PALME SELVAGGE
Quando l’uomo di nome Harry conobbe Charlotte Rittenmeyer era interno in un ospedale di New Orleans. Era il più giovane di tre figli, nato dalla seconda moglie di suo padre quando questi era già in età avanzata; tra lui e la minore delle sue sorellastre v'erano sedici anni di differenza. Rimasto orfano all'età di due anni era stato allevato dalla sorellastra maggiore. Era stato medico anche suo padre. Questi aveva cominciato e ultimato i suoi studi di medicina in un'epoca in cui la qualifica di dottore in medicina comprendeva tutto, dalla farmacologia alla diagnostica e alla chirurgia, in un'epoca in cui un corso di studi poteva pagarsi in natura o in lavoro; Wilbourne senior aveva fatto il custode del suo dormitorio, nonché il cameriere nella mensa e aveva compiuto il suo corso quadriennale con un esborso effettivo di duecento dollari. Pertanto, quando fu aperto il testamento, l'ultimo paragrafo suonava così: A mio figlio, Henry Wilbourne, considerando che la situazione come pure il valore del denaro sono oggi molto cambiati e che pertanto egli non potrebbe ottenere la laurea in medicina e chirurgia con la stessa spesa con cui la ottenni io ai miei tempi, lascio la somma di duemila dollari da usarsi per la frequenza del suo corso universitario e il conseguimento della laurea e l’abilitazione all’esercizio della professione di medico chirurgo, nella fiducia che tale somma sarà ampiamente bastevole al detto scopo.
Il testamento aveva la data di due giorni dopo la nascita di Harry, nel 1910, e suo padre morì due anni dopo per avvelenamento dopo aver succhiato il morso d’un serpente sulla mano d’un bambino in una casupola di campagna, e la sorellastra prese Harry con sé. Ella aveva già bambini suoi, ed era sposata a un tale che quando morì era ancora modesto commesso in un negozio di alimentari in una cittadina dell’Oklahoma, perciò quando per Harry giunse il momento d’entrare alla facoltà di medicina quei duemila dollari che dovevano bastargli per quattro anni, sia pure nella modesta ma ben quotata università che aveva scelto, non erano molto più dei duecento di suo padre. Anzi erano meno, poiché ora nei dormitori c’era il riscaldamento e nell’università v’era una mensa economica ove ognuno si serviva da sé e non v’era bisogno di camerieri, e l’unico modo in cui un giovane poteva guadagnarsi qualche soldo a scuola, ora, era di correre con una palla ovale o di bloccare quello che l’aveva. Sua sorella gli veniva in aiuto – uno sporadico vaglia da uno o due dollari o pochi francobolli accuratamente ripiegati in una lettera. Quelli erano per comprarsi le sigarette, e lui, astenendosi dal fumo per un anno, risparmiò il denaro che gli occorreva per pagare la quota all’associazione studentesca. Non gli rimaneva nulla per portar fuori le ragazze (era una scuola mista), ma del resto non ne aveva nemmeno il tempo; dietro l’apparente serenità della sua vita monastica egli combatteva una incessante battaglia non meno accanita di quelle che si combattono nei grattacieli di Wall Street, cercando di compensare il conto in banca che scemava col numero di pagine voltate dei suoi libri di testo.
Ma ci riuscì, tagliò il traguardo, e quanto gli restava dei duemila dollari era sufficiente o a tornare nella città dell’Oklahoma per presentare il suo trofeo alla sorella, o a recarsi direttamente a New Orleans e assumere il suo internato, ma non per tutt’e due le cose. Scelse New Orleans. O piuttosto, non aveva scelta; scrisse alla sorella e al cognato una lettera di ringraziamento, accludendo una nota firmata per l’ammontare complessivo dei vaglia e dei francobolli, interessi compresi (mandò anche il diploma con le sue frasi in latino, l’apostrofe con svolazzanti decorazioni in rilievo, e le firme illeggibili degli insegnanti, fra le quali la sorella e il cognato riuscirono a decifrare soltanto il suo nome), la spedì e comprò il biglietto e viaggiò per quattordici ore in una vettura ordinaria. Arrivò a New Orleans con una valigia e un dollaro e trentasei centesimi in tasca.
Si trovava nell’ospedale da quasi due anni, ormai. Abitava nel reparto degli interni con gli altri che come lui non possedevano mezzi personali; ora fumava una volta la settimana: un pacchetto di sigarette al weekend, e veniva pagando la nota che aveva compilato per sua sorella, i vaglia da uno e due dollari che tornavano, ora, al luogo d’origine; l’unica valigia avrebbe ancora potuto contenere tutti i suoi averi, compresi i camici d’ospedale – i ventisei anni, i duemila dollari, il biglietto ferroviario per New Orleans, il dollaro e trentasei centesimi, l’unica valigia in un angolo di una stanza che pareva di caserma, ammobiliata con brande militari; il mattino del suo ventisettesimo compleanno egli si svegliò e fece scorrere lo sguardo giù giù lungo il corpo, verso i piedi rimpiccioliti dalla prospettiva, e al di là di essi gli parve di vedere i suoi irrevocabili ventisette anni, rimpiccioliti anch’essi come se la sua vita dovesse giacergli passivamente sul dorso e lui galleggiasse senza sforzo e senza volontà, trasportato da una corrente senza ritorno. Gli pareva di vederli, quei vuoti anni nei quali era sfumata la sua giovinezza – gli anni per correre la cavallina, per le audacie, per gli appassionati, tragici, effimeri amori dell’adolescenza, la carne innocente di ragazze e ragazzi, nervosa, urgente, selvaggia, ch’egli non aveva vissuti; mentre lui stava disteso, così pensò, non esattamente con l’orgoglio e non certamente con la rassegnazione ch’egli credeva, ma piuttosto con quella pace con la quale un eunuco di mezza età può riandare all’epoca morta prima del suo mutamento, alle forme affievolite e (alfine) confuse che ormai abitavano soltanto la sua memoria, non più la carne: Ho ripudiato il denaro e quindi l’amore. Non l’ho abiurato, l’ho ripudiato. Non ne ho bisogno; tra un anno o due o cinque saprò esser vero ciò che ora credo vero: non avrò nemmeno bisogno di desiderarlo.
