca acqua o il terremoto o il fuoco avrebbe potuto spossessarlo, mentre anche la donna lo guardava, la bocca socchiusa su una massa di cibo masticato, un’espressione di placido stupore sul volto, e diceva: «Cosa? Cosa sta dicendo?».
«Non lo so» disse il forzato. «Ma mi sa che se c’è qualcosa di nuovo verremo a saperlo anche noi quando sarà il momento». Non era allarmato, benché ormai avesse capito abbastanza chiaramente ciò che l’altro voleva significare. Ha intenzione d’andarsene, pensò. E mi sta dicendo d’andarmene anch’io – questo più tardi, dopo che si furono alzati da tavola e la donna e il Cajun erano andati a letto e il Cajun s’era di nuovo alzato dal giaciglio e s’era avvicinato al forzato e una volta ancora aveva ripetuto la pantomima dell’abbandono della capanna, questa volta come uno che ripeta un discorso che possa essere stato frainteso, lentamente, diligentemente ripetitivo, come a un bambino, quasi tenendo il forzato per mano mentre gesticolava, parlava con l’altra, gesticolando come a sillabe staccate, e il forzato (accovacciato, col coltello aperto e la pagaia quasi terminata sulle ginocchia) che lo guardava, annuiva, perfino gli parlava in inglese: «Già, certo. Sicuro. Ho capito», rimettendosi a lavorare alla pagaia ma senza affrettarsi, con fretta non maggiore di qualsiasi altra sera, sereno nella sua fiducia che quando fosse venuto per lui il momento di sapere quello che c’era da sapere, la cosa si sarebbe risolta da sola, avendo già, e senza nemmeno saperlo, anche prima che quella possibilità, quella domanda fosse sorta, rifiutato, declinato di accettare perfino l’idea di andarsene anche lui, pensando alle pelli, pensando, Se soltanto potesse trovare un modo per dirmi dove posso portare la mia parte per venderla, ma pensando questo per un solo istante tra due delicati colpi di lama poiché subito pensò, Mi sa che fino a quando potrò acchiapparne non avrò problemi a trovare chi le compri.
Così il mattino dopo aiutò il Cajun a caricare le sue poche cose – il fucile scassato, un fagotto d’indumenti (di nuovo barattarono, loro che non potevano nemmeno scambiare due parole, questa volta i pochi arnesi di cucina secondo una precisa ripetizione e qualcosa di generico e di astratto che includeva la stufa, la misera cuccetta, la casa o il suo uso – qualcosa – contro una pelle d’alligatore), alcune trappole arrugginite – nella piroga, e poi, accovacciati, come due bambini che si dividano dei bastoncelli, si divisero le pelli, separandole in due mucchi, una a me e una a te, due a me e due a te, e il Cajun caricò la sua parte e scese dalla piattaforma, e di nuovo si fermò, ma questa volta si limitò a posare la pagaia, raccolse qualcosa d’invisibile nelle mani e lo scaraventò violentemente in aria, gridando «Bum? Bum?» con un’inflessione in crescendo, facendo violentemente cenno col capo all’uomo seminudo e spaventosamente scorticato che stava a guardarlo dalla piattaforma con una specie d’accigliata indifferenza e che disse: «Sicuro. Bum. Bum». Poi il Cajun proseguì. Non si voltò indietro. Lo guardarono allontanarsi pagaiando veloce, per lo meno la donna; il forzato s’era già voltato.
«Forse cercava di dirci di andarcene anche noi» disse lei.
«Già» disse il forzato. «È quello che ho pensato ieri sera. Mi dia la pagaia». Lei gliela portò – il tronchetto, quello che era stato a raschiare tutte le sere, non ancora perfettamente finito, anche se sarebbe bastata un’altra sera soltanto (fin allora ne aveva usata una del Cajun, una di ricambio. L’altro gliel’aveva offerta, forse intendendo includerla con la stufa, la cuccetta e l’affitto della capanna, ma il forzato aveva rifiutato. Forse l’aveva calcolata in volume contro altrettanta pelle d’alligatore, questa a sua volta calcolata contro un’altra serata con la lama attenta e lenta), e se ne andò con la sua corda a nodo scorsoio e la mazza, in direzione opposta, come se, non contento del suo rifiuto d’abbandonare quel posto contro il quale l’avevano messo in guardia, dovesse stabilire e affermare l’irrevocabile decisione del suo rifiuto penetrandovi ancor più addentro, più profondamente. E allora, e senza preavviso, la grande, feroce solitudine che dormiva in lui si raccolse e lo colpì.
