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14 luglio 1984

I gemelli lo aspettano sotto il pergolato con le nuove fidanzate. Armand torna dalla fabbrica a piedi. È mezzogiorno e cinque. Aveva iniziato alle quattro del mattino. Nei pomeriggi d’estate, dopo il sonnellino, si dedica al giardino. Poi, alle nove di sera, torna a dormire.

Oggi è il 14 luglio. Vale la pena di lavorare durante i festivi, ti pagano il doppio. Altri dieci anni di sacrifici e potrà mettersi in pensione. Magari ne approfitterà per viaggiare. Non ha mai visto il mare.

A cinquanta metri da casa, sente risuonare le voci di Christian e Alain in giardino. Sente le risate delle nuove fidanzate. Apre il cancello, che non cigola più. Eppure avrebbe giurato che al mattino cigolava. Chi ha unto i cardini?

Prima di andare a salutare i figli, sprofonda nella frescura della casa. S’insapona le mani nel lavello della cucina. Si sfrega le dita col grosso pezzo di sapone di Marsiglia, affondandoci le unghie.

Coglie il suo riflesso nello specchio, le tempie ormai brizzolate. Fin da bambino lo chiamano «l’Americano», per via della sua bella faccia. Un soprannome che aveva detestato a lungo, perché sembrava implicare che sua madre avesse avuto una relazione con qualche soldato al momento della Liberazione. Poi ci aveva fatto il callo. Al lavoro, quando un collega gli chiede: «Come va, Americano?» non ci fa più nemmeno caso. Lì è così, la gente non riesce proprio a chiamarsi per nome.

Reinventa l’anagrafe a furia di nomignoli.

Ha fame.

Eugénie ha preparato un cuscus di pesce. È il piatto preferito di Alain. Il brodo sobbolle a fuoco lento sul fornello. Solleva il coperchio, inspira e chiude gli occhi. Così facendo, prolunga il piacere. Il piacere che lo separa dai suoi due ragazzi. Qualche minuto ancora e li stringerà tra le braccia.

 

 

Da quando i gemelli si sono trasferiti a Lione, gli sembra che il tempo si sia dilatato e che la casa sia diventata molto più grande. Avere due ragazzi per diciotto anni, due diavoletti che fanno casino nello stesso momento, e poi il vuoto. Stanze cui si dà luce solo per spolverare. Ma ciò che gli manca di più sono le gite in bicicletta la domenica mattina. L’orgoglio nel riuscire a scalare un valico, il sudore che inzuppa le magliette dei figli, il loro collo, il loro sorriso così simile. Due ragazzi al prezzo di uno. Anche se Alain è più spericolato di Christian, e più loquace, anche.

 

 

Oltrepassa la tendina a fili ed esce. Non li vede da Natale. Sette mesi sono tanti. Da quando lavorano «nel campo della musica», non trovano più il tempo per tornare a Milly. Cammina verso di loro. Costeggia i suoi ortaggi, non può fare a meno di notare come le foglie dei pomodori stiano ingiallendo con troppo anticipo rispetto alla stagione.

 

 

Non la vede subito. Lei è di schiena. I suoi capelli d’oro, da soli, hanno lo stesso effetto degli specchi che usa lui per abbagliare gli uccelli sugli alberi da frutto.

 

 

Vedendolo arrivare, Christian dispiega il suo metro e ottantotto per abbracciarlo. Armand chiude gli occhi per assaporare meglio il dolce profumo di suo figlio maggiore, anche se solo di tredici minuti. Poi è Alain a dargli una pacca sulla schiena e a chiamarlo papà.

Si è alzata anche lei. La sua frangetta è troppo lunga.

Con un gesto della mano, si scosta i capelli da entrambi i lati del viso, liberandosi la fronte. Ha la pelle chiara, quasi bianca. La sua bocca di ciliegia svela due file di denti perfettamente allineati, bianchi come la pelle. Sembra facciano a gara. Lui le stringe la mano e, molto stupidamente, le dice che ha un accento che si può tagliare col coltello. Lei non capisce, e lui non insiste. Le dà persino la schiena. Tocca a Sandrine presentarsi. Molto lieta.

Si versa un bicchiere di porto. Niente ghiaccio: lo odia. Ripensa al mare. Alla pensione. Al viso di Annette. Che gli prende? Di solito non fa di simili pensieri. Di solito non pensa proprio. Non a cose del genere, a ogni modo.

Che novità? Al negozio, le cose vanno bene. I gemelli si sono lanciati sull’import-export. Vanno di moda i singoli di trenta minuti. La musica inglese fa sfracelli. D’altronde, è la migliore. Alain compone, tra un cliente e l’altro, mentre Christian si occupa della contabilità. Annette ha lasciato la Svezia e verrà a vivere in Francia per dedicarsi al restauro di vetrate antiche. Di cosa? Sai, le finestre con tutti quei santi colorati nelle chiese. Ah, di vetrate. Per vendere dischi hanno bisogno di una bella ragazza, attira i clienti, e per fortuna c’è Sandrine. Annette ci raggiunge nei fine settimana. Ah, sì, papà, ecco la grande notizia. Ci sposiamo. Appena mio fratello ha fatto la sua proposta di matrimonio a Sandrine, io ho fatto la mia ad Annette. Cioè, a dire il vero, sono stato io a farla per primo ad Annette, non vorrei che qualcuno me la fregasse, capisci? Ci sposeremo lo stesso giorno, così risparmierete un abito da cerimonia, e lo faremo a Milly, non se ne parla proprio di farlo a Lione e, mamma, tu preparerai il tuo cuscus di pesce, ma no, non ci sarà troppa gente, no, solo i genitori di Annette e la madre di Sandrine, niente cose in grande. Vi trattenete a lungo? Una quindicina di giorni. Buono il cuscus, mamma. Mi mancano le tue cenette. Che specialità avete, lì da voi in Svezia? Cos’è una specialità? Quello che mangiate di solito. In estate, i gamberi d’acqua dolce. Il resto dell’anno, aringhe e salmone. Il salmone è un pesce di mare o di acqua dolce? Entrambe, credo. Il salmone passa dall’una all’altra.

Armand pensa che, se anche Annette gli parlasse in svedese, lui la capirebbe.

Di ragazze, Armand non ne ha conosciute tante. Prima d’incontrare Eugénie, ne frequentava un’altra. Non era molto carina, ma aveva un bel sorriso. Solo che non era durata. E poi era arrivata Eugénie e lui ne aveva chiesto immediatamente la mano al padre. Il corteggiamento era stato frettoloso, come un peso di cui sbarazzarsi. Come se avesse avuto bisogno del sì di una donna per trovare pace. Per potersi sedere su una panchina qualsiasi e respirare. Anche se lui su una panchina non si è mai seduto. Per lui conta solo il sellino della bici. Come se sposarsi fosse un passaggio obbligato per accedere alla vita reale, quella degli adulti, il corridoio da imboccare per uscire dell’infanzia.

A casa, aveva solo un fratello. A scuola, solo ragazzi. Al lavoro, nient’altro che uomini. Quanto a Eugénie, lei è sempre stata una donna. Mai una ragazza.

Ha passato una notte agitata, in bianco. Per quale motivo si dirà poi «notte in bianco»? La sua è stata nera. Ieri sera si è messo a letto prima del solito, per evitare di doversi sedere di nuovo accanto a «lei» durante la cena.

Al mattino, il suo profumo aveva già invaso la casa.

Le pareti ne erano impregnate. Avevano assorbito il suo odore. Eppure sarebbe pronto a giurare che non si tratta del profumo di un flacone: è nato con lei.

Ma che gli prende? Ripensa a tutte le ex di Alain. Con una si era frequentato per poco più di un anno, aveva dormito in casa loro, un paio di volte. Di nome faceva Isabelle. Un giorno, l’aveva lasciata per un’altra. Una certa Catherine, gli pare. Poi era stata la volta di Juliette. No, sta facendo confusione: quella era la ragazza di Christian. Ragazze che in quella casa avevano trascorso un fine settimana o una serata, o che venivano a cercare i gemelli. Ragazze un po’ troppo profumate. Gli torna in mente quella coi collant neri smagliati. L’aveva trovata volgare. A differenza di Eugénie, non ha mai avuto nulla a che fare con le ragazze dei suoi figli. In effetti, non aveva mai avuto nulla a che fare con le ragazze in generale. Aveva sempre voluto bene a Eugénie, senza mai amarla.

Ogni fine anno, lei teneva d’occhio le mogli dei suoi colleghi che lo sbirciavano alla cena organizzata dal consiglio di fabbrica. A sentir lei, erano una caterva. La gelosia della moglie lo faceva sorridere, ma lui si limitava a stringersi nelle spalle, senza nemmeno schiudere le labbra.

Non è mai stato così felice di uscire di casa. No. Non felice: sollevato. La sua è quasi una fuga. Non sono che le tre. È in anticipo. Ma non importa. Non importa più niente, ormai, a parte lei. La futura moglie di suo figlio. La ragazza venuta dalla Svezia. Ha come la sensazione che gli si sia annidato dentro un tumore. E, mentre cammina per tornare al lavoro, sa che nulla sarà mai più uguale a prima. Guarda un po’, non aveva mai notato quel muro di mattoni subito prima della fabbrica.

Al lavoro, sui telai, non vede che lei. Dai tessuti non emergono motivi stampati, ma solo il suo volto, il suo sorriso e la sua voce. Si domanda come mai suo figlio Alain passi ore intere a comporre: quando hai una fidanzata con una voce così, non devi fare altro che ascoltarla. Ogni sua sillaba somiglia a un’aria d’opera. Anche se lui non ne sa molto, di opera. In vita sua ha visto soltanto la Madama Butterfly, una volta alla televisione.

Ieri sera, nel salutare i figli prima di salire in camera sua per la notte, le ha visto il collo. Lei era protesa in avanti.

Aveva posato un libro sul tavolo del salotto e, mentre leggeva, si accarezzava il braccio destro con la mano sinistra in un gesto meccanico. Quella visione lo ha gettato in uno stato di prostrazione: quel collo libero, i capelli raccolti con un elastico rosa abbastanza sofisticato. E quella mano che faceva su e giù lungo il braccio. E adesso, adesso che è lì, davanti a tutti quei telai che compiono quasi lo stesso movimento, solo più veloce, lui non vede che quella mano, quel braccio, quella pelle bianca come il gesso.

Ma cosa mi prende? si chiede in silenzio. Che cosa mi prende? Sono completamente suonato. Un vecchio rottame buttato all’aria da un soffio di gioventù. Rivoltato da un capriccio della testa. Quanto sei patetico. Ripigliati.

Eppure a mezzogiorno non torna a casa. Perché una casa non ce l’ha più. Il suo capanno, il suo giardino, la sua credenza, la sua recinzione e tutto il resto: nulla gli appartiene più.

Il caporeparto gli dice: «Tutto bene, Armand? È l’una, ti tocca tornare a casa, vecchio mio». Ha ragione, sono vecchio. Ho mille anni. Cinquanta primavere il mese prossimo, ma dove sono andate? Che cosa ne ho fatto?

Quando alla fine rincasa, Eugénie gli annuncia che i ragazzi e le loro fidanzate sono usciti. Avrebbe voglia di prenderla tra le braccia e farla volteggiare. Come a un ballo cui non hanno mai preso parte perché, appena sposati, Eugénie era rimasta incinta e lui aveva dovuto lavorare il doppio. I ragazzi, invece, loro ne hanno approfittato, se la sono spassata. Di ragazze ne hanno conosciute tante. Una a settimana. E Armand le ha sempre guardate come si guarda una bella foto paesaggistica su una rivista, prima di girare pagina.

«Come mai hai fatto così tardi?» gli chiede Eugénie. «Aspetta, ti scaldo il cuscus avanzato. È da ieri che non sembri tu.»

Dopo aver mangiato, entra nella stanza di Alain.

C’è già passata Eugénie, in giro non è rimasta nessuna traccia. Il letto è stato rifatto in maniera impeccabile. Il pavimento di linoleum brilla. Alle pareti, i poster che Alain non ha mai staccato. Téléphone, AC/DC e Trust. Un salvadanaio a forma di cassaforte e un mappamondo giacciono abbandonati sulla scrivania. Qua e là, qualche foto sua e del fratello.

Armand è l’unico che non li ha mai confusi. La differenza è nello sguardo. Ribelle l’uno, riservato l’altro: sin dai tempi dell’infanzia. Potranno anche sorridere e soffiarsi il naso allo stesso modo: è tutto nello sguardo.

La piccola valigia di Annette è posata in un angolo, tra l’armadio e il comodino. È rosa. Armand non aveva mai visto una valigia rosa. Certo che questi svedesi non fanno nulla come gli altri. Fabbricano ragazze straordinariamente belle, elastici sofisticati e valigie rosa. Armand apre la cerniera. Da ieri è diventato un estraneo, una persona nuova, qualcuno che non conosce nemmeno lui. Qualcuno che apre una valigia di nascosto. Qualcuno alla ricerca di un profumo.

I suoi abiti chiari sono ripiegati con cura. D’altronde non sono abiti veri e propri, sono cosine leggere e delicate. Niente di paragonabile ai vestiti nell’armadio di Eugénie.

Richiude la valigia con un gesto brusco come uno schiaffo.

Fra tredici giorni, ritorneranno a Lione. Non la rivedrà prima di Natale. E, conoscendo Alain, per allora l’avrà già rimpiazzata con un’altra. Una che non gli farà più nessun effetto, come quelle di prima.

Per tutti i tredici giorni che rimangono da sfangare, Armand fa gli straordinari in fabbrica. Non appena rincasa, a metà pomeriggio, si mette a letto, stremato. Evita puntualmente di sedersi a tavola per cena, accampando continui mal di testa.

Dopo una settimana, Eugénie decide di chiamare il medico senza consultare il marito. Armand accetta malvolentieri di farsi visitare. Il medico rileva una leggera depressione, dovuta probabilmente al troppo lavoro. Ma Armand rifiuta di mettersi in malattia. Non se ne parla di restare a casa. Gli bastano già quelle poche volte che la incrocia: sulle scale, in giardino, davanti a casa. Qualche giorno prima gli aveva persino chiesto in prestito la bici per andare a fare un giro. Aveva posato il suo culo sul suo sellino. Dopo, lui aveva volutamente lasciato la bici sotto la pioggia per due giorni, finché, brontolando, Eugénie non l’aveva rimessa nel capanno del giardino.

Indossa ogni volta vestiti diversi, che Armand ricorda però a memoria, benché non osi scrutarla più di tanto. Ma un’occhiata è sufficiente a imprimergliela nella mente. A quel punto, per quanto si sforzi poi di posare gli occhi altrove, di riempirsi la testa di altre immagini, lei si è già presa tutto lo spazio. Con un solo sguardo, Armand riesce a trattenere ogni poro di quella candida pelle. È come una dote che ignorava di avere. La memoria non gli serve ormai che a ricordare Annette.

Ed è ridicolo pensare che a Natale Alain possa averla sostituita. Perché lei è insostituibile.

 

 

Il vuoto. Tra la fine dell’estate e il giorno di Natale del 1984, è stato solo il vuoto. Solo assenza.

Per schiarirgli un po’ le idee, questo pomeriggio, Eugénie gli ha chiesto d’incartare i regali. Regali per i gemelli, per Sandrine e per lei.

Ha iniziato da quelli dei gemelli. Due maglioni fatti a maglia da Eugénie e che non indosseranno mai, e due cappelli a cilindro, nel caso in cui ne avessero bisogno il giorno del matrimonio. Sì, perché ci siamo, hanno già fissato la data, sarà a febbraio.

E Alain non l’ha sostituita.

La carta che usa per impacchettare il regalo dei gemelli è decorata con rametti di agrifoglio. Sulla punta delle foglie non si vedono le spine. Eppure gli pizzicano le dita. Ormai ha come la sensazione che al mondo non ci sia più niente di dolce, niente che non presenti asperità. Persino l’aria che respira gli fa male. E non sa perché mai una cosa simile stia succedendo proprio a lui.

Innamorarsi della fidanzata di suo figlio è spregevole, abietto. Per adesso, non pensa al suicidio. Non ci si suicida, nella sua famiglia. Ci si rifugia nel passato o si accende la TV. Rimugina sulla sua infanzia, sul periodo dell’adolescenza, sui primi anni con Eugénie. Ripensa alle arrampicate in bici coi gemelli, a quando ancora se ne infischiavano delle ragazze e trascorrevano i pomeriggi a gonfiare le camere ad aria, a sgrassare e a risciacquare le catene, a lubrificare i pedali e le pastiglie dei freni, a lucidare i telai con un panno ricavato da un vecchio maglione.

Quando finisce per pensare al presente, si rituffa nel passato o accende la TV. È questo il suo modo di darsi una botta, di gettarsi in un precipizio che vede avvicinarsi di continuo.

«I ragazzi arrivano domani.» Prima, era la sua frase preferita. Oggi, non esiste per lui notizia peggiore.

Prima, ogni volta che squillava il telefono, si precipitava a rispondere, solo per sentire uno dei suoi figli pronunciare la parola «papà». Adesso si rintana da qualche parte fino a quando Eugénie non ha riattaccato.

Durante il periodo natalizio, la fabbrica chiude. Non potrà più fuggire alle tre del mattino e lasciare che la giornata si trascini. Sarà costretto a incrociarla per le scale, in cucina, in salotto, sul pianerottolo. A ogni modo, se tutto va bene, ripartiranno presto perché hanno un negozio da mandare avanti. Durante le feste, la gente regala spesso dischi.

Ora incarta il regalo per le fidanzate. Un ciondolino con un cammeo per ciascuna. Dopo averli posati nelle loro scatoline, avvolge queste ultime nella carta con l’agrifoglio senza spine. Secondo lui, per due ragazze così giovani un cammeo è un po’ antiquato. Ma non ne farà parola con Eugénie, c’è già abbastanza tensione in casa, anche se lei non dice mai niente.

La vigilia di Natale, nascosto dietro le persiane della sua stanza, la vede scendere dall’auto di Alain e la trova ancora più bella nei suoi abiti invernali.

Eugénie va ad aprire in vestaglia. Arrivano da Lione. È quasi mezzanotte. Vanno a letto senza mangiare nemmeno un boccone. Festeggeranno il Natale a mezzogiorno. Armand sente i passi e le voci che risuonano nella scala, le porte delle camere che si chiudono. Poi più nulla. A parte Eugénie, che s’infila nel letto dove lui finge di dormire e gli incolla i piedi congelati al pigiama a righe.

 

 

Sono le undici quando, il mattino dopo, Annette si presenta in cucina. È sola. Sono soli. Eugénie è andata a comprare il tronchetto di Natale e il pane affettato. I gemelli e Sandrine dormono ancora.

«Buongiorno, Armand.»

Lui è impegnato ad aprire le ostriche: lo fa con gesti meccanici, versando l’acqua salata nel lavello e posando poi su un piatto l’ostrica appena aperta. A mezzogiorno, saranno di nuovo piene di succo e deliziose. Sta proprio lì, il segreto: lasciare che producano il loro succo dopo averle aperte.

«Buongiorno, Annette.»

Si mette in punta di piedi per baciarlo. Lui tiene il coltello nella mano destra. Respira il profumo della sua fronte, poi del cuoio capelluto. Chiude gli occhi per non perdere l’equilibrio.

«Come vanno le cose dall’estate scorsa?» gli chiede lei, versandosi in una tazza il latte caldo che Eugénie ha lasciato sul fuoco.

Il suo accento svedese schiocca come una frusta. Lui non riesce a risponderle. La guarda rimuovere la pellicola che si è formata sul latte caldo nel pentolino. Lo fa con un cucchiaio di legno, mentre si morde le labbra. Poi, senza preavviso, lei alza lo sguardo e lo fissa rivolgendogli uno dei suoi sorrisi adorabili. «È buffo, Armand. È come se le sue frasi avessero sempre le ali.»

«Già.»

«Va tutto bene, Armand? Sembra pallido.»

«È solo che aprire le ostriche mi dà il voltastomaco... Sembrano ancora vive, quando le mandi giù.»

«Oh. Allora non le tocchi, se le fanno questo effetto.»

Lei immerge le labbra nella tazza, soffia, le immerge di nuovo. «Uno dovrebbe fare solo quello che ha voglia di fare.» Ha posato la tazza, lo sta fissando.

Lui sta fissando lei.

«È da tanto che siete sposati?»

«Non lo so nemmeno più.»

Lei scoppia a ridere. «Come sarebbe a dire che non lo sa più? Lei è sempre sulla duna, come Christian.»

«Si dice sulla ’luna’», la corregge Armand. Poi lascia la cucina, dove l’aria si è fatta irrespirabile. Uscendo incontra Eugénie, appena rientrata dalle compere.

«Hai finito di aprire le ostriche?»

«Non proprio.»

Si spostano in salotto.

Quest’anno, Eugénie ha comprato una ghirlanda con le lucine che lampeggiano. All’improvviso, per vedere l’effetto che fa, spegne le luci di casa.

Prendono l’aperