PALME SELVAGGE
La seconda mattina, nell’albergo di Chicago, Wilbourne si svegliò e trovò che Charlotte s’era vestita ed era uscita, cappello, soprabito e borsa, lasciandogli un biglietto in una calligrafia grande e larga, inesperta, di quelle che a tutta prima fanno pensare a un uomo ma un istante più tardi ci si accorge di quanto siano profondamente femminili: Torno a mezzogiorno, C., poi, sotto l’iniziale: O forse più tardi. Tornò prima di mezzogiorno, egli s’era riaddormentato; sedette sulla sponda del letto e gli mise la mano sui capelli rovesciandogli la testa sul guanciale per svegliarlo, ancora col soprabito slacciato e il cappello buttato all’indietro, guardandolo con quella sua seria, gialla profondità, e stavolta egli rifletté davvero sull’efficienza delle donne nella tecnica della coabitazione, del metter su casa. Non economia o organizzazione, qualcosa di molto superiore, che esse (tutta la loro razza) impiegano con infallibile istinto creando un rapporto non premeditato tra il tipo, la natura del compagno maschio e la situazione – tanto la fredda parsimonia della proverbiale massaia rurale del Vermont quanto la fantastica prodigalità dell’amante da rivista di Broadway, assolutamente senza riguardo per l'intrinseco valore del mezzo ch'esse risparmiano o scialacquano e con un po' più di riguardo o afflizione per i gingilli che acquistano o di cui mancano, usando sia la presenza sia l'assenza del gioiello o del conto corrente come una pedina in una partita di scacchi la cui posta non è affatto la sicurezza ma la rispettabilità nell'ambiente in cui vivono, perfino il nido d'amore sotto il rosaio, per seguire una regola e un modello; egli pensò, Non è l'idea romantica dell’amore illecito che le attira, non l'idea appassionata di due dannati e condannati e isolati per sempre contro il mondo e contro Dio e l’irrevocabile che attira gli uomini; è perché l’idea dell’amore illecito è per esse una provocazione, perché hanno un irresistibile desiderio (e una convinzione incrollabile come quella che han tutte di saper gestire con successo una pensione) di prendere l’amore illecito e renderlo rispettabile, prendere Lotario stesso e spuntargli proprio quei riccioli da scapolo impenitente che le hanno attirate nel conveniente decoro delle minestre riscaldate e dei treni suburbani. «L’ho trovato» disse lei.
«Trovato che cosa?».
«Un appartamento. Uno studio. Dove potrò lavorare anch’io».
«Anche tu?». Lei di nuovo gli scosse la testa con quella sua accanita spensieratezza e gli fece anche un po’ male; di nuovo egli pensò, V’è una parte di lei che non ama nulla e nessuno; e poi, un lampo profondo e silenzioso – un candido bagliore –, logica, istinto, egli non seppe dire: È perché è sola. Non solitaria, sola. Aveva un padre e poi quattro fratelli esattamente come lui e poi ha sposato un uomo esattamente come i quattro fratelli, e così probabilmente non ha mai avuto una stanza per sé in tutta la vita e perciò ha dovuto vivere tutta la vita in completa solitudine e nemmeno lo sa, come un bambino che non ha mai assaggiato una torta non sa che cosa sia una torta.
«Sì, anch’io. Credi che milleduecento dollari possano durare per sempre? Si vive nel peccato; non si può vivere del peccato».
«Lo so. Ci ho pensato quella sera, prima ancora di telefonarti che avevo i milleduecento dollari. Ma questa è la nostra luna di miele; più tardi sarà...».
«So anche questo». Lo prese di nuovo per i capelli, facendogli di nuovo male benché egli ora sapesse ch’ella sapeva di fargli male. «Senti: dovrà essere tutta luna di miele, sempre. Sempre e sempre, finché uno di noi non muore. Non può essere altrimenti. O paradiso o inferno: nessun comodo, sicuro, pacifico purgatorio per te e me in attesa che giungano la buona condotta o la sopportazione o la vergogna o il pentimento».
«Così, non è in me che tu credi, non è in me che hai fiducia; è nell’amore». Lei lo guardò. «E questo vale per qualsiasi uomo».
«Sì. Nell’amore. Dicono che l’amore tra due persone muoia. È sbagliato. Non muore. Ti lascia, se ne va, se tu non sei bravo abbastanza, se non vali abbastanza. Non muore; sei tu quello che muore. È come l’oceano: se non vai bene, se cominci a dar cattivo odore, ti rigurgita in qualche posto a morire. Muori in ogni caso, ma io preferisco annegare nell’oceano piuttosto che esser gettata su una striscia di spiaggia morta e seccarmi al sole e ridurmi a una chiazza schifosa senza neanche il nome sopra, solo Questa roba fu come epitaffio. Alzati. Ho detto a quel tale che saremmo entrati oggi».
Prima di un’ora lasciarono l’albergo con le valigie, in tassì; salirono tre rampe di scale. Lei aveva anche la chiave; aprì la porta e lo fece passare; egli sapeva che stava guardando lui, non la stanza. «Ebbene? Ti piace? ».
Era una grande stanza oblunga con un lucernario sulla parete esposta a nord, probabilmente opera di qualche fotografo morto o fallito o forse di qualche scultore o pittore che l’aveva avuta in affitto, con due rientranze che fungevano da cucina e da bagno. Lei ha affittato il lucernario, si disse calmo, pensando che di regola le donne affittano prevalentemente le stanze da bagno. È solo per caso che vi è un posto per dormire e uno per cucinare. Ha scelto un posto non per contenere noi ma per contenere l’amore; non è corsa semplicemente da un uomo a un altro, non ha inteso semplicemente barattare con un altro un pezzo di creta col quale aveva fatto un busto... Si mosse, ora, e poi pensò, Forse io non l’abbraccio ma mi attacco a lei perché qualcosa in me non vuol ammettere di non saper nuotare o non può credere di poterlo fare. «Va benissimo» disse. «È molto bello. Adesso siamo a posto».
Nei sei giorni che seguirono fece il giro degli ospedali, dove ebbe colloqui con direttori e primari. Erano colloqui brevi. Non si mostrò esigente, e poi aveva qualcosa da offrire: la sua laurea ottenuta in una buona facoltà di medicina, i suoi venti mesi d’internato in un ospedale conosciuto – e tuttavia dopo i primi tre o quattro minuti avveniva sempre qualche cosa. Lui lo sapeva che cos’era, benché a se stesso dicesse diversamente (seduto, dopo il quinto colloquio, su una panchina assolata in un giardino pubblico fra sfaccendati, giardinieri della W.P.A.,3 bambinaie e bambini): È perché non me la prendo veramente a cuore, non mi rendo conto realmente della necessità di cercare perché ho accettato completamente le sue idee sull’amore; guardo all’amore con una fede sconfinata ch'esso mi darà da mangiare e da vestirmi, come il contadino del Mississippi o della Louisiana, convertito al raduno religioso della settimana scorsa, guarda alla religione, sapendo che non era quella la ragione, la ragione vera erano i venti mesi d’internato invece di ventiquattro, pensando, I numeri sono la mia maledizione, pensando come evidentemente sia più decoroso morire in odore di santità che esser salvato dalla convenzionalità da un’apostata.
Alla fine trovò un posto. Non era gran che; era un lavoro di laboratorio in un ospedale di beneficenza nel quartiere negro, dove venivano portate, solitamente dalla polizia, le vittime dell’alcol o i feriti di pistola o di coltello, e il suo compito giornaliero era di far esami per la sifilide. «Non occorre microscopio né reazione Wassermann» le disse quella sera. «Basta aver abbastanza luce per vedere di che razza sono». Lei aveva sistemato due tavole sotto il lucernario e lo chiamava il suo banco da lavoro, e lì da qualche tempo si dava da fare attorno a un blocco di gesso acquistato all’emporio, ma egli non aveva prestato molta attenzione a quello che faceva. Ora era china su questo tavolo con un pezzo di carta e una matita, e lui osservava quella mano morbida tracciare le grandi cifre rapide e larghe.
«Questo è quanto guadagnerai al mese» disse lei. «E questo è quanto ci costa vivere al mese. E la differenza dobbiamo tirarla fuori da qui». Le cifre erano fredde, incontrovertibili, gli stessi segni della matita avevano un aspetto sdegnoso e inespugnabile; inoltre, ora lei non soltanto volle che mandasse di nuovo alla sorella le rimesse settimanali, ma anche la somma equivalente alla spesa delle colazioni e della fallita gita all’albergo durante le sei settimane a New Orleans. Poi segnò una data accanto all’ultima cifra; sarebbe stato agli inizi di settembre. «Per quel giorno non ci sarà rimasto un soldo».
Allora egli ripeté qualcosa che aveva pensato quella mattina mentre sedeva sulla panchina del parco: «Andrà tutto bene. Devo semplicemente abituarmi all’amore. Prima non l’avevo mai provato; vedi, io sono indietro per lo meno di dieci anni. Vado ancora a ruota libera. Ma presto riprenderò a pedalare».
«Già» disse lei. Poi fece una pallottola del foglio e lo gettò da una parte, voltandosi. «Ma tutto questo non è importante. Si tratta soltanto di mangiare hamburger invece di bistecche. E la fame non sta qui...» e si colpì il ventre col palmo della mano. «Qui soltanto le budella brontolano. La fame sta qui» e si toccò il petto. «Non dimenticarlo mai».
«Non lo dimenticherò».
«Ma potresti. Hai sofferto la fame giù nelle budella, e così ora ne hai paura. Perché si ha sempre un po’ di paura di ciò che si è sopportato. Se tu fossi già stato innamorato, non saresti salito su quel treno, quel pomeriggio. Ci saresti salito?».
«Sì» disse lui. «Sì. Sì».
«Così è qualcosa di più che allenare il cervello a ricordare che la fame non sta nel ventre. Il tuo ventre, le budella, devono abituarsi a crederlo. Lo credono, le tue?».
«Sì» disse lui. Soltanto che non ne è poi tanto sicura, di questo, si disse, poiché tre giorni dopo, tornato dall’ospedale, trovò il banco da lavoro tutto disseminato di pezzetti di fil di ferro attorcigliati, boccette di lacca e di gomma, fibre di legno, qualche tubetto di vernice, e una padella in cui era messa a bagno una massa di carta velina che due pomeriggi dopo era divenuta una collezione di figurine: cervi, cani lupo, cavalli, uomini e donne, sottili, asessuati e bizzarri, con un che di fantastico e perverso; il pomeriggio seguente, al suo rientro, lei e le figurine erano sparite. Tornò un’ora dopo, gli occhi gialli come quelli di un gatto nel buio, non trionfo o esultanza ma piuttosto una feroce affermazione, e con un fiammante biglietto da dieci dollari.
«Li ha presi tutti» disse, nominando un importante grande magazzino. «E poi mi ha fatto allestire una vetrina. Ho un’ordinazione per altri cento dollari... figure storiche di Chicago e di questa zona del West, sai... la signora O’Leary con la faccia di Nerone, e la vacca che suona l’ukulele, Kit Carson con gambe da Nijinskij e senza faccia, solo due occhi ombreggiati da un’enorme fronte, bufale con la testa e i fianchi di cavalle arabe. E poi ci sono tutti gli altri negozi sulla Michigan Avenue. Ecco. Prendi».
Egli rifiutò. «Sono tuoi. Li hai guadagnati tu». Lei lo guardò – il fisso sguardo giallo nel quale egli sembrava dibattersi maldestro come una farfalla notturna, un coniglio colto nel raggio d’una torcia elettrica; un avviluppamento quasi come un liquido, un precipitato chimico nel quale tutte le scorie della piccola dissimulazione e del sentimentalismo si dissolvevano. «Io non...».
«Non ti piace l’idea che la tua donna ti aiuti a vivere, eh? Senti. Non ti piace quello che abbiamo conquistato?».
«Lo sai bene».
«E allora che cosa importa quello che ci costa, che cosa importa quanto dobbiamo pagare? O come? Non l’hai forse rubato, tu, il denaro che abbiamo ora? e non lo faresti di nuovo? Non ne varrebbe la pena anche se tutto dovesse andar all’aria domani e dovessimo passare tutto il resto della vita a pagarne gli interessi?».
«Sì. Solo che nulla andrà all’aria domani. E neanche il mese prossimo, e neanche l’anno prossimo...».
«No. Non finché ne saremo degni. Non finché saremo bravi abbastanza. Forti abbastanza. Degni della concessione di tenercelo. Finché sapremo conquistarci quel che vogliamo quanto più decentemente possibile, e tenercelo. Perciò prendi. Prendi». Gli si avvicinò, lo circondò con le braccia sbattendo duramente il corpo contro quello di lui, non in una carezza ma esattamente come quando l’aveva afferrato per i capelli per svegliarlo dal sonno. «Ecco quello che voglio fare. Quello che cercherò di fare. Mi piace fare all’amore e far cose con le mani. Non credo sia troppo da chiedere, da voler avere e tenere».
Guadagnò quei cento dollari, lavorando di notte, ora, dopo che lui era andato a letto, e a volte dopo che s’era addormentato; nelle seguenti cinque settimane guadagnò altri ventotto dollari, poi eseguì un’ordinazione per cinquanta dollari. Poi le ordinazioni cessarono e non riuscì a procurarsene altre. Ciononostante continuò a lavorare, sempre di notte ora poiché tutto il giorno andava in giro coi suoi campioni, e lavorava generalmente con un pubblico, poiché ora l’appartamento era diventato una specie di circolo serale. Era cominciato con un giornalista di nome McCord che aveva lavorato in un giornale di New Orleans nel breve periodo in cui vi bazzicava il fratello più giovane di Charlotte (in maniera dilettantesca e goliardica, aveva arguito Wilbourne). Charlotte l’aveva incontrato per strada; venne a cena una sera e un’altra sera portò loro fuori a cena; tre sere più tardi comparve con tre uomini e due donne e quattro bottiglie di whiskey, e dopo d’allora Wilbourne, tornando a casa, non sapeva mai chi ci avrebbe trovato, sapeva soltanto che Charlotte non sarebbe stata sola e che, chiunque ci fosse stato, non sarebbe rimasta in ozio, lei che anche dopo, quando la stagione morta per le vendite si protraeva ormai da settimane e poi da un mese e ormai si era già quasi in estate, continuava a lavorare, con un camicione da pochi soldi già sporco come quello di un imbianchino, e un bicchiere di whiskey con acqua posato in mezzo alle spirali di fil di ferro e alle boccette di gomma e al gesso che si trasformavano continuamente e indefinitamente sotto le sue abili, instancabili mani in quelle effigi eleganti, bizzarre, fantastiche e perverse.
Poi fece un’ultima vendita, piccola, e fu finito. Cessò bruscamente e inspiegabilmente com’era cominciato. S’era in estate, ormai, le avevano detto nei negozi, e i cittadini e i turisti lasciavano la città per fuggire il caldo. «Tranne che è tutta una bugia. La verità è che il mercato è saturo» disse a lui, a tutti: era sera, era tornata tardi, con la scatola di cartone contenente le figurine che erano state rifiutate, e la serale accolita di visitatori era già arrivata. «Ma me lo aspettavo. Perché queste son solo un divertimento». Aveva tolto le figure dalla scatola e le aveva nuovamente disposte sopra il banco da lavoro. «Qualcosa destinato a vivere soltanto nel buio pesto e senz’aria, come la volta d’una banca o magari una palude miasmatica, non nell’aria ricca, normale, nutriente, esalata dalle budella piene di legumi di Oak Park o di Evanston. Ecco tutto. E adesso non sono più un’artista e sono stanca e ho fame e ho voglia di rincantucciarmi con un buon libro e una crosta di pane. Così, venite tutti qua a scegliervene una per ricordo e poi toglietevi dai piedi».
«Una crosta da mangiare ce l’abbiamo ancora» egli le disse. E d’altronde non s’è ancora data per vinta, pensò, non ha ancora rinunziato. Mai rinunzierà. Pensando, come aveva già pensato altre volte, che v’era una parte di lei che né lui né Rittenmeyer avevano mai toccato, e che non amava nemmeno l'amore. Meno d'un mese dopo egli credette d'averne la prova; rincasò e la trovò di nuovo al banco da lavoro, in preda a una profonda eccitazione che non le aveva mai vista – un'eccitazione senza esultanza, ma fu con una specie di feroce e irresistibile slancio ch'ella gli parlò della cosa. Era uno dei tali che aveva portato McCord, un fotografo. Lei doveva fare burattini, marionette, e lui li avrebbe fotografati per le copertine delle riviste e per le illustrazioni pubblicitarie; magari in seguito avrebbero potuto usare le marionette per sciarade, quadri plastici – in qualche sala d'affitto, una stalla, un posto qualsiasi. «Lo faccio coi soldi miei» gli disse. «I centoventicinque dollari che non sono mai riuscita a farti accettare».
Lavorò con una furia tesa e concentrata. Quando lui si coricava ella era al banco da lavoro. Si svegliava alle due o alle tre di notte e trovava che la violenta luce sopra il banco era ancora accesa. Ora egli tornava (dapprima dall’ospedale, poi dalla panchina del parco dove passava le sue giornate dopo che aveva perduto il posto, uscendo e rientrando alle ore solite in modo che lei non potesse sospettare) e vedeva le nuove figure, grandi quasi come bambini: un Don Chisciotte con una sgangherata faccia macilenta, stramba, sognante, un Falstaff con la faccia logora d’un barbiere sifilitico e il corpo gonfio e pletorico (un’unica figura e tuttavia, guardandola, gli sembrava di vederne due, l’uomo e il grosso corpo, come un enorme orso e il suo fragile guardiano tubercolotico; gli sembrava di vedere realmente l’uomo lottare con la sua montagna di visceri come il guardiano può lottare con l’orso, non per sopraffarlo ma per sfuggirgli, come si fa con le belve ataviche degl’incubi), Rossana col tirabaci e la gomma da masticare come la dimostratrice delle partiture all’emporio, Cirano con la faccia d’un ebreo da vaudeville, la svasatura delle mostruose narici che terminava appena prima di diventare un bulbo, un pezzo di formaggio in una mano e nell’altra un libretto di assegni; ammonticchiati per casa, riempiendo con incredibile rapidità tutti gli spazi disponibili del pavimento e delle pareti, fragili, perversi e conturbanti, iniziati proseguiti e completati in un unico continuato slancio di furibonda operosità – uno spazio di tempo non spezzato in giorni e notti successivi, ma un unico intervallo interrotto soltanto dal mangiare e dal dormire.
Poi terminò l’ultimo, e adesso era fuori per tutto il giorno e metà della notte; lui rincasava nel pomeriggio e trovava un messaggio scarabocchiato su un pezzo di carta o sul margine d’un giornale o magari dell’elenco telefonico: Non mi aspettare. Va’ a mangiar fuori, il che lui faceva, e poi tornava a casa e andava a letto e talvolta s’addormentava, finché lei scivolava nuda (non aveva mai indossato camicia da notte, gli aveva detto di non averne mai posseduta una) nel letto, e lo svegliava, l’induceva ad ascoltarla con un gesto duro e perentorio, tenendolo nelle sue forti braccia mentre parlava con una voce tetra, sommessa e rapida, non del denaro o della sua mancanza, non dei progressi compiuti in quel giorno circa la faccenda delle fotografie, ma della loro vita presente, della loro presente situazione come se ciò fosse un tutto inscindibile, senza passato o senza futuro, del quale essi stessi come individui, il bisogno di denaro, le figure ch’ella aveva fatto fossero componenti come le parti d’un quadro e i pezzi d’un puzzle, uno non più importante dell’altro; giacendo nel buio, immobile e rilassato tra le braccia di lei che nemmeno si curava di accertarsi se teneva gli occhi aperti o chiusi, a lui pareva di vedere la loro vita congiunta come un fragile globo, una bolla ch’ella reggesse in equilibrio e intatta sopra il disastro come una foca ammaestrata regge la sua palla. Lei sta ancora peggio di me, pensava. Non sa nemmeno che cosa sia sperare.
Poi anche l’affare delle marionette finì, subitamente e completamente, com’era finito l’allestimento delle vetrine. Egli tornò una sera e la trovò in casa che leggeva. Il sudicio camicione nel quale era vissuta per settimane (s’era ormai in agosto) sparito, e poi vide che il banco da lavoro non soltanto era stato sgombrato della sua confusione di fili di ferro e di vernici ma era stato trascinato in mezzo alla stanza ed era diventato una tavola coperta con una striscia di chintz, e sopra vi erano ammonticchiati i libri e le riviste che prima erano posati sul pavimento e sulle sedie che non s’usavano, e, più sorprendente di tutto, un vaso con dei fiori dentro. «Ho comprato qualcosa» disse lei. «Stasera mangiamo in casa, per cambiare».
Aveva comprato delle costolette e roba del genere, preparò la cena in un curioso, frivolo grembiulino nuovo, troppo simile al chintz della tavola; egli pensò come l’insuccesso, reagendo in lei come in un uomo, investendola d’una sorta di dignitosa umiltà, le avesse tuttavia messo in evidenza una qualità ch’egli non le aveva mai notata, una qualità non soltanto femminile ma profondamente femminile. Mangiarono, poi lei sparecchiò. Si offerse d’aiutarla ma lei rifiutò, perciò sedette accanto alla lampada con un libro, la udì aggirarsi in cucina per un poco, poi ricomparve ed entrò nella stanza da letto. Non la udì affatto quando ne riuscì poiché i suoi piedi scalzi non fecero alcun rumore sul pavimento; alzò semplicemente lo sguardo e se la vide accanto – la compatta, semplice nitidezza delle linee del suo corpo, il serio, intento sguardo giallo. Gli prese il libro e lo depose sulla tavola trasformata. «Spogliati» disse. «Al diavolo tutto quanto. Posso ancora far l’amore».
Ma per altre due settimane lui non le disse niente dell’impiego. Non era più per la preoccupazione che la notizia potesse distruggere la concentrazione di lei, perché questo non era più un motivo valido, se mai lo era stato, e non era per la possibilità di trovare qualche altra cosa prima che lei fosse venuta a saperlo, poiché ormai neanche questo era più valido, dopo tutti i tentativi infruttuosi che aveva fatto, né era la fatalistica fede di un Micawber nel domani; in parte era forse la consapevolezza che, per quanto tardi, lei l’avrebbe saputo sempre troppo presto, ma più che altro (egli non cercava d’ingannare se stesso) era una profonda fede in lei. Non in loro, in lei. Dio non la lascerà morire di fame, pensava. Vale troppo. Egli si è comportato troppo bene, con lei. Anche colui che ha creato tutte le cose può prenderne qualcuna in simpatia tanto da volerla tenere. Perciò tutti i giorni continuava a uscire di casa alla solita ora e andava a sedersi sulla panchina nel parco fino all’ora di rincasare. E una volta al giorno tirava fuori il portafogli e da questo il pezzo di carta sul quale teneva nota del denaro che andava assottigliandosi, come se s’aspettasse ogni volta di trovare che la somma era cambiata o che il giorno prima l’aveva letta male, e ogni volta vedendo che non era così; le nitide cifre, i $ 182,00 meno $ 5,00 e $ 10,00, con la data di ciascuna sottrazione fino al giorno in cui non sarebbe rimasto abbastanza per pagare l’affitto al primo di settembre. E poi talvolta estraeva l’altro pezzo di carta, il roseo assegno a vista con la sua dicitura perforata Fino a trecento dollari. V’era un qualcosa di rituale in questo, come l’oppiomane procede al cerimoniale della pipa da oppio, e allora, per un poco, come il fumatore d’oppio, egli rinunciava completamente alla realtà immaginando un centinaio di modi di spendere quel denaro, scomponendo la somma in tanti pezzi corrispondenti ad altrettanti acquisti, come un puzzle, sapendo che questa era una forma di masturbazione (pensando, È perché sono ancora, e probabilmente sarò sempre, nella pubertà del denaro), ché se fosse stato realmente possibile incassare quell’assegno e disporre del denaro egli non avrebbe nemmeno osato baloccarsi con quell’idea.
Poi un pomeriggio tornò a casa e la trovò di nuovo al banco di lavoro. Era ancora tavolo, ancora al centro della stanza; ella aveva semplicemente rovesciato il chintz e spinto da una parte i libri e le riviste, e indossava il grembiulino, non il camicione, e stava lavorando con una sorta di pigro intontimento, come chi ammazzi il tempo con un mazzo di carte. La figura era alta meno di dieci centimetri: un antico ometto informe, con una sciocca faccia scombinata, la faccia d’un clown imbecille e innocuo. «È un Cattivo Odore» disse lei. Allora egli capì. «Ecco che cos’è tutto questo, null’altro che un cattivo odore. Non un lupo alla porta. I lupi sono Cose. Scaltri e spietati. Forti, anche se codardi. Ma questo è semplicemente un cattivo odore, poiché la fame non sta qui...» e di nuovo si colpì il ventre col dorso della mano. «La fame sta quassù. È un’altra cosa. Somiglia a un razzo, a una candela romana, o per lo meno a uno di quei bengala da bambini che sprizzano via in scintille ardenti e che non hanno paura di morire. Ma questo...». Alzò gli occhi e lo guardò. E allora lui seppe che era venuto il momento. «Quanto denaro abbiamo?».
«Centoquarantotto dollari. Ma va tutto bene, io...».
«Oh, hai già pagato la pigione per il mese prossimo?». E allora lui seppe ch’era giunto il momento, era durato fin troppo, ormai. Il mio guaio è che ogni volta che dico sia la verità sia una bugia mi sembra di dover prima persuadere me stesso. «Guardami. Vuoi dire che da due mesi non vai all’ospedale?».
«È stato il detective. Tu avevi da fare, allora; è stato il mese in cui hai dimenticato di scrivere a New Orleans. Non è che lui abbia cercato di danneg... di farmi licenziare. È semplicemente che non aveva avuto tue notizie ed era preoccupato. Voleva cercar di sapere se tu stavi bene. Non è stato lui, è stato il detective che ha spifferato ogni cosa. Perciò mi hanno mandato via. È buffo. Mi hanno mandato via per turpitudine morale da un posto che esiste proprio a causa della turpitudine morale. In realtà non è andata proprio così, naturalmente. Me ne sono andato io non appena ho saputo che mi avrebbero...».
«Bene» disse lei. «E non abbiamo niente da bere, in casa. Scendi al negozio a prendere una bottiglia, mentre io... No, aspetta. Andiamo fuori a mangiare e a bere. E poi dobbiamo cercare un cane».
«Un cane?». Da dove si trovava la vide, in cucina, tirar fuori dalla ghiacciaia le due costolette che aveva comprate per cena, e rincartarle.
«Ma certo, amico» disse lei. «Piglia il cappello».