Quella sera terminò il suo servizio un po’ più tardi del solito; quando passò dinanzi alla sala da pranzo già udì il tintinnio delle posate e le voci, e gli appartamenti degli interni eran vuoti se non per un giovane di nome Flint, il quale, in calzoni da sera e sparato, stava annodandosi la cravatta nera dinanzi allo specchio, e che all’entrata di Wilbourne si voltò e indicò un telegramma posato sul suo guanciale. Era aperto. «Era posato sulla mia branda» disse Flint. «Avevo fretta di vestirmi e non ho controllato bene il nome. L’ho preso e l’ho aperto. Scusami».
«Non fa nulla» disse Wilbourne. «Un telegramma è già passato sotto il naso di troppa gente perché possa essere veramente privato». Tirò fuori dalla busta il foglietto giallo piegato. Era adorno di disegni simbolici, ghirlande e festoni; era di sua sorella: uno di quegli standardizzati telegrammi augurali che la Compagnia dei telegrafi invia a qualsiasi distanza entro i confini degli Stati Uniti per venticinque centesimi. Vide che Flint continuava a guardarlo.
«Così, oggi è il tuo compleanno» disse Flint. «Lo festeggi?».
«No» disse Wilbourne. «Non credo».
«Perché? Senti. Io sto andando a una serata al quartiere francese. Perché non vieni anche tu?».
«No» disse Wilbourne. «Grazie lo stesso». Non aveva ancora cominciato a pensare, Perché no? «Non sono invitato».
«Non importa. Non è una serata di quel tipo. È in uno studio. Artisti. Un mucchio di persone sedute sul pavimento una in braccio all’altra, a bere. Vieni, su. Non vorrai restar chiuso qui dentro il giorno del tuo compleanno». Ora egli aveva cominciato a pensare, Perché no? Perché no, dopotutto? e quasi vedeva levarsi in armi il guardiano della sua ben allenata pace e rassegnazione, l’arcigno Mosè, non allarmato, refrattario all’allarme, ma ferocemente e fanaticamente interdicente: No. Tu non andrai. Lascia stare. Ora hai la pace, non hai bisogno d’altro.
«E poi non ho l’abito da sera».
«Non ce n’è bisogno. Il padrone di casa magari sarà in accappatoio. Ce l’hai un abito scuro?».
«Io non...».
«Non importa» disse Flint. «De Montigny ha uno smoking. È press’a poco della tua taglia. Ora lo prendo». Andò all’armadio che usavano in comune.
«Ma io non...» disse Wilbourne.
«Ecco» disse Flint. Distese il secondo smoking sulla branda, si sfilò le bretelle e cominciò a togliersi i calzoni. «Io metto quello di De Montigny e tu metti il mio. Siamo tutt’e tre più o meno di taglia media».
Un’ora dopo, con un vestito preso a prestito quale lui non aveva mai indossato, Wilbourne e Flint si fermavano in una di quelle anguste straducce a senso unico ornate di balconi tra Jackson Square e Royal Street, nel Vieux Carré; un muretto di mattoni friabili al di sopra del quale esplodeva la cresta stracciata d’un palmizio e, più in là, un greve profumo di gelsomino che sembrava adagiarsi visibilmente sull’aria stagnante, già pregna dell’odore dello zucchero, delle banane e della canapa della zona portuale, come inerti chiazze di nebbia o di vernice. Un portone di legno posto leggermente di sghimbescio, e a lato il filo di ferro di un campanello che sotto la mano di Flint produsse in lontananza un suono caldo. Udivano un pianoforte, qualcosa di Gershwin. «Ecco» disse Flint. «Non devi preoccuparti per questa serata. Puoi già sentire gli effetti del gin fatto in casa. Anche i suoi quadri potrebbero essere di Gershwin. Ma scommetto che Gershwin avrebbe dipinto quelli che Crowe chiama i suoi quadri meglio di quanto Crowe suoni quella che Gershwin chiama la sua musica».
Flint tirò ancora il campanello, ma anche questa volta senza risultato. «Non è chiuso, comunque» disse Wilbourne. Non era chiuso, infatti, ed entrarono: un cortile lastricato con gli stessi mattoni friabili che a poco a poco si sfacevano. C’era uno stagno con una statua di terracotta, un ammasso di lantana, l’unica palma, lo spesso, rigoglioso fogliame e le grosse stelle bianche del cespuglio di gelsomino sul quale cadeva la luce attraverso le porte finestre aperte, ai tre lati la balconata interna anch’essa ricoperta dal rampicante, i muri dello stesso mattone ricotto formanti un bastione interrotto e ineguale contro il bagliore della città sul cielo basso ed eternamente coperto e, sopra tutto questo, fragile, dissonante, effimera, la falsa raffinatezza del pianoforte, come simboli scarabocchiati dai ragazzini sopra un’antica tomba ripulita dai roditori.
Traversarono il cortile ed entrarono per una porta finestra nel rumore – il piano, le voci – in una stanza piuttosto lunga dal pavimento diseguale, le pareti interamente ricoperte di tele senza cornice che subito aggredirono Wilbourne con l’effetto inestricabile e imprecisato di un cartellone da circo visto d’improvviso da vicino, dalla cui vista gli occhi stessi sembrano violentemente ritrarsi costernati. Non v’era altra mobilia che un pianoforte al quale sedeva un uomo in accappatoio e con un basco in capo. Una dozzina di persone sedevano sul pavimento o stavano in piedi con un bicchiere in mano; una donna con una tunica di tela senza maniche gridò: «Mio Dio, c’è stato un funerale?» e si avvicinò a Flint e lo baciò, sempre col bicchiere in mano.
«Questo è il dottor Wilbourne, ragazzi» disse Flint. «State attenti. In tasca ha un malloppo di assegni in bianco, e un bisturi nella manica». Il padrone di casa non si voltò nemmeno, ma una donna gli portò subito un bicchierino. Era la padrona di casa, benché nessuno gliel’avesse detto, e gli rimase accanto per un poco a parlargli o a parlare verso di lui, perché lui non l’ascoltava, guardava i quadri al muro; poi si ritrovò solo, sempre col bicchiere in mano, dinanzi a una parete. Aveva visto riproduzioni e fotografie di quella roba sulle riviste, e le aveva guardate senza alcuna curiosità poiché non vi poneva alcuna fede, come uno zotico può guardare il disegno di un dinosauro. Ma ora lo zotico stava guardando proprio il mostro, e Wilbourne restò dinanzi a quei quadri completamente assorto. Non per il soggetto, l’uso del colore; non significavano nulla per lui. Era uno stupore senza entusiasmo né invidia per una condizione che ovviamente forniva a un uomo il tempo e i mezzi per passar le giornate a dipingere quella roba e le serate a suonare il piano e a offrir liquori a gente che ignorava e (in un caso almeno) di cui non si curava nemmeno di afferrare il nome. Stava ancora lì impalato quando qualcuno dietro di lui disse «Ecco Carogna e Charley»; stava ancora lì impalato quando Charlotte parlò alle sue spalle:
«Che ne pensa, lei?». Si volse e vide una donna giovane molto più piccola di lui, e per un momento pensò che fosse grassa fino a che vide che non era affatto grassa ma semplicemente aveva quell’articolazione abbondante, semplice, profondamente delicata e femminile delle cavalle arabe – una donna al di sotto dei venticinque, con un abito di cotone stampato, un viso senza alcuna pretesa di essere grazioso e che non aveva trucco all’infuori del rosso sulla bocca carnosa, con una tenue cicatrice lunga un paio di centimetri su una guancia ch’egli riconobbe per una vecchia bruciatura certo risalente all’infanzia. «Non ha ancora deciso, eh?».
