PALME SELVAGGE
Nuovamente s’udì bussare alla porta, un bussare discreto e perentorio insieme, mentre il dottore scendeva le scale dietro il raggio della torcia che saettava giù nella tromba delle scale tinte di marrone e sul rivestimento, pure tinto di marrone, dell’ingresso a terreno. Era un cottage sul mare, ma a due piani, illuminato con lampade a petrolio; anzi con una sola lampada, che la moglie s’era portata di sopra quando erano saliti dopo cena. Il dottore indossava una camicia da notte, non un pigiama, per la stessa ragione per cui fumava la pipa che non gli piaceva e sapeva non gli sarebbe mai piaciuta, oltre ai sigari che occasionalmente gli offrivano i pazienti negli intervalli delle domeniche, quando fumava i tre sigari che riteneva di potersi concedere benché possedesse quel cottage, quello attiguo, e quello in cui dimorava abitualmente, con luce elettrica e pareti intonacate, nel villaggio a quattro miglia di distanza. Aveva ormai quarantotto anni e ne aveva sedici, diciotto e venti all’epoca in cui suo padre diceva (e lui ci credeva) che le sigarette e i pigiama sono solo per gli effeminati e le donne.
Era passata mezzanotte, ma non di molto. Egli lo sapeva anche a parte il vento, il gusto, l’odore del vento, anche qui, dietro le porte e le finestre chiuse e sprangate. Poiché era nato qui, su questa costa – non in questa casa ma nell’altra, nel villaggio – e ci era vissuto sempre, compresi i quattro anni della facoltà di medicina all’Università dello Stato e i due anni d’internato a New Orleans, dove (un uomo tozzo anche da giovane, con mani da donna tozze e morbide, che non avrebbe mai dovuto fare il medico, che anche dopo i sei anni di vita più o meno cittadina guardava con una specie d’isolato stupore provinciale i suoi compagni di scuola e colleghi: gli snelli giovanotti che si pavoneggiavano nei loro camici, sui quali a lui sembrava portassero con una spietata, presuntuosa ostentazione, come decorazioni, come trofei floreali, le miriadi di facce anonime delle allieve infermiere) si era mezzo ammalato di nostalgia. Così si era laureato, più vicino all’ultimo del corso che non al primo, benché né l’uno né l’altro, ed era tornato a casa ed entro un anno aveva sposato la ragazza che suo padre aveva scelta per lui, e dopo quattro anni era divenuto proprietario della casa che suo padre s’era costruita e aveva ereditato la clientela che suo padre s’era fatta senza nulla perderne e nulla aggiungervi, e dopo dieci anni era divenuto proprietario non soltanto di quel cottage sul mare dove lui e la moglie trascorrevano le loro estati di coniugi senza prole ma anche di quello accanto, che affittava a villeggianti, o a comitive di gitanti o pescatori. La sera delle nozze lui e sua moglie erano andati a New Orleans e avevano trascorso due giorni in una stanza d’albergo, per quanto mai avessero fatto una vera luna di miele. E benché dormissero nello stesso letto ormai da ventitré anni, ancora non avevano figli.
Ma anche a parte il vento egli poteva dire più o meno che ora era dall’odore stantio della zuppa all’ibisco ormai fredda nella marmitta di terracotta posata sulla stufa fredda, oltre la sottile parete della cucina: la marmitta di zuppa che sua moglie aveva fatta quella mattina per mandarne ai loro vicini e inquilini della casa accanto, l’uomo e la donna che quattro giorni prima avevano affittato il cottage e che probabilmente non sapevano nemmeno che i donatori della zuppa non erano semplici vicini ma anche i loro padroni di casa – la donna bruna con quegli strani, duri occhi gialli e la pelle tirata sugli zigomi sporgenti e la mascella pesante (il dottore a tutta prima l’aveva definita torva, e poi l’aveva definita spaventata), giovane, seduta tutto il giorno in faccia al mare su una sedia a sdraio nuova da due soldi, con una logora maglietta, un paio di jeans sbiaditi e scarpe di tela, senza leggere, senza far niente, se ne stava semplicemente lì seduta in quella completa immobilità che al dottore (o al Dottore che era in lui) non rendeva necessaria la conferma della pelle tirata e della vuota fissità degli occhi che guardavano all’interno come ciechi, per riconoscere immediatamente quella completa, immobile astrazione da cui sono assenti perfino la sofferenza e il terrore, e nella quale una creatura vivente sembra ascoltare e perfino osservare qualcuno dei suoi organi indeboliti, diciamo il cuore – la segreta, irreparabile perdita di sangue; e l’uomo, giovane anche lui, con un paio di logori calzoncini kaki e una canottiera, senza cappello in una regione dove anche i giovani ritenevano fatale il sole estivo, che si vedeva di solito camminare scalzo sulla spiaggia, lungo la linea di alta marea, e che tornava con una fascina di legna legata con una cinghia, passando dinanzi alla donna, immobile sulla sedia a sdraio, senza ricevere da lei alcun segno, un moto del capo, o forse nemmeno degli occhi.
