PALME SELVAGGE

A incontrarli al loro arrivo non trovarono né il direttore della miniera né sua moglie – una coppia anche più giovane e tuttavia notevolmente più dura, almeno nell’espressione del volto, di Charlotte e Wilbourne. Buckner, si chiamavano, e tra di loro si chiamavano Buck e Bill. «Ma il mio vero nome è Billie, con la i-e» disse la signora Buckner con un aspro accento del West. «Io sono del Colorado. Buck è del Wyoming».

«Proprio un nome da puttana, no?» disse Charlotte cordialmente.

«Come? Cosa intende dire?».

«Nient’altro che questo, non intendevo offenderla. Una che si chiama Billie potrebbe essere una brava puttana. Quello che vorrei essere io».

La signora Buckner la guardò. (Questo avveniva mentre Buckner e Wilbourne erano andati al magazzino a ritirare le coperte, le giacche di pelle di pecora, e la biancheria e le calze di lana). «Voi non siete sposati, vero?».

«Che cosa glielo fa pensare?».

«Non so. Qualcosa».

«Infatti non lo siamo. Spero che non gliene importi, visto che dovremo vivere tutti insieme nella stessa casa».

«E perché dovrebbe importarmene? Anch’io e Buck ci abbiamo messo un sacco a sposarci. Ma adesso è tutto in regola». Non era trionfante, ma compiaciuta. «E l’ho anche messo da parte per bene. Nemmeno Buck lo sa, dove l’ho messo. Non è che faccia molta differenza, Buck è un tipo a posto. Ma per una ragazza è bene mettersi al sicuro».

«Che cosa ha messo da parte?».

«Il documento. Il certificato di matrimonio». Più tardi (mentre stava preparando la cena e Wilbourne e Buckner erano ancora alla miniera, dall’altra parte del canyon) disse: «Si faccia sposare».

«Forse lo farò» disse Charlotte.

«Lo costringa. È meglio. Specialmente quando si è nei guai».

«È nei guai, lei?».

«Sì, da circa un mese».

Quando il treno della miniera – una locomotiva senza ciminiera, senza testa né coda, tre vagoncini e una cambusa che conteneva poco più di una stufa – raggiunse il capolinea pieno di neve, non v’era nessuno in vista salvo un sudicio gigante che a quanto pareva avevano colto totalmente di sorpresa, con un sudicio giaccone foderato di pelle di pecora, occhi pallidi che gli davano l’aria di non aver dormito molto, negli ultimi tempi, con una faccia sudicia che evidentemente non era stata sbarbata e lavata da diverso tempo – un polacco dall’aria feroce, orgogliosa, selvatica e un po’ matta, che non parlava l’inglese, che vociferava e gesticolava con violenza additando l’opposto versante del canyon dove si aggrappavano una mezza dozzina di case, fatte più che altro di lamiera, sepolte nella neve fino alle finestre. Il canyon non era largo, era una specie di fosso, un canale dalle pareti erte, strapiombanti, con la neve intatta che rimpiccioliva, pur essendone ferita e sfigurata, l’entrata del pozzo della miniera, il deposito dei rifiuti, le poche costruzioni; oltre l’orlo del canyon, le vere e proprie cime inaccessibili, sfilacciate di nubi da qualche incredibile vento, si levavano contro il cielo sporco. «In primavera sarà bello» disse Charlotte.

«Speriamo» disse Wilbourne.

«Sarà bello. È già bello adesso. Ma andiamocene, tra un minuto sarò gelata».

Wilbourne fece un altro tentativo col polacco. «Direttore» disse. «Quale casa?».

«Sì; capo» disse il polacco. E nuovamente agitò la mano verso l’opposto versante, si mosse con una velocità incredibile per la sua stazza e, mentre Charlotte dava un balzo indietro per subito riprendersi, accennò alle sue leggere scarpette nella neve battuta che le arrivava alle caviglie, poi le prese i risvolti del mantello con le mani sudice e glieli accostò sul collo con una delicatezza quasi femminea, abbassando gli occhi pallidi su di lei con un’espressione a un tempo feroce, selvaggia e tenera; la spinse avanti con colpetti sulla schiena che si conclusero poi con una vera e propria sculacciata. «Corere» disse. «Corere».

Allora videro e imboccarono il sentiero che traversava la stretta valle. Cioè, non era un vero e proprio sentiero sgombro di neve o di neve calpestata, era semplicemente che qui il livello della neve era più basso, largo appena da lasciar passare un uomo tra due pareti di neve che in certo qual modo lo proteggevano dal vento. «Forse vive nella miniera e torna a casa soltanto per il weekend» disse Charlotte.

«Ma mi hanno detto che ha moglie. Che cosa farà lei?».

«Può anche darsi che il trenino arrivi soltanto una volta la settimana».

«Non devi aver visto il macchinista».

«E neanche sua moglie» disse lei; fece un suono di disgusto. «Non è granché, come battuta. Scusami, Wilbourne».

«Ti scuso».

«Scusatemi, montagne. Scusami, neve. Credo che tra un momento gelerò».

«Comunque lei stamattina non c’era» disse Wilbourne. Né il direttore era alla miniera. Scelsero una casa, non alla cieca e non perché fosse la più grande, e infatti non lo era, né perché aveva un termometro (che registrava dieci gradi sotto zero) accanto alla porta, ma semplicemente perché fu la prima casa che trovarono e ora, per la prima volta in vita loro, avevano fatto una profonda e indelebile conoscenza intima con il freddo, un freddo che lasciava un marchio incancellabile e indimenticabile in qualche parte dello spirito e della memoria, come la prima esperienza sessuale o l’esperienza di uccidere un essere umano. Wilbourne bussò a quella porta con una mano che non poteva nemmeno sentire il legno e non aspettò la risposta, aperse e spinse Charlotte in quell’unica stanza dove un uomo e una donna, vestiti con identici indumenti, camicia di lana, jeans e calzettoni di lana, senza scarpe, sedevano di qua e di là di un’asse posata sopra un barilotto, sulla quale era sparso un consunto mazzo di carte disposto per un qualche gioco, e alzarono gli occhi su di loro con espressione stupefatta.

«Vuol dire che vi ha mandati proprio Callaghan?» Buckner disse.

«Sì» disse Wilbourne. Udiva a circa tre metri di distanza Charlotte e la signora Buckner, con Charlotte piegata sopra la stufa (andava a benzina; quando la si riaccendeva con un fiammifero dopo che avevano dovuto spegnerla per riempire il serbatoio, giacché altrimenti ardeva in continuazione giorno e notte, prendeva fuoco con uno scoppio e un lampo ai quali anche Wilbourne dopo un poco si abituò e non ebbe più bisogno di serrare i denti mentre il cuore gli dava un sobbalzo), che parlavano: «È con questi vestiti che siete venuti qua? Gelerete. Buck dovrà andare al magazzino...». – «Sì» disse Wilbourne. «Perché? Chi altri avrebbe dovuto mandarmici?».

«Non... non ha portato niente? Nessuna lettera, nulla?».

«No. Ha detto che non dovevo...».

«Ah, capisco. Siete venuto a spese vostre. Vi siete pagati il viaggio».

«No. L’ha pagato lui».

«Mi prenda un accidente» disse Buckner. Si rivolse alla moglie. «Hai sentito, Bill?».

«Perché?» disse Wilbourne. «Che c’è di strano?».

«Non ha importanza» disse Buckner. «Ora andiamo al magazzino a prendere le coperte e anche dei vestiti più caldi. Non vi ha detto nemmeno di comprarvi un paio di giacconi foderati di pelliccia, vero?».

«No» disse Wilbourne. «Ma lasci che mi riscaldi, prima».

«Non vi riscalderete mai, quassù» disse Buckner. «Se vi mettete a sedere sopra una stufa per scaldarvi, ad aspettare di scaldarvi, non vi muoverete più. Morirete di fame, non vi rialzerete nemmeno per riempire il serbatoio della stufa quando si vuota. Il fatto è, rassegnatevi ad aver sempre un po’ freddo, perfino a letto, e a far finta di niente, e dopo un po’ ci farete l’abitudine e ve ne dimenticherete, non ci farete nemmeno più caso, al freddo, perché avrete dimenticato che cosa sia aver caldo. Perciò andiamo. Può prendere il mio giaccone».

«E lei come fa?».

«Non è distante. Ho un maglione. E poi portar la roba ci scalderà un po’».

Il magazzino consisteva in un’altra unica stanza di lamiera, piena d’un freddo gelato e illuminata dall’attenuato riflesso metallico della neve oltre l’unica finestra. Vi faceva un freddo mortale. Un freddo che mordeva come un aspide, così penetrante da sembrare solido, e il corpo riluttava ad entrarvi, e con ragione, come se fosse chiedergli troppo di respirare e vivere lì dentro. Da due lati si levavano scaffali di legno, oscuri e vuoti salvo che per i più bassi, come se anche questa stanza fosse un termometro per misurare non il freddo ma l’agonia, un incontrovertibile centigrado (Avremmo dovuto portarci il Cattivo Odore, stava già pensando Wilbourne), un mercurio fittizio che si contraeva e non aveva niente di grandioso. Tirarono giù le coperte, i giacconi di pelliccia, le maglie di lana e le soprascarpe; si sentivano come di ghiaccio, come d’acciaio, rigidi; portando quella roba verso la casetta i polmoni di Wilbourne (aveva dimenticato l’altitudine) doloravano all’aria rigida che in essi faceva l’effetto del fuoco.

«E così è un medico».

«Già, sono il medico» disse Wilbourne. Erano fuori, adesso. Buckner richiuse la porta a chiave. Wilbourne guardò attraverso il canyon in direzione del versante opposto con la piccola cicatrice senza vita dell’entrata della miniera e il deposito dei rifiuti. «Cosa sta succedendo, qua?».

«Glielo farò vedere più avanti. Davvero è medico?».

Wilbourne lo guardò. «Gliel’ho già detto che lo ero. Che cosa intende dire?».

«Allora immagino che avrà qualcosa da mostrare, la laurea, o come la chiamano».

Wilbourne lo guardò. «Dove vuole arrivare? Devo rispondere delle mie capacità a lei, o a chi mi paga lo stipendio?».

«Stipendio?» disse Buckner con un’aspra risata. Si interruppe. «Forse l’ho chiesto male. Non volevo irritarla. Dalle mie parti, quando arriva uno e gli si offre un posto e lui dice che sa andare a cavallo, noi vogliamo avere la prova e lui non si arrabbia se glielo chiediamo. Gli diamo perfino un cavallo, per questo, certo non il cavallo migliore che abbiamo, e se ne abbiamo uno solo ed è un buon cavallo, allora non glielo diamo. Perciò se non abbiamo un cavallo su cui provarlo, dobbiamo contentarci di fargli delle domande. È appunto quello che sto facendo io adesso». Guardò Wilbourne, serio e intento, con quegli occhi color nocciola sulla faccia scarna simile a un taglio crudo di bue.