«No» egli disse. «Non so».
«Non sa che cosa pensarne, oppure se sta cercando di decidere o no? ».
«Sì. Probabilmente è così. E lei che cosa ne pensa?».
«Come una meringa col rafano» rispose lei troppo prontamente. «Anch’io dipingo» aggiunse. «Posso dirlo. Posso anche dire che so fare di meglio. Come si chiama, e perché si è vestito così, solo per venire a curiosare nei bassifondi? Così tutti sappiamo che è venuto a curiosare nei bassifondi?».
Le disse il suo nome e lei lo guardò ed egli vide che i suoi occhi non erano nocciola ma gialli, come quelli di un gatto, e lo fissavano con l’attenta serietà di un uomo, concentrati oltre la semplice sfrontatezza, attenti più di qualsiasi sguardo fisso. «Questo abito me lo son fatto prestare. È la prima volta in vita mia che indosso uno smoking». E poi disse, e non ne aveva l’intenzione, non sapeva nemmeno che stava per dirlo, sembrava annegare – volontà e determinazione – in quello sguardo giallo: «Oggi è il mio compleanno. Compio ventisette anni».
«Oh» fece lei. Si volse, lo prese per il polso, una stretta semplice, spietata e ferma, e se lo tirò dietro. «Venga». La seguì impacciato, cercando di non pestarle i calcagni, poi lei lo lasciò e, precedendolo, attraversò la stanza fin dove tre uomini e due donne stavano in piedi dinanzi alla tavola con le bottiglie e i bicchieri. Lei si fermò, lo afferrò di nuovo per il polso e lo fece avvicinare a un uomo all’incirca della sua età, con un abito scuro a doppiopetto, capelli biondi ondulati che incominciavano un poco a diradarsi, un viso non proprio bello, piuttosto insensibile e più furbo che intelligente e tuttavia, in complesso, più gentile che no, sicuro di sé, cortese e abituato al successo. «Questo è Carogna» disse lei. «È la più vecchia ex matricola dell’Università dell’Alabama. Per questo lo chiamiamo ancora Carogna. Può chiamarlo Carogna anche lei. Talvolta lo è».
Più tardi – era passata la mezzanotte e Flint e la donna che l'aveva baciato se ne erano andati – essi se ne stavano in cortile vicino al cespuglio di gelsomino. «Ho due bambine» disse lei. «È buffo, perché nella mia famiglia erano tutti maschi tranne me. Ero innamorata del maggiore dei miei fratelli, ma non si può andare a letto col proprio fratello, e lui e Carogna erano compagni di stanza all'università, così sposai Carogna e adesso ho due bambine, e quando avevo sette anni caddi nel caminetto, stavo facendo la lotta con mio fratello, ed è per questo che ho la cicatrice. Ce l'ho anche sulla spalla e sul fianco e sull'anca, e ho preso l'abitudine di dirlo alla gente prima che abbia il tempo di non chiedermelo, e lo faccio anche quando ormai non ha più importanza».
«Ne parla così con tutti? Subito al principio?».
«Dei fratelli o della cicatrice?».
«Tutt’e due. Forse della cicatrice».
«No. Anche questo è buffo. Me n’ero dimenticata. Da anni non lo dicevo a nessuno. Son cinque anni».
«Ma a me l’ha detto».
«Già. È buffo per la seconda volta. Anzi, per la terza volta. Senta. Le ho mentito, prima. Io non dipingo. Io lavoro con la creta, e qualcosa in bronzo, e una volta con un pezzo di marmo, con mazza e scalpello. Senta». Gli prese la mano e gli fece scorrere i polpastrelli lungo la base dell’altro suo palmo – la mano larga, spessa, dalle dita agili, con le unghie tagliate così corte che sembravano rosicchiate, la pelle alla base delle dita e sotto le falangi non proprio callosa ma liscia e indurita come quella di un calcagno. «Ecco che cosa faccio; qualcosa che si può toccare, che si può prendere, qualcosa che ti pesa in mano, della quale si può vedere la parte di dietro, qualcosa che sposta aria e sposta acqua e che, se la lasci cadere, è il tuo piede che si rompe, non la forma. Non come punzecchiare un pezzo di tela con una spatola o un pennello, come se si cercasse di mettere insieme un puzzle con un bastoncello marcio attraverso le sbarre d’una gabbia. Ecco perché ho detto che ero capace di battere quella roba» disse lei. Non si mosse, non indicò nemmeno con un cenno del capo la stanza dietro di loro. «Non come qualcosa che ti stuzzica le papille del gusto per un secondo e poi viene ingoiato e magari neanche ti si attacca alle budella ma viene evacuato intero e scaricato nella solita fogna schifosa, il classico Come-se-non-fosse-mai-esistito. Vuol venire a cena domani sera?».
«Non posso. Sono di guardia, domani sera».
«Dopodomani sera, allora? O quando?».
«E lei non ha nessun impegno?».
«Verrà un po’ di gente, dopodomani sera. Ma non le daranno noia». Lo guardò. «Bene. Se non ha voglia di veder troppa gente li metterò fuori. Dopodomani sera, allora? Alle sette? Vuole che venga a prenderla all’ospedale con l’auto? ».
«Ma no, no».
«Posso farlo, sa?».
«Lo so, lo so» disse lui. «Senta...».
«Entriamo» disse lei. «Ora vado a casa. E non si metta quello. Si metta roba sua. Voglio vedere».