Ma non si trattava del cuore, si diceva il dottore. Aveva stabilito questo fin dal primo giorno in cui, senza l’intenzione di spiare, aveva osservato la donna attraverso i cespugli d’oleandri che separavano i due lotti. E tuttavia questa stessa ipotetica esclusione gli pareva dover contenere il segreto, la risposta. A lui sembrava già d’intravedere la verità, l’oscura, indefinita sagoma della verità, quasi che un velo soltanto lo separasse da essa, come lo schermo delle foglie d’oleandro lo separava dalla donna viva. Egli non origliava né spiava; forse pensava, Avrò tempo in abbondanza per sapere quale organo ella stia ascoltandosi; hanno pagato due settimane d’affitto (forse anche in quell’occasione il Dottore in lui sapeva che non sarebbero occorse settimane ma soltanto giorni), pensando che se ella avesse avuto bisogno d’assistenza sarebbe stata una fortuna che lui, il padrone di casa, fosse anche medico, ma poi gli venne in mente che siccome essi probabilmente ignoravano che egli era il padrone di casa, probabilmente non sapevano neanche che era medico.
Il mediatore gli aveva parlato per telefono dell’affitto della casa. «La donna porta i calzoni» aveva detto il mediatore. «Voglio dire, non quei calzoncini da donna ma veri e propri calzoni, calzoni da uomo. Voglio dire che son troppo stretti per lei proprio nei punti in cui l’uomo li vorrebbe piccoli, ma una donna no, a meno che non li porti lei stessa. Credo che alla signora Martha non piacerà troppo, questa storia».
«Non avrà nulla a ridire se pagheranno regolarmente l’affitto» aveva detto il dottore.
«Niente paura, che diavolo» aveva detto il mediatore. «A questo penso io. Non per niente faccio questo lavoro da tanti anni. Gli ho detto: “Bisognerà pagare anticipato” e lui ha detto: “Benissimo, benissimo. Quanto?” manco fosse Vanderbilt, con quei calzonacci sporchi da pescatore e la canottiera sotto la giacca, e ha tirato fuori il malloppo, aveva in tutto due biglietti da dieci e uno gliel’ho cambiato io; e gli dico: “Naturalmente, se volete prendere la casa così com’è, con la mobilia che c’è, potete averla abbastanza per poco”, e lui dice: “Benissimo, benissimo. Quanto?”. Potevo chiedergli di più, forse, perché, se vuol saperlo, lui non vuole altra mobilia, vuole solo quattro pareti e una porta per chiudersi dentro. E lei non è nemmeno scesa dal taxi. Se n’è rimasta dentro a aspettare, con quei calzoni troppo stretti per lei, proprio nei punti dove debbono esserlo». La voce era cessata; ora la testa del dottore era piena del ronzio sospeso della linea, del crescente gorgoglìo di un silenzio pieno di ilarità, sì che aveva detto in tono quasi brusco:
«Ebbene? Vogliono altra mobilia sì o no? Nella casa non c’è altro che un letto, e il materasso non...».
«No, no, non vogliono nient’altro, gli ho detto che nella casa c’era un letto e una cucina economica, loro avevano una sedia, una di quelle sedie di tela, ripiegata nel taxi, accanto alla valigia. E così son sistemati». E quella pausa di riso silenzioso aveva riempito nuovamente la testa del dottore.
«Ebbene?» aveva detto il dottore. «Che c’è? Che le succede?» per quanto gli paresse di sapere già prima che l’altro parlasse ciò che la voce avrebbe detto:
«Credo ci sia qualcosa che per la signora Martha sarà più dura da mandar giù che non quella faccenda dei calzoni. Non credo siano sposati. Oh, lui dice di sì, naturalmente, e non credo che menta per quel che riguarda lei, e forse nemmeno per quel che riguarda lui. Il guaio è che non sono sposati tra loro, che lei non è sposata con lui. Perché lo fiuto subito, io, un marito. Fatemi vedere una donna che non ho mai vista, per la strada, a Mobile o a New Orleans, e io fiuto subito se...».
In quello stesso pomeriggio avevano preso possesso del cottage, di quella capanna che conteneva un unico letto le cui molle e il cui materasso non erano in condizioni troppo buone, e la cucina economica con l’unica padella incrostata da generazioni di fritture di pesce, e la caffettiera e la sparuta dotazione di cucchiai, coltelli, forchette di ferro scompagnati e tazze e piattini incrinati e recipienti che un tempo avevano contenuto marmellata o conserva, e la sedia a sdraio nuova sulla quale la donna stava tutto il giorno, apparentemente a osservare le fronde delle palme sbattere con il loro suono selvaggio, secco e amaro contro la lucente superficie dell’acqua, mentre l’uomo portava in cucina la legna raccolta sulla spiaggia. Due mattine prima il furgone del latte che faceva la strada costiera s’era fermato lì davanti, e una volta la moglie del dottore aveva visto l’uomo tornare lungo la spiaggia da un negozietto di alimentari gestito da un ex pescatore portoghese, con una pagnotta e un sacchetto di carta rigonfio. E aveva detto al dottore d’aver visto l’uomo mettersi a pulire (o a cercar di pulire) un mucchio di pesce sugli scalini della cucina, parlandone al dottore con acida, scandalizzata convinzione – una donna sfatta benché non grassa, e nemmeno paffuta come il dottore, che aveva cominciato a diventare tutta grigia una decina di anni prima, come se i capelli e la carnagione venissero alterati gradatamente, insieme con il colore degli occhi, dal colore degli abiti da casa con i quali sembrava volerli armonizzare. «Stava combinando proprio un bel pasticcio!» aveva esclamato. «Un bel pasticcio, stava combinando, lì fuori della cucina, e chissà che pasticcio avrà fatto sui fornelli!».
«Può darsi che la donna sappia cucinare» aveva detto il dottore in tono mite.
«Dove, come? Stando seduta in giardino? Bisognerebbe che lui le portasse fuori la cucina e tutto il resto!». Ma non era questo che la offendeva, per quanto non lo dicesse. Non diceva «Non sono sposati», benché proprio questo occupasse la mente d’entrambi. Entrambi sapevano che una volta pronunziata questa frase egli avrebbe dovuto metter fuori gl’inquilini. Tuttavia s’astenevano dal dirla, e per un’altra ragione ancora, oltre quella che il mandarli via l’avrebbe messo nell’obbligo morale di restituire il denaro dell’affitto; v’era anche un’altra ragione, almeno da parte di lui, e cioè ch’egli pensava, Avevano soltanto venti dollari. E son già passati tre giorni. E lei ha qualcosa che non va, il Dottore che parlava ora più forte del provinciale protestante, il battista nato. E qualcosa (forse era anche qui il Dottore) parlava più forte anche della battista di provincia ch’era in lei, poiché stamane ella lo aveva svegliato, l’aveva chiamato alla finestra a cui s’era affacciata, discinta nella camicia da notte di cotonina fatta come un sudario e coi capelli grigi attorcigliati in diavoletti di carta, per mostrargli l'uomo che se ne veniva dalla spiaggia, all'alba, con la sua fascina. E quando lui (il dottore) era tornato a casa a mezzogiorno essa aveva fatto la zuppa all'ibisco, in quantità enorme, sufficiente per una dozzina di persone, con quella arcigna frugalità samaritana delle brave massaie, come se traesse un arcigno, vendicativo e masochistico piacere dal fatto che il gesto samaritano sarebbe stato compiuto al prezzo del suo avanzo, che sarebbe rimasto invincibile e inesauribile sul fornello per giorni e giorni, per essere riscaldato e riscaldato e poi riscaldato ancora fino a che non fosse stato tutto consumato da due persone cui nemmeno piaceva, due persone che, nate e cresciute in riva al mare, tra tutti i pesci avevano predilezione per il tonno, il salmone e le sardine in scatola, immolati e imbalsamati a tremila miglia di distanza nell'olio del macchinario e del commercio.
Egli stesso aveva portato la ciotola – un uomo piuttosto piccolo, grassoccio, trascurato, con un abito di lino non troppo pulito, attraversando di sbieco, un po’ goffamente, la siepe d’oleandri con la ciotola coperta da una salvietta di lino ancora con le pieghe (e non era mai stata nemmeno lavata, da quanto era nuova), conferendo un’aria d’impacciata amabilità al simbolo ch’egli portava del suo intransigente gesto cristiano, compiuto senza sincerità né pietà ma per senso del dovere, e l’aveva posata a terra (lei non s’era alzata dalla sedia, né s’era mossa se non per quei duri occhi di gatto) come se la ciotola contenesse nitroglicerina, la maschera paffuta, non sbarbata, che sorrideva scioccamente, ma dietro la maschera gli occhi del Dottore accorto ch’era in lui, onniveggenti, acuti nell’esame senza sorriso ma senza diffidenza della faccia della donna che non era magra ma addirittura macilenta, pensando, Sì. Uno o due gradi. Forse tre. Ma non si tratta del cuore, e poi svegliandosi, riscuotendosi, per trovare quegli smorti occhi senza sguardo che lo fissavano – e per sua certa cognizione difficilmente potevano averlo visto prima – con un odio profondo e sconfinato. Una cosa del tutto impersonale, come quando una persona che già provi gioia guarda anche un palo, un albero, con piacere e felicità. Egli (il dottore) non era vanitoso, e del resto l’odio non era diretto a lui. È verso l’intera razza umana, aveva pensato. Cioè, no, no, un momento... il velo stava per squarciarsi, gli ingranaggi della deduzione stavano per combinarsi. Non verso la razza umana ma verso la razza degli uomini, la razza mascolina. Ma perché? Perché? Sua moglie avrebbe notato la tenue traccia dell’anello matrimoniale mancante, ma lui, il dottore, aveva visto di più: Ha avuto dei figli, aveva pensato. Per lo meno uno; mi ci giocherei la laurea. E se Cofer (il mediatore) ha ragione di dire che l’uomo non è il marito... e dovrebbe intendersene, dovrebbe saper fiutarlo, come dice lui, poiché se si occupa di questa faccenda d’affittare i cottage sul mare è per la stessa ragione o sotto lo stesso impulso, o vicaria necessità, che spinge certa gente di città ad affittare camere ammobiliate a coppie clandestine o a persone sotto falso nome... Diciamo che è arrivata a odiare la razza degli uomini tanto da abbandonare marito e figli; va bene. Eppure, non soltanto se n'è andata con un altro uomo ma vive in miseria ed è malata, veramente malata. Oppure, l’aver abbandonato marito e figli per un altro uomo, per vivere in miseria, e poi aver... aver... Li percepiva, li udiva gl’ingranaggi, scattare, ruotar veloci; sentiva una terribile urgenza di mantenere il contatto, nel timore che quando l’ultimo ingranaggio fosse scattato e il campanello della comprensione avesse suonato egli potesse non essere vicino abbastanza per vederlo e udirlo: Già, già. Che cosa può averle fatto l’uomo come razza perché debba guardare me in quanto suo rappresentante, me che non ha mai visto e che non guarderebbe una seconda volta se mi avesse già visto, con lo stesso odio che lui deve attraversare ogni volta che viene su dalla spiaggia con una bracciata di legna per cucinare proprio il cibo che lei mangia?
Non s’era offerta nemmeno di prendergli il vassoio. «Non è minestra, è zuppa all’ibisco» aveva detto lui. «L’ha fatta mia moglie. Lei... noi...». La donna non s’era mossa, e l’aveva guardato chinarsi, grasso, con la sua giacca spiegazzata, mentre reggeva il vassoio con precauzione; egli non aveva nemmeno udito l’uomo fino a che la donna non gli s’era rivolta.
«Grazie» aveva detto. «Portala in casa, Harry». E ora non guardava nemmeno più il dottore. «Ringrazi sua moglie» aveva detto.
Stava pensando ai suoi due inquilini mentre scendeva le scale dietro l’oscillante filo di luce, nell’odore stantio dell’ibisco che riempiva il vestibolo, verso la porta, il bussare. Ma non per un presentimento o per una premonizione che chi bussava fosse l’uomo chiamato Harry. Perché da quattro giorni non pensava ad altro, quest’ometto di mezza età un po’ sporco di tabacco, nell’antiquata tenuta notturna da teatro comico, tratto dal dormiveglia nel vecchio insipido letto della moglie sterile che già pensava (e forse ne stava sognando) alla profonda, torbida fiamma di odio cieco nello sguardo di quella strana donna; e nuovamente con quel senso d’imminenza, di essere separato da qualcosa solo da un velo, di procedere a tentoni appena al di qua del velo, e anche di toccare, ma non proprio, di quasi vedere, ma non proprio, la forma della verità, così che, senz’accorgersene, s’arrestò di colpo per le scale nelle sue pantofole vecchio stile, pensando in un lampo, Già, già. Qualcosa che l’intera razza degli uomini, dei maschi, le ha fatto, o ch’ella crede le abbia fatto.
Il bussare riprese, come se a causa di qualche mutamento del raggio della torcia che passava sotto la porta chi bussava si fosse accorto ch’egli s’era fermato, e riprendesse a bussare con quella diffidente insistenza di un estraneo in cerca d’aiuto a notte fonda, e di nuovo il dottore si mosse, non in risposta al rinnovato bussare, lui che non aveva avuto alcun presentimento, ma come se il ripetersi del bussare avesse semplicemente coinciso col risorgere in lui di quel vano oscillare tra congetture, brancolamenti, ricapitolazioni che l’avevano oppresso negli ultimi quattro giorni: come fosse l’istinto, non la mente, a rimetterlo in moto, il corpo capace di movimento, nella fiducia che il procedere fisicamente lo potesse portare più vicino a quel velo nell’istante in cui si sarebbe squarciato, rivelandogli nel suo inviolabile isolamento quella verità ch’egli quasi toccava. Così fu senza premonizione che aprì la porta, scrutò fuori, dirigendo il raggio della torcia sulla persona che aveva bussato. Era l’uomo di nome Harry. Stava lì nel buio, nel forte e costante vento marino pieno del secco sbattere delle fronde invisibili delle palme, come il dottore l’aveva sempre visto, coi sudici calzoncini e la canottiera, e barbugliava i convenevoli sul disturbare a quell’ora e l’estrema necessità, e chiedeva di poter telefonare, mentre il dottore, con la camicia da notte che gli sventolava sui fiacchi polpacci, scrutava il visitatore e pensava in un selvaggio impeto di trionfo: Adesso saprò di che si tratta. «Sì» disse. «Ma non c’è bisogno che telefoni. Io sono medico».
«Oh» fece l’altro. «Può venire subito?».
«Sì. Lasci soltanto che m’infili i calzoni. Di che si tratta? Così so che cosa devo portare».
L’altro esitò un istante; anche questa era cosa familiare al dottore, gli era già capitata altre volte e credeva di conoscerne l’origine: l’innato e insopprimibile istinto degli uomini di tentar di nascondere una parte della verità anche al medico o all’avvocato per la cui abilità ed esperienza essi pagano. «Le esce sangue» disse. «Quanto sarà il suo onorario...».
Ma il dottore non gli badò. Stava parlando tra sé: Ah, già. Come mai non ci avevo... Polmoni, naturalmente. Come mai non ci avevo pensato? «Sì» disse. «Vuole attendere qui? O non preferisce entrare? Farò in un minuto».
«Aspetto qui» disse l’altro. Ma il dottore non udì nemmeno questo. Stava già risalendo le scale di corsa; entrò in camera dove sua moglie, a letto, si sollevò su un gomito e rimase a osservarlo mentre lui lottava con i calzoni, la sua ombra grottesca proiettata sulla parete dalla lampada posata sul comodino, e anche l’ombra di lei, mostruosa, medusea per i bigodini che le avvolgevano rigidamente i capelli grigi, sopra la faccia grigia, sopra la camicia da notte accollata, anche questa d’aspetto grigio, come se ogni suo indumento avesse fatto proprio l’arcigno color ferro della sua implacabile e invincibile moralità che, il dottore l’avrebbe capito più tardi, era quasi onnisciente. «Già» disse lui. «Le esce sangue. Probabilmente un’emorragia. Polmoni. Ma come mai, in nome del cielo, non ci avevo...».
«È più facile che lui l’abbia ferita con un coltello o le abbia sparato» disse lei in un tono freddo e acido. «Anche se dallo sguardo che c’era nei suoi occhi l’unica volta che l’ho vista da vicino avrei detto che sarebbe più lei il tipo da ferire o sparare».
«Sciocchezze» disse lui contorcendosi nell’infilare le bretelle. «Sciocchezze». Nemmeno ora stava parlando con lei. «Stupido. Portarla proprio qui, con tutti i posti che ci sono. Al livello del mare. Sulla costa del Mississippi. Vuoi che spenga la lampada?».
«Sì. Probabilmente resterai là per un pezzo, se devi aspettare che ti paghino». Lui soffiò sulla lampada e ridiscese le scale dietro la luce della torcia. La borsa nera era posata sul tavolo del vestibolo accanto al cappello. L’uomo di nome Harry se ne stava ancora là, appena fuori della porta d’ingresso.
«Forse è meglio che la prenda adesso» disse.
«Cosa?» disse il dottore. S’interruppe, guardando giù, dirigendo la luce verso l’unica banconota che l’altro gli porgeva. Anche se non avesse speso niente ora dovrebbe avere soltanto quindici dollari, pensò. «Dopo, dopo» disse. «Sarà meglio affrettarsi». S’incamminò seguendo il raggio saltellante della torcia, trotterellando accanto all’altro che camminava, attraversando il proprio giardinetto leggermente riparato e la siepe d’oleandri, e si trovò in pieno nel vento di mare che sbatteva tra le palme nascoste e sibilava attraverso l’erba aspra e salmastra dell’incolto appezzamento attiguo. Scorse una debole luce nell’altra casa. «Le esce sangue, eh?» disse. Era buio: il vento invisibile soffiava forte e costante tra le invisibili palme, dal mare invisibile: un suono aspro e continuo, pieno del mormorio della risacca sulla barriera di isole dinanzi alla costa, le lingue e le dune di sabbia arginata dai pini intisichiti squassati dal vento. «Un’emorragia?».
«Cosa?» disse l’altro. «Un’emorragia?».
«No?» disse il dottore. «Forse tossisce con un po’ di sangue, allora? Sputa solo un po’ di sangue quando tossisce, eh?».
«Sputa?» disse l’altro. Fu il tono, non le parole. Non era diretto al dottore ed era oltre l’ilarità, come diretto a qualcosa d’inaccessibile all’ilarità: non fu il dottore che si fermò; il dottore continuava a trotterellare con le sue corte gambette di persona sedentaria dietro il raggio traballante della torcia verso la debole luce in attesa, fu il battista, il provinciale, che sembrò arrestarsi, mentre l’uomo, non il medico ora, pensava, non con sorpresa ma con una sorta di disperato stupore: Dovrò dunque vivere per sempre dietro una barricata di perpetua innocenza come un pollo nel pollaio? Parlò forte, quasi con prudenza; il velo stava per sparire, per dissolversi, stava per squarciarsi, ora, e ora egli non voleva vedere quello che c’era dietro; sapeva che non osava guardare per il proprio bene per tutto il resto della sua vita, e sapeva che adesso era troppo tardi e che non poteva farci niente; udì la sua voce fare quella domanda ch’egli non avrebbe voluto fare per ottenere quella risposta che non avrebbe voluto udire:
«Dice che le esce sangue. Da dove le esce?».
«E da dove esce sangue, alle donne?» esclamò l’altro in tono aspro, esasperato, senza fermarsi. «Io non sono medico, se lo fossi crede che sprecherei cinque dollari per lei?».
Il dottore non udì nemmeno quest’ultima frase. «Ah» fece. «Già. Capisco. Già». E si fermò, adesso. Non s’accorse d’aver cessato di avanzare giacché il vento buio e costante continuava a soffiare attorno a lui. È perché sono nell’età sbagliata, per questo, pensò. Se avessi venticinque anni potrei dire, Dio ti ringrazio che non sono lui perché saprei che sarebbe solo una fortuna momentanea, ma forse domani o l’anno prossimo potrebbe capitare a me e quindi non avrei alcun bisogno d’invidiarlo. E se ne avessi sessantacinque potrei dire, ti ringrazio che non sono lui, dal momento che allora saprei d’essere troppo vecchio perché questo fosse possibile, e perciò mi sarebbe inutile invidiarlo perché ha la prova sul corpo dell’amore e della passione e della vita che egli non è morto. Invece ho quarantotto anni e non pensavo di meritarmi questo. «Aspetti» disse. «Aspetti». Quello si fermò: rimasero l’uno di fronte all’altro, leggermente piegati contro il vento buio pieno del rumore selvaggio e secco delle palme.
«Mi sono offerto di pagarla» disse l’altro. «Non bastano cinque dollari? Se non bastano, vuole darmi il nome di qualcuno che si contenti, e mi permette di usare il suo telefono?».
«Aspetti» disse il dottore. E così, Cofer aveva ragione, pensò. Non siete sposati. Ma perché doveva dirmelo così? Non disse questo, naturalmente, disse: «Voi non avete... Non siete... Che cosa fa, lei?».
L’altro, più alto, piegato sotto il vento, lo sguardo abbassato sul dottore con impazienza, si tratteneva a stento. Nel vento nero, la casa, la casupola invisibile, la debole luce disegnata non già da una porta o una finestra ma piuttosto come una striscia d’una bandiera sbiadita e dimenticata, rigida e immobile nel vento. «Come, che cosa faccio?» disse. «Cerco di dipingere. È questo che intende?».
«Di dipingere cosa? Qui non si costruisce più, non c’è più prosperità, più nessuna possibilità di sviluppo. È tutto finito nove anni fa. Vuol dire che è venuto qui senza nessuna offerta di lavoro, senza un’ombra di contratto? ».
«Io dipingo quadri» disse l’altro. «Almeno credo... Ebbene? Devo farla, questa telefonata, o no?».
«Dipinge quadri...» disse il dottore. Parlava con quel tono di tranquillo stupore che trenta minuti più tardi, e poi domani, e domani ancora, avrebbe oscillato tra l’indignazione, il risentimento e la disperazione: «Be’, forse continua a perder sangue. Andiamo». Proseguirono. Lui entrò nella casa per primo, e in quel momento si rese conto che aveva preceduto l’altro non già in quanto ospite né come proprietario ma perché sentiva ch’egli solo, tra loro due, aveva il diritto d’entrare finché la donna era in quella casa. Si trovarono al riparo dal vento. Il vento ora semplicemente si appoggiava, nero, costante e imponderabile, contro la porta che l’uomo di nome Harry aveva richiusa dietro di loro: e d’un tratto il dottore sentì nuovamente l’odore della zuppa acida e fredda. Sapeva anche dove doveva essere; poteva quasi vedere dov’era posata, intatta (Non l’hanno nemmeno assaggiata, pensò. E perché avrebbero dovuto? Perché mai, in nome di Dio, avrebbero dovuto assaggiarla?) sulla stufa fredda – la conosceva bene, quella cucina –, la stufa rotta, i pochi recipienti, la sparuta dotazione di forchette e coltelli e cucchiai rotti, i recipienti per bere che una volta, con le loro vistose etichette, avevano contenuto sottaceti o marmellata di fabbrica. Conosceva bene tutta la casa, ne era il proprietario, l’aveva fatta costruire lui: le pareti sottili (che non erano nemmeno fatte a incastro come in quella dove abitava lui ma a battuta, e le cui sommarie commessure lavorate e contorte dall’aria umida e salmastra lasciavano trapelare l’intimità dell’interno come calze bucate o calzoni rotti), piene dei mormorii dei fantasmi delle migliaia di giornate e nottate d’affitto sulle quali lui (ma non sua moglie) aveva chiuso gli occhi, insistendo soltanto perché ogni comitiva mista che vi pernottasse fosse in numero dispari, a meno che la coppia fosse di sconosciuti che si dichiaravano formalmente marito e moglie, com’era in questo caso, anche se lui sapeva come stavano le cose, e sapeva anche che sua moglie lo sapeva meglio di lui. Poiché era questo, questo il senso di collera e d’indignazione che si sarebbe alternato con la disperazione, domani e in seguito: Perché dirmelo? pensava. Gli altri non me l’hanno detto, non mi hanno sconvolto, non hanno portato qui ciò che avete portato voi, benché io non sappia che cosa possano aver portato via.
D’un tratto vide la debole luce della lampada oltre la porta aperta. Ma avrebbe riconosciuto la porta anche se non vi fosse stata la luce a guidarlo, la porta al di là della quale era il letto, quel letto nel quale sua moglie diceva che non avrebbe fatto dormire nemmeno una serva negra; udì l’altro dietro di sé e solo allora s’accorse che l’uomo di nome Harry era ancora scalzo e che stava per sorpassarlo ed entrare per primo nella stanza, e pensò (il dottore) di doversi tenere indietro, lui che ora aveva un minimo di diritto di entrare, provando un terribile desiderio di ridere, pensando, Vedete, io non conosco l’etichetta, perché quando ero giovane e vivevo nelle città, dove a quanto pare capitano di questi casi, credo avessi paura, troppa paura, e si fermò poiché l’altro s’era fermato: così che al dottore parve, in un muto e sicuro lampo di ciò che non avrebbe mai saputo essere autentica chiaroveggenza, che entrambi s’erano fermati come per consentire all’ombra, al fantasma del legittimo marito, oltraggiato e assente, di precederli. Fu un rumore proveniente dall’interno della stanza a farli muovere – il rumore d’una bottiglia contro un bicchiere.
«Solo un minuto» disse l’uomo di nome Harry. Entrò rapido nella stanza; il dottore vide, gettati sulla sedia a sdraio, quei jeans scoloriti che erano troppo stretti per lei proprio nei punti giusti. Ma non si mosse. Udì soltanto il rapido calpestio dei piedi scalzi dell’uomo sul pavimento e poi la sua voce tesa, non alta, calma, del tutto gentile: così che d’un tratto il dottore credette di sapere perché non vi era né dolore né terrore sul viso della donna: perché l’uomo se ne faceva carico esattamente come si faceva carico della legna per il fuoco e (senza dubbio) cucinava il cibo che ella mangiava. «No, Charlotte» disse. «Non devi. Non puoi. Torna a letto, ora».
«Perché non posso?» disse la voce della donna. «Perché diavolo non posso?» e ora il dottore li udì lottare. «Lasciami andare, maledetto bastardo buono a nulla» (fu «carogna» l’appellativo che il dottore credette di udire). «Me l’hai promesso, carogna. Ti chiedevo solo questo, e tu l’hai promesso. Perché ascolta, carogna...». Il dottore udì la voce prendere un tono segreto, astuto, ora. «Non è stato lui, capisci? Non è stato quel bastardo di Wilbourne. Gli ho fatto una carognata come l’ho fatta a te. È stato l’altro. Tanto tu non puoi. Giurerò sul mio culo come una volta giuravano sulla pancia; nessuno sa mai la verità sul conto di una puttana, nessuno può condannare nessuno...». Il dottore le udiva, le due paia di piedi scalzi; facevano un rumore come se danzassero, furiosamente e infinitesimalmente e senza scarpe. Poi si fermarono e la voce non fu più astuta né segreta. Ma dov’è la disperazione? pensava il dottore. Dov’è il terrore? «Gesù, ecco che ricomincia. Harry! Harry! Me l’hai promesso!».
«Son qua io. Va tutto bene. Torna a letto, ora».
«Dammi da bere».
«No. Ti ho detto basta. Ti ho detto perché. Hai male, ora?».
«Gesù, non lo so. Non posso dirlo. Dammi da bere, Harry, così magari ricomincia di nuovo».
«No, non è possibile, ormai. È troppo tardi perché possa ricominciare. E poi ora c’è qui il dottore. Lo farà ricominciare lui. Ora ti metto la camicia così può entrare».
«E così rischio d’insanguinare l’unica camicia da notte che ho mai avuto».
«È per questo che l’abbiamo comprata. Forse è quel che ci vuole perché ricominci. Vieni, ora».
«E perché hai chiamato il dottore, allora? Perché sprecare cinque dollari? Oh, dannato buono a nulla... No, no, no, no. Presto, ecco che ricomincio. Tienimi, presto. Mi fa male. Non riesco a trattenermi. Oh, maledetto, maledetto, maledetto...». Si mise a ridere; era un riso aspro, non forte, come conati o tosse. «Ecco. Ecco. Come ai dadi. Viene sette, viene undici. Magari se posso continuare a dirlo...». Egli (il dottore) le udiva, le due paia di piedi nudi sul pavimento, poi il rugginoso lamento delle molle del letto, la donna che ancora rideva, non forte, con la stessa astratta e furiosa disperazione che le aveva visto negli occhi al di sopra della ciotola d’ibisco a mezzogiorno. Restava lì, con la sua logora borsa nera dei ferri, a guardare i jeans scoloriti tra la massa degli altri indumenti sulla sedia a sdraio; vide riapparire l’uomo di nome Harry e scegliere in mezzo a essi una camicia da notte e di nuovo scomparire; il dottore guardò la sedia. Già, pensò. Proprio come la fascina. Poi l’uomo di nome Harry si fece sulla porta.
«Può entrare, ora» disse.