«Ah, capisco» disse Wilbourne. «Ho una laurea d’una facoltà di medicina piuttosto buona, e stavo per finire la mia pratica in un ospedale molto conosciuto. E poi lo sarei stato anch’io – be’, conosciuto; cioè, si sarebbe ammesso formalmente che ne sapevo quanto qualsiasi altro medico, e probabilmente più di parecchi. O almeno lo spero. Le basta?».

«Sì» disse Buckner. «Va bene». Si volse e proseguì. «Voleva sapere che cosa sta succedendo qui. Adesso lasciamo questa roba a casa, e poi andiamo alla miniera e glielo faccio vedere». Lasciarono le coperte e la roba di lana nella casetta e traversarono il canyon per il sentiero che non era un sentiero, come il magazzino non era un magazzino ma una specie d’incomprensibile palo indicatore, come una parola in codice lungo una strada.

«Quel trenino col quale siamo venuti» disse Wilbourne. «Che cosa portava quando era sceso giù a valle?».

«Oh, era carico» disse Buckner. «Deve arrivare laggiù carico. O comunque partire da qui carico. Ci penso io, a questo. Non mi farò certo tagliar la gola, finché posso».

«Carico di che?».

«Eh» fece Buckner. La miniera non era un pozzo, era una galleria che si addentrava direttamente nelle viscere della montagna – un tubo rotondo come una canna di cannone, puntellato con tronchi e pieno del bagliore della neve che andò morendo man mano che avanzavano, con quello stesso freddo mortale del magazzino come il morso di un aspide, e percorso da due binari a scartamento ridotto sui quali, quando entrarono (e se ne scansarono d’un balzo per non esserne investiti), giungeva un vagoncino carico spinto da un uomo che correva in cui Wilbourne riconobbe un altro polacco, ma più basso, più grosso, più tarchiato del primo (doveva accorgersi in seguito che nessuno di essi era così gigantesco come sembrava, e che l’illusione della statura era data da un effluvio, una emanazione di quella selvatica, infantile innocenza e credulità che era loro comune) – gli stessi occhi pallidi, la stessa sudicia faccia non sbarbata sopra lo stesso sudicio giaccone foderato di pelliccia.

«Pensavo...» cominciò Wilbourne. Ma non lo disse. Procedettero; l’ultimo bagliore della neve svanì e d’un tratto si trovarono in uno scenario degno di un Dante di Eisenstein. La galleria diventava un piccolo anfiteatro, ramificandosi in gallerie più piccole come le dita allargate di una mano, illuminata con incredibile spreco di elettricità come per una festa – una sovrabbondanza di lampadine sporche che aveva, sebbene in proporzione inversa, lo stesso che di falso e moribondo del grosso edificio semivuoto denominato «Magazzino» in nuove lettere cubitali –, e in questa luce altri sudici pseudogiganti con giacconi di pelliccia e occhi che ultimamente non avevano dormito abbastanza lavoravano di pala e piccone con la stessa frenesia dell'uomo che correva dietro il vagoncino carico, con grida ed esclamazioni in quella lingua che Wilbourne non poteva capire, quasi come giocatori di una squadra universitaria di baseball che si incoraggino l’un l’altro, mentre dalle gallerie minori nelle quali essi non erano ancora penetrati e nella cui aria polverosa e gelida brillavano altre lampadine, provenivano o gli echi o le grida di altri uomini, incomprensibili e fantastici, che riempivano l’aria pesante come ciechi uccelli erratici. «Mi ha detto che avevate anche cinesi e italiani» disse Wilbourne.

«Già» disse Buckner. «Ma se ne sono andati. I gialli se ne sono andati in ottobre. Mi sono svegliato una mattina e non c’erano più. Neanche uno. Se ne sono andati giù a piedi, credo. Con la camicia di fuori e le pantofole di paglia. Ma non c’era molta neve, in ottobre. Almeno non per tutta la strada che scende a valle. L’avevano fiutato. I terroni...».

«Fiutato?».

«Non c’è salario da settembre».

«Oh» disse Wilbourne. «Adesso capisco. Già. E così loro l’hanno fiutato. Come i negri».

«Non so. Non ho mai avuto facce nere, qua. I terroni hanno fatto un po’ più chiasso. Hanno scioperato in piena regola. Hanno buttato via le pale e i picconi e hanno piantato il lavoro. Mi mandarono... come si dice, una delegazione?... Grandi chiacchiere, grande sbraitare e gesticolare, con le donne che aspettavano fuori nella neve, con i bambini in braccio perché li vedessi. Così ho aperto il magazzino e gli ho dato una maglia di lana a testa, uomini, donne e bambini (avrebbe dovuto vederli, i bambini con una maglia da uomo – quelli che camminavano appena, voglio dire. La portavano sopra a tutto, come un cappotto), e una scatola di fagioli a testa e li ho spediti via sul trenino. C’erano ancora una quantità di mani, pugni, adesso, e ho continuato a sentirli per parecchio dopo che il treno fu fuori di vista. Andando giù, Hogben (lui guida il trenino; è la ferrovia che lo paga) ha l’abitudine di frenare col motore, così non fa tanto fracasso – non tanto quanto ne facevano loro, comunque. Ma i polacchi sono rimasti».

«Perché? Forse che...».

«Che non hanno scoperto che è andato tutto a monte? Non capiscono troppo bene. Oh, per sentire ci sentono benissimo; i terroni ci parlavano: c’era un terrone che faceva da interprete. Ma son gente strana; non capiscono la disonestà. Immagino che quando i terroni han cercato di spiegarlo, la cosa non deve aver avuto alcun senso per loro, che uno possa continuare a far lavorare la gente senza aver l’intenzione di pagarla. Così adesso credono di fare degli straordinari. Assumendosi tutto il lavoro. Non sono né caricatori né minatori, sono posamine. C’è qualcosa nei polacchi che gli fa amare la dinamite. Forse per il rumore. Ma adesso fanno tutto. Volevano far lavorare anche le loro donne. L’ho capito, dopo un po’, e l’ho impedito. Ecco perché dormono poco. Credono che, quando domani arriverà il denaro, se lo prenderanno tutto loro. Pensano probabilmente che l’abbia portato lei, e che sabato sera riceveranno migliaia di dollari a testa. Sono come bambini, credono a qualsiasi cosa. Ecco perché quando si accorgono che li avete presi in giro vi ammazzano. Oh, non con una coltellata nella schiena, e nemmeno semplicemente con un coltello, vi arrivano addosso e vi ficcano un bastoncino di dinamite in tasca, e vi tengono fermo con una mano mentre con l’altra accendono il fiammifero sulla spoletta».

«E lei non gliel’ha detto?».

«Detto che cosa? Non posso parlare con loro; l’interprete era uno dei terroni. D’altra parte lui vuole che la sua miniera continui a sembrare in piena attività e io sono qui per questo. Così può continuare a vendere le azioni. Ecco perché lei è qui – un medico. Quando le ha detto che non ci sarebbe stato nessun ispettore sanitario, quassù, a darle delle noie per la sua licenza, le diceva la verità. Ma ci sono ispettori di miniera, qui, leggi e regolamenti per gestire miniere, che dicono che deve esserci un medico. Ecco perché le ha pagato il viaggio fin quassù, a lei e a sua moglie. Del resto, può anche darsi che il denaro arrivi. Quando l’ho visto stamane anch’io ho creduto che l’avesse portato lei. Be’? Ha visto abbastanza?».

«Sì» disse Wilbourne. Tornarono verso l’imboccatura; una volta ancora dovettero scansarsi in fretta per lasciar passare un vagoncino carico, spinto di corsa da un altro polacco sudicio e frenetico. Emersero nel freddo vivo della neve immacolata, nel giorno morente. «Non ci credo» disse Wilbourne.

«Come, non ha visto?».

«Alludo alla ragione per la quale lei è ancora qui. Lei non si aspettava alcun denaro».

«Può darsi che stia aspettando un’occasione per tagliar la corda. E questi bastardi non vanno nemmeno a dormire la notte, e non mi lasciano... All’inferno» disse. «È una bugia anche questa. Sono rimasto qui perché siamo in inverno, e posso star qui come in qualsiasi altro posto, finché ci saranno abbastanza viveri nel magazzino e finché posso tenermi caldo. E perché sapevo che presto avrebbe dovuto mandare un altro medico, o venire lui stesso a dire a me e a questi bastardi di selvaggi che la miniera chiude».

«Bene. Eccomi qua» disse Wilbourne. «L’altro medico l’ha mandato. Che cosa si aspetta da un medico?».

Per un lungo istante Buckner lo guardò – quegli occhi piccoli e duri che dovevano esser capaci di giudicare e comandare uomini d’un certo tipo, una certa classe, una certa categoria, altrimenti non avrebbe avuto il posto che aveva; i duri occhi che forse mai prima d’allora, si disse Wilbourne, s’erano trovati nella necessità di misurare un uomo che semplicemente si dichiarava medico. «Senta» disse. «Io ho un buon posto, soltanto che non ho avuto paga da settembre. Abbiamo messo da parte circa trecento dollari per andarcene di qui quando scoppierà la bomba, e per viverci fino a quando non troverò qualche altra cosa. E adesso Bill si trova a essere incinta di un mese, e non possiamo permetterci di avere un bambino. E lei dice di essere un medico, e io ci credo, che lo sia. Che ne dice?».

«No» disse Wilbourne.

«Mi prendo tutta la responsabilità io. Farò in modo che lei non c’entri».

«No» disse Wilbourne.

«Vuol dire che non sa farlo?».

«Sì che lo so. È facile. Una volta, all’ospedale, uno lo fece, in un caso di emergenza, forse per mostrarci quello che non dovevamo mai fare. Per me non ce ne sarebbe stato bisogno».

«Le darò cento dollari».

«Ce li ho, cento dollari» disse Wilbourne.

«Centocinquanta. La metà di tutto quello che ho. Vede che non posso fare di più».

«Anch’io ho centocinquanta dollari. Ne ho centottantacinque. E se anche non ne avessi che dieci...».

Buckner si voltò dall’altra parte. «È un tipo fortunato, lei. Andiamo a mangiare».

Lo raccontò a Charlotte. Non a letto, come era loro abitudine di parlarsi, poiché dormivano tutti nella stessa stanza – la casetta ne aveva una sola, con una tettoia aggiunta per quel tanto di intimità che è assolutamente necessaria –, ma fuori, dove, affondati nella neve fino al ginocchio, con le soprascarpe, ora, vedevano il lato opposto del canyon e al di là le cime seghettate sfilacciate di nuvole, e dove Charlotte, indomabile, disse ancora: «In primavera sarà bello».