Due sere dopo egli andò a cena. Trovò un modesto ma comodo appartamento in un quartiere irreprensibile vicino a Audubon Park, una domestica negra, due bimbe, una di due l’altra di quattro anni, niente di speciale, con i capelli di lei ma che per il resto rassomigliavano al padre (il quale, con un altro doppiopetto scuro visibilmente costoso, stava facendo un cocktail niente di speciale e insisté che Wilbourne lo chiamasse Carogna, e lei con indosso quello che, come lui ben sapeva, era stato comprato come un abito quasi da cerimonia e che lei portava con la stessa spietata indifferenza con cui indossava il vestito nel quale l’aveva vista la prima volta, come fossero tute da lavoro. Dopo la cena, notevolmente migliore dei cocktail, lei uscì dalla stanza con la maggiore delle due bambine, che aveva cenato con loro, ma ritornò quasi subito per buttarsi sul sofà a fumare mentre Rittenmeyer continuava a far domande a Wilbourne sulla sua professione come il presidente d'una associazione studentesca può fare con uno studente di medicina che ha fatto domanda d’ammissione. Alle dieci Wilbourne disse che doveva andare. «No» disse lei. «Non ancora». Così rimase; alle dieci e mezzo Rittenmeyer disse che andava a letto perché l'indomani aveva da lavorare, e li lasciò. Allora lei schiacciò la sigaretta, si alzò e andò a metterglisi di fronte, dinanzi al caminetto spento. «Che cosa... Ti chiamano Harry? Che cosa possiamo farci, Harry?».
«Non so. Non sono mai stato innamorato prima d’ora».
«Io sì. Ma non lo so nemmeno io... Vuoi che ti chiami un tassì? ».
«No». Si voltò; lei lo accompagnò attraverso la stanza. «Andrò a piedi».
«Sei così povero? Lascia che te lo paghi io. Non puoi andare a piedi fino all’ospedale. Son tre miglia».
«Non è lontano».
«Non è denaro suo, se è questo che pensi. Ne ho del mio. Ne ho messo da parte per qualcosa, non so neanch’io per che cosa». Gli porse il cappello e rimase con la mano sul pomo della porta.
«Tre miglia non è molto. Andrò a piedi...».
«Sì» disse lei. Aprì la porta, si guardarono. Poi la porta si richiuse, separandoli. Era verniciata di bianco. Non s’erano stretti la mano.
Nelle sei settimane che seguirono si videro altre cinque volte. Si incontravano in città per la colazione poiché egli non voleva entrare di nuovo nella casa del marito e il suo destino o la sua fortuna (o sfortuna, giacché altrimenti avrebbe potuto scoprire che l’amore come la luce del sole non esiste in un determinato luogo, in un determinato momento, e in un determinato corpo, tra tutti quelli che la terra, il tempo e l’umanità offrono) non gli portò altri inviti di seconda mano a serate. Si incontravano in posti del Vieux Carré dove potevano far colazione con i due dollari settimanali ch’egli di solito mandava alla sorella per scalare la nota. Al terzo di questi incontri, lei disse improvvisamente: «L’ho detto a Carogna».
«Gli hai detto?».
«A proposito delle nostre colazioni. Che ti vedevo». Dopo di ciò non menzionò più suo marito. La quinta volta non fecero colazione. Andarono in un albergo, ne avevano fatto progetto il giorno prima. Egli scoperse che non sapeva quasi nulla circa la corretta procedura da seguire se non per supposizione o immaginazione; a causa della sua ignoranza credeva che vi fosse un segreto per condurre l’impresa a buon fine; non una formula segreta ma piuttosto una specie di magia bianca: una parola o qualche impercettibile e banale gesto della mano, come quelli che aprono un cassetto o un pannello segreto. Per un momento pensò di chiederlo a lei, come doveva comportarsi in proposito, poiché era certo che avrebbe saputo dirglielo, come era certo che sarebbe stata in grado di fare qualsiasi cosa avesse voluto, non soltanto per la sua assoluta capacità di coordinazione ma perché già in questo breve periodo era giunto ad accorgersi dell’intuito e dell’infallibile sagacia delle donne nelle faccende pratiche dell’amore. Ma non glielo chiese perché si disse che se lei gli avesse detto come fare – e gliel’avrebbe detto, e il suggerimento si sarebbe dimostrato giusto – egli, qualche tempo dopo, avrebbe potuto pensare che lei l’aveva già fatto altre volte; e anche se così era, non voleva saperlo. Perciò lo domandò a Flint.
«Gesù» disse Flint. «Ci sei arrivato, finalmente. Non sapevo nemmeno che conoscessi una ragazza». A Wilbourne sembrò quasi di vedere Flint che pensava rapidamente, rievocando. «È stato a quell’orgia da Crowe quella sera? Ma insomma, questo è affar tuo. È facile. Prendi una valigia e mettici un paio di mattoni dentro, avvolti in un asciugamano in modo che non facciano rumore, e entri. Non scegliere il Saint Charles o il Roosevelt, naturalmente. Scegline uno dei più piccoli, ma non troppo piccolo. Magari quello vicino alla stazione. Avvolgi i mattoni separatamente, capito?, e poi tutt’e due nell’asciugamano. E ricordati di portare un soprabito. Un impermeabile».
«Sì. Credi che farei bene a dire anche a lei di portarsi un soprabito?».
Flint rise, un breve riso, non forte. «Non credo. Non credo che abbia bisogno delle tue né delle mie istruzioni... Ehi» aggiunse subito. «Non t’impennare. Non la conosco nemmeno. Non parlo di lei in particolare. Parlo delle donne in genere. Lei potrebbe venire con una valigia sua e un soprabito e una veletta e un biglietto di pullman che spunta fuori dalla borsetta e questo non vorrebbe dire che l’ha già fatto altre volte. Le donne sono così. Non c’è ragazza di quattordici anni che abbia bisogno di consigli, fosse pure da Don Giovanni o Salomone, per cose di questo genere».
«Non importa» disse lui. «Magari non verrà nemmeno». Si accorse che lo credeva veramente. E continuò a crederlo anche quando il tassì accostò al marciapiede dove lui stava aspettando con la valigia. Aveva un soprabito, ma niente valigia né veletta. Uscì lestamente quando lui aperse lo sportello, il viso duro, calmo, gli occhi straordinariamente gialli, la voce tagliente:
«Ebbene? Dove?».
Lui glielo disse. «Non è lontano. Possiamo...». Lei s’era voltata e già rientrava nel tassì. «Possiamo andare a piedi...».
«Maledetto squattrinato» disse lei. «Entra. Presto». Egli entrò. Il tassì si mosse. L’albergo non era lontano. Un portiere negro prese la valigia. E allora parve a Wilbourne di non essere mai stato in vita sua, e di non poter mai più essere, così conscio di lei come in quel momento, con lei in piedi nel centro del sudicio vestibolo che sapeva dei sabati notte dei piazzisti e della ciurmaglia dei campi di corse, mentre egli segnava i due nomi falsi sul registro e dava all’impiegato la sesta delle coppie di dollari che avrebbe dovuto mandare a sua sorella e non aveva mandato, ferma ad attenderlo, senza far alcuno sforzo per restare in ombra, tranquilla, composta, e con una sfumatura profondamente tragica ch’egli sapeva (stava imparando in fretta) non essere peculiare a lei ma un attributo di tutte le donne in questo momento della loro vita, che le investe di una dignità, quasi d’una modestia, da coprire e vestire perfino l’ultimo, supino e leggermente comico atteggiamento della resa finale. La seguì lungo il corridoio e oltre l’uscio che il portiere aprì; licenziò il portiere e chiuse l’uscio dietro di lui e la guardò attraversare la stanza verso l’unica, sudicia finestra e, sempre in cappello e soprabito, voltarsi senza sostare e, esattamente come un bambino che gioca a guardie e ladri e fa tana, tornare a lui, i gialli occhi, tutto il viso ch’egli già aveva cominciato a chiamar bello, duri e fissi. «Oh, Dio, Harry» disse. Gli batté i pugni chiusi sul petto. «Non così, Gesù, non così».
«Be’» disse lui. «Calmati, ora». La prese per i polsi e la tenne; e lei, coi pugni sempre stretti, cercava di liberarsi per colpirlo ancora sul petto. Sì, egli pensava. Non così, mai più. «Sta’ calma, ora».
«Non così, Harry. Niente sotterfugi. L’ho sempre detto, questo: qualsiasi cosa possa accadermi, qualsiasi cosa io faccia, tutto fuorché i sotterfugi. Se fosse stato per foia, qualcuno con un fisico tale che di colpo mi ha messa tanta di quella voglia che né l’ho guardato né m’è venuta l’idea di guardarlo più in su del colletto. Ma noi no, Harry. Con te no. Con te no».
«Calma, ora» disse lui. «Va bene, va bene». La condusse sulla sponda del letto e rimase ritto su di lei, sempre tenendola per i polsi.
«Te l’ho detto come volevo far le cose, prendere il bel bronzo pulito e duro, o la pietra, e tagliarli, non importa quanto sian duri, non importa quanto tempo ci vuole, tagliarli in modo di farne qualcosa di bello, qualcosa che si possa esser fieri di mostrare, qualcosa che si possa toccare, tenere, vedere da tutte le parti e sentirne il bel peso solido in modo che se la si lascia cadere non sarà la cosa a rompersi ma il piede su cui è caduta, salvo che è il cuore a rompersi e non il piede, se io ho un cuore. Ma, Gesù, Harry, come te l’ho sputtanata!». Allungò la mano e lui indovinò che cosa voleva fare e torse i fianchi prima che lei giungesse a toccarlo.
«Non devi preoccuparti per me» disse. «Vuoi una sigaretta?».
«Ti prego». Le diede la sigaretta e il fuoco, guardando in giù la prospettiva obliqua del naso e della guancia di lei mentre aspirava. Gettò via il fiammifero. «Ecco» disse lei. «Ecco a che punto siamo. E niente divorzio».
«Niente divorzio?».
«Carogna è cattolico. Non vuol saperne».
«Vuoi dire che...».
«Gliel’ho detto. Non che dovevo incontrarti in un albergo. Gli ho detto semplicemente: supponi che lo faccia. E lui ha continuato a dire che non c’è verso».
«Non puoi chiederlo tu, il divorzio?».
«Con quale pretesto? Lui si opporrebbe. E poi la causa si farebbe qui – con un giudice cattolico. Perciò rimane una sola cosa. E a quanto pare non riesco a farla».
«Già» disse lui. «Le tue bambine».
Per un momento lei lo guardò, fumando. «Non pensavo a loro. Voglio dire, a loro ho già pensato. Non ho più bisogno di pensarci perché conosco già la risposta, e so che non posso cambiarla e non credo di poter cambiare me stessa, perché la seconda volta che t’ho visto ho capito ciò che avevo letto nei libri ma che in realtà non avevo mai creduto: che amore e dolore sono la stessa cosa e che il valore dell’amore è la somma che si deve pagare per averlo e ogni volta che lo si ha a buon mercato ci truffiamo da noi stessi. Perciò non ho bisogno di pensare alle bambine. È una questione che ho già sistemata da un pezzo. Pensavo al denaro. Mio fratello a Natale mi manda sempre venticinque dollari, e in questi ultimi cinque anni li ho messi da parte. Ti ho detto l’altra sera che non so perché li ho messi da parte. Forse era per questo e forse questa è la cosa più divertente di tutte: che dopo cinque anni ho soltanto centoventicinque dollari, appena sufficienti per due biglietti per Chicago. E tu non hai niente». Si piegò verso il comodino e schiacciò il mozzicone, lentamente, con infinita cura, poi s’alzò. «Ecco come stanno le cose. È tutto qui».
«No» disse lui. «No! Ch’io sia dannato se è così».
«Vuoi andare avanti a questo modo, e stare ad aspettare come una mela sul ramo?». Prese l’impermeabile di lui dalla sedia e se lo mise sul braccio, e rimase in piedi, aspettando.
«Non vuoi andar prima tu?» disse lui. «Io aspetterò una mezz’ora e poi...».
«E lasciarti attraversare da solo quel vestibolo con la valigia in mano per farti rider dietro da quell’impiegato e quel negro che mi avranno vista uscire prima d’aver avuto il tempo di spogliarmi, figuriamoci di rivestirmi». Andò alla porta e mise la mano sulla chiave. Lui prese la valigia e la seguì. Ma lei non girò la chiave subito. «Senti. Dimmi ancora che non hai denaro. Ripetilo. Così le mie orecchie potranno udire qualcosa che abbia un senso, anche se non posso comprenderlo. Una ragione per cui io... che io possa accettare come una ragione più forte di noi, anche se non posso credere o capire che possa essere proprio quello, proprio per il denaro, per nient’altro che per il denaro. Avanti. Dillo».
«Non ho denaro».