Era sera, il torrido agosto, il neon lampeggiava illuminando d’una luce alternativamente cadaverica e infernale le facce dei passanti e le loro mentre camminavano, lei ancora con le due costolette avvolte nella spessa carta del macellaio, unta e appiccicosa. Dopo un isolato incontrarono McCord. «Abbiamo perduto il posto» gli disse lei. «Così adesso cerchiamo un cane».
Dopo un poco a Wilbourne cominciò a sembrare che il cane invisibile fosse effettivamente tra loro. Erano in un bar, adesso, uno di quelli che frequentavano abitualmente incontrandovi magari due volte la settimana, per caso o per preventivo accordo, il gruppo di amici che McCord aveva introdotti nella loro vita. V’erano quattro di costoro («Abbiamo perduto il posto,» aveva detto loro McCord «e adesso stiamo aspettando un cane»), e tutt’e sette si erano seduti a un tavolo apparecchiato per otto, una sedia vuota, un vuoto intervallo, le due costolette ora svolte su un piatto accanto a un bicchiere di whiskey liscio in mezzo ai bicchieri di whiskey e soda. Non avevano ancora mangiato; per due volte Wilbourne s’era chinato verso di lei: «Non faremmo meglio a mangiar qualcosa? Va tutto bene, io posso...».
«Sì, va tutto bene. Benissimo». Non parlava a lui. «Abbiamo quarantotto dollari di troppo, pensate un po’. Nemmeno gli Armour4 hanno quarantotto dollari di troppo. Su, bevete, o figli armorosi! Mostratevi degni del cane».
«Sì» disse McCord. «Accomodatevi, o figli armorosi, in un mare di onde ernestiane».5
Il neon splendeva e lampeggiava, i semafori passavano dal verde al rosso e poi di nuovo al verde sopra i tassì che strombazzavano e le funeree limousine. Non avevano ancora mangiato, e avevano perduto due membri della compagnia, erano in sei nel tassì, seduti l’uno sulle ginocchia dell’altro con Charlotte che reggeva le costolette (avevano perduto la carta, ora) e McCord che teneva il cane invisibile; adesso si chiamava Eziandìo, dalla Bibbia, la tavola del povero. «Ma sentite» diceva McCord. «Sentite un minuto. È nostra, di Doc, di Gillespie e mia. Gillespie è lassù, ora, ma dovrà tornare in città per primo, e allora sarà vuota. Voi potete portarvi i vostri cento dollari...».
«Non hai senso pratico» diceva Charlotte. «Stai parlando di sicurezza. Non hai proprio anima?... Quanto denaro abbiamo, ora, Harry?».
Egli guardò il tassametro. «Centoventidue dollari».
«Ma sentite» disse McCord.
«Va bene, va bene» disse lei. «Ma non è il momento di parlare, ora. Tu ti sei fatto il tuo letto, coricatici. E tirati la coperta sul capo». Erano a Evanston, ora; s’erano fermati a un emporio e adesso avevano una lampadina tascabile; il tassì procedeva piano lungo un opulento marciapiede suburbano mentre Charlotte, chinandosi oltre McCord, faceva scorrere il raggio della torcia sui prati di mezzanotte che passavano. «Eccone uno» disse.
«Io non lo vedo» disse McCord.
«Guarda quella cancellata. Hai mai sentito d’una cancellata di ferro con una ghirlanda di viole del pensiero in ogni riquadro, che non abbia un cane di ferro nel suo interno? La casa ha anche una mansarda».
«Io non vedo nessuna casa» disse McCord.
«Neanch’io. Ma guarda quella cancellata».
Il tassì si fermò; scesero. Il raggio della torcia passò sulla cancellata di ferro con pannelli a volute sormontati da punte di lancia e fissati nel cemento; accanto al cancelletto a volute v’era anche un palo per attaccare i cavalli a forma di ragazzo negro. «Hai ragione» disse McCord. «Qui dev’essercene uno». Non usarono la torcia, ora, ma anche alla debole luce delle stelle lo videro facilmente: il San Bernardo di ghisa, con la sua faccia composita di Francesco Giuseppe e di un banchiere del Maine del 1859. Charlotte posò le costolette sul basamento di ferro, in mezzo alle zampe di ferro, e tornarono al tassì. «Sentite» disse McCord. «È completamente arredata: tre stanze e cucina, tutto l’occorrente per dormire e cucinare, legna quanta ne vuoi, basta tagliarla; potete anche fare il bagno, se ne avete voglia. E tutti gli altri cottage saranno vuoti dopo il primo settembre, non ci sarà nessuno a darvi noia, e è proprio sul lago, potrete anche avere pesce ancora per un po’, e mangiare coi vostri cento dollari, e il freddo non verrà fino a ottobre, magari fino a novembre; potrete restar lassù fino a Natale o anche più in là, se non v’importa del freddo...».
McCord li portò in macchina al lago la sera del sabato precedente la Festa del Lavoro,6 i cento dollari di viveri – scatolette, fagioli, riso, caffè, sale, zucchero e farina – sul sedile esterno. Wilbourne contemplava l’equivalente del loro ultimo dollaro con una certa serietà. «Non ci si accorge di come sia flessibile la moneta finché non la si è scambiata con qualcosa» disse. «Forse è questo ciò che gli economisti intendono per normale utilità decrescente».
«Non flessibile» disse McCord. «Vuoi dire instabile. Per questo il Congresso la chiama moneta liquida. Se ci sorprende la pioggia prima che abbiamo messo questa roba sotto un tetto, vedrai. Quei fagioli e il riso e il resto fermenteranno e ci proietteranno fuori dalla macchina come tre fiammiferi da un paiolo di birra fatta in casa». Avevano una bottiglia di whiskey e McCord e Wilbourne si davano il turno alla guida mentre Charlotte dormiva. Arrivarono al cottage appena dopo l’alba – un centinaio di acri d’acqua circondato da abeti di due anni, quattro radure con una capanna ciascuna (dal camino di una usciva fumo. «È quella di Bradley» disse McCord. «Credevo se ne fosse già andato, ormai») e un corto pontile nell’acqua. Sulla stretta lingua di spiaggia v’era un daino, roseo nell’alba domenicale, la testa alta, che li guardò per un istante prima di sfrecciar via, la codina bianca che si arcuava nei lunghi balzi, mentre Charlotte saltando giù dall’automobile, la faccia gonfia di sonno, correva verso l’orlo dell’acqua strillando: «Ecco quello che cercavo di fare! Non gli animali, i cani e i caprioli e i cavalli: il movimento, la velocità».
«Già» disse McCord. «Adesso mangiamo». Scaricarono la macchina e portarono dentro la roba e accesero il fuoco nella cucina economica; poi, mentre Charlotte preparava la colazione, Wilbourne e McCord si portarono la bottiglia giù in riva al lago e s’accovacciarono. Bevvero a turno, brindando. Alla fine ne rimase soltanto una sorsata. «Questo è per Charlotte» disse McCord. «Berrà alla salute dell’astinenza. Non avrà da ubriacarsi».
«Sono felice, ora» disse Wilbourne. «So esattamente dove sto andando. Procedo in linea retta in mezzo a due file di scatolette e di sacchetti da cinquanta dollari ciascuna. Non è una strada, strada vuol dire case e gente. Questa è una solitudine. Poi l’acqua, la solitudine che ondeggia mollemente mentre te ne stai sdraiato a guardare». Accovacciato, e ancora tenendo in mano la bottiglia quasi vuota, immerse l’altra mano nell’acqua, il liquido immobile e albescente alla temperatura dell’acqua sintetica ghiacciata delle stanze d’albergo, le increspature che si allargavano lentamente dal suo polso. McCord lo guardò. «E poi verrà l’autunno, il primo freddo, le prime foglie gialle e rosse cadranno, le foglie doppie, quella riflessa che sale a incontrare quella che cade finché si toccano e vibrano un poco, senza combaciare perfettamente. E allora puoi aprire gli occhi per un minuto, se vuoi, se te ne ricordi, e osservare l’ombra delle foglie oscillanti sul petto che ti sta vicino».
«Per il buon Gesù Schopenhauer» disse McCord. «Che accidente di romanticismo di quarta classe alla Teasdale7 è questo? Non hai ancora sofferto la tua parte di fame. Non hai ancora fatto il tuo tirocinio alla miseria. Se non stai attento racconterai questa roba a qualche tipo che ci crederà e ti darà una pistola per sparartici, e vorrà sincerarsi che tu lo faccia davvero. Finiscila di pensare a te stesso e pensa un poco a Charlotte».
«È proprio quello che faccio. Ma non la userei, la pistola, comunque. Perché l’ho cominciata troppo tardi, questa faccenda. Ci credo ancora, nell’amore, io». Poi raccontò a McCord dell’assegno. «Se non ci credessi, ora te lo darei e la rimanderei indietro con te questa sera».
«E se ci credessi tanto come dici, avresti già stracciato quell’assegno da un pezzo».
«Se lo stracciassi, quel denaro non lo prenderebbe più nessuno. Lui non potrebbe nemmeno riaverlo indietro dalla banca».
«Che vada a quel paese. Tu non gli devi nulla. Non gli hai forse tolto la moglie dalle mani per fargli piacere? Sei proprio un bel tipo. Non hai neanche il coraggio delle tue fornicazioni». McCord si alzò. «Andiamo. Sento odore di caffè».
Wilbourne non si mosse, la mano ancora nell’acqua. «Non le ho fatto del male». Poi disse: «Sì, gliene ho fatto. Se non le avessi lasciato un’impronta finora, mi...».
«Cosa?».
«Mi rifiuterei di crederlo».
Per un lungo minuto McCord stette a guardar l’altro, accovacciato, la bottiglia in una mano, e l’altra affondata nell’acqua fino al polso. «Merda!» disse. Poi Charlotte li chiamò dalla porta. Wilbourne si alzò.
«Non la userei, la pistola» disse. «Riportiamo in casa la bottiglia».
Charlotte non bevve. Posò invece la bottiglia sulla mensola del caminetto. «Per ricordarci della nostra civiltà perduta quando i capelli cominceranno a diradarcisi» disse. Mangiarono. V’erano due brande di ferro in ciascuna delle due camere, e altre due sulla veranda con le zanzariere. Mentre Wilbourne lavava i piatti, Charlotte e McCord rifecero le due brande sulla veranda con biancheria presa dall’armadio; quando Wilbourne venne fuori, McCord era già disteso su una branda, senza scarpe, a fumare. «Mettiti giù» disse. «Charlotte dice che non vuol più dormire». Ella uscì in quel momento, con un blocco di carta, una tazza di latta, e una nuova scatola di colori laccata.
«Era avanzato un dollaro e mezzo, anche dopo aver comprato il whiskey» disse. «Può darsi che quel daino ritorni».
«Prendi un po’ di sale da mettergli sulla coda» disse McCord. «Può darsi che se ne stia fermo e posi per te».
«Non voglio farlo posare. È proprio quello che non voglio. Non ho nessuna intenzione di copiare un daino. Quello sa farlo chiunque». Uscì e la zanzariera sbatté dietro di lei. Wilbourne non la seguì con lo sguardo. Anche lui si distese a fumare, le mani dietro la testa.
«Senti,» disse McCord «avete un sacco di roba da mangiare, legna qui ve n’è in abbondanza, e anche coperte per quando comincerà a far freddo, e quando in città le cose cominceranno a riprendere può darsi che riesca a vendere quelle cianfrusaglie di Charlotte, a procurare ordinazioni...».
«Non mi preoccupo affatto. Te l’ho detto, sono felice. Nulla può togliermi quello che ho già avuto».
«Ma che tesoro. Senti. Perché non mi dai quel maledetto assegno e la rimandi indietro con me e tu ti mangi i tuoi cento dollari di cibarie e poi te ne vai per i boschi a mangiar formiche e a fare il sant’Antonio in un albero, e a Natale prendi una conchiglia come vassoio e ti ci servi i tuoi coglioni? Ora dormo». Si voltò dall’altra parte e parve addormentarsi immediatamente, e ben presto s’addormentò anche Wilbourne. Si svegliò una volta e dal sole capì che era passato mezzogiorno e lei non era in casa. Ma non si preoccupò, e rimase sdraiato per un momento; non era ai ventisette anni sprecati ch’egli guardava, e lei non doveva essere distante, il sentiero diritto, vuoto e silenzioso in mezzo alle due file di scatolette e di sacchetti da cinquanta dollari, lei lo avrebbe atteso. Aspetterà, se questo dev’essere, pensava. Se dobbiamo giacere insieme così, nella solitudine ondeggiante, a dispetto di Mac e del suo romanticismo di quarta classe alla Teasdale, lui che sembra ricordare tanto di ciò che la gente legge, sotto il turbine giallo e rosso dell’anno morente e le miriadi di doppie foglie che si baciano.
Il sole era appena al di sopra degli alberi quando lei tornò. Il primo foglio del blocco ancora bianco, benché i colori fossero stati usati. «Erano tanto brutti?» disse McCord. Stava dandosi da fare attorno alla cucina economica, con fagioli, riso e albicocche secche – una di quelle segrete specialità gastronomiche che ogni scapolo sembra avere e che qualcuno effettivamente riesce a eseguire, benché alla prima occhiata si sarebbe detto che McCord non fosse di questi.