«E tu hai detto di no» disse. «Perché? Per i cento dollari?».

«Sai bene che non è per questo. E, a proposito, erano centocinquanta».

«Caduto in basso, sì, ma non fino a questo punto?».

«No. E stato perché...».

«Perché hai paura?».

«No. È una sciocchezza. È facilissimo. Basta un tocco con la punta di un coltello per far entrar l’aria. È perché...».

«Eppure ci son donne che ne muoiono».

«Perché chi l’ha fatto non era bravo. Forse una su diecimila. Naturalmente non vi sono statistiche. È perché io...».

«Basta così. Non è perché il prezzo è troppo basso, né perché hai paura. Volevo sapere soltanto questo. Non sei tenuto a farlo. Nessuno può costringerti. Baciami. In casa non possiamo nemmeno baciarci, per non dire...».

Tutti e quattro (anche Charlotte, ora, dormiva con la biancheria di lana come gli altri) dormivano nell’unica stanza, non in letti ma su materassi stesi sul pavimento («Così si sta più caldi» aveva spiegato Buckner. «Il freddo viene da sotto») e la stufa a benzina ardeva in continuazione. Stavano in due angoli opposti, ma anche così i due materassi non erano lontani più di cinque metri, e Wilbourne e Charlotte non potevano nemmeno parlare, nemmeno bisbigliare. Ai Buckner questo non importava molto, anche perché non sembrava avessero molti discorsi preliminari da sussurrarsi; a volte, neanche cinque minuti dopo che la lampada era stata spenta, Wilbourne e Charlotte udivano l’improvviso impeto come di stallone dall’altro letto, il violento movimento soffocato dalle coperte che cessava poi nell’ansimare e nei gemiti della donna, e talvolta in una serie di veri e propri gridi sempre più rapidi, ma non era cosa per loro. Poi un giorno il termometro da dieci sotto zero scese a quaranta, e allora misero i due materassi l’uno accanto all’altro e dormirono tutti insieme, le due donne al centro; e con tutto ciò, talvolta, non appena spenta la luce (o magari essi ne erano destati) ecco il fracasso spietato dello stallone, senza che una parola fosse stata pronunciata, come se essi fossero stati strappati dal semplice sonno e attratti violentemente e selvaggiamente l’uno contro l’altra come il ferro e la calamita, l’ansare violento, l’ansimare, i gemiti convulsi della donna e Charlotte che diceva «Non potete farlo senza tirar via tutte le coperte?», e ancora non era cosa per loro.

Erano là ormai da un mese, si era quasi a marzo, e la primavera che Charlotte aspettava si stava avvicinando, quando un pomeriggio Wilbourne tornò dalla miniera, dove i polacchi sudici e insonni continuavano a faticare con quella febbrile e illusa frenesia e le voci incomprensibili ancora fluttuavano su e giù come uccelli ciechi in mezzo a quella profusione di lampadine polverose, e trovò Charlotte e la signora Buckner che aspettavano il suo ritorno sulla porta della casetta. E capì che cosa lo aspettava e forse anche di essere perduto. «Senti, Harry. Stanno per partire. Qua ormai non c’è più niente da fare, e hanno soltanto trecento dollari per andare dove vanno e viverci finché lui non avrà trovato un posto. Perciò devono fare qualcosa prima che sia troppo tardi».

«Anche noi dobbiamo farlo, e non abbiamo trecento dollari» disse lui.

«Ma nemmeno aspettiamo un bambino. Non abbiamo avuto questa scalogna. Hai detto tu stesso che è una cosa semplice, che ne muore soltanto una su diecimila, che tu sai come si fa e non hai paura. E loro son pronti a rischiare».

«Hai proprio tanto desiderio di questi cento dollari?».

«E quando mai ho parlato di denaro, salvo che dei miei centoventicinque che tu non hai mai voluto prendere? Lo sai bene. Proprio come io so che tu non accetteresti il loro denaro».

«Scusami. Non intendevo dir questo. È perché...».

«È perché sono nei guai. Pensa se toccasse a noi. Lo so che tu dovrai sacrificare qualcosa. Ma noi abbiamo sacrificato tanto, abbiamo gettato via tutto per l’amore, e non ce ne siamo pentiti».

«No» disse lui. «Non ce ne siamo pentiti. Mai».

«Anche questo è per l’amore. Non il nostro, magari. Ma amore». Andò allo scaffale dove tenevano la loro roba e tirò giù la sparuta valigetta di strumenti della quale egli si era munito prima di lasciare Chicago insieme con i due biglietti ferroviari. «Sarebbe bello per lui sapere, se lo potesse, che l’unica volta che li hai usati è stato per amputare il suo direttore dalla miniera. Che altro ti serve?».

Buckner si avvicinò a Wilbourne. «D’accordo?» disse. «Io non ho paura, e lei nemmeno. Perché lei è in gamba. Non per niente sono stato a osservarla per un mese. Forse, se avesse accettato subito senza discutere, il primo giorno, non glielo avrei lasciato fare, avrei avuto paura. Ma adesso no. La responsabilità sarà tutta mia, e manterrò la promessa. Farò in modo che lei non c’entri. E non saranno cento, son sempre centocinquanta».

Lui cercò di dire No, fece di tutto. Già, pensava, ho sacrificato tanto, ma evidentemente non questo. L’onestà nel denaro, la sicurezza, la professione, e poi, per un terribile momento, pensò Forse avrei gettato via perfino l’amore prima di questo, ma fermò in tempo questo pensiero; disse: «Non avreste abbastanza denaro neanche se vi chiamaste Callaghan. Prenderò io tutta la responsabilità, invece».

Tre giorni dopo, senza che nessuno venisse loro incontro, accompagnavano i Buckner dall’altra parte del canyon, verso il trenino in attesa. Wilbourne aveva decisamente rifiutato anche i cento dollari, accettando alla fine, invece di questi, una cessione di cento dollari sugli arretrati di Buckner che entrambi sapevano non sarebbero mai stati pagati, e che potevano essere spesi prelevando un equivalente in viveri dal magazzino, la cui chiave Buckner gli aveva consegnato. «Mi sembra una cosa proprio stupida,» disse Buckner «visto che il magazzino è vostro in ogni modo».

«Servirà a far quadrare i conti» disse Wilbourne. Presero per il sentiero che non era un sentiero, verso il treno, la locomotiva senza testa né coda, i tre vagoncini, la minuscola cabina. Buckner alzò gli occhi verso la miniera, l’orifizio aperto, il deposito dei rifiuti, come due cicatrici sulla neve intatta. Era sereno, adesso, il sole basso e debole sopra le rosee cime seghettate in un cielo d’un azzurro incredibile. «Cosa penseranno quando si accorgeranno che ve ne siete andati?».

«Forse penseranno che sia andato a prendere il denaro. Mi auguro che lo credano, per il vostro bene». Poi disse: «D’altronde stanno meglio qua. Non hanno preoccupazioni per l’affitto e roba del genere, possono prendere sbornie e farsele passare, e c’è abbastanza cibo per tutti fino a primavera. E poi hanno qualcosa da fare, qualcosa per riempire le giornate e le notti da stare a letto a far il conto degli straordinari. Un uomo può andare avanti un bel pezzo con la speranza del denaro che dovrà prendere. E del resto può anche darsi che lui mandi un po’ di soldi».

«Lo crede davvero?».

«No» disse Buckner. «E non lo creda nemmeno lei».

«Non credo d’averlo creduto mai. Nemmeno quel giorno nel suo ufficio. Forse quel giorno meno che mai». Stavano in piedi, un poco discosti dalle due donne. «Senta, quando vi sarete sistemati e ve ne capita l’occasione, la faccia vedere da un dottore. Da uno bravo. Ditegli la verità».

«A che scopo?» disse Buckner.

«Preferirei che lo facesse. Mi sentirei più tranquillo».

«Macché» disse l’altro. «Sta benissimo. Perché lei è in gamba. Se non fossi stato sicuro, crede che glielo lasciavo fare?». Era ora di partire, la locomotiva sfiatò un fischio stridulo da trenino per bambini, i Buckner salirono nella cabina e il trenino cominciò a muoversi. Charlotte e Wilbourne rimasero a guardare solo per un momento, poi Charlotte si era voltata e già correva. Il sole era quasi scomparso, le cime ineffabili e tenere, il cielo ambra e azzurro; per un istante Wilbourne udì le voci dalla miniera, selvagge, deboli e incomprensibili.

«Oh, Dio» disse Charlotte. «Non mangiamo nemmeno, stasera. Presto. Corri». E si mise a correre, poi si fermò e si voltò di nuovo, il viso pieno e tondeggiante, roseo nel riflesso rosa, negli occhi verdi ora sopra l’informe collo di pelliccia del giaccone informe. «No, corri avanti tu,» disse «così possiamo spogliarci tutt’e due nella neve. Ma corri». Ma lui non corse avanti, non corse neppure, camminò, in modo da poterla guardare mentre s’allontanava lungo il sentiero che non era un sentiero, salendo poi per l’altro versante verso la casetta, lei che, per quanto li portasse con la stessa disinvolta noncuranza con la quale portava i vestiti, non avrebbe mai dovuto indossare calzoni, ed entrò nella casetta e la trovò che si stava strappando di dosso perfino la maglia di lana. «Fa’ presto» gli disse. «Presto. Sei settimane. Ho quasi dimenticato come si fa. No» disse. «Non lo dimenticherò mai. Non si può dimenticare, grazie al buon Dio». Poi disse, tenendolo stretto, con le braccia e le cosce vigorose: «Mi sa che in amore sono una mammoletta. Non potrei mai, se ci fosse un’altra persona, anche una soltanto, a letto con noi».

Non si alzarono per cucinare né per mangiare. Dopo un po’ si addormentarono; Wilbourne si svegliò a un certo momento della rigida notte e s’accorse che la stufa s’era spenta e che la stanza stava diventando gelida. Pensò alla biancheria di Charlotte ancora sul pavimento dove lei l’aveva gettata; adesso ne avrebbe avuto bisogno, adesso avrebbe dovuto averla indosso. Ma anche la biancheria ora sarebbe stata fredda come il ghiaccio, e pensò per un po’ di alzarsi e andare a raccoglierla e portarla nel letto per sgelarla, riscaldarla sotto il suo corpo finché lei potesse indossarla, e infine trovò la forza di cominciare a muoversi ma subito lei gli si attaccò addosso. «Dove vai?». Lui glielo disse. Lei gli si strinse ancora di più. «Quando ho freddo puoi sempre coprirmi».

Ogni giorno Wilbourne andava a visitare la miniera, dove il lavoro continuava frenetico, sempre con lo stesso ritmo. Alla sua prima visita gli uomini lo guardarono non con curiosità o sorpresa, ma solo con aria interrogativa, cercando evidentemente anche Buckner. Ma null’altro accadde ed egli si accorse che forse non sapevano nemmeno che lui era soltanto il medico della miniera, e che vedevano in lui semplicemente un americano come un altro (stava quasi per dire un bianco come un altro), un rappresentante di quella Potenza remota, dorata e incontestata nella quale essi avevano cieca fede. Con Charlotte cominciarono a discutere la questione di parlargliene, di provare a parlargliene. «Soltanto, che vantaggio ne deriverebbero?» disse lui. «Buckner aveva ragione. Dove se ne andrebbero, che cosa farebbero? Qui hanno cibo in abbondanza fino alla fine dell’inverno, e probabilmente non avranno denaro da parte (ammesso che non fossero in debito col magazzino anche quando erano pagati abbastanza da poter risparmiare), e come ha detto Buckner, si può vivere abbastanza felici nell’illusione per un bel pezzo. Forse non si è felici in nessun altro momento. Voglio dire, se sei un polacco che non ha mai imparato a fare altro che regolare una spoletta di dinamite a duecento metri sotto terra. E poi c’è un’altra cosa. Ci rimangono ancora tre quarti dei cento dollari di viveri, e se partono tutti potrebbe trapelare qualche voce e lui potrebbe anche mandare qualcuno a prendere quelle tre scatole di fagioli».

«E c’è anche un’altra cosa» disse Charlotte. «Non possono andarsene, adesso. Non possono camminare con tutta questa neve. Non te ne sei accorto?».

«Accorto di che?».

«Che il trenino non è più tornato indietro da quando ha portato via i Buckner. Sono passate due settimane».

Egli non se n’era accorto, e non sapeva se sarebbe tornato più, perciò convennero che la prima volta che fosse ricomparso non avrebbero aspettato oltre, lo avrebbero detto (o avrebbero provato a dirlo) agli uomini della miniera. Poi, due settimane dopo, il treno tornò. Essi attraversarono il canyon dirigendosi verso il luogo dove quei sudici uomini selvatici e vocianti stavano già cominciando a caricare i vagoni. «E adesso?» disse Wilbourne. «Come faccio a parlargli?».

«In qualche modo riuscirai. Credono che sia tu il capo, ora, e a nessuno è mai accaduto di non capire qualcuno se crede che sia il suo capo. Cerca di riunirli al magazzino».

Wilbourne avanzò verso il canale di carico sotto il quale era già il primo vagoncino, e alzò una mano. «Aspettate» disse forte. Gli uomini s’interruppero, lo guardarono con quei pallidi occhi nelle facce magre.

«Magazzino» gridò. «Deposito!» e agitò un braccio indicando l’opposto versante; poi ricordò la parola che aveva usato il primo, quello che aveva rialzato il colletto a Charlotte il primo giorno. «Corere» disse. «Corere». Lo guardarono ancora un momento, senza parlare, gli occhi rotondi sotto le sopracciglia pallide, animalesche e arcuate, con un’espressione intenta, perplessa e selvatica. Poi si guardarono l’un l’altro, ammassandosi e vociferando in quell’aspra lingua incomprensibile. Quindi come un sol uomo avanzarono verso di lui. «No, no» egli disse. «Tutti». E additò l’imboccatura della miniera. «Tutti quanti». Stavolta qualcuno lo comprese subito, e dopo un attimo quello basso che Wilbourne aveva visto spingere il vagoncino nella sua prima visita alla miniera si staccò dal gruppo e si arrampicò su per il pendio nevoso con le gambe corte, forti e pesanti, simili a pistoni, svanì nell’orifizio e riapparve, seguito dal resto di quel turno senza fine. I nuovi venuti si unirono al primo gruppo vociferando e gesticolando. Poi tutti tacquero e guardarono Wilbourne, obbedienti e sottomessi. «Guarda che facce» disse. «Dio. Odio dover essere proprio io a far questo. Maledetto quel Buckner».

«Avanti» disse Charlotte. «Facciamola finita». Traversarono la valle con i minatori dietro, incredibilmente sporchi contro la neve – le facce d’una compagnia di girovaghi laceri e affamati – fino al magazzino. Wilbourne aprì la porta con la chiave. Solo allora, in fondo al gruppo, scorse cinque donne. Lui e Charlotte non le avevano mai viste. Sembravano spuntate fuori dalla neve stessa, avvolte nei loro scialli, due con un bambino in braccio, uno dei quali non doveva avere neanche un mese.

«Dio mio» disse Wilbourne. «Non sanno nemmeno che sono un medico. Non sanno nemmeno di aver diritto a un medico, che la legge lo richiede». Egli e Charlotte entrarono. Nell’oscurità, dopo il riverbero della neve, le facce svanirono e solo gli occhi lo fissavano dal nulla, sottomessi, pazienti, obbedienti, fiduciosi e selvatici. «E adesso?» aggiunse. Poi guardò Charlotte, e allora anche gli altri si misero a guardarla, anche le cinque donne si fecero largo per poter vedere, mentre lei con quattro puntine trovate da qualche parte fissava un foglio di carta da imballaggio al bordo di uno scaffale, nel punto dove cadeva la luce dell’unica finestra, e cominciò a disegnare in fretta con uno dei carboncini che aveva portato da Chicago – un muro visto in sezione con uno sportello chiuso da un’inferriata, un inequivocabile sportello di cassa inequivocabilmente chiuso; e da una parte del muro un gruppo di persone inequivocabilmente minatori (vi aveva incluso perfino la donna col neonato) e dall’altra parte un uomo enorme (Charlotte non aveva mai visto Callaghan, glielo aveva semplicemente descritto lui, eppure l’uomo era Callaghan) seduto dietro un tavolo carico di monete luccicanti ch’egli stava introducendo in un sacco con una mano enorme sulla quale scintillava un brillante della grossezza d’una palla da ping-pong. Poi si trasse da parte. Ancora per un momento non vi fu alcun suono. Poi un indescrivibile grido si levò, violento ma non alto, sul quale spiccavano le voci stridule delle donne, assai più che un mormorio, gementi, e tutti si volsero come un sol uomo a guardare Wilbourne, i pallidi occhi frenetici fissi su di lui con un’incredula ferocia mista a una profonda riprovazione.

«Aspettate!» gridò Charlotte. «Aspettate!».

Gli altri si fermarono; di nuovo la guardarono mentre il carboncino tornava a correre sulla carta, e questa volta, in fondo alla folla in attesa fuori dello sportello chiuso, Wilbourne vide emergere dai segni del carboncino svolazzante la sua propria faccia; chiunque l’avrebbe riconosciuto: tutti lo riconobbero subito. Il mormorio cessò, guardarono Wilbourne e poi si guardarono l’un l’altro, sconcertati. Poi tornarono a guardare Charlotte che ora strappava il foglio di carta dalla parete e cominciava ad attaccarne uno nuovo; questa volta uno di loro si fece avanti e l’aiutò, e ancora il carboncino tornò a scorrere rapidamente sulla carta; anche Wilbourne guardò. Questa volta si trattava di lui, evidentemente lui ed evidentemente dottore, tutti potevano capirlo – gli occhiali cerchiati, il camice da ospedale che ogni paziente d’ambulatorio, ogni povero polacco squarciato da un frammento di roccia o d’acciaio o da un prematuro scoppio di dinamite e che si fa medicare al pronto soccorso di una miniera ha visto, con in mano una bottiglia ch’era evidentemente di medicina, una cucchiaiata della quale egli stava offrendo a un uomo ch’era un conglomerato di tutti loro, di qualsiasi uomo abbia mai faticato nelle viscere della terra – lo stesso aspetto selvatico e barbuto, perfino il collo di pelliccia; e dietro al dottore la stessa mano enorme, col suo enorme brillante, in atto di estrarre dalla tasca del dottore un portafogli sottile come un foglio di carta. Di nuovo gli occhi si rivolsero a Wilbourne, la riprovazione era sparita, adesso, rimaneva soltanto la ferocia ma non diretta a lui. Egli additò i rimanenti scaffali ancora pieni. Subito riuscì a raggiungere Charlotte in mezzo al pandemonio e la prese per un braccio.

«Andiamo» disse. «Andiamocene di qua». In seguito (era tornato al trenino, dove Hogben, ch’era tutto il suo personale, sedeva sopra la caldaia rovente, nella cabina non più grande d’un ripostiglio per le scope. «Allora tornerà fra trenta giorni» aveva detto Wilbourne. Hogben aveva risposto: «Devo fare un viaggio ogni trenta giorni per mantenere la concessione. Farebbe meglio a portar via sua moglie ora». «Aspetteremo» aveva detto Wilbourne. Poi era tornato alla casetta e insieme con Charlotte era rimasto sulla porta a osservare la folla uscire dal magazzino col suo miserabile bottino e più tardi traversare il canyon e accatastarsi sul trenino, stipando i tre vagoncini scoperti. La temperatura non era più a quaranta sotto zero, ora, ma nemmeno era tornata a dieci. Il treno si mosse; videro quelle piccole facce volgersi indietro a guardare verso l’entrata della miniera, verso il deposito dei rifiuti, con una specie d’incredula perplessità, una specie di offesa e incredula pena; come il treno si mosse uno scoppio di voci li raggiunse attraverso il canyon, attutito dalla distanza, desolato, afflitto, e selvaggio) egli disse a Charlotte: «Fortuna che ci siamo presi i nostri viveri prima».

«Magari non erano neanche nostri» disse lei, asciutta.

«Quelli di Buckner, allora. Non hanno pagato nemmeno lui».

«Ma lui è scappato, e loro no».

Ormai la primavera era vicina; quando il trenino avesse fatto la sua prossima, rituale e vuota apparizione forse avrebbero potuto vedere l’inizio della primavera montana che nessuno dei due aveva mai vista, e che non sapevano non sarebbe apparsa fino all’epoca che nella loro esperienza coincideva con l’inizio dell’estate. Parlavano di questo la notte, ora, col termometro che talvolta scendeva di nuovo a quaranta. Ma almeno ora potevano parlare a letto, al buio, dove sotto le coperte Charlotte, dopo un po’ di divincolamenti e contorcimenti selvaggi (anche questi rituali), emergeva dai suoi indumenti di lana per dormire alla vecchia maniera. Non li gettava via da sotto le coperte ma se li teneva dentro in un ammasso, sopra, sotto e attorno al quale essi dormivano, in modo che al mattino lei se li sarebbe ritrovati caldi. Una notte gli disse: «Non hai ancora avuto nessuna notizia da Buckner. È naturale, del resto; come sarebbe stato possibile?».

«Già» disse lui, improvvisamente serio. «E vorrei proprio sapere qualcosa. Gli ho detto di portarla da un dottore non appena avessero potuto. Ma lui forse... Mi ha promesso di scrivermi».

«Vorrei che anche tu gli scrivessi».

«Può darsi che riceviamo una lettera quando torna il trenino».

«Se torna». Ma egli non sospettò di nulla, benché in seguito gli sembrasse incredibile di non aver sospettato, pur rendendosi conto che allora non poteva avere alcuna ragione di sospettare, e in base a che cosa? Non sospettò. Poi un giorno, circa una settimana prima del presumibile arrivo del trenino, udì bussare e aprì la porta a un uomo dalla faccia di montanaro e con uno zaino e un paio di racchette da neve gettate sulle spalle.

«È lei Wilbourne?» disse. «Ho una lettera per lei». La tirò fuori – una busta scritta a matita, gualcita per essere passata di mano in mano, e vecchia di tre settimane.

«Grazie» disse Wilbourne. «Entri, mangi un boccone».

Ma l’altro declinò l’invito. «Uno di quegli aeroplani grandissimi è caduto da queste parti, qua dietro, giusto prima di Natale. Ha sentito o visto qualcosa verso quell’epoca?».

«Non ero qua, allora» disse Wilbourne. «Prima farebbe meglio a mangiare qualcosa».

«C’è una ricompensa per chi lo ritrova. Credo sia meglio che non mi fermi».

La lettera era di Buckner. Diceva Tutto OK, Buck. Charlotte gliela prese e rimase ritta a contemplarla. «È come avevi detto. L’avevi detto che era semplice, no? Adesso ti senti tranquillo».

«Sì» disse Wilbourne. «Mi sento sollevato».

Charlotte guardò la lettera, le quattro parole contando la O e la K come due parole. «Appena una su diecimila. Tutto quello che occorre è un minimo di attenzione, giusto? Bollire gli strumenti e così via. Non ha importanza a chi lo fai, no?».

«Dovrebbero essere tutti...». Si interruppe. La guardò, pensò in un lampo, Sta per accadermi qualcosa. Un momento. Un momento. «Su chi lo faccio?».

Lei guardò la lettera. «È una domanda sciocca, no? Forse mi sbagliavo con l’incesto». Ma adesso gli era accaduto davvero. Cominciò a tremare, tremava già anche prima di afferrarla per la spalla per voltarla verso di lui.

«A chi lo faccio?».

Lei lo guardò, sempre tenendo il misero foglio a righe con la greve scrittura a matita – lo sguardo serio e intento dalla luce verdastra che la neve dava ai suoi occhi. Parlò con frasi brutali, brevi e concise come fossero uscite da un libro per le elementari. «Quella notte. Quella prima notte soli, quando non potemmo aspettare di far cena. Quando la stufa si spense il mio irrigatore di gomma ch’era appeso dietro di essa gelò e quando riaccendemmo la stufa me ne dimenticai e si crepò».

«E da allora non hai più avuto...».

«Avrei dovuto star più attenta. L’ho presa sempre alla leggera. Troppo. Ricordo che una volta qualcuno mi disse, ero giovane allora, che quando ci si ama, quando ci si ama forte, sul serio, non si hanno mai bambini, il seme resta bruciato dall’amore, dalla passione. Forse vi credetti. Forse ho voluto credervi perché ero rimasta senza irrigatore. O magari l’ho soltanto sperato. Comunque ora è fatta».

«Quando?» disse lui scuotendola, tremando. «Quanto tempo è passato? Sei sicura?».

«Sicura che non sia un ritardo? Sì. Sono sedici giorni».

«Allora non sei sicura» disse lui in fretta, sapendo di parlare soltanto a se stesso. «Non puoi esserne ancora sicura. A tutte le donne capitano di questi ritardi. Non si può esser sicuri fino a due...».

«Lo credi davvero?» disse lei a bassa voce. «Questo vale per quando si desidera un bambino. E io non lo desidero, e tu nemmeno, perché non possiamo. Io posso morire di fame, e anche tu, ma non lui. Perciò dobbiamo, Harry».

«No!» gridò lui. «No!».

«Lo hai detto tu che è semplice. Ne abbiamo avuto la prova, che non è nulla. Non più che tagliare un’unghia incarnita di un piede. Io sono forte e sana quanto lei. Non lo credi, forse?».

«Ah» gridò lui. «Così tu hai fatto la prova su di lei, prima. È così. Volevi vedere se sarebbe morta o no. Ecco perché eri così interessata a farmi accettare l’idea quando io già avevo detto di no...».

«La stufa si è spenta la notte dopo la loro partenza, Harry. Ma sì, è vero, prima ho aspettato di sapere com’era andata a lei. Lei avrebbe fatto lo stesso se fossi stata io la prima. E io avrei voluto che lo facesse. Avrei desiderato che lei vivesse, sia che io vivessi o no, come lei lo avrebbe desiderato per me, così come voglio vivere io».

«Sì» disse lui. «Lo so. Non volevo dir questo. Ma tu... tu...».

«Così, tutto è a posto. È una cosa semplice. Ormai lo sai per esperienza».

«No! No!».

«Benissimo» disse lei tranquillamente. «Forse potremo trovare un dottore che lo faccia quando andremo via la settimana prossima».

«No!» gridò lui, urlò, tenendola stretta alla spalla e scuotendola. «Mi senti?».

«Vuoi dire che non dovrà farlo nessun altro, e tu non vuoi farlo? ».

«Sì! Questo voglio dire! È esattamente questo che voglio dire! ».

«Hai proprio così paura?».

«Sì!» disse lui. «Sì!».

La settimana seguente trascorse. Wilbourne prese l’abitudine di far passeggiate, immergendosi e sprofondando nella neve alta fino alla vita, non per non vedere lei; è perché là dentro mi manca il respiro, si diceva; una volta andò perfino su alla miniera, la galleria ora abbandonata, buia delle sovrabbondanti e inutili lampadine, benché gli sembrasse ancora di udire le voci, gli uccelli ciechi, gli echi di quella frenetica e incomparabile parlata umana che ancora rimanevano appesi come pipistrelli e magari a testa in giù per le gallerie morte finché la sua presenza non li faceva volar via. Ma presto o tardi il freddo – qualche cosa – lo riportava indietro alla casetta, e non bisticciavano solo perché lei rifiutava di lasciarsi trascinare in una lite e di nuovo egli pensava, Non è soltanto un uomo migliore e un miglior gentiluomo di me, è un miglior qualsiasi cosa io possa mai essere. Mangiavano insieme, seguivano le abitudini quotidiane, dormivano insieme per salvarsi dal freddo; ogni tanto la prendeva (e lei lo accettava) con una specie di frenetico senso d’immolazione, dicendo, gridando «Se non altro ora non importa più; se non altro non devi più alzarti nel freddo». Poi faceva di nuovo giorno; egli riempiva il serbatoio quando la stufa si spegneva; portava fuori e gettava nella neve le scatolette che avevano adoperato per l’ultimo pasto, e poi per lui non v’era più nient’altro da fare sotto la cappa del cielo. Perciò se ne andava a fare una passeggiata (v’era un paio di racchette da neve nella casetta, ma non aveva mai provato ad adoperarle) fra i mucchi di neve ma più spesso cacciandovisi dentro, non avendo ancora imparato a distinguerli in tempo per evitarli, dibattendosi e sprofondando, pensando, parlando da solo ad alta voce, soppesando migliaia di espedienti: Certe pillole, pensava – lui, un medico esperto: le prostitute le usano, pare siano efficaci, devono essere efficaci, ci deve essere qualcosa di efficace; non deve essere poi tanto difficile trovarle, sarà questione di prezzo, e senza crederlo, sapendo che non sarebbe mai stato capace di convincersene al punto da crederlo realmente, pensava, E questo è il prezzo dei ventisei anni, dei duemila dollari che mi son fatto durare per quei quattro col non fumare, col mantenere la mia verginità fin quasi a rovinarmi, del paio di dollari settimanali o mensili che mia sorella non poteva permettersi di mandarmi: l'essermi privato per sempre di qualsiasi speranza, di qualsiasi anestesia in pillole o in opuscoli. E ormai non c’è più nulla da fare. «Rimane soltanto una cosa» disse ad alta voce con una sorta di calma come quella che segue la volontaria liberazione dello stomaco da una ragione di nausea. «Una sola cosa da fare. Ce ne andremo in un posto dove faccia caldo, dove la vita non costi molto, dove io possa trovar lavoro e ci si possa permettere di avere un bambino, o, se niente lavoro, ospizi, orfanotrofi, per lo meno la soglia di una casa. No, no, niente orfanotrofi, niente soglie di case. Possiamo farcela, dovremo farcela; troverò qualcosa, qualsiasi cosa... Sì!» pensò, gridò nell’immacolata desolazione, con un’amara e terribile ironia: «Mi sistemerò come professionista in aborti». Poi tornava alla casetta e di nuovo non bisticciavano semplicemente perché lei non voleva, e questo non per uno spirito di sopportazione, finto o autentico, né perché ella fosse sottomessa o paurosa, ma semplicemente perché (e anche lui lo sapeva e si malediceva anche per questo, nella neve) ella sapeva che uno di loro due doveva tenere in qualche modo la testa a posto e sapeva già da prima che non sarebbe stato lui.

Poi arrivò il trenino. Egli aveva sistemato in una scatola le rimanenti provviste acquistate con i teorici cento dollari di Buckner. La caricarono insieme alle due valigie con le quali avevano lasciato New Orleans quasi esattamente un anno prima e salirono anch’essi nella piccola cambusa. Alla fermata della linea principale vendette a un piccolo bottegaio, per ventun dollari, le scatole di fagioli, di salmone e di lardo, e i sacchetti di zucchero, di caffè e di farina. Viaggiarono un giorno e due notti in vettura ordinaria e si lasciarono dietro la neve, poi trovarono dei pullman, più a buon mercato, la testa di lei poggiata all’indietro sulla copertura ricamata in serie, il viso di profilo contro l’oscuro paesaggio brullo e sgombro di neve e le piccole città sperdute, il neon, i posti di ristoro con forti e formose ragazze dell’Ovest uscite dalle riviste di Hollywood (Hollywood che non è più a Hollywood ma è disegnata da miliardi di metri di neon per tutta la terra americana) per assomigliare a Joan Crawford, se addormentata o no egli non avrebbe saputo dirlo.

Arrivarono a San Antonio, nel Texas, con centocinquantadue dollari e pochi centesimi. Faceva caldo, lì, era quasi come a New Orleans; gli alberi del pepe erano rimasti verdi per tutto l’inverno, gli oleandri, le mimose e le lantane erano già in fiore e le creste raggiate dei palmizi esplodevano nell’aria dolce come in Louisiana. Abitavano in un’unica stanza con un decrepito fornello a gas; vi si arrivava da un ballatoio esterno, in una misera casa di legno. E ora cominciarono a litigare. «Non vedi?» diceva lei. «Il mio periodo dovrebbe venir ora, domani. Adesso è il momento, il momento buono per farlo. Come hai fatto con lei... come si chiamava? quel nome da puttana... Bill. Billie, con la i-e. Non avresti dovuto parlarmene tanto. Così adesso non starei qui a tormentarti».