«Bene. Ha un senso. Deve avere un senso. Dovrà avere un senso». Cominciò a scuotersi, non a tremare, a scuotersi, come uno che abbia violenti brividi, le ossa stesse sembravano addirittura batterle rigide e silenziose dentro la carne. «Dovrà...».
«Charlotte» disse lui. Depose la valigia e andò verso di lei. «Charlotte...».
«Non mi toccare!» sussurrò lei con una specie di intensa furia. «Non mi toccare!». E tuttavia per un istante egli credette che sarebbe venuta a lui; ella sembrò pencolare in avanti, volse il capo e guardò verso il letto con un’espressione di sconvolta disperazione. Poi la chiave scattò, la porta s’aperse, ed ella fu fuori della stanza.
Si separarono non appena le ebbe trovato un tassì. Fu lì lì per seguirla dentro il tassì e andare con lei in centro fino al posteggio ove lei aveva lasciato la macchina. Allora, per la prima delle due volte nella loro vita, la vide piangere. Sedeva lì, il viso duro, contratto, stravolto sotto le lacrime che sgorgavano come sudore. «Oh, squattrinato, povero maledetto squattrinato, povero scemo che ti si legge dentro. Sono ancora i soldi. Dopo che hai speso per l’albergo i due dollari che dovevi mandare a tua sorella, senza ricavarne nulla, ora vuoi pagare questo tassì col denaro con cui volevi ritirare l’altra tua camicia dalla lavanderia, senza ricavar nulla nemmeno da questo, null’altro che il privilegio di trasportare il mio maledetto culo che all’ultimo si è rifiutato, che sempre si rifiuterà...». Si chinò verso il tassista. «Avanti!» esclamò con furore. «Si muova! In centro!».
Il tassì si avviò veloce e scomparve quasi subito, ma lui non l’aveva neanche seguito con lo sguardo. Dopo un poco disse con calma, forte, rivolto a nessuno: «Almeno non c’è più bisogno di portarsi anche i mattoni». Andò verso un bidone per la spazzatura sull’orlo del marciapiede e mentre la gente che passava lo guardava curiosamente, o di sfuggita, o non lo guardava affatto, aperse la valigia, svolse i mattoni dall’asciugamano e li gettò nel bidone. Conteneva un mucchio di giornali vecchi e bucce di frutta, gli occasionali, anonimi rifiuti degli anonimi che passavano di lì durante le dodici ore del giorno, come i cascami degli uccelli in volo. I mattoni colpirono il mucchio senza far rumore; non vi fu alcun segnale, alcun suono premonitore, il bordo dei giornali si piegò appena mostrando proprio lì in mezzo, con la stessa magica subitaneità con la quale in un negozio la piccola torpedine metallica contenente il resto di un pagamento emerge dal tubo della posta pneumatica, un portafogli di cuoio. Conteneva le matrici di cinque puntate al totalizzatore dell’ippodromo di Washington Park, una tessera d’associazione a una compagnia nazionale di carburanti, un’altra della loggia dell’Ordine degli Alci di Longview, Texas, e milleduecentosettantotto dollari in banconote.
Egli scoperse però l’esatto ammontare della somma soltanto dopo aver raggiunto l’ospedale, perché il suo primo pensiero mentre si dirigeva verso l’ufficio postale del quartiere era stato semplicemente, Dovrei tenermi un dollaro come mancia, poi (l’ufficio postale non era soltanto a sei isolati di distanza, era anche dalla parte opposta dell’ospedale) potrei anche prendermi tanto di che pagare un tassì e lui non ci farebbe caso. Non che io abbia voglia di farmi scarrozzare, ma debbo occupare il tempo, debbo occupare il tempo in modo che non vi siano intervalli da ora fino alle sei quando potrò di nuovo nascondermi dietro il mio camice bianco, e tirarmi sulla faccia e sul capo il quotidiano tran tran come i negri si tirano sulla faccia la coperta quando vanno a letto. Poi rimase impalato dinanzi alla porta dell’ufficio postale, chiusa perché era sabato pomeriggio, e anche di questo s’era dimenticato, pensando, mentre si abbottonava il portafogli nella tasca posteriore dei calzoni, come per lui il nome di quella giornata fosse stato scritto a lettere di fuoco, non una parola d’una filastrocca da bambini, né una delle tante parole del calendario, e con la valigia ora leggera tornò indietro, ripercorse gli ormai inutili dodici isolati fuori della sua strada, pensando, A ogni modo sono riuscito a questo, mi sono risparmiato almeno tre quarti d’ora che altrimenti sarebbero stati pieni d’ozio.
Il dormitorio era vuoto. Ripose la valigia e cercò finché riuscì a trovarla una piatta scatola di cartone decorata con ramoscelli d’agrifoglio nella quale, lo scorso Natale, sua sorella gli aveva mandato un fazzoletto ricamato a mano; trovò un paio di forbici e una bottiglia di colla e fece un pacchetto, con una precisione da chirurgo, del portafogli, copiando con chiarezza e precisione l’indirizzo da una delle tessere, e riponendolo accuratamente sotto la biancheria, nel suo cassetto; e anche questo era fatto. Magari posso mettermi a leggere, pensò. Poi si mise a sacramentare, pensando, Ecco. È proprio tutto al contrario. Dovrebbero essere i libri, i personaggi dei libri a inventarci e a leggere di noi – i Tizi, i Semproni, e i Wilbourne e gli Smith –, maschi e femmine, ma senza cazzi o fiche.
Entrò in servizio alle sei. Alle sette ebbe il cambio per la cena. Mentre stava mangiando, un’allieva infermiera venne a cercarlo dicendogli che lo volevano al telefono. Doveva essere da fuori, pensò. Doveva essere sua sorella, non le aveva più scritto da quando le aveva mandato gli ultimi due dollari, cinque settimane prima, e ora gli telefonava, spendendo due dollari lei, non per rimproverarlo (Ha ragione, egli pensò, non di sua sorella. È comico. È più che comico. Ti fa rotolare giù dalla poltrona, dal ridere. Ho fallito con l’unica che amo e ho deluso l’unica che mi ama) ma per sapere se stava bene. Perciò quando sentì la voce che diceva «Wilbourne?» credette che fosse suo cognato, fino a che Rittenmeyer non parlò di nuovo; «Charlotte vuole parlarle».
«Harry?» disse lei. Il suo tono era rapido ma calmo. «Ho raccontato a Carogna di oggi, e che è stato un disastro. Perciò ha ragione, ora tocca a lui. Lui mi ha dato un'opportunità e io non ho saputo approfittarne. Perciò adesso il minimo che si possa fare è dare un'opportunità a lui. Mi pare se non altro decente dirti a che punto siamo; ma decente è una parola sporca, tra noi due...».