«Forse un uccellino le ha detto quello che stavi facendo con cinquanta centesimi di roba nostra, e allora è tornata di corsa» disse Wilbourne. Finalmente l’intruglio fu pronto. Non era poi così cattivo, ammise Wilbourne. «Ma non so se davvero non è schifoso, o se la mia è invece una sorta di difesa; il sapore che sento forse non è altro che quello dei quaranta o cinquanta centesimi che rappresenta, e ho una ghiandola della vigliaccheria nel palato o nello stomaco». Lui e Charlotte lavarono i piatti, McCord uscì e tornò con una bracciata di legna e accese un fuoco. «Non ne abbiamo bisogno, stasera» disse Wilbourne.
«La legna non ti costerà nulla» disse McCord. «E potrai prenderne dell’altra, finché ne vuoi, da qui fino al confine canadese. Puoi bruciarti tutto il Wisconsin settentrionale, in questo caminetto, se vuoi». Poi sedettero dinanzi al fuoco, fumando, parlando poco, fino a che per McCord venne l’ora di partire. Non volle rimanere, benché il giorno dopo fosse vacanza. Wilbourne uscì con lui e lo accompagnò alla macchina, egli salì, e si girò a guardare Charlotte, la cui sagoma si stagliava sulla porta, contro il fuoco. «Già» disse. «Non hai da preoccuparti, non più di quanto debba preoccuparsi la vecchietta che attraversa la strada con l’aiuto di un poliziotto o un boy-scout. Perché quando arriva la dannata macchina impazzita dell’ubriaco non sarà la vecchietta, ma il poliziotto o il ragazzo a essere accoppato. Bada a te».
«Badare a me?».
«Sì. Non puoi star lì ad aver paura tutto il tempo senza preoccuparti un po’».
Wilbourne tornò in casa. Era tardi, ma lei non aveva ancora cominciato a svestirsi; di nuovo rifletté non sull’adattabilità delle donne alle circostanze ma sulla loro abilità nell’adattare l’illecito, perfino il delittuoso, a un modello di rispettabilità borghese, mentre la osservava, scalza, muoversi per la stanza e fare quei piccoli cambiamenti nell’arredamento della sua temporanea dimora come loro fanno perfino nelle camere d’albergo prese anche per una sola notte, estraendo da una delle scatole, ch’egli aveva creduto contenere soltanto cibo, oggetti del loro appartamento di Chicago che non soltanto non credeva ella possedesse ancora, ma che addirittura aveva dimenticato d’aver mai posseduto: i libri che avevano acquistato, una coppa di rame, perfino il drappo di chintz dell’ex banco da lavoro, poi, da una scatola di sigarette ch’ella aveva trasformato in un piccolo astuccio a forma di sarcofago, la figurina del vecchio, il Cattivo Odore; la osservò mentre posava la figurina sulla mensola del camino e rimaneva lì davanti a contemplarla per un poco, soprappensiero, poi la vide prendere la bottiglia col rimasuglio di whiskey che le avevano lasciato, e con la rituale serietà d’un bimbo che gioca versarne il contenuto nel camino. «I lari e i penati» disse. «Non so il latino, ma Loro capiranno ciò che intendo».
Dormirono nelle due brande della veranda, poi, come verso l’alba rinfrescò, i piedi di lei lesti sul tavolato, in una branda il duro tuffo dei gomiti e delle anche lo svegliarono quando lei entrò sotto le coltri odorose di prosciutto e di resina. Sul lago v’era una luce grigia, e quando egli udì il grido del tuffolo seppe esattamente che cos’era, seppe perfino com’era fatto, ascoltandone la voce sciocca e rauca, pensando come soltanto l’uomo, tra tutte le creature, atrofizzi deliberatamente le sue sensazioni naturali e ciò soltanto a spese degli altri; come l’animale a quattro zampe acquisti ogni sua nozione con l’odorare, il vedere e l’udire e diffidi di tutto il resto, mentre quello a due zampe crede soltanto a ciò che legge.
Al mattino il fuoco fu piacevole. Mentre lei lavava i piatti della colazione lui tagliò altra legna dietro la capanna, togliendosi il maglione, ora, il sole decisamente forte, ora, ma non tanto da ingannarlo, pensando come in quelle latitudini sia la Festa del Lavoro e non l’equinozio a segnare il sospiro dell’estate, il lungo soffio verso l’autunno e il freddo; poi lei lo chiamò dalla casa. Rientrò. In mezzo alla stanza v’era uno sconosciuto con uno scatolone sulle spalle, un uomo non più vecchio di lui, scalzo, con un paio di sbiaditi calzoncini kaki e una canottiera, abbronzato, con gli occhi azzurri e ciglia pallide bruciate dal sole e simmetriche creste di capelli color paglia – perfetta coiffure coi riflessi –, che stava guardando in silenzio la figurina sulla mensola del caminetto. Dietro di lui, attraverso la porta aperta, Wilbourne vide una canoa tirata in secco. «Questo è...» disse Charlotte. «Come ha detto che si chiama?».
«Bradley» disse lo sconosciuto. Guardò Wilbourne, gli occhi quasi bianchi in confronto alla pelle, come una negativa Kodak, tenendo in equilibrio la scatola sulla spalla mentre porgeva la mano.
«Wilbourne» disse Charlotte. «Bradley è il vicino. Parte oggi. Ci ha portato la roba che hanno avanzato».
«Non vale la pena di riportarsela via» disse Bradley. «Sua moglie mi dice che rimarrete qui per un po’, così pensavo...». Diede a Wilbourne una breve stretta di mano senza significato, dura, violenta, stritolante – il capo agenzia di mediazioni laureato da due anni in un’università dell’Est.
«Molto gentile da parte sua. Lasci che...». Ma l’altro aveva già posato la scatola sul pavimento; era piena zeppa. Charlotte e Wilbourne ebbero molta cura di non guardarla. «Grazie infinite. Quanta più roba abbiamo, tanto più difficilmente il lupo potrà entrare».
«O potrà scacciarci quando entrerà» disse Charlotte. Bradley la guardò. Rise, cioè scoprì i denti. I suoi occhi non risero – gli occhi predaci, pieni di sicurezza, dell’organizzatore del ballo studentesco che ancora mieteva successi.
«Non male» disse Bradley. «Lei...».
«Grazie» disse Charlotte. «Le va un po’ di caffè?».
«Grazie, ho già fatto colazione. Ci siamo alzati all’alba. Dobbiamo essere in città stasera». E guardò nuovamente la figurina sulla mensola. «Posso?» disse. S’accostò alla mensola. «Lo conosco, io? Mi pare...».
«Spero di no» disse Charlotte. Bradley la guardò.
«Speriamo non ancora, vuol dire» disse Wilbourne. Ma Bradley continuò a guardare Charlotte, le pallide sopracciglia cortesemente interrogative sopra gli occhi predaci che non ridevano quando rideva la bocca.
«È il Cattivo Odore» disse Charlotte.
«Oh, capisco». Guardò la statuina. «L’ha fatta lei. L’ho vista fare schizzi, ieri. Dall’altra parte del lago».
«Lo so».
«Toccato» disse lui. «Posso scusarmi? Non la stavo spiando».
«Né io mi nascondevo». Bradley la guardò, e ora, per la prima volta, Wilbourne vide le sopracciglia e la bocca d’accordo, canzonatrici, sardoniche, spietate, tutto l’uomo emanante una sorta di grossolana e insolente confidenza.
«Davvero?» disse.
«Abbastanza» disse Charlotte. Andò alla mensola e prese la statuina. «È un peccato che partiate prima che possiamo restituire la visita a sua moglie. Ma forse vorrà accettare questo come memento della sua perspicuità».
«No, veramente io...».
«La prenda» disse Charlotte amabilmente. «Dovete averne bisogno molto più di noi».
«Bene, grazie». Prese la statuina. «Grazie. Dobbiamo tornare in città stasera. Ma può darsi che si possa fare una capatina passando. Mia moglie sarebbe...».
«Sì, venite» disse Charlotte.
«Grazie» disse lui. Si volse dirigendosi verso la porta. «Grazie ancora».
«Grazie a lei» disse Charlotte. Uscì; Wilbourne lo guardò spingere in acqua la canoa e saltarvi dentro. Allora rientrò e si chinò sulla scatola.
«Che cosa vuoi fare?» disse Charlotte.
«Gliela riporto indietro e gliela scaravento sulla porta di casa».
«Oh, stupido somaro» disse lei. Gli si accostò. «Sta’ dritto. Ce la mangiamo, questa roba. Sta’ dritto come un uomo». Wilbourne si tirò su, lei lo circondò con le sue forti braccia accostandoselo con contenuta, selvaggia impazienza. «Perché non ti fai grande, dannato boy-scout distruttore di famiglie? Ancora non hai capito che grazie a Dio non riusciamo a sembrare marito e moglie neanche alle bestie?». Lo tenne stretto contro di sé, inclinandosi all’indietro, premendo i fianchi contro di lui e muovendoli lentamente mentre lo guardava fisso, quel giallo sguardo inscrutabile e beffardo con quella qualità ch’egli aveva imparato a riconoscere – quella spietata e quasi insopportabile onestà. «Come un uomo, ho detto» tenendolo dura e beffarda contro i suoi fianchi ondeggianti, benché non ve ne fosse bisogno. Non occorre che mi tocchi, pensava lui. Né il suono della sua voce e nemmeno l’odore di lei, basterebbe una pantofola, una di quelle tenui istigazioni alla voluttà che si lasciano sul pavimento. «Avanti. Così va bene. Così va meglio. Ecco, così». Liberò una mano e cominciò a sbottonargli la camicia. «Solo che far questo prima di mezzogiorno si dice porti sfortuna, non è vero? O non è così?».
«Sì» disse lui. «Sì». Lei cominciò a slacciargli la cintura.
«O è soltanto il tuo modo di lenire gli affronti che mi fanno? O vieni a letto con me soltanto perché qualcuno ti ha ricordato che sotto il ventre mi biforco?».
«Sì» disse lui. «Sì».
Più tardi, nel pomeriggio, udirono la macchina di Bradley che partiva. Abbandonata bocconi su di lui (aveva dormito gravandogli addosso con tutto il suo peso, la testa nel cavo del suo collo, con respiro lento e tranquillo) lei s’era levata puntandogli un gomito sullo stomaco e la coperta le era scivolata giù dalle spalle, mentre il rumore della macchina svaniva in lontananza. «Bene, Adamo» disse. Ma soli erano sempre stati, le disse lui.
«Fin dalla prima sera. Davanti a quel quadro. Non avremmo potuto esser più soli di così, anche se se ne fossero andati tutti».
«Lo so. Voglio dire che ora posso andare a fare il bagno». Scivolò via di sotto la coperta. Egli la seguì con lo sguardo, il corpo semplice e serio appena un po’ più greve, appena un po’ più solido che non in una pubblicità hollywoodiana dell’olio di fegato di merluzzo, i piedi nudi leggeri sul ruvido tavolato, verso la porta a zanzariera della veranda.
«Ci sono dei costumi da bagno nel ripostiglio» disse lui. Lei non rispose. La porta sbatté. Poi non la vide più, per vederla avrebbe dovuto sollevare la testa.
Andò a nuotare tutte le mattine, ma i tre costumi da bagno restarono nel ripostiglio. Fatta colazione egli tornava nella veranda e si sdraiava sulla branda e udiva i piedi scalzi di lei traversare la stanza e la veranda; qualche volta osservava quel corpo che andava progressivamente abbronzandosi traversare la veranda. Poi di nuovo s’addormentava (e ciò meno di un’ora dopo essersi riscosso da un dormiveglia, abitudine che aveva preso nei primi sei giorni) per poi risvegliarsi, guardarsi attorno e vederla distesa sul moletto, bocconi o supina, le braccia intrecciate sopra o sotto il viso; talvolta egli era ancora lì, senza più dormire, ora, e senza nemmeno pensare, semplicemente esistendo in una specie di torpido stato prenatale, passivo e quasi inconscio nel grembo della pace e della solitudine, quando lei tornava e si fermava accanto alla branda, e allora si muoveva quanto bastava per toccare con le labbra quel fianco impregnato di sole, e assaporare quel sole accumulato. Poi, un giorno gli accadde qualcosa.
Settembre era passato, le notti e i mattini erano ormai decisamente freddi; lei aveva spostato le sue nuotate da dopo la colazione alle prime ore del pomeriggio, e cominciavano a parlare di quando avrebbero dovuto trasferire i letti dalla veranda coperta alla stanza col camino. Ma le giornate non erano cambiate: la stessa ripetizione di intervalli dorati tra l’alba e il tramonto, le lunghe identiche giornate tranquille, l’immacolata monotona teoria di meriggi ripieni del caldo miele del sole lungo i quali l’anno morente si lasciava andare in un recedere rosso e giallo di foglie senza origine e senza meta. Ogni giorno, subito dopo la nuotata e il bagno di sole, lei partiva con l’album da disegno e la scatola dei colori, lasciandolo ad aggirarsi per la casa vuota e tuttavia risonante della violenta eco della presenza di lei – i pochi indumenti che possedeva, il fruscio dei suoi piedi nudi sul tavolato –, mentre egli credeva di preoccuparsi non già del giorno inevitabile in cui le loro provviste sarebbero finite ma del fatto ch’egli non paresse preoccuparsene affatto: un curioso stato d’animo che aveva provato già un’altra volta quando il marito di sua sorella l’aveva criticato, un’estate, perché si era rifiutato di votare. Ricordava la propria esasperazione, che stava quasi diventando rabbia, mentre cercava di far capire le sue ragioni al cognato, rendendosi conto alla fine che stava parlando con sempre maggiore eccitazione non per convincere il cognato ma per giustificare a se stesso la propria rabbia, come se in un vago incubo stesse cercando di tenersi su i calzoni che gli cascavano; che non era al cognato che stava parlando, ma a se stesso.
Diventò un’ossessione; si accorse con tutta calma che stava diventando intimamente, silenziosamente e educatamente un po’ matto; ora pensava di continuo alle file di scatolette e di sacchetti in progressiva diminuzione, e contro di essi opponeva in rapporto inverso i giorni che s’andavano accumulando, tuttavia non si sentiva d’andare nel ripostiglio a contarli. Si diceva che invece di andare a sedersi su una panchina del parco, tirar fuori il portafogli, estrarne un pezzo di carta e far sottrazioni, adesso doveva solo dare un’occhiata a una fila di scatolette su uno scaffale; sarebbe bastato contare le scatole per sapere esattamente quanti giorni ancora rimanevano loro; avrebbe potuto dividere lo scaffale stesso in tanti giorni, facendovi segni con la matita, così non avrebbe dovuto nemmeno contare le scatole, sarebbe bastato uno sguardo allo scaffale per leggere la situazione in un attimo, come su un termometro. Ma non aveva nemmeno voglia di guardare nel ripostiglio.
Sapeva d’essere pazzo, durante queste ore, e a volte cercava di lottare contro questa pazzia credendo poi d’averla vinta, poiché l’istante successivo, se non per una tragica convinzione che le scatolette non avessero alcuna importanza, esse gli uscivano così completamente dalla mente come se non fossero mai esistite, e si guardava attorno, in quell’ambiente ormai divenutogli familiare, con un senso di profonda disperazione, senza nemmeno accorgersi che ora davvero si stava preoccupando, si stava preoccupando così terribilmente che nemmeno se ne accorgeva; si guardava attorno con una specie di esterrefatto stupore nell’assoluta solitudine dalla quale lei era temporaneamente uscita, pur rimanendovi, e alla quale sarebbe subito tornata per rientrare nell’aura che si era lasciata dietro proprio come sarebbe rientrata in un suo indumento, per ritrovare lui disteso sulla branda, senza dormire, ora, senza nemmeno leggere, avendo perduto quest’abitudine insieme a quella del sonno, e che s’andava dicendo tacitamente: Mi annoio. Mi annoio da morire. Non servo a nulla, qui. Nemmeno a lei. La legna che ho tagliato sarà sufficiente fino a Natale. E non c’è altro qui ch’io possa fare.
Un giorno le chiese di dividere con lui i colori e l’album. Così fecero, e Charlotte s’accorse ch’egli non riconosceva i colori e non se n’era nemmeno mai accorto. E così, ogni giorno, ora andava a sdraiarsi in una piccola radura assolata che aveva trovato, circondata dal pungente e acre odore della resina, fumando la sua pipa da pochi soldi (l’unica spesa che aveva fatto prima di lasciare Chicago in vista del giorno in cui fossero finiti cibo e denaro) con accanto la metà dell’album da disegno e la scatola di sardine trasformata in scatola da colori, ancora intatti. Poi un giorno decise di fare un calendario, un’idea innocentemente concepita non già dalla mente, per desiderio d’un calendario, ma dalla semplice noia dei muscoli, e che mise in effetto col tranquillo godimento di un uomo che intagli un canestrino da un nocciolo di pesca o incida il Paternoster su una capocchia di spillo; lo ricavò nitidamente dall’album, numerando i giorni, progettando di usare diversi e appropriati colori per le domeniche e i giorni festivi. Subito scoprì d’aver perduto il conto dei giorni, ma questo non fece altro che accrescere l’aspettativa, prolungando il lavoro, rendendo il piacere più complesso, ora il cestino diventava doppio e il Paternoster andava scritto in cifra. Così, tornò a quel primo giorno in cui egli e McCord s’erano accovacciati in riva al lago, giorno di cui ricordava nome e numero, poi contò in avanti ricostruendo a memoria le sonnolente demarcazioni tra un’alba e l’altra, dipanando a uno a uno dall’ordito aspro come vino e fermo come miele i martedì, i venerdì e le domeniche perduti della solitudine senza tempo; quando d’un tratto gli venne in mente che poteva verificare i suoi risultati, stabilire la matematica verità dal vuoto assolato e infinito nel quale erano svaniti i singoli giorni, grazie alle date e agli intervalli dei periodi mestruali di Charlotte, provò ciò che poteva aver provato un vecchio contemplatore appoggiato al bastone di pastore sulle antiche colline siriane disseminate di pecore nell’imbattersi per caso in qualche formula alessandrina che provava le verità stellari ch’egli aveva osservate tutte le notti della sua vita e che non dubitava esser vere senza sapere come né perché.
E fu allora che gli accadde quella cosa. Se ne stava lì a guardare la sua opera con un’allegra e divertita meraviglia per la propria abilità nell’escogitare agli occhi di Dio, agli occhi della Natura – la Natura prima, non-matematica, quella fin troppo feconda, spendacciona, disordinata, illogica, casuale – un modo per verificare il suo problema matematico, quando scoprì che aveva attribuito sei settimane al mese di ottobre, e che il giorno in cui ora si trovava era il dodici di novembre. Gli parve di vedere addirittura il numero, isolato e incontrovertibile, nell’anonima e indifferenziata teoria dei giorni perduti; gli parve di vedere le file di scatolette sullo scaffale a mezzo miglio di distanza, le dinamiche, solide sagome a forma di bomba che fino a quel momento erano cadute a una a una, silenziose e senza peso, in quel tempo stagnante che non avanzava e che in qualche modo avrebbe trovato cibo per le sue due vittime come trovava per esse l’aria da respirare, ora invece era il tempo che si muoveva procedendo all’indietro lento e irresistibile, oscurando le scatolette una dopo l’altra in continua progressione come l’ombra d’una nuvola che si muove. Sì, pensò, è stata colpa dell’estate di San Martino. Sono stato attirato in un paradiso per idioti da una vecchia puttana; sono stato soffocato e infiacchito nella forza e nella volontà dalla vecchia e logora Lilith dell’anno.
Bruciò il calendario e tornò alla capanna. Lei non era ancora tornata. Andò al ripostiglio e contò le scatole. Mancavano ancora due ore al tramonto; quando volse lo sguardo verso il lago vide che il sole non c’era più e che un ammasso di nubi, come bambagia sporca, aveva coperto il cielo da oriente verso occidente e settentrione, e anche il gusto e il sentore dell’aria erano cambiati. Già, pensò. La vecchia puttana. Mi ha tradito, e ormai non ha più neanche bisogno di fingere. Finalmente vide Charlotte tornare verso casa girando attorno al lago, con un paio di calzoni suoi e un vecchio maglione che avevano trovato nel ripostiglio con le coperte. Le andò incontro. «Buon Dio» disse lei. «Non ti ho mai visto un’aria così felice. Hai dipinto un quadro, oppure hai scoperto che la razza umana non deve neanche tentare di far dell’arte?...». Lui stava camminando più in fretta di quanto non s’accorgesse; quando la circondò con le braccia la fece fermare di colpo per il contatto fisico; tirandosi indietro, lei lo guardò ora con vero, non simulato stupore.
«Già» disse lui. «Che ne diresti di divertirsi un po’?».
«Be’, ma certo, amico» disse lei subito. Poi di nuovo si tirò indietro per guardarlo. «Che ti succede? Che c’è?».
«Avresti paura a star qui sola, stanotte?». Adesso lei aveva cominciato a liberarsi.
«Lasciami, non riesco a vederti bene». La lasciò, cercando d’incontrare quell’impassibile sguardo giallo al quale non era mai stato capace di mentire. «Stanotte?».
«Siamo al dodici novembre».
«Bene, e con questo?». Lo guardò. «Avanti, parla. Entriamo in casa e andiamo fino in fondo a questa faccenda». Tornarono alla casa; nuovamente lei gli si fermò di fronte. «Avanti, parla, ora».
«È che ho contato le scatolette. Ho misurato il...». Lei lo guardava fisso con quella dura, quasi arcigna impersonalità. «Abbiamo da mangiare solo per circa sei giorni».
«Bene, e con questo?».
«È stata la stagione mite. Come se il tempo si fosse fermato e noi con lui, come due pezzetti di legno in uno stagno. E così non ho pensato a preoccuparmi, a vigilare. Perciò ora vado fino al villaggio. Sono solo dodici miglia. Sarò di ritorno per mezzogiorno domani». Lei lo guardò. «Una lettera. Ci sarà una lettera di McCord».
«Te lo sei sognato che ci sarà, o l’hai scoperto nella caffettiera mentre stavi misurando i viveri?».
«Ci sarà di sicuro».
«Benissimo. Ma aspetta fino a domani. Non puoi far dodici miglia prima che annotti». Mangiarono e andarono a letto. Questa volta lei entrò direttamente nella branda con lui, incurante del male che gli faceva colpendolo col gomito duro come lo sarebbe stata se le posizioni fossero state invertite, come lo era della mano con cui, facendogli male, lo afferrò per i capelli e gli scosse la testa con selvaggia impazienza. «Dio mio, non ho mai visto nessuno in vita mia cercar di fare il marito come fai tu. Ascoltami, testa dura che non sei altro. Se era un marito come si deve, e cibo, e un letto, che volevo, perché diavolo credi che sia qui invece di laggiù dove avevo tutto quanto?».
«Bisogna pur aver da dormire e da mangiare».
«E noi non l’abbiamo, forse? E allora, perché preoccuparsi? È come preoccuparsi per il bagno solo perché stanno per togliere l’acqua». Poi si alzò e scese dalla branda con quella stessa repentina violenza; lui la guardò traversare la stanza diretta alla porta, aprirla e guardar fuori. Provò il sentore della neve prima ancora ch’ella parlasse. «Nevica».
«Lo so. L’ho capito nel pomeriggio che s’è accorta che la partita è finita».
«Chi?». Chiuse la porta. Questa volta andò verso l’altra branda e vi si infilò. «Cerca di dormire. Sarà una brutta camminata domani, se nevica molto».
«Comunque, la lettera ci sarà».
«Sì» rispose lei. Sbadigliò e si voltò dall’altra parte. «Probabilmente c’è da una settimana o due».
Egli lasciò la capanna poco dopo l’alba. La neve era cessata e faceva un gran freddo. In quattro ore raggiunse il villaggio e trovò la lettera di McCord. Conteneva un assegno di venticinque dollari; aveva venduto una figurina, e aveva una promessa di lavoro per Charlotte in un grande magazzino per il periodo delle feste. Quando arrivò a casa era già buio da un pezzo. «Metti tutto in pentola» disse. «Abbiamo venticinque dollari. E Mac ti ha trovato un impiego. Arriverà sabato sera».
«Sabato sera?».
«Gli ho telegrafato. E ho aspettato la risposta. Ecco perché ho fatto tardi». Mangiarono, e questa volta lei s’infilò in silenzio nella stretta branda con lui, e questa volta gli scivolò accanto dolcemente come mai egli l’aveva vista fare, per nessuna cosa.
«Mi dispiacerà lasciare questo posto».
«Davvero?» disse lui piano, tranquillamente, giacendo supino, le braccia incrociate sul petto come una figura di pietra su una tomba del decimo secolo. «Forse sarai contenta di essertene venuta via, una volta che sarai laggiù. Di nuovo gente da vedere, McCord e gli altri che ti piacevano, Natale, e tutto il resto. Potrai andare dal parrucchiere e farti la manicure...». Questa volta lei non si mosse, lei che aveva l’abitudine di assalirlo con quella fredda e incurante brutalità, scuotendolo e tirandolo non soltanto per parlargli ma anche per semplice enfasi. Questa volta rimase perfettamente immobile, respirando appena, la voce colma non di rimpianto, ora, ma d’una semplice stupefatta incredulità:
«Tu forse. Tu sarai. Tu potrai. Cosa vuoi dire, Harry?».
«Che ho telegrafato a Mac di venire a prenderti. Tu avrai il tuo impiego che servirà a mantenerti fin dopo Natale. Io ho pensato di tenere la metà dei venticinque dollari e restare qua. Può darsi che Mac trovi qualcosa anche per me; se non altro uno di quei lavori di pubblico interesse. Allora tornerei in città anch’io e allora potremmo...».
«No!» gridò lei. «No! No! Dio, no! Tienimi, tienimi stretta, Harry! È solo per questo, è stato sempre per questo che abbiamo pagato: per poter stare insieme e dormire insieme ogni notte, non soltanto per mangiare ed evacuare e dormire al caldo in modo da potersi alzare di nuovo, mangiare, evacuare, per poter di nuovo dormire al caldo! Tienimi, tienimi stretta! Forte!». Egli la strinse, con le braccia rigide, il viso ancora volto in su, le labbra aperte sui denti serrati.
Dio, pensò. Dio l’aiuti. Dio l’aiuti.
Lasciarono il lago che nevicava, ma prima d’arrivare a Chicago raggiunsero per un poco l’ultimo strascico dell’estate di San Martino che si allontanava verso sud. Ma non durò, l’inverno era giunto anche a Chicago, ora; il vento del Canada ghiacciava il lago e soffiava nelle strade imbandierate di agrifoglio nell’imminenza del Natale, increspando e gelando le facce dei vigili, degli impiegati, dei mendicanti, dei militi della Croce Rossa e dell’Esercito della Salvezza vestiti da Babbo Natale, i funebri giorni morenti nel neon sopra le facce rosee e incorniciate di pelliccia delle mogli e delle figlie dei milionari del bestiame e del legname, delle amanti degli uomini politici di ritorno dall’Europa o dai ranch per turisti per passare le feste nei sontuosi palazzi battuti dal vento affacciati sopra il lago plumbeo e la ricca distesa della città prima di partire per la Florida, e dei figli degli agenti di cambio londinesi, degli industrialotti delle calzature del Midland con titolo, e dei senatori sudafricani venuti a visitare Chicago per aver letto Whitman, Masters e Sandburg a Oxford o a Cambridge – membri di quella razza che, senza talento per l’esplorazione e armata di taccuino, macchina fotografica e nécessaire, decide di passare il periodo delle feste nell’oscura e gelida giungla dei selvaggi.
L’impiego di Charlotte era in un grande magazzino, uno dei suoi primi clienti per le prime figurine che aveva fatto. Fra le sue mansioni v’era l’allestimento delle vetrine, cosicché la sua giornata cominciava talvolta nel pomeriggio, quando il magazzino chiudeva e gli altri impiegati se ne andavano. Perciò Wilbourne e qualche volta McCord l’aspettavano in un bar, subito girato l’angolo, dove cenavano piuttosto presto. Poi McCord se ne andava per cominciare la sua giornata a rovescio al giornale e Charlotte e Wilbourne tornavano al magazzino, che ora viveva una specie di vita capovolta, bizzarra e infernale – la caverna di vetro cromato e marmo sintetico che per otto ore era stata piena del vorace spietato mormorio delle compratrici impellicciate e delle smorfie fisse e irreggimentate delle commesse-robot in grembiule di satin, ora vuota di frastuono, scintillante e tranquilla, echeggiante un silenzio cavernoso che faceva sentir piccoli, piena ora d’una torva, intensa furia come una clinica notturna vuota in cui minuscoli chirurghi e infermiere lottino sommessi e dignitosi per qualche oscura e anonima vita, e dove anche Charlotte svaniva (non scompariva: la vedeva, di quando in quando, consultarsi a gesti con qualcuno su qualche oggetto che uno di loro teneva in mano, o entrare o uscire da una vetrina) non appena essi entravano. Egli aveva un giornale della sera, e per due o tre ore se ne stava a sedere su una fragile sedia circondato da figure disarticolate, con soavi corpi privi di organi e facce serene, quasi incredibili, e da pezzi di stoffa coi lustrini e broccati drappeggiati o dallo scintillio degli strass, mentre le donne di fatica apparivano in ginocchio spingendosi innanzi le secchie come fossero un’altra specie, affine alla talpa, appena sbucata da qualche galleria o orifizio proveniente dalle fondamenta stesse della terra, al servizio di qualche oscuro principio di igiene rivolto non allo smorzato scintillio che nemmeno guardavano ma alla regione sotterranea in cui sarebbero tornate carponi prima di giorno. Poi, alle undici o a mezzanotte e, man mano che il Natale s’avvicinava, anche più tardi, tornavano a casa, nell’appartamento che non aveva banco da lavoro né lucernario, ora, ma che era nuovo e pulito e in un nuovo quartiere pulito vicino a un giardino pubblico (dal quale verso le dieci del mattino, sdraiato a letto tra il primo e il secondo sonno della giornata, gli giungevano le voci dei bambini tormentati dalle bambinaie) dove Charlotte andava a letto mentre lui tornava alla macchina da scrivere alla quale aveva passato la maggior parte della giornata, la macchina prima imprestata da McCord poi affittata da un’agenzia e infine acquistata di tra le pistole fuori uso, le chitarre e i denti d’oro di un banco dei pegni, sulla quale scriveva per le riviste di confessioni storie che cominciavano con «Avevo il corpo e i desideri di una donna, ma come giudizio ed esperienza della vita non ero che una bambina», oppure «Se soltanto avessi avuto l’affetto d’una madre a proteggermi in quel giorno fatale» – storie ch’egli viveva dalla prima all’ultima sillaba in un unico, frenetico e doloroso slancio, come il mediano che si mantiene agli studi lavorando e che afferra la palla ovale (il suo Albatro bianco, il suo Vecchio Marinaio, il suo mortale nemico giurato: più della squadra avversaria, più dei segni in gesso bianchi e incontrovertibili, profondamente terrificanti e senza senso come l’incubo d’un idiota) e corre fino a che l’azione sia finita – sia stato afferrato o abbia fatto meta, non importa – per poi andare a letto a sua volta, quando già l’alba era al di là della finestra aperta della gelida stanzetta, ed entrare nel letto a fianco di Charlotte, che senza svegliarsi si girava talvolta verso di lui mormorando nel sonno qualcosa di umido e di indistinto, e giacere, ancora tenendola tra le braccia come l’ultima notte sul lago, perfettamente sveglio, attento, rigido e immobile, senza nessun desiderio di dormire, aspettando che il sentore e l’eco dell’ultima infornata di insulsaggini per dementi lo lasciassero, evaporando.
Così lui vegliava per quasi tutto il tempo in cui ella dormiva e viceversa. Ella si alzava, chiudeva la finestra, si vestiva e faceva il caffè (la colazione che, quando erano poveri, quando non sapevano da dove sarebbe venuta la nuova razione di caffè da mettere nella caffettiera, solevano preparare e consumare insieme, lavando poi e asciugando i piatti insieme, uno accanto all’altro davanti all’acquaio) e se ne andava senza ch’egli se ne accorgesse. Egli si destava più tardi e ascoltava i bambini passare mentre riscaldava il caffè, e lo beveva e sedeva alla macchina da scrivere, rientrando senza sforzo e senza speciale rincrescimento nell’anestesia delle sue monotone invenzioni. Sul principio aveva fatto del suo solitario pasto di mezzogiorno una specie di rito, andando a prendere le scatolette e le fette di carne e gli altri avanzi della sera precedente, come un bambino con un nuovo costume da Daniel Boone tesaurizzi biscottini nella foresta improvvisata del ripostiglio delle scope. Ma ultimamente, dopo aver acquistato la macchina da scrivere (aveva, di suo, rinunciato allo stato di dilettante, si era detto; non doveva nemmeno più fingere con se stesso che si trattasse di un gioco), cominciò a tralasciare del tutto il pasto di mezzogiorno, la noia di dover interrompere il lavoro per mangiare, fermandosi soltanto per riposarsi le dita, mentre una sigaretta segnava lentamente il bordo del tavolo preso a nolo, e lui fissava senza vedere le due o tre righe visibili della sua ultima, semplicistica favola demenziale, del suo sciroppo sensuale, poi, ricordandosi della sigaretta, la sollevava per strofinare inutilmente sulla nuova bruciatura, rimettendosi quindi a scrivere. Infine, arrivata l’ora, e con l’inchiostro ancora fresco sulla busta chiusa e col francobollo e il mittente contenente l’ultima novella che cominciava con «A sedici anni ero una ragazza madre», usciva dall’appartamento e percorreva le strade affollate, nei pomeriggi sempre più brevi dell’anno morente, verso il bar dove s’incontrava con Charlotte e McCord.
Anche nel bar facevano Natale, ciuffi di vischio e di agrifoglio in mezzo alle piramidi di bicchieri lucenti riflessi nello specchio, lo specchio che scimmiottava le giacche grottesche dei baristi, e i fumanti recipienti pieni del tradizionale miscuglio caldo di rum e whiskey che i clienti osservavano e si consigliavano a vicenda mentre tenevano in mano gli stessi cocktail ghiacciati e il whiskey e soda che avevano bevuto per tutta l’estate. McCord veniva al loro solito tavolo con ciò ch’egli chiamava colazione: un boccale da un quarto di birra e circa un altro quarto di pretzels o di noccioline salate o qualsiasi altra cosa vi fosse, e Wilbourne prendeva l’unico bicchierino che si concedeva prima dell’arrivo di Charlotte («Ora posso permettermi d’essere astemio» diceva a McCord. «Posso pagare colpo per colpo, senza esclusione di colpi, con chiunque, e tutto per il privilegio di rifiutare») e aspettavano l’ora in cui i negozi si sarebbero vuotati e le porte a vetri si sarebbero aperte lasciando erompere nella molle, gelida luce del neon le facce incorniciate dalle pellicce ornate d’agrifoglio, con i canyon delle strade battute dal vento allegre e frizzanti del vociare di gente che si scambiava auguri e felicitazioni nel vapore intransigente, e anche la fiumana delle commesse abbandonava ora il regolamentare grembiule di satin, i piedi gonfi per il lungo stare in piedi, le facce indolenzite per il lungo, rigido, forzato sorriso. Poi arrivava Charlotte; smettevano di parlare e la guardavano mentre si faceva strada nella ressa dinanzi al banco, tra i camerieri e i tavoli affollati, il soprabito aperto sull’uniforme ben rassettata, il cappello all’indietro secondo la moda corrente, ancor più all’indietro, anzi, come lo avesse spinto con un colpo dell’avambraccio nell’immemorabile gesto femminile derivante dall’immemorabile stanchezza femminile, e si avvicinava al tavolo, il pallido viso stanco benché ella si muovesse, come sempre, con sicurezza e decisione, gli occhi privi di umorismo e inguaribilmente onesti come sempre, sopra il naso forte e un po’ schiacciato e la larga pallida bocca carnosa. «Rum, ragazzi» diceva poi, lasciandosi cadere sulla sedia che uno di loro le aveva tirato in fuori. «Bene, papà». E si mettevano a mangiare, a un’ora insolita, un’ora in cui il resto del mondo stava appena cominciando a pensarci («Mi sento come tre orsi in gabbia un pomeriggio di domenica» diceva lei), consumavano quel pasto senza appetito e poi si separavano, McCord al giornale, Charlotte e Wilbourne di nuovo al negozio.
Due giorni prima di Natale lei entrò nel bar con un pacco. Conteneva i doni natalizi per le sue due bambine. Non avevano banco da lavoro, ora, né lucernario. Svolse e riavvolse i regali sul letto, l’immemorabile banco da lavoro dell’inconsapevole procreazione dei bambini divenuto altare per il rito del Bambino, seduta sulla sponda, circondata di carta ornata di agrifoglio, del frivolo, fatuo spago rosso e verde e di etichette gommate, e i due regali che aveva scelto, piuttosto costosi ma di poco conto, guardando il tutto con una specie d’aggrondato divertimento al di sopra delle mani altrimenti abili e rapide quasi per qualsiasi altra azione umana. «Non mi hanno nemmeno insegnato a fare i pacchi» disse. «I bambini» disse. «Però non è un rito per i bambini. È per gli adulti: una settimana di licenza per tornare all’infanzia, per regalare qualcosa che tu desideri a qualcuno che non la desidera, e pretendere che ti ringrazi. E i bambini si scambiano con te. Abbandonano la puerilità e accettano la parte che hai lasciato non perché abbiano mai avuto alcun particolare desiderio d’essere adulti, ma semplicemente per quella spietata pirateria dei bambini che li spinge a usare qualsiasi mezzo – inganno, sotterfugio o finzione – per ottenere qualche cosa. Qualsiasi cosa, qualsiasi bazzecola andrà bene. I regali non significano nulla per loro finché non diventano grandi abbastanza da poterne calcolare il probabile costo. Ecco perché le bambine sono più interessate ai regali che non i maschi. Perciò prendono ciò che si offre loro non perché accettino quello piuttosto che niente, ma perché è press’a poco l’unica cosa che si aspettano dagli stupidi bovini tra i quali per chi sa quale ragione son costrette a vivere... Mi hanno proposto di rimanere al magazzino».
«Cosa?» disse lui. Non la stava ascoltando. La udiva ma non l’ascoltava, guardando le mani spesse tra le lucenti cianfrusaglie, pensando In questo momento dovrei dirle: Va’ a casa. Sta’ con loro domani sera. «Cosa?».
«Vogliono tenermi fino all’estate».
Questa volta la udì; provò la stessa impressione di quando aveva trovato il numero sul calendario che si era fatto; ora si rese conto di quale fosse stato il guaio di tutto quel periodo, del perché se ne era rimasto disteso, rigido e immobile accanto a lei, nell’alba, credendo di non poter dormire per l’attesa che svanisse il sentore delle proprie demenziali ruffianate, del perché rimaneva seduto dinanzi a una pagina incompiuta nella macchina da scrivere credendo di non star pensando a nulla, credendo di pensare soltanto al denaro, e di come ogni volta ne avessero una quantità sbagliata, e che con il denaro essi fossero come certa gente sfortunata lo è con l’alcol, o nulla o troppo. Era alla città, che stavo pensando, pensò. La città e l’inverno insieme, una combinazione troppo forte ancora, per noi, almeno per ora – l’inverno che spinge le persone in casa, dovunque si trovino, ma inverno e città insieme, una prigione; l’abitudine perfino al peccato, l’assoluzione perfino all’adulterio. «No» disse. «Ce ne andiamo da Chicago».
«Ce ne andiamo da Chicago?».
«Sì. Per sempre. Non dovrai continuare a lavorare semplicemente per i soldi. Aspetta» disse in fretta. «Io so che siamo arrivati a vivere come se fossimo sposati da cinque anni, ma non voglio diventare il marito che pesa sulle tue spalle. A volte mi sorprendo a pensare “Voglio che mia moglie abbia il meglio”, ma non sono ancora arrivato a dire “Non approvo che le mie donne lavorino”. Non è questo. È lo scopo per il quale siamo giunti a lavorare, ci siamo abituati a lavorare senza accorgercene, e abbiamo aspettato a scoprirlo quando era quasi troppo tardi. Ricordi quello che dicesti su al lago, quando io ti consigliai di andartene mentre eri ancora in tempo e tu rispondesti “È solo per questo che abbiamo lottato, è questo che abbiamo conquistato: stare insieme, mangiare insieme e dormire insieme”? E adesso guarda come ci siamo ridotti. Quando stiamo insieme è in un bar o in autobus o in una strada affollata, e quando mangiamo insieme è in un ristorante affollato durante un’ora di libertà che ti concedono quelli del negozio perché tu possa mangiare e mantenerti in forze in modo ch’essi possano far rendere il denaro che ti pagano ogni sabato, e non dormiamo più insieme, ci guardiamo dormire a turno; quando io ti tocco so che sei troppo stanca per svegliarti, e tu probabilmente sei troppo stanca addirittura per pensare di toccarmi».