Non avrebbe potuto raccontarlo, questo, neanche se avesse tentato – quel mattino non ancora alto, con lui che avanzava per la prima volta da solo, senza che nessuna piroga emergesse da nessuna parte per accodarglisi, e del resto non se l’aspettava, sapeva che anche gli altri se n’erano andati; non si trattava di questo, era la sua propria solitudine, la sua desolazione che adesso era soltanto e interamente sua, dacché aveva scelto di rimanere; l’improvviso cessare della pagaia, con la barca che proseguiva ancora per un momento mentre lui pensava, Che cosa? Che cosa? Poi, No. No. No, mentre il silenzio e la solitudine e il vuoto ruggivano sopra di lui con un muggito beffardo: e allora fece dietro front, la barca girò con violenza sul suo calcagnòlo, e lui, il tradito, che remava furiosamente di nuovo verso la piattaforma dove sapeva ch’era già troppo tardi, verso quella cittadella ove l’enigma stesso e la ragione della sua vita – la possibilità di lavorare e di guadagnare, quel diritto e privilegio che credeva d’essersi guadagnato da sé senza l’aiuto di nessuno, senza chieder favori a nessuno e a nulla all’infuori del diritto d’esser lasciato in pace per opporre la sua volontà e la sua forza contro il sauriano protagonista d’una terra, una regione, nella quale egli non aveva chiesto d’esser sbattuto – stava per essere minacciata, mulinando la pagaia fatta a mano con furia violenta, giungendo infine in vista della piattaforma e vedendo la lancia a motore accostata a essa senza alcuna sorpresa, ma anzi con una sorta di piacere come per una visibile giustificazione della sua indignazione e della sua paura, il privilegio di poter dire Te lo avevo detto al suo proprio affronto, continuando ad avanzare in una specie di stato sonnambolico nel quale non gli pareva d’avanzare affatto, nel quale, libero, soffocando, continuò a remare come in sogno con un remo senza peso, con muscoli senza forza né elasticità, in un elemento senza resistenza, come osservando la barca avanzare lentissimamente sull’acqua assolata fino alla piattaforma, mentre un uomo nella lancia (ve n’erano cinque in tutto) gli parlava in quella lingua che udiva ormai da dieci giorni e di cui ancora non conosceva una parola, proprio mentre un secondo uomo, seguito dalla donna col bambino in braccio e vestita di nuovo per partire, con la giacca scolorita e il cappello da sole, usciva dalla casa portando (l’uomo portava diverse altre cose ma il forzato non vide altro) il fagotto avvolto in carta di giornale che il forzato aveva messo dietro il travicello dieci giorni prima e che da allora nessun’altra mano aveva toccato, anch’egli ora sulla piattaforma, in una mano la cima della barca e nell’altra la pagaia a forma di randello, mentre cercava infine di parlare alla donna con una voce sognante, strozzata e incredibilmente calma: «Glielo riprenda e lo riporti in casa».
«Allora parli inglese, eh?» disse l’uomo nella lancia. «Perché non siete andati via anche voi, come vi hanno detto ieri sera?».
«Via?» disse il forzato. Di nuovo guardò, fissò l’uomo nella lancia, cercando ancora di contenere la sua voce. «Non ho tempo per le gite. Ho da fare», già voltandosi di nuovo verso la donna, già aprendo la bocca per ripeterle l’ordine quando, ronzante, come in un sogno, gli giunse la voce dell’uomo, e voltandosi una volta ancora, con terrorizzata e insopportabile esasperazione gridò: «Inondazione? Quale inondazione? Accidenti, ma se mi ha passato due volte, mesi fa! È finita! Quale inondazione?» e allora (non pensò nemmeno questo con parole vere e proprie ma se ne rese conto, subì quel lampo rivelatore della sua natura o del suo destino: di come la sua sorte presente avesse una peculiare caratteristica di ripetizione, di come non soltanto le crisi quasi seminali ricorressero con una certa monotonia, ma le stesse circostanze fisiche seguissero stupidamente un modulo privo di fantasia) l’uomo della lancia disse «Prendetelo» e ancora per qualche minuto riuscì a mantenersi in piedi menando e picchiando con una furia ansante, poi ancora una volta fu supino su dure tavole che non cedevano mentre i quattro uomini gli erano addosso in un’onda impetuosa di dure ossa e bestemmie ansimanti e alla fine il secco, maligno, sottile scatto delle manette.
«Maledizione, sei matto?» disse l’uomo nella lancia. «Non capisci che fanno saltare l’argine a mezzogiorno?... Avanti» disse agli altri. «Portatelo a bordo. Andiamocene di qua».
«Voglio le mie pelli e la mia barca» disse il forzato.
«Al diavolo le tue pelli» disse l’uomo nella lancia. «Se non fanno presto a far saltare quell’argine ne potrai cacciare quanti ne vuoi a Baton Rouge, sulla scalinata del palazzo del governatore. E la barca che ti ci vuole adesso è questa, e puoi ringraziare di starci sopra».
«Non me ne vado senza la mia barca» disse il forzato. Lo disse con calma e con assoluta decisione, così calmo, così deciso, che per quasi un minuto nessuno gli rispose, rimasero a guardarlo in silenzio, lì disteso seminudo, pieno di vesciche e d’escoriazioni, impotente e incatenato mani e piedi, che pronunciava il suo ultimatum con la voce pacata e calma con la quale si può parlare al proprio vicino di letto prima di addormentarsi. Poi l’uomo nella lancia si mosse; sputò tranquillamente oltre il parapetto e con voce calma e pacata come quella del forzato disse:
«Va be’. Portate la sua barca». Aiutarono la donna, che reggeva il bambino e l’involto del forzato, a salire sulla lancia. Poi aiutarono il forzato a rimettersi in piedi e a scendere nella lancia anche lui, le manette ai polsi e la catena alle caviglie che sferragliavano. «Ti lascio libero se prometti di star buono» disse l’uomo. Il forzato neanche rispose.
«Voglio tenere la corda» disse.
«La corda?».
«Sì,» disse il forzato «la corda». Così lo calarono a poppa e gli misero in mano l’estremità della cima dopo averla passata sulla galloccia, e la lancia si mise in moto. Il forzato non guardò indietro. Ma poi non guardava nemmeno avanti, giaceva stravaccato, le gambe incatenate distese, la cima della barca in una delle mani incatenate. La lancia fece altre due fermate; quando la cialda caliginosa del sole intollerabile cominciò a essere ancora una volta a perpendicolo v’erano quindici persone nella lancia; e allora il forzato, stravaccato e immobile, vide la piatta regione color ottone cominciare a sollevarsi e divenire un ammasso nero-verdastro di palude, barbuta e intricata, che a sua volta d’un tratto scomparve e dinanzi a lui s’aprì una distesa d’acqua abbracciata da una linea di spiaggia bluastra e indistinta che riluceva sottile sotto il sole meridiano, più vasta di quante ne avesse mai viste, e il rumore del motore cessò e lo scafo continuò a scivolare dietro l’onda di prua che scemava. «Cosa stai facendo?» disse quello che comandava.
«È mezzogiorno» disse il timoniere. «Pensavo che si potrebbe sentire la dinamite». Così si misero tutti in ascolto, la lancia perse la spinta, rollando leggermente, con le piccole onde lucenti che sbattevano e sussurravano contro lo scafo, ma nessun suono, nemmeno un tremore, pervenne da alcuna parte sotto il cielo ardente e caliginoso; il lungo momento si raccolse e svanì, e mezzogiorno era passato. «Bene» disse il capo. «Andiamo». Il motore ripartì e la lancia riprese velocità. Il capo venne a poppa e si chinò sul forzato con la chiave in mano. «Immagino che starai buono, adesso, ti piaccia o no» disse, togliendogli le manette. «Starai buono?».
«Sì» disse il forzato. Andarono avanti; dopo un poco la riva svanì completamente e si alzò un po’ di maretta. Il forzato era libero, ora, ma restava disteso come prima, la cima della barca avvolta in due o tre giri attorno al polso; voltava la testa ogni tanto per guardare la barca a rimorchio saltare e beccheggiare nella scia della lancia; ogni tanto guardava anche il lago, muovendo soltanto gli occhi, la faccia grave e senza espressione, pensando, Questa è la più grande immensità d’acqua, la più grande immensità di deserto e di desolazione ch’io abbia mai visto; forse no; pensando, tre o quattro ore dopo, quando la riva era di nuovo in vista e si rompeva in una fila d’imbarcazioni a vela e di navi a motore, Queste son più imbarcazioni di quante avessi mai creduto ci fossero, una razza marittima di cui non sapevo l’esistenza, o magari non pensandolo ma semplicemente osservando il fumo basso della città al di là del passaggio arginato del canale navigabile che la lancia imboccava, poi una banchina, la lancia che vi si accostava lenta; una folla silenziosa che guardava con la stessa desolata passività ch’egli aveva già visto e la cui razza riconobbe benché non avesse visto Vicksburg quando vi era passato davanti – il marchio profondo e inconfondibile di chi è stato privato con violenza della casa, e lui più di ogni altro, lui che non avrebbe permesso a nessuno di chiamarlo uno di loro.