«A me pare che tu abbia saputo tutto quello che c’era da sapere senza il mio aiuto» disse lui cercando di contenersi, maledicendosi: Bastardo che non sei altro, è lei che si trova nei guai, non sei mica tu. «Io avevo deciso. Avevo detto di no. Sei tu che...». Si interruppe, si contenne. «Senti, c’è una certa pillola. La devi prendere quando sta per venire il momento. Cercherò di procurarmela».

«Procurartela dove?».

«Dove potrò procurarmela? E dov’è che ne hanno bisogno? In un bordello. Oh, Dio, Charlotte! Charlotte!».

«Lo so» disse lei. «Non si può evitarlo. Non siamo più noi stessi, ora. Ecco il perché, non capisci? Voglio che torniamo a essere noi stessi, al più presto. Abbiamo così poco tempo. Fra vent’anni io non potrò più e tra cinquanta saremo morti entrambi. Perciò, presto! Presto!».

Non era mai entrato in un bordello in vita sua e mai ne aveva cercati. Perciò scoperse ora ciò che scopre una quantità di gente: quanto sia difficile trovarne uno; come si viva in una casa bifamiliare per dieci anni prima di scoprire che le vicine della porta accanto, che rincasano sempre a ore tardissime, non sono telefoniste del turno di notte. Alla fine gli venne in mente il modo da seguire che l’ultimo zoticone sembra conoscere fin dalla nascita: chiese a un tassista e subito fu scaricato dinanzi a una casa del tutto simile a quella in cui abitava lui, e premette un bottone che non diede alcuna risposta udibile benché subito una tendina dietro la finestrella accanto alla porta ricadesse un secondo prima ch’egli fosse in grado di giurare che qualcuno l’avesse guardato. Poi la porta si aperse, una cameriera negra lo accompagnò per un oscuro corridoio e lo introdusse in una stanza contenente un nudo tavolo impiallacciato con sopra una ciotola da punch in finto cristallo molato, e macchiato di cerchi bianchi prodotti dal fondo umido dei bicchieri, una pianola a monetina, e dodici sedie disposte lungo le quattro pareti in fila ordinata come pietre sepolcrali in un cimitero di guerra, e dove la cameriera lo lasciò seduto a guardare la litografia di un cane San Bernardo che salva un bambino dalla tormenta e un’altra del presidente Roosevelt, finché non entrò una donna col doppio mento, d’età imprecisabile oltre i quaranta, con i capelli platinati e una vestaglia di seta lilla non troppo pulita. «Buona sera» disse. «Di fuori città?».

«Sì» disse lui. «Ho chiesto a un tassista di...».

«Non c’è bisogno di scusarsi. I tassisti sono tutti amici miei».

Egli ricordò l’ultimo consiglio del tassista: «Alla prima persona bianca che vede, offra una birra. Diventerete subito amici». «Gradisce una birra?» disse.

«Be’, perché no» disse la donna. «Magari ci potrà rinfrescare». Immediatamente (a Wilbourne non sembrò che avesse suonato un campanello) la cameriera negra entrò. «Due birre, Louisa» disse la donna. La cameriera uscì. Si mise a sedere anche la donna. «E così è nuovo di San Tonio. Be’, le migliori amicizie a volte nascono in una serata, lo so per esperienza, o dopo una sessione tra due persone che un’ora prima non s’erano neanche mai viste. Qui tengo ragazze americane o spagnole (a quelli di fuori piacciono le ragazze spagnole, per lo meno una volta. Come dico sempre, deve essere l’influenza del cinema) e un’italianina che proprio...». La cameriera rientrò con due boccali di birra. Non doveva essere andata molto più lontano di quando la donna in lilla non aveva suonato alcun campanello visibile. La cameriera se ne andò.

«No» disse lui. «Io non voglio... Son venuto... Io...». La donna lo stava osservando; aveva già cominciato ad alzare il boccale. Invece tornò a posarlo sul tavolo, guardandolo. «Sono nei guai» disse lui, piano. «Speravo che potesse aiutarmi».

Ora la donna aveva addirittura ritirato la mano dal boccale, e Wilbourne vide che i suoi occhi, anche se non meno torbidi, erano non meno freddi del grosso diamante che portava sul petto. «E che cosa le ha fatto credere che io potrei o vorrei aiutarla a uscire dal suo guaio, quale che sia? Anche questo gliel’ha detto il tassista? Che tipo era questo tassista? Ha preso il suo numero? ».

«No» disse Wilbourne. «Io...».

«Be’, ormai non ha importanza. Di che razza di guaio si tratta?». Lui glielo disse, semplicemente e candidamente, mentre lei lo osservava. «Uhm» fece lei. «E così, lei, uno di fuori, ha subito trovato un tassista che l’ha portato dritto qui per cercare un medico che sistemi i suoi affari! Bene bene». Questa volta suonò il campanello, non violentemente, ma forte.

«No, no, io non...». Ha perfino un medico nella casa, pensò. «Io non...».

«Senza dubbio» disse la donna. «È tutto un malinteso. Lei ora torna all’albergo, o dove sta, e trova che se l’è sognato che sua moglie era incinta, o magari addirittura d’aver moglie».

«Magari così fosse» disse Wilbourne. «Ma io...». La porta s’aprì ed entrò un uomo, un tipo tarchiato, piuttosto giovane, che stava un po’ stretto nel suo vestito, e che diede a Wilbourne uno sguardo acceso, avvolgente, quasi amoroso, con un paio d’occhi d’un bruno brillante affondati nella carne, sotto una capigliatura innocentemente bipartita con la riga, una pettinatura da ragazzino, e che continuò a guardarlo senza perderlo di vista un istante. Aveva la nuca rasata.

«È questo?» disse alla donna in lilla con voce rauca per la lunga abitudine al whiskey precocemente acquisita, e tuttavia la voce di un’indole cordiale, felice, perfino gioiosa. Non aspettò nemmeno la risposta, andò dritto su Wilbourne e prima che questi potesse fare un movimento lo strappò dalla sedia con una mano grossa come un prosciutto. «Come ti è venuto in mente, figlio di puttana, di venire in una casa rispettabile e di comportarti da figlio di puttana, eh?». Guardò truce Wilbourne con occhi felici. «Fuori?» disse.

«Sì» disse la donna. «E poi voglio trovare quel tassista». Wilbourne cominciò a dibattersi. Subito il giovanotto si volse verso di lui con una gioia amorosa, raggiante. «Non qui dentro» disse la donna con voce aspra. «Fuori, t’ho detto, scimmione».

«Me ne vado» disse Wilbourne. «Può pure lasciarmi andare».

«Già, sicuro, figlio di puttana» disse il giovanotto. «Voglio solo aiutarti. Come ti hanno aiutato a entrare, capisci? Per di qua». Furono nuovamente nel corridoio, ora aveva fatto pure la sua comparsa un ometto smilzo, nero di capelli e scuro di faccia, con un paio di calzoni sporchi e una camicia azzurra, senza cravatta: un inserviente messicano o qualcosa di simile. Arrivarono alla porta, il dietro della giacca di Wilbourne raccolto nell’enorme mano del giovanotto. Il giovanotto aperse la porta. Questo bruto dovrà colpirmi almeno una volta, pensò Wilbourne. Se no scoppia, soffoca. Ma va bene, va bene.

«Forse può dirmelo lei. Volevo soltanto...».

«Ma certo, certo» disse il giovanotto. «Glielo mollo, Pete, che dici?».

«Mollaglielo» disse il messicano.

Non sentì nemmeno il pugno. Sentì l'orlo della veranda colpirlo sulla schiena, e poi l'erba già umida di rugiada, prima di cominciare a sentirsi la faccia. «Forse può dirmelo lei...».

«Certo, certo,» disse il giovanotto con quella voce aspra e gioviale «se ne vuoi un altro...». La porta sbatté. Dopo un poco Wilbourne si rialzò. Allora cominciò a sentirsi l'occhio, tutto il lato della faccia, tutta la testa, il lento, doloroso pulsare del sangue, benché poco dopo nello specchio della farmacia (la trovò proprio dietro l'angolo; stava davvero imparando in fretta ciò che avrebbe dovuto sapere prima dei diciannove anni) non si vedesse ancora il livido. Ma il segno era visibile, qualcosa doveva esserci, poiché il commesso disse:

«Cosa è successo alla sua faccia, signore?».

«Fatto a pugni» disse lui. «Ho messo incinta la mia ragazza. Voglio qualcosa di efficace».

Il commesso lo guardò per un momento, uno sguardo duro. Poi disse: «Le costerà cinque dollari».

«È garantito?».

«No».

«Va bene. Lo piglio lo stesso».

Era una scatoletta di latta, senza etichetta. Conteneva cinque affari che avrebbero potuto essere chicchi di caffè. «Ha detto che il whiskey può facilitare, e il moto. Ha detto di prenderne due stasera, e poi andare in qualche posto a ballare». Lei li prese tutt’e cinque, e poi uscirono a comprare due pinte di whiskey e finalmente trovarono una sala da ballo piena di dozzinali lampadine colorate e di uniformi kaki e di ballerini e ballerine a pagamento.

«Bevine un po’ anche tu» disse lei. «Ti fa molto male la faccia? ».

«No» disse lui. «Bevilo tu. Bevine quanto più puoi».

«Dio» disse lei. «Tu non sai ballare, eh?».

«No» disse lui. «Sì. Sì, so ballare». Si mossero qua e là per la sala, sospinti e urtati e spingendo e urtando a loro volta, come due sonnambuli, e qualche volta a tempo, durante ogni breve fase di musica isterica. Per le undici lei aveva bevuto quasi la metà di una delle bottiglie, ma questo le provocò soltanto il vomito. Egli attese che uscisse dal gabinetto, il viso del colore del mastice, gli occhi indomiti e gialli. «Così hai buttato fuori anche le pillole» disse.

«Due. Ma temevo che accadesse, così ho rigettato nella bacinella e le ho recuperate, le ho lavate e le ho ingoiate di nuovo. Dov’è la bottiglia?».

Dovevano uscire perché lei potesse bere, poi tornarono dentro. A mezzanotte lei aveva quasi finito la prima bottiglia e le luci si spensero, a eccezione di un riflettore che illuminava un globo roteante di vetri colorati, in modo che i ballerini si muovevano con facce cadaveriche in una girandola di raggi multicolori che facevano pensare a un incubo marino. C’era un uomo con un megafono; c’era una gara di danza e loro nemmeno lo sapevano; la musica rumoreggiò e cessò, le luci si riaccesero, l’aria fu piena dei muggiti del megafono, e la coppia vincente si fece avanti. «Mi sento di nuovo male» disse lei. Ancora rimase ad aspettarla – la faccia color mastice, gli occhi indomiti. «Le ho di nuovo rimesse» disse. «Ma non posso più bere. Andiamocene. Chiudono all’una».

Forse erano proprio chicchi di caffè, perché dopo tre giorni non era ancora accaduto niente e dopo cinque giorni anche lui ammise che il periodo era passato. Ora litigavano, lui maledicendosi per questo, mentre sedeva sulla panchina dei giardini pubblici leggendo le offerte di lavoro sui giornali raccattati nelle cassette dei rifiuti, aspettando che il livido sull’occhio scomparisse in modo da potersi presentare decentemente a chiedere lavoro, maledicendosi perché lei aveva sopportato per tanto tempo e avrebbe continuato a farlo, avrebbe potuto continuare a sopportare, solo che lui l’aveva sfiancata, alla fine, e sapeva che era colpa sua, giurava che sarebbe cambiato, che avrebbe smesso. Ma quando tornava nella stanza (era più magra, adesso, e c’era qualcosa nei suoi occhi; le pillole e il whiskey le avevano soltanto messo negli occhi qualcosa che prima non c’era) era come se quei propositi non fossero mai stati fatti, con lei che lo malediceva, ora, e lo colpiva con i suoi pugni duri, poi si controllava, si stringeva a lui gridando «Oh Dio, Harry, fammi smettere! Fammi star zitta! Dammele, dammele di santa ragione!». Poi giacevano stretti l’uno all’altra, completamente vestiti ora, in una specie di pacificazione, per un poco.

«Andrà tutto bene» diceva lui. «C’è un sacco di gente che deve farlo, oggigiorno. Gli istituti di carità non sono poi tanto male. E poi possiamo trovare qualcuno che ci tenga il bambino finché io potrò...».

«No, non è possibile, Harry. Non è possibile».

«Lo so, a tutta prima può suonar male. Carità. Ma la carità non è...».

«Al diavolo la carità. Mi son forse mai curata di dove vengano i soldi? Di dove o come vivessimo o di come avremmo dovuto vivere? Non è questo. È che fanno troppo male».

«Anche questo lo so. Ma tutte le donne partoriscono... Tu stessa hai messo al mondo due bambine...».

«Al diavolo anche il dolore! Io sopporto facilmente e partorisco con difficoltà, ma al diavolo anche questo, ci sono abituata, non m’importa. Io ho detto che fanno troppo male. Troppo maledettamente male». Allora lui comprese, capì ciò che intendeva dire; pensò, sereno, come aveva pensato altre volte, ch’ella, pur conoscendolo appena, aveva già rinunciato a più di quanto egli avrebbe mai potuto possedere per rinunciarvi, ricordando le vecchie, vere, incontestabili parole: Ossa delle mie ossa, carne e sangue e perfino ricordo della mia carne, del mio sangue e del mio ricordo. Non si può superare, si disse. Non si può superare così facilmente. Stava quasi per dire «Ma questo sarà nostro», quando si accorse che era proprio questo, che era esattamente questo.

Ma ancora non riusciva a dire di sì, non riusciva a dire «Va bene». Poteva dirselo sulle panchine del giardino pubblico, poteva stendere la mano e non tremava. Ma non poteva dirla a lei, quella parola; giaceva accanto a lei addormentata, stringendola, e osservava l’ultimo rimasuglio del proprio coraggio e della propria virilità abbandonarlo. «Così va bene» sussurrava a se stesso. «Prendi tempo. Prendi tempo. Presto sarà al quarto mese, e allora potrò dirmi che ormai è troppo tardi per rischiare; anche lei ne converrà». Poi lei si svegliava e tutto ricominciava da capo – i ragionamenti che non concludevano nulla e che si mutavano in litigio e poi in alterco, e lei che alla fine riusciva a contenersi e si afferrava a lui, gridando con frenetica disperazione: «Harry! Harry! Che cosa stiamo facendo? Noi, noi, noi! Fammi tacere! Picchiami! Dammele da farmi perdere i sensi!». Quest’ultima volta la tenne finché non si fu calmata. «Harry, vuoi fare un patto con me?».

«Sì» disse lui esausto. «Qualsiasi cosa».

«Un patto. E poi, fino alla fine, non nomineremo mai più la mia gravidanza». Disse la data nella quale avrebbe dovuto avere il prossimo periodo; mancavano tredici giorni. «Quello sarà il momento migliore, e dopo sarò di quattro mesi e sarà troppo tardi per rischiare. Perciò, da questo momento fino ad allora non ne parleremo più; io cercherò di far andare le cose il più facilmente possibile mentre tu cercherai un posto, un buon posto, che possa mantenerci tutti e tre...».

«No» disse lui. «No! No!».

«Aspetta» disse lei. «Hai promesso... Allora, se per allora non avrai trovato il posto, lo farai, me lo toglierai».

«No!» gridò lui. «Non lo farò! Mai!».

«Ma hai promesso» disse lei tranquilla, dolce, lenta, come se lui fosse un bambino che stesse appena imparando l’inglese. «Non vedi che non c’è nient’altro da fare?».

«Ho promesso, è vero. Ma io non intendevo...».

«Una volta ti ho detto che io credo che non sia l’amore che muore, sono l’uomo e la donna, qualcosa nell’uomo e nella donna, che muore, che non merita più il dono dell’amore. E guarda noi, ora. Abbiamo il bambino, soltanto che tutt’e due sappiamo che non possiamo averlo, non possiamo permetterci di averlo. E fanno troppo male, Harry. Troppo maledettamente male. Ti obbligherò a mantenere la tua promessa, Harry. E così, d’ora in avanti, fino a quel giorno non dovremo più parlarne, non dovremo più pensarci. Baciami». Dopo un momento si chinò su di lei. Senza toccarsi altrimenti, si baciarono, come possono baciarsi un fratello e una sorella.

Adesso era di nuovo come a Chicago, come quelle prime settimane in cui passava da un ospedale all’altro, gli abboccamenti che sembravano cominciare ad agonizzare, a languire e a svanire in un dato, identico istante, ed egli, che già lo prevedeva e se lo aspettava, prendeva il congedo con dignità. Ma non ora, non più, adesso. A Chicago pensava, Immagino che farò fiasco e faceva fiasco; ora sapeva che avrebbe fatto fiasco ma si rifiutava di crederlo, rifiutava di accettare una risposta negativa finché quasi non veniva minacciato di violenza fisica. Non tentò soltanto con gli ospedali, ma con chiunque, per qualsiasi cosa. Disse bugie, qualsiasi bugia; andava agli appuntamenti con una determinazione frenetica, gelida, maniaca, ch’era inerente alla sua propria negazione; prometteva a tutti che avrebbe saputo fare e avrebbe fatto qualsiasi cosa; un pomeriggio, per strada, vide per pura combinazione la targa di un medico ed entrò, e arrivò a offrire di procurare qualsiasi aborto gli venisse affidato per metà dell’onorario, dichiarò la sua esperienza e (se ne accorse più tardi, quando ebbe recuperato un minimo di lucidità) soltanto la sua espulsione con la forza lo prevenne dal presentare la lettera di Buckner quale attestato della sua abilità.

Poi, un giorno, tornò a casa a metà pomeriggio. Rimase a lungo fuori della porta prima di decidersi ad aprirla. E anche allora non entrò ma rimase sulla soglia, con in testa un berretto bianco con la visiera e una striscia gialla – l’unico distintivo d’un allievo vigile stradale della W.P.A. – il cuore freddo e immoto, pieno di dolore e una disperazione che quasi lo pacificava. «Prendo dieci dollari la settimana» disse.

«Oh, che pagliaccio!» disse lei. E poi, per l’ultima volta in vita sua la vide piangere. «Bastardo! Maledetto bastardo! Così potrai violentare le bambine nei parchi il sabato pomeriggio!». Gli si avvicinò, gli strappò il berretto di testa e lo scaraventò nel focolare (una griglia rotta, pendente da una parte e piena di carta crespa, scolorita, che una volta era stata rossa o viola) e poi gli si attaccò al collo, piangendo forte, il volto bagnato di una profusione di lacrime. «Bastardo, maledetto bastardo, maledetto, maledetto, maledetto...».

Fece bollire l’acqua lei stessa e tirò fuori i pochi strumenti che gli avevano fornito a Chicago e che lui aveva usato una sola volta e poi, distesa sul letto, alzò gli occhi su di lui. «Non ti preoccupare. È semplice, lo sai; l’hai già fatto un’altra volta».

«Sì» disse lui. «Semplice. Basta far entrare l’aria. Solo far entrare...». Poi ricominciò a tremare. «Charlotte. Charlotte».

«È tutto qui. Appena un tocco. Così l’aria entra e domani sarà tutto finito e io sarò perfettamente a posto e saremo di nuovo noi per sempre».

«Sì, per sempre. Ma aspettiamo un momento, finché la mia mano... Guarda. Non si vuol fermare. Non riesco a tenerla ferma».

«Va bene. Aspettiamo un minuto. È semplice. È divertente. Nuovo, voglio dire. L’abbiamo fatto una quantità di volte, ma mai con un coltello, vero? Ecco. Adesso hai la mano ferma».

«Charlotte» disse lui. «Charlotte».

«Non ti preoccupare. Lo sappiamo, ormai, come va. Come m’avevi detto che dicono le donne negre? Vienimi su, Harry».

E adesso, seduto sulla panchina nello Audubon Park verde e splendente nella piena estate della Louisiana benché non fosse neanche giugno, tra i gridi dei bambini e il rumore delle ruote delle carrozzelle come nell’appartamento di Chicago, vedeva, con la fantasia, il tassì (cui era stato detto di aspettare) fermarsi dinanzi alla porta irreprensibile e senza nulla di notevole benché assolutamente incontestabile e lei scendere dal tassì con l’abito scuro portato per un intero anno e più, per tremila miglia e più, nella valigia della scorsa primavera, e salire i gradini. Ora il campanello, e forse la stessa domestica negra: «Oh, signora...», e nient’altro, ricordando chi è che paga il salario, ma forse no, poiché di solito in seguito a una morte o a una separazione le negre lasciano il servizio. E adesso la stanza, come lui l’aveva vista la prima volta, la stanza nella quale lei aveva detto «Harry – è così che ti chiamano? – che cosa facciamo?». (Bene, l’ho fatto, pensò. Questo dovrà ammetterlo). Gli sembrava di vederli, tutti e due, Rittenmeyer con l'abito a doppio petto (poteva essere di flanella, ora, ma di flanella scura, che dava a vedere con discrezione il taglio e il costo); tutti e quattro, Charlotte qui e gli altri tre più in là, le due bambine che non avevano niente di speciale, le figlie, l'una coi capelli della madre ma niente di più, l'altra, la piccola, senz’alcuna rassomiglianza, la piccola forse seduta sulle ginocchia del padre, l'altra, la grande, appoggiata contro di lui: le tre facce, la prima impeccabile, le altre due invincibili e irrevocabili, la seconda fredda e immobile, la terza semplicemente immobile; gli sembrava di vederli, gli sembrava di udirli:

«Vai a parlare a tua madre, Charlotte. Porta Ann con te».