Tre settimane dopo, con un indirizzo scarabocchiato su un brandello di giornale piegato nel taschino del panciotto, entrò in un palazzo di uffici e salì al ventesimo piano fino a una porta di vetro opaco con la scritta «Miniere Callaghan» ed entrò, superò con qualche difficoltà un’impiegata biondo platino e si trovò infine di fronte a una scrivania perfettamente sgombra salvo che per un telefono e un mazzo di carte disposte per un solitario, dietro la quale sedeva un uomo sulla cinquantina con la faccia rossa e gli occhi freddi, la testa d’un bandito, e il corpo d’un giocatore di rugby universitario ingrassato con l’età, con un vestito di stoffa costosa che su di lui faceva l’effetto d’essere stato rapinato a una svendita, e al quale Wilbourne cercò di esporre per sommi capi i suoi titoli di medico e la sua esperienza professionale.
«Lasci perdere» interruppe l’altro. «Può occuparsi delle normali ferite che potrebbero riportare i minatori?».
«Stavo appunto cercando di dirle...».
«Ho sentito benissimo. Io le ho chiesto un’altra cosa. Io ho detto: occuparsi di loro». Wilbourne lo guardò.
«Non so se...» cominciò.
«Occuparsi della miniera. Curare gli interessi dei proprietari. Della gente che ci ha messo il suo denaro. Che pagherà il suo stipendio finché se lo guadagnerà. Non me ne importa un accidente della poca o tanta chirurgia o farmacologia che conosce o delle lauree che può aver preso e di dove le ha prese. Né interesserà a nessuno, lassù; non vi sarà nessun ispettore governativo che le chiederà di mostrargli la licenza. Voglio sapere se si può contare su di lei per proteggere gli interessi della miniera, della società. Contro incendi dolosi. Cause intentate da sterratori terroni, posamine crucchi, caricatori gialli cui venisse in mente di barattare con la società un piede o una mano contro una pensione o un viaggio di ritorno a Canton o a Hong Kong».
«Oh» disse Wilbourne. «Capisco. Sì. Posso farlo».
«Benissimo. Le sarà subito pagato il costo del viaggio fino alla miniera. La paga sarà di...» e disse la somma.
«Non è molto» disse Wilbourne. L’altro lo guardò con gli occhi freddi affondati nel grasso. Wilbourne ricambiò lo sguardo. «Ho una laurea d’una buona università, una scuola medica riconosciuta. Mi mancavano solo poche settimane per finire il mio internato in un ospedale che ha un...».
«Allora non ha bisogno di questo posto. È un posto che non è all’altezza delle sue qualifiche, e, temo, dei suoi meriti. Buongiorno». Gli occhi freddi lo fissavano; lui non si mosse. «Ho detto buongiorno».
«Dovrete pagarmi anche il viaggio per mia moglie» disse Wilbourne.
Il treno partì alle tre del mattino, due giorni dopo. Attesero McCord nell’appartamento dove erano vissuti per due mesi e dove non lasciavano alcuna traccia all’infuori delle bruciature di sigaretta sul tavolo. «Nemmeno dell’amore» disse lui. «Nemmeno la dolce eco selvaggia dei piedi scalzi che s’affrettano verso il letto nella penombra, delle coltri che non si rovesciano abbastanza in fretta. Soltanto il cigolio seminale delle molle del letto, e l’antimeridiano sollievo della prostata di chi è sposato da dieci anni. Eravamo troppo indaffarati; dovevamo pagar l’affitto della stanza perché potessero abitarci due automi». Arrivò McCord e portarono giù il bagaglio, le due valigie con le quali erano partiti da New Orleans, e la macchina da scrivere. L’amministratore strinse la mano a tutt’e tre ed espresse il suo rincrescimento per la dissoluzione di legami domestici reciprocamente graditi. «Soltanto per due di noi» disse Wilbourne. «Nessuno di noi è androgino». L’amministratore sbatté gli occhi, ma una volta sola.
«Ah» disse. «Buon viaggio. Avete un tassì?». Avevano l’auto di McCord; vi si diressero in un tenue scintillio argenteo, le ultime insegne al neon e il secco scatto dei semafori cangianti; il facchino consegnò le due valigie e la macchina per scrivere all’inserviente della vettura letto.
«Abbiamo il tempo di bere un bicchierino» disse McCord.
«Andate voi due» disse Charlotte. «Io mi metto a letto». Circondò con le braccia McCord, sollevando il viso. «Buona notte, Mac». Allora McCord si mosse e la baciò. Lei si scostò e si volse; la guardarono salire sulla piattaforma e scomparire. E allora anche Wilbourne capì che McCord sapeva che non l’avrebbe più riveduta.
«Ebbene, questo bicchierino?» disse McCord. Andarono al bar della stazione, trovarono un tavolo e sedettero come tante altre volte, nei pomeriggi in cui aspettavano Charlotte – le stesse facce di gente che beveva, le stesse giacche bianche di camerieri e di baristi, le stesse file di bicchieri luccicanti, soltanto i recipienti fumanti e l’agrifoglio (Natale, diceva McCord, l’apoteosi della borghesia, la stagione in cui, con una favola splendente, il Cielo e la Natura, per una volta d’accordo, ci pronunciano e postulano tutti mariti e padri sotto la pelle, quando dinanzi a un altare sotto forma di mangiatoia rivestita d’oro l’uomo può impunemente prostrarsi in un’orgia di sfrenata e sentimentale acquiescenza alla bella favola che ha conquistato il mondo occidentale, quando per sette giorni il ricco diventa più ricco e il povero più povero senza rancore: la mano di calce d’una settimana convenuta che lascia la pagina bianca e intatta per la registrazione del nuovo – e, per il momento, equino («Ecco il cavallo» disse McCord), appena sospirato – odio e rancore) mancavano, adesso, e il cameriere come sempre stava arrivando – la solita manica bianca, l’anonima faccia da cameriere priva di sembianze che non si vede mai veramente. «Birra» disse McCord. «Tu cosa prendi?».
«Gassosa» disse Wilbourne.
«Cosa?».
«Ho smesso di bere».
«Da quando?».
«Da ieri sera. Non posso più permettermi di bere». McCord lo guardò.
«Al diavolo» disse questi. «A me un doppio whiskey, allora». Il cameriere se ne andò. McCord continuava a fissare Wilbourne. «È proprio la risoluzione che ti si addice» disse furiosamente. «Ascolta» disse. «So che la cosa non mi riguarda. Ma mi piacerebbe sapere che cosa c’è sotto. Qui tu guadagnavi discretamente, Charlotte aveva un buon lavoro, avevate un bell’appartamento. E d’un tratto abbandoni ogni cosa, fai gettar via a Charlotte il suo impiego, per andartene, in febbraio, a vivere nel pozzo di una miniera nello Utah, in un posto senza ferrovia, senza telefono, senza nemmeno una casa decente, e con una paga da...».
«Proprio così. Questa è la ragione. Stavo diventando...». Si interruppe. Il cameriere posò le consumazioni sul tavolo e se ne andò. Wilbourne alzò il suo bicchiere di gassosa. «Alla libertà».
«Fai bene» ringhiò McCord. «Ne avrai parecchi da fare di brindisi, e con l’acqua, poi, senza neanche uno schizzo di soda. E magari in un posto ancora più scomodo di questo. Perché quel tipo è un farabutto. Lo conosco bene. È una iena. Se si potesse scrivere la verità su di lui su una pietra tombale non sarebbe un epitaffio, sarebbe una scheda della polizia».
«Va bene» disse Wilbourne. «All’amore, dunque». C’era un orologio sopra l’ingresso – l’onnipresente sincronizzata faccia del tempo, oracolo ammonitore e insensibile; gli restavano ancora ventidue minuti. Ma basterebbero solo due minuti per dire a Mac quello che ho impiegato due mesi a scoprire, pensò. «Ero diventato un marito» disse. «Ecco tutto. Non lo sapevo nemmeno finché lei mi ha detto che il negozio le aveva offerto di tenerla. In principio dovevo sorvegliarmi, ripassare la parte ogni volta per esser sicuro di dire “mia moglie” oppure “la signora Wilbourne”, poi ho scoperto che mi stavo sorvegliando da mesi per impedirmi di dirlo; da quando siamo ritornati dal lago mi sono perfino sorpreso un paio di volte a pensare “Voglio che mia moglie abbia il meglio di tutto” proprio come un qualsiasi marito con la sua busta paga ogni sabato e il suo villino fuori città pieno di elettrodomestici salvamogli, e col suo fazzoletto di giardino da innaffiare la domenica che diventerà di sua proprietà se non sarà licenziato o investito da un’automobile nei prossimi dieci anni – il verme predestinato, cieco a tutte le passioni e morto a tutte le speranze senza nemmeno saperlo, immemore, ignaro davanti a tutta l’oscurità, a tutto l’ignoto, con il Gran Burlone che, nascosto, attende di farlo a pezzi. Avevo perfino smesso di vergognarmi del modo con cui facevo denaro, di giustificarmi con me stesso per i racconti che scrivevo; non me ne vergognavo più di quanto l’impiegato pubblico che compra a rate il suo villino in cui la moglie potrà avere il meglio non si vergogni del suo distintivo ufficiale, lo stantuffo di gomma per sturare i gabinetti che si porta sempre dietro. Anzi, ero addirittura arrivato a compiacermi di scriverli, a prescindere dal denaro, come un ragazzo che non abbia mai visto il ghiaccio diventa fanatico del pattinaggio non appena impara a reggersi in piedi. Inoltre, dopo aver cominciato a scriverli, mi sono accorto che non avevo idea della profondità di depravazione di cui è capace l’inventiva umana, il che è sempre interessante...».
«Vuoi dire si diletta» disse McCord.
«Già, appunto... La Rispettabilità. È lei la causa. Ho scoperto che è l’ozio che coltiva tutte le nostre virtù, le nostre qualità più sopportabili: la contemplazione, l’equanimità, la pigrizia, il lasciare in pace la gente; la buona digestione mentale e fisica: la saggezza di concentrarsi nei piaceri materiali – mangiare, evacuare, fornicare e starsene sdraiati al sole – dei quali non v’è di meglio, nulla di altrettanto bello, nulla a questo mondo se non vivere per il breve tempo in cui si ha in prestito la vita, se non esser vivi e saperlo – oh, sì, è da lei che l’ho imparato; ha segnato anche me per sempre –, nulla, nulla di meglio. Ma è solo da poco che ne ho tratto la conclusione logica, e ho visto chiaramente che è qualcuna delle cosiddette virtù principali – la frugalità, l’operosità, l’indipendenza – ad alimentare tutti i vizi: il fanatismo, l’autocompiacimento, l’indiscrezione, la paura e, peggio di tutto, la rispettabilità. Noi, ad esempio. Siccome per la prima volta eravamo solvibili e sapevamo con certezza da dove sarebbe venuto il cibo del domani (il maledetto denaro, troppo denaro; la notte restavamo svegli a far progetti su come spenderlo e per la prossima primavera saremmo andati in giro con in tasca dei dépliants per crociere), io ero diventato altrettanto servo e schiavo della rispettabilità quanto un qualsiasi...».
«Ma lei no» disse McCord.
«No. Ma lei è un uomo più in gamba di me, l’hai detto tu stesso... quanto un qualsiasi altro diventa schiavo del bere o dell’oppio. Ero diventato il perfetto Capofamiglia. Mi mancava solo la sanzione ufficiale nei registri delle assicurazioni sociali come capofamiglia. Vivevamo in un appartamento che non era bohémien, che non era nemmeno un nido d’amore da rotocalco, non era nemmeno in quella parte della città, ma in un quartiere destinato, sia dal piano regolatore sia dall’architettura, alle coppie sposate da due anni con cinquemila dollari l’anno di entrate. Al mattino mi svegliava il chiasso dei bambini che passavano per la strada; e quando fosse giunta la primavera, con le finestre aperte avrei dovuto udire, per tutto il giorno, i richiami irritati delle bambinaie svedesi nel parco, e col vento favorevole avrei anche sentito l’odore dell’orina infantile e dei biscotti. E ne parlavo come di “casa mia”, e v’era un angolo in essa che entrambi chiamavamo il mio studio; alla fine mi son perfino comprato quella dannata macchina per scrivere – qualcosa di cui avevo fatto a meno per ventotto anni e così bene che non lo sapevo neppure, e che è troppo pesante e ingombrante da portare in giro, ma che tuttavia non avrei mai osato abbandonare, più di quanto non...».
«Ho notato che l’hai ancora» disse McCord.
«... più di quanto... Sì. Una parte notevole del coraggio sta in una sincera incredulità nella buona fortuna. Altrimenti non è coraggio – più di quanto non abbandonerei le mie ciglia. Mi ero legato mani e piedi con un nastro dattilografico, ogni giorno mi ci vedevo sempre più imbrogliato come uno scarafaggio in una tela di ragno; ogni mattina lavavo la caffettiera e il lavandino in modo che mia moglie potesse arrivare in tempo al lavoro, e due volte la settimana (per la stessa ragione) compravo sempre dallo stesso macellaio la roba di cui avevamo bisogno e le bistecche che ci cuocevamo da noi la domenica; ancora un po’ di tempo e ciascuno, in presenza dell’altro, si sarebbe vestito e svestito sotto la vestaglia e avremmo spento la luce prima di far l’amore. Ecco com’è. Non è l’inclinazione che sceglie le nostre occupazioni, è la rispettabilità che fa di noi callisti o impiegati o attacchini o autisti o scrittori di romanzetti». C’era un altoparlante anche nel bar, sincronizzato anche quello; in quel momento una voce cavernosa che veniva da chissà dove si mise a muggire in tutta calma una frase della quale si poteva capire una parola ogni tanto... «treno», e poi altre che la mente, due o tre secondi dopo, poteva riconoscere per nomi di città lontane, disseminate per il continente, città viste più che nomi uditi, come se l’ascoltatore (talmente fragorosa era la voce) fosse sospeso nello spazio e guardasse la terra girare e uscire lentamente dalla sua culla di cirri, e a tratti intravedesse le strane evocative divisioni della sfera che riaffondavano nuovamente nella nebbia e nelle nuvole prima che l’occhio e la comprensione potessero averle afferrate chiaramente. Guardò di nuovo l’orologio; aveva ancora quattordici minuti. Quattordici minuti per dire una cosa che ho già detta in cinque parole, pensò.
«E bada, mi piaceva. Non l’ho mai negato, questo. Mi piaceva. Mi piaceva il denaro che guadagnavo. Mi piaceva anche il modo in cui lo guadagnavo, quello che facevo, come ti ho detto. Non è stato a causa di questo che un giorno mi sono sorpreso a pensare “Mia moglie deve avere il meglio”. È stato perché un giorno mi sono accorto che avevo paura. E nello stesso tempo mi sono accorto che avrò sempre paura, qualsiasi cosa faccia, che avrò sempre paura finché lei o io saremo vivi».
«E hai ancora paura, adesso?».
«Sì. E non per il denaro. Al diavolo il denaro. Posso sempre guadagnare tutto il denaro che ci occorre, certo, pare non vi sia limite a ciò che posso inventare in tema di turbe sessuali femminili. Non alludo a questo, e nemmeno allo Utah. Alludo a noi stessi. All’amore, se preferisci. Perché non può durare. Non v’è posto per esso nel mondo d’oggi, nemmeno nello Utah. Lo abbiamo eliminato. C’è voluto molto tempo, ma l’uomo è pieno di risorse, e la sua inventiva non ha limiti, così siamo finalmente riusciti a liberarci dell’amore esattamente come ci siamo liberati di Cristo. Al posto della voce di Dio abbiamo la radio, e invece di dover risparmiare moneta sentimentale per mesi e anni per meritare un’occasione di spenderla tutta nell’amore, possiamo spenderla in spiccioli e solleticarci a ogni edicola di giornali, due per isolato, come gomma da masticare o cioccolato delle macchine automatiche. Se Gesù tornasse oggi dovremmo crocifiggerlo subito per legittima difesa, per giustificare o salvaguardare la civiltà che ci siamo conquistata, soffrendo, morendo, gridando e bestemmiando di rabbia e impotenza e terrore per duemila anni per crearla e perfezionarla a immagine e somiglianza dell’uomo; se tornasse Venere sarebbe uno sporcaccione in un cesso pubblico della sotterranea con la mano piena di cartoline oscene francesi...». McCord si voltò sulla sedia e fece un gesto, un solo gesto violento subito represso. Il cameriere apparve, McCord accennò al suo bicchiere. Subito la mano del cameriere posò sul tavolo il bicchiere nuovamente riempito e si ritirò.
«Bene» disse McCord. «E allora?».
«Ero in eclissi. Cominciò quella sera a New Orleans quando le dissi che avevo milleduecento dollari, ed è durata fino alla sera in cui lei mi ha detto che volevano tenerla al negozio. Ero fuori del tempo. Ero ancora aggrappato a esso e ne ero sostenuto nello spazio come lo siamo stati fin da quando è sorto un non-io che doveva mutarsi in io, e come sarà fino a quando non avverrà la fine del non-io per mezzo della quale soltanto noi saremo potuti esistere – questa è l’immortalità –, era il tempo che mi sosteneva, ecco tutto, mi ci adagiavo sopra, coibente, come il passero isolato dalle sue morte zampe coibenti è sostenuto dalla linea ad alta tensione, la corrente del tempo che passa attraverso il ricordo, che esiste solamente in rapporto a quel poco di realtà (ho imparato anche questo) che noi conosciamo, altrimenti il tempo non esiste. Sai: io non ero. Poi io sono, e il tempo comincia, retroattivo, è, fu e sarà. Poi io fui e perciò non sono e perciò il tempo non è mai esistito. È stato come l’istante della verginità, era l’istante della verginità: quella condizione, quel fatto, che non esiste in realtà salvo che nell’istante in cui ci si accorge che la si sta perdendo; è durata quanto è durata perché io sono troppo vecchio, ho aspettato troppo; ventisette anni è un’attesa troppo lunga per levarsi di dosso quello di cui bisognerebbe liberarsi a quattordici o quindici o magari anche prima – l’armeggiare confuso sfrenato affrettato di due affannati dilettanti nel sottoscala o in un fienile, di pomeriggio. Ti ricordi: il precipizio, l’oscuro precipizio; tutta l’umanità prima di te l’ha superato ed è rimasta viva, e così sarà per tutti quelli che ti seguiranno, ma questo non vuol dir nulla per te perché nessuno te lo può dire, nessuno ti potrà avvertire di ciò che devi fare per sopravvivere. È la solitudine, capisci. Devi cavartela da solo, e non puoi sopportare più di tanta solitudine e ancora sopravvivere, come l’elettricità. E per quest’uno o due secondi sarai assolutamente solo: non prima che tu fosti né dopo che tu non sia più, perché allora non sarai mai solo; in entrambi i casi sarai al sicuro, condividerai con altri un innumerevole e indistinguibile anonimato; nel primo caso, polvere tra la polvere, nel secondo vermi brulicanti tra vermi brulicanti. Ma per ora sei destinato a esser solo, devi esserlo, e lo sai, dev’essere così e così sia; guiderai la bestia che hai cavalcato per tutta la vita, il vecchio e familiare ronzino verso il precipizio...».
«Ecco, il maledetto cavallo» disse McCord. «Me l’aspettavo. Dopo dieci minuti sembriamo come Morso e sprone. Noi non parliamo, non facciamo che moralizzare come due predicatori itineranti che percorrano lo stesso sentiero di campagna».
«... magari uno può pensare che quando verrà il momento potrà tirare le briglie e salvare qualcosa, e invece no, il momento arriva e vedi che non puoi farlo, e sai che hai sempre saputo che non potevi farlo, e non puoi, tu sei un’unica affermazione negativa, un unico fluttuante Sì che scaturisce dal terrore nel quale si arrende volontà, speranza, tutto – il buio, la caduta, l’eco della solitudine, il colpo, la morte, al momento in cui, fermato fisicamente dal peso del corpo, senti tuttavia sfuggirti la vita nella matrice vorace, cieca, immemore, ricettiva; il caldo, cieco e fluido principio dell’essere, tomba-matrice o matrice-tomba, che è tutt’uno. Ma si ritorna; e forse lo sapevi fin dal principio, ma si ritorna, e potrai magari vivere i tuoi settanta o quanti saranno, ma sempre, in seguito, saprai che ne hai perduta per sempre una parte, che per quel secondo o quel paio di secondi tu sei stato presente nello spazio ma non nel tempo, che non hai i settant’anni che ti hanno accreditato e che dovrai scaricare un giorno o l’altro per far quadrare i conti, ma sessantanove e trecentosessantaquattro giorni e ventitré ore e cinquantotto...».
«Cristo santo» disse McCord. «Cherubini del cielo. Se mai dovessi aver la disgrazia d’avere un figlio, il giorno che compie dieci anni lo porto io stesso in un bel casino pulito».
«Ecco che cosa mi è successo» disse Wilbourne. «Ho aspettato troppo. Quelli che a quattordici o quindici anni sarebbero stati due secondi, a ventisette sono diventati otto mesi. Io ero in eclissi e abbiamo quasi toccato il fondo su quel lago in mezzo alla neve nel Wisconsin con solo quei nove dollari e venti centesimi di roba da mangiare tra noi e la fame. Credevo d’avercela fatta. Credevo d’essermi svegliato in tempo e d’avercela fatta; siamo tornati qua e credevo che stessimo andando a gonfie vele fino a quella sera prima di Natale quando mi ha detto del negozio e mi sono reso conto fino a che punto eravamo arrivati e che la fame era nulla perché non avrebbe potuto far nulla più che ucciderci, mentre questo era peggio della morte e perfino della separazione: era il mausoleo dell’amore, era il fetido catafalco del corpo morto sostenuto dalle ombre deambulanti prive di olfatto dell’insensibile carne immorale, esigente e putrida». Di nuovo la voce dell’altoparlante parlò; fecero per alzarsi contemporaneamente; in quello stesso momento il cameriere si materializzò e McCord pagò. «E perciò ho paura» disse Wilbourne. «Non avevo paura, allora, perché ero in eclissi, ma adesso sono sveglio e posso aver paura, adesso, grazie a Dio. Perché in questo 1938 dopo Cristo non c’è posto per l’amore. Hanno adoperato il denaro contro di me mentre ero addormentato perché ero vulnerabile al denaro. Poi mi sono svegliato e ho sistemato la faccenda del denaro e ho pensato di averLi vinti fino a quella sera in cui ho scoperto ch’Essi avevano usato contro di me la rispettabilità, e questa era più difficile a vincersi del denaro. Così ora non sono più vulnerabile né al denaro né alla rispettabilità, perciò dovranno cercare qualche altra cosa per costringerci a conformarci al modello della vita umana che ora si è evoluta in modo di far a meno dell’amore – conformarsi, o morire». Entrarono sotto la pensilina – l’oscurità cavernosa nella quale l’ininterrotta illuminazione elettrica che non distingueva il giorno dalla notte ardeva pallida contro la plumbea alba invernale tra cirri di vapore, nei quali la lunga e immobile linea delle carrozze letto oscurate sembrava affondata fino al ginocchio, rincalzata e fissata stabilmente in muratura. Camminarono lungo le pareti d’acciaio incrostate di fuliggine, dinanzi alle cabine chiuse, piene del russare dei dormienti, fino alla piattaforma aperta. «Perciò ho paura. Perché Essi sono furbi e in gamba, e devono esserlo; se si lasciassero vincere da noi sarebbe come un assassinio o un furto che restasse impunito. Naturalmente non possiamo batterLi; naturalmente noi siamo condannati; ecco perché ho paura. E non per me: tu ricordi quella sera sul lago quando dicesti ch’io ero una vecchietta che un poliziotto o un boy-scout aiutano a traversare la strada, e quando arriva l’auto dell’ubriaco non sarà la vecchietta, ma sarà...».
«Ma perché andare nello Utah in febbraio per vincere questa cosa? E se non puoi vincere, perché diavolo andare nello Utah?».
«Perché io...». Vapore, aria, sibilarono dietro di loro con un lungo sospiro; l’inserviente apparve improvvisamente dal nulla come aveva fatto il cameriere.
«Bene, signori» disse. «Si parte».
Wilbourne e McCord si strinsero la mano. «Forse ti scriverò» disse Wilbourne. «Comunque ti scriverà Charlotte, probabilmente. È anche un signore molto più educato di me, lei». Salì sulla piattaforma e si voltò, mentre l’inserviente, dietro di lui, con la mano sulla maniglia aspettava; lui e McCord si guardarono, tra di loro le due frasi non pronunciate, ciascuno sapendo che non sarebbero state pronunciate: Non vi rivedrò mai più e No. Non ci rivedrai mai più. «Le cornacchie e i passeri si prendono la fucilata sull’albero o affogano nelle piene o sono uccisi dai cicloni o dagli incendi, ma non i falchi. E magari io posso essere il consorte d’un falcone, anche se sono un passero». Il treno si raccolse, il principio del movimento, la partenza si comunicò di vagone in vagone e passò sotto i suoi piedi. «E poi, una cosa che mi sono detta lassù al lago» disse. «Che c’è qualcosa in me per la quale lei non è amante ma madre». Il treno si mosse, egli si sporse, con McCord che camminava anche lui per tenerglisi alla pari. «C’è qualcosa in me di cui tu e lei siete i genitori, di cui tu sei il padre. Dammi la tua benedizione».
«Dio ti stramaledica» disse McCord.
3. Organizzazione federale per l’impiego dei disoccupati in lavori di pubblico interesse [N.d.T.].
4. Philip Danforth Armour (1832-1901) fece un’immensa fortuna nell’industria della carne in scatola [N.d.C.].
5. Gioco di parole intraducibile che combina una citazione da Hearth of Oak di David Garrick (1717-1779), «chi è più libero dei figli delle onde», con un riferimento a Ernest Hemingway basato sull'assonanza fra -way e waves («onde») [N.d.C.].
6. Negli Stati Uniti la Festa del Lavoro cade il primo lunedì di settembre [N.d.T.].
7. Sara Teasdale (1884-1933), poetessa americana [N.d.C.].