«Bene» gli disse il capo. «Eccoti qui».
«La barca» disse il forzato.
«Te la sei portata. Che cosa vuoi che faccia, adesso, che ti dia una ricevuta?».
«No» disse il forzato. «Voglio solo la barca».
«Prenditela. Soltanto che ti ci vorrebbe una cinghia o qualcosa del genere per portartela dentro». («Portartela dentro?» disse il forzato paffuto. «Portarla dove? Dove avresti dovuto portartela?»).
Lui (quello alto) lo raccontò: come lui e la donna fossero sbarcati e come uno degli uomini l’avesse aiutato a tirar la barca fuori dell’acqua e come fosse rimasto lì con la cima avvolta attorno al polso mentre l’uomo si agitava e si dava da fare, dicendo: «Avanti. Prossimo carico! Prossimo carico!», e come avesse parlato a quest’uomo della barca e l’uomo avesse gridato: «Barca? Barca?» e come lui (il forzato) fosse andato con loro mentre la trasportavano, collocandola, ormeggiandola, insieme con le altre e come avesse preso quali punti di riferimento un’insegna della Coca-cola e l’arco di un ponte levatoio in modo da poterla ritrovare presto quando fosse tornato, e poi come lui e la donna (lui col fagotto avvolto nel giornale sotto il braccio) fossero stati caricati insieme con molti altri su un camion e dopo un po’ il camion avesse cominciato a correre in mezzo al traffico, per strade strette, poi c’era un grande edificio, un’armeria...
«Armeria?» disse quello paffuto. «Vuoi dire una prigione».
«No. Era una specie di magazzino, con gente con fagotti stesa sul pavimento». E come lui avesse pensato che poteva esserci anche il suo socio e come avesse guardato qua e là cercando il Cajun mentre aspettava un’occasione di tornare sulla porta, dove stava la sentinella, e come ci fosse tornato, alla fine, con la donna dietro, e la sentinella gli avesse puntato il fucile contro il petto.
«Ehi, ehi» disse il soldato. «Indietro. Fra un momento vi daranno dei vestiti. Non potete andare in giro per le strade in questo modo. E anche qualcosa da mangiare. Può darsi che per allora i vostri parenti saranno venuti a cercarvi». E lui raccontò anche come la donna avesse detto:
«Magari se gli dice che ha dei parenti qui in città ci lascia uscire». E perché lui non l’avesse detto: non avrebbe potuto esprimere nemmeno questo, troppo profondo, troppo complicato; non l’aveva mai nemmeno dovuto pensare in parole per tutte le lunghe generazioni di se stesso – il suo serio, geloso rispetto di campagnolo non per la verità ma per la potenza, la forza, della menzogna – non per essere avaro con la menzogna ma piuttosto per usarla con rispetto e perfino con cura, delicata rapida e decisa, come una lama sottile e fatale. E come gli avessero portato degli indumenti – un maglione blu e una tuta, e poi anche cibo (una donna giovane, attiva e inamidata, che diceva: «Ma il bambino ha bisogno d’essere lavato, pulito. Morirà, se no», e la donna che diceva: «Sissignora. Si lamenta un po’, non gli ho mai fatto il bagno. Ma è un buon bambino») e adesso era notte, le lampadine non schermate crude e feroci e desolate sopra la gente che russava, e lui che si alzava e scuoteva la donna per svegliarla, e poi la finestra. Raccontò: v’era una quantità di porte che mettevano lui non sapeva dove, ma dovette faticare un bel po’ prima di trovare una finestra da poter usare ma infine la trovò, e la scavalcò per primo portando l’involto e il bambino – «Avresti dovuto tagliare a strisce un lenzuolo e calarti giù con quello» disse il forzato paffuto, ma non ebbe bisogno di nessun lenzuolo, v’erano ciottoli sotto i suoi piedi, ora, nella ricca oscurità. V’era anche la città ma lui non l’aveva mai vista né la vide ora – il basso bagliore costante; c’era stato anche Bienville, era stata l’invenzione d’un effeminato che si chiamava egli pure Napoleone