«Charlotte» disse lui. «Senti, Charlotte...».
«Così, questo è un addio, Harry, e buona fortuna. E il buon Dio maledica...».
«Senti, Charlotte. Mi ascolti?».
«Sì, cosa? Che c’è?».
«Senti. È buffo. Ho aspettato tutto il pomeriggio la tua telefonata, solo che non me ne sono reso conto fino a quando non mi hai telefonato. E solo adesso mi accorgo anche che lo sapevo benissimo che era sabato, mentre andavo all’ufficio postale... Mi senti, Charlotte?».
«Sì? Sì?».
«Ho milleduecentosettantotto dollari, Charlotte».
Il mattino dopo alle quattro, nel laboratorio vuoto, egli tagliò a striscette il portafogli e le tessere con una lametta da barba, le bruciò e gettò la cenere nel bagno. Il giorno dopo a mezzogiorno, con i due biglietti per Chicago e il resto dei milleduecentosettantotto dollari abbottonato in tasca e l’unica valigia posata sul sedile di fronte, guardava fuori del finestrino mentre il treno rallentava nella stazione di Carrollton Avenue. Erano là tutt’e due, il marito e la moglie, lui nel tradizionale abito scuro falsamente dimesso, la faccia inespressiva dell'accademico che conferiva un che di impeccabilmente appropriato all'atto paradossale di consegnare la moglie all'amante, atto quasi identico al convenzionale rito del padre della sposa che conduce la figlia in chiesa, e lei accanto a lui, con un abito scuro sotto il soprabito aperto, che fissava i finestrini, intenta, ma senza dubbi o nervosismo, sì che Wilbourne meditò di nuovo sull'abilità istintiva delle donne più innocenti e inesperte circa la meccanica della coabitazione, quella serena fiducia nei loro destini amorosi pari a quella degli uccelli nelle loro ali, quella fiducia tranquilla e spietata in una imminente e meritata felicità personale che le fa spiccare il volo a piene ali istantaneamente, dal sicuro asilo della rispettabilità allo spazio inesplorato lontano da ogni aiuto, ove non c'è riva in vista (non il peccato, egli pensava, non credo al peccato. Ma è come perdere il passo. Alla nascita ti trovi immerso in un’anonima marcia obbligata con la miriade d’altri del tuo tempo e della tua generazione: se a un certo momento perdi il passo, se vacilli appena, gli altri ti passano sopra calpestandoti a morte) e questo senza terrore né allarme, e senza quindi trasmettere né coraggio né forza: solo una fede completa e assoluta in eteree, fragili, intonse ali – ali, gli eterei e fragili simboli dell’amore che una volta erano loro mancate poiché, secondo la convenzione comune, avevano pensato alla cerimonia che ora, fuggendo, ripudiavano. I due sfrecciarono via e scomparvero, e mentre scomparivano Wilbourne vide il marito chinarsi e afferrare la valigia; l’aria fischiò nei freni ed egli sedette pensando, Egli salirà con lei, dovrà farlo, non lo desidererà più di quanto non lo desideri io (e lei?) ma dovrà farlo, esattamente come deve portare quei vestiti scuri ch’io non credo desideri portare, esattamente come dovette partecipare a quella serata e bere quanto gli altri, pur senza mai mettersi a sedere sul pavimento con una moglie (la sua o quella di qualcun altro) stravaccata sulle ginocchia.
E così d’un tratto sollevò gli occhi e li vide entrambi lì vicino a lui: anch’egli si alzò e si ritrovarono in piedi tutt’e tre, bloccando il passaggio mentre altri viaggiatori si facevano largo oppure aspettavano che si muovessero, Rittenmeyer con la valigia – quell'uomo che in circostanze ordinarie non avrebbe mai portato da sé una valigia in un treno in presenza d'un facchino così come non si sarebbe preso un bicchier d'acqua da sé in un ristorante; e guardando la faccia gelida e irreprensibile sopra l'irreprensibile camicia e l'irreprensibile cravatta, Wilbourne pensò con una sorta di stupore, Be’, soffre, soffre veramente, pensando come forse non sia col cuore o con la sensibilità che noi soffriamo, ma con la capacità di dolore o di vanità o d’illusione o magari di semplice masochismo. «Avanti,» disse Rittenmeyer «togliti dal passaggio». La sua voce era aspra, la sua mano quasi rude nello spingere la donna verso il sedile e mettere la valigia accanto all'altra. «Ricordati bene. Se non avrò tue notizie ogni dieci del mese, darò incarico al detective. E niente bugie, capito? Niente bugie». Si voltò verso Wilbourne, non lo guardò nemmeno, fece soltanto un cenno con la testa verso l'estremità della carrozza. «Voglio parlarle» disse con quel tono di furore represso. «Venga». Quando furono a metà del corridoio il treno si mise in moto, Wilbourne s'aspettava che l'altro corresse verso l'uscita, pensò di nuovo, Soffre; perfino le circostanze, un banale orario di treno, stanno facendo diventar commedia questa tragedia ch'egli deve recitare fino all’amara fine, o cessar di respirare. Ma l’altro neanche si affrettò. Continuò a camminare, scostò la tenda dello scompartimento per fumatori e attese che Wilbourne entrasse. Sembrò leggere la fuggevole sorpresa sulla faccia di Wilbourne. «Ho preso il biglietto fino a Hammond» disse in tono aspro. «Non si preoccupi per me». La domanda inespressa sembrò accenderlo; Wilbourne quasi lo vide lottare fisicamente per mantenere la voce su un tono basso: «Si preoccupi per sé, capito? Per sé. O quant’è vero Dio...». Poi trattenne nuovamente la voce, trattenendola come si fa con un cavallo che pure si spinga innanzi; tirò fuori il portafogli. «Se mai...» disse. «Se osa...».
Non riesce a dirlo, pensò Wilbourne. Non riesce nemmeno a dirlo. «Se non sarò buono con lei, gentile con lei. È questo che intende?».
«Io lo verrò a sapere» disse Rittenmeyer. «Se non avrò notizie di lei ogni dieci del mese, dirò al detective di procedere. E verrò a sapere anche se mi dite bugie, capito?». Tremava, la faccia irreprensibile arrossata sotto l'irreprensibile capigliatura che sembrava una parrucca. «Lei s'è portata centoventicinque dollari del suo, non ha voluto prendere altro denaro, e d'altronde, maledizione, non l'avrebbe speso, non ha voluto prenderlo nemmeno per il caso in cui si trovasse in bisogno, perciò lo do a lei». Trasse dal portafogli un assegno e lo diede a Wilbourne. Era un assegno di trecento dollari all'ordine della Pullman Company e in un angolo, in inchiostro rosso, portava: Per un biglietto ferroviario per New Orleans, Louisiana.
«Stavo per farlo io stesso con una parte del mio denaro» disse Wilbourne.
«Al diavolo» disse l’altro. «Questo è per il biglietto. Se verrà incassato e ritornerà alla banca senza che sia stato acquistato il biglietto la farò arrestare per appropriazione indebita. Capito? Lo verrò a sapere».
«Intende dire che vorrebbe che lei tornasse? Che se la riprenderebbe?». Non ebbe bisogno di guardar la faccia dell’altro; soggiunse subito: «Scusi. Ritiro ciò che ho detto. Nessuno potrebbe rispondere a una domanda simile».
«Dio» disse l’altro. «Dio. Dovrei prenderla a pugni» aggiunse in un tono d’incredulo stupore. «Perché non lo faccio? Me lo sa dire, lei? Un medico, un medico qualsiasi, non è un’autorità in fatto di ghiandole umane?».
Allora, d’improvviso, Wilbourne udì la propria voce levarsi dalla propria stupefatta, silenziosa incredulità; gli sembrava che entrambi se ne stessero, l’uno accanto all’altro, schierati in battaglia e condannati, perduti, dinanzi all’intero principio femminile: «Non so. Forse la farebbe sentir meglio». Ma il momento era passato. Rittenmeyer si voltò, trasse una sigaretta dalla tasca della giacca e prese un fiammifero dalla scatola attaccata alla parete. Wilbourne lo guardò – la schiena slanciata; si trattenne proprio sul punto di chiedergli se voleva che gli tenesse compagnia fino a Hammond. Ma di nuovo Rittenmeyer sembrò leggergli nel pensiero.
«Se ne vada» disse. «Si levi di torno e mi lasci in pace». Wilbourne lo lasciò dinanzi al finestrino e tornò al suo posto. Charlotte non sollevò gli occhi, rimase seduta, immobile, guardando fuori del finestrino, una sigaretta spenta fra le dita. Ora stavano correndo in riva al lago più grande, presto avrebbero cominciato a traversare il ponte tra i laghi di Maurepas e Pontchartrain. Arrivò il fischio della locomotiva e il treno rallentò mentre da sotto venne la vuota risonanza del ponte di traliccio. L'acqua si stendeva da ambo i lati, ferma e sconfinata, segnata da putridi moletti di legno ai quali erano attraccati piccoli battelli sudici. «Mi piace l'acqua» disse. «Ecco dove morire. Non nell'aria ardente, sopra la terra ardente, dove si deve aspettare per ore che il sangue si freddi e che si possa dormire, e anche settimane perché i capelli cessino di crescere. L'acqua, il freddo, perché ci si raffreddi velocemente e si possa dormire, per lavar via dal cervello e dagli occhi e dal sangue tutto ciò che si è visto e pensato e sentito e desiderato e negato. Lui è nello scompartimento fumatori, no? Posso andare a parlargli un minuto?».
«Se puoi andare...?».
«Hammond è la prossima stazione».
Ma se è tuo marito, stava quasi per dirle, ma si trattenne. «È uno scompartimento per signori» disse. «Forse sarebbe meglio...». Ma lei s’era già alzata e gli era passata davanti; egli pensò, Se si ferma e si volta a guardarmi vuol dire che pensa «Dopo potrò sempre pensare che almeno gli ho detto addio», ed ella si voltò e si guardarono, poi lei proseguì. Ora l’acqua s’era allontanata, il rumore del ponte era cessato, la locomotiva fischiò di nuovo e il treno riprese velocità, e quasi d’un tratto si trovò ad attraversare un sobborgo di casupole miserabili che doveva essere Hammond, e lui smise di guardar fuori dal finestrino mentre il treno si fermava, sostava, e poi riprendeva ad andare; egli non ebbe nemmeno il tempo di alzarsi ch’ella rientrò nello scompartimento e s’infilò al suo posto. «E così, sei tornata» disse lui.
«Non lo credevi, eh? Neanch’io».
«Ma sei tornata».
«Solo che non è finita. Se risalisse sul treno con un biglietto per Slidell...». Si volse, guardandolo, ma senza toccarlo. «Non è finita. Bisognerà tagliare».
«Tagliare?».
«“Se l’occhio tuo t’offende, cavalo, fanciullo, e sii completo”. Ecco com’è. Completo. Completamente perduto... o qualcosa del genere. Io devo darci un taglio. Il salottino in fondo era vuoto. Cerca il capotreno e noleggialo fino a Jackson».
«Il salottino? Ma costerà...».
«Scemo!» disse lei. Non mi ama, ora, egli pensò. Non ama nulla, in questo momento. Ella parlava in un intenso sussurro, battendosi il ginocchio col pugno. «Scemo!». Si alzò.
«Aspetta» disse lui, prendendola per il polso. «Vado io». Trovò il capotreno sulla piattaforma all’estremità del vagone; non stette via molto. «Fatto» disse. Lei si levò subito, prendendo la sua valigia e il soprabito. «Ora viene il facchino...» disse lui. Ma lei non si fermò. «Lascia che la porti io» le disse, prendendole la valigia, poi prese la sua e la seguì lungo il corridoio. In seguito ricordò quell’interminabile camminata tra i sedili con la gente che non aveva altro da fare che guardarli passare, e gli parve che tutti nel vagone conoscessero la loro storia, e d’aver diffuso un’aura d’empietà e di disastro come un profumo. Entrarono nel salottino.
«Chiudi la porta a chiave» disse lei. Egli depose le valigie e chiuse la porta. Non era mai entrato in uno di quei salotti e armeggiò con la chiave per un bel pezzo. Quando si voltò lei s’era tolta il vestito; le giaceva ai piedi, in un mucchio, e lei stava ritta, nella succinta sottoveste femminile del 1937, coprendosi la faccia con le mani. Poi scostò le mani e lui capì che non era né vergogna né verecondia – non se le era aspettate – e vide che non erano lacrime. Poi lei scavalcò il vestito e gli s’avvicinò e cominciò a disfargli la cravatta, scostandogli le dita fattesi improvvisamente goffe.