«Non ci voglio andare».

«Va’. Prendi Ann per mano». Gli sembrava di udirli, gli sembrava di vederli: Rittenmeyer che posa la piccola in terra, la più grande che la prende per mano e insieme s'avvicinano. E adesso lei si prenderà sulle ginocchia la più piccola che la guarderà ancora col distacco intento, il vuoto assolutamente distaccato dei bambini, la più grande appoggiata a lei, obbediente e fredda mentre subisce la carezza, per poi ritrarsi prima che il bacio l’abbia raggiunta e tornare vicino al padre; un istante dopo Charlotte la vede far segno violentemente, con una furtiva pantomima, alla più piccola. E allora Charlotte posa la piccola di nuovo in terra e lei ritorna dal padre, voltandosi verso le sue ginocchia e già alzando una natica per esser presa su, come fanno i bambini, sempre fissando Charlotte con quel distacco privo perfino di curiosità.

«Lasciale andare» dice Charlotte.

«Vuoi che le mandi via?».

«Sì, vogliono andarsene». Le bambine se ne vanno. E adesso egli la ode; non è Charlotte; lo sa, come Rittenmeyer non lo saprà mai: «E così è questo che hai insegnato loro».

«Io? Io insegnato loro? Io non ho insegnato loro niente!» grida lui. «Niente! Non sono stato io che...».

«Lo so. Scusami. Non volevo dir questo. Io non ho... Sono state sempre bene?».

«Sì, come ti ho scritto. Come ricorderai, per parecchi mesi non ho avuto nessun indirizzo. Le lettere mi son tornate indietro. Le puoi avere se e quando vuoi. Ma tu non hai una buona cera. È per questo che sei tornata a casa? Ma sei tornata a casa?».

«Per vedere le bambine. E per darti questo». Lei tira fuori l’assegno, con la doppia firma e perforato per evitare le falsificazioni, il pezzo di carta vecchio di più d’un anno, piegato e intatto, e solo un po’ ingiallito.

«Allora sei tornata a sue spese. Perciò appartiene a lui».

«No. È tuo».

«Rifiuto di accettarlo».

«Così farà anche lui».

«Allora brucialo, distruggilo».

«Perché? Perché provi gusto a farti del male? Perché ti compiaci di soffrire, quando vi sono già tante ragioni di sofferenza, tante maledette ragioni? Dàllo alle bambine. Un lascito. Se non da parte mia, allora da parte di Ralph. È sempre il loro zio. Non ti ha fatto nulla, lui».

«Un lascito?» dice lui. E allora lei glielo dice. Già, si disse Wilbourne, glielo dirà; gli pareva quasi di vederlo, di udirlo – i due tra i quali un qualcosa di simile all’amore era pur esistito, una volta, o che per lo meno avevano provato insieme quella specie di lotta fisica soltanto con la quale la carne cerca di afferrare quel poco che si può conoscere dell’amore. Oh, glielo dirà; gli sembrava di vederla, di udirla, mentre posa l’assegno sulla tavola, e gli dice:

«È stato un mese fa. Era andato tutto bene, soltanto che ho continuato a perdere sangue e la cosa è diventata piuttosto seria. Poi d’un tratto due giorni fa il sangue è cessato, e perciò deve esserci qualcosa che non va, e che può anche esser qualcosa di peggio... come si chiama? setticemia, avvelenamento? Non importa... è quello che vedremo. Che stiamo aspettando di vedere».

Gli uomini che passavano davanti alla panchina su cui sedeva indossavano abiti di lino bianco, e ora cominciò a notare un esodo generale dal parco – le bambinaie negre che riuscivano a dare un tono bizzarro e abbagliante perfino ai loro grembiuli inamidati a quadretti bianchi e turchini, i bambini che correvano con gridolini in una vivace confusione come petali soffiati dal vento attraverso un prato. Era quasi mezzogiorno; Charlotte doveva essere in casa già da più di mezz’ora. Perché ci vorrà un po’ di tempo, pensò, vedendoli e udendoli: Sta cercando di persuaderla ad andar subito in un ospedale, il migliore, coi migliori dottori; si assumerà lui tutta la colpa, dirà tutte le bugìe del caso; insiste, calmo, niente affatto indiscreto e senza ammettere contraddizioni.

«No. Har... lui conosce un posto. Sulla costa del Mississippi. Andiamo là. Lo troveremo là un dottore, se sarà necessario».

«La costa del Mississippi? Perché la costa del Mississippi, in nome di Dio? Un dottore di campagna in un qualche sperduto villaggio di pescatori del Mississippi, quando qui a New Orleans ci sono i migliori, i migliori...».

«Dopo tutto può darsi che non ci occorra nessun dottore. E poi laggiù potremo vivere con minor spesa, finché non sapremo».

«Allora avete denaro per fare le vacanze al mare».

«Sì, ne abbiamo». Era proprio mezzogiorno adesso; l’aria era ferma, le ombre immobili sulle sue ginocchia, sui sei biglietti che aveva in mano, i due da venti, quello da cinque e i tre da un dollaro, mentre continuava a udirli, a vederli:

«Riprenditi l’assegno. Non mi appartiene».

«Nemmeno a me. Fammi fare a modo mio, Francis. Un anno fa mi hai lasciato scegliere e ho scelto. E mi atterrò alla mia decisione. Non voglio che tu receda e infranga una promessa fatta a te stesso. Voglio piuttosto una cosa da te».

«Da me? Un favore?».

«Chiamalo così, se vuoi. Non ti chiedo una promessa. Forse quello che sto cercando di esprimere è solo un desiderio. Non una speranza, un desiderio. Se dovesse accadermi qualcosa».

«Se dovesse accaderti qualcosa. Cosa dovrei fare?».

«Nulla».

«Nulla?».

«Sì. Contro di lui. Non te lo chiedo per il suo bene o neppure per il mio. Te lo chiedo per... per... non so nemmeno io quello che sto cercando di dire. Per tutti gli uomini e le donne che sono mai vissuti e hanno sbagliato pur con le migliori intenzioni, e per tutti coloro che vivranno e sbaglieranno pur con le migliori intenzioni. Per il tuo bene, forse, perché anche la tua è sofferenza – se esiste qualcosa come la sofferenza, se qualcuno di noi l’ha mai provata, se qualcuno di noi è nato abbastanza forte e buono da esser degno di amare o di soffrire. Forse ciò che sto cercando di dire è solo giustizia».

«Giustizia?». Ora poteva udire la risata di Rittenmeyer, che non aveva mai riso perché la risata è come la barba non rasata dal giorno prima, la trascuratezza tra le emozioni. «Giustizia? A me? Giustizia?». Adesso lei si alza, e lui anche: stanno faccia a faccia.

«Non ti ho chiesto di promettere» dice lei. «Sarebbe stato pretendere troppo».

«Da me».

«Da chiunque. Da qualsiasi uomo o donna. Non soltanto da te».

«Ma sono io che non prometto. Ricorda. Ricorda. Ti dissi che potevi tornare a casa quando volevi, e che ti avrei per lo meno ripreso in casa mia. Ma puoi aspettartelo un’altra volta? da qualsiasi uomo? Dimmi; tu che parlavi di giustizia; dimmelo».

«Non me lo aspetto. Ti ho già detto che forse quello che stavo cercando di dirti era solo una speranza». Ora lei si volterà, si disse Wilbourne, si avvicinerà alla porta, e resteranno un minuto a guardarsi e forse sarà come per me e McCord alla stazione di Chicago, quell’ultima notte... Si interruppe. Stava per dire «l’altr’anno», ma non lo pensò, rimase perfettamente immobile, e disse ad alta voce, con tranquillo stupore: «Quella notte non era neanche cinque mesi fa». Ed entrambi sapranno che non si rivedranno mai più ma nessuno dei due lo dirà. «Addio, Carogna» dice lei. E lui non risponderà, pensò. No, non risponderà, quest’uomo degli ultimatum, che per il resto della sua vita si consacrerà alla necessità di promulgare decreti ch’egli sa preventivamente di non poter mantenere, e che avrebbe negato la promessa da lei nemmeno richiesta e che tuttavia vi si sarebbe attenuto e lei lo sa bene, troppo bene, troppo bene – la faccia impeccabile e invincibile sulla quale tutta la luce della stanza sembrerà raccogliersi come per una benedizione, assunto non di giusta ragione ma di ragione pura e semplice, poiché egli ha avuto sostanzialmente e incontrovertibilmente ragione; e oltre a ciò, anche tragica, visto che l’aver ragione non comportava né pace né consolazione.

Ormai doveva essere l’ora giusta. Si alzò dalla panchina e seguì la curva delle aiuole orlate di conchiglie biancastre tra i cespugli di oleandri, di gelsomini giapponesi e di aranci, verso l’uscita e la strada, sotto il sole meridiano. Il tassì arrivò, rallentando e fermandosi al marciapiede; il tassista aprì lo sportello. «Stazione» disse Wilbourne.

«Union Station?».

«No. Quella di Mobile. La Litoranea». Entrò. Lo sportello si chiuse e il tassì si mosse; i tronchi scortecciati delle palme cominciarono a scorrere all’indietro. «Stanno bene tutt’e due?» disse.

«Senti» disse lei. «Se succede...».

«Che cosa deve succedere?».

«Tu lo saprai in tempo, no?».

«Non ci succederà niente. Provvederò io a te. Non l’ho forse fatto finora?».

«Non far lo sciocco, adesso. Non c’è tempo, adesso. Tu lo saprai in tempo. E allora dovrai tagliare la corda, capisci?».

«Tagliar la corda?».

«Promettimelo. Non lo sai che cosa ti farebbero? Tu non riesci a mentire a nessuno, nemmeno se vuoi, e a me non potresti dare alcun aiuto. Ma lo saprai in tempo. Basterà che tu telefoni a un’ambulanza o alla polizia o qualcosa del genere e telegrafi a Carogna e poi tagli la corda al più presto. Promettimelo».

«Penserò io a te» disse lui. «Questo, ti prometto. Stavano bene tutt’e due?».

«Sì» rispose lei. I tronchi scortecciati delle palme continuavano a scorrere all’indietro. «Stavano abbastanza bene».