ma niente più, Andrew Jackson l’aveva trovata a un passo da Pennsylvania Avenue. Ma il forzato la trovò assai più lontano di un passo nel tornare indietro al canale d’approdo e alla barca, l’insegna della Coca-cola spenta, ora, e il ponte levatoio che s’inarcava come un ragno contro l’albeggiante cielo color giunchiglia: né egli raccontò, come non aveva raccontato dell’argine alto venti metri, come aveva rimesso in acqua la barca. Il lago se l’era lasciato dietro; c’era un’unica direzione da prendere. Quando rivide il Fiume lo riconobbe subito. Non avrebbe potuto esser diversamente; era ormai parte inestirpabile del suo passato, della sua vita: sarebbe stato parte di ciò che avrebbe trasmesso ai suoi discendenti, se questo fosse stato il suo destino. Ma ora, quattro settimane dopo, non poteva non apparire diverso da allora, e infatti: lui (il Vecchio) s’era rimesso dalla sua orgia, era tornato nel suo letto, il Vecchio, e scorreva placidamente verso il mare, scuro e ricco come cioccolato tra argini la cui faccia interna s’era raggrinzita come in un agghiacciato e atterrito stupore, coronati dal ricco verde estivo dei salici; al di là di essi, venti metri più in basso, muli ben strigliati tesi contro la larga resistenza degli aratri assolcatori in quel suolo arricchito che non avrebbe avuto bisogno di essere seminato, cui sarebbe bastato mostrare un seme di cotone perché germogliasse e desse frutto; in luglio vi sarebbero state le lunghe simmetriche miglia di robusti steli, in agosto di fiori rossi, in settembre i neri campi innevati, traboccanti, tra filare e filare la terra resa liscia dai sacchi trascinati, le lunghe, elastiche mani nere che coglievano, l’aria ardente piena del ronzio delle macchine sgranatrici, l’aria di settembre, allora, ma ora l’aria di giugno greve di locuste e (le città) dell’odore della vernice fresca e dell’odore acido della colla per le carte da parati – le città, i villaggi, i piccoli imbarcaderi di legno su palafitte sperduti sulla faccia interna dell’argine, i pianterreni sgargianti e puzzolenti sotto la nuova vernice e la nuova carta e perfino il segno dell’acqua furibonda di maggio su pali, pilastri, e alberi scoloriva sotto ogni brillante, argentea raffica della pioggia estiva scrosciante e incostante; v’era un negozio sull’orlo dell’argine, qualche mulo sellato e con la briglia di corda nella polvere sonnolenta, qualche cane, un gruppetto di negri seduti sui gradini sotto i manifesti del tabacco da masticare e la medicina per la malaria, e tre bianchi, uno dei quali un vicesceriffo a caccia di voti per battere il suo superiore (che gli aveva dato il posto che aveva) alle primarie di agosto, tutti quanti che s’interruppero per guardare la barca emergere dall’abbagliante acqua pomeridiana, avvicinarsi e approdare, una donna con un bambino uscirne fuori, e poi un uomo, un uomo alto che, avvicinandosi, risultò esser vestito con una tenuta da forzato scolorita ma lavata da poco e perfettamente pulita, e che si fermò nella polvere ove i muli sonnecchiavano e guardò con pallidi, freddi occhi privi di ironia il vicesceriffo mentre faceva quel gesto verso l’ascella che tutti i presenti capivano a lungo avrebbe dovuto esibire una pistola in un movimento fulmineo, mentre ancora non ne veniva nulla. Tuttavia, ciò dovette evidentemente bastare per il nuovo venuto.
«È un poliziotto, lei?» disse.
«Ci puoi giurare!» disse il vice. «Lasciami solo tirar fuori questa dannata pistola...».
«Bene» disse l’altro. «Lì c’è la vostra barca, e qui c’è la donna. Ma quel bastardo sopra la casa colonica non son riuscito a trovarlo».
9. I Cajun sono i discendenti dei cattolici francesi fuggiti in Louisiana dalla provincia canadese dell’Acadia alla fine del Settecento [N.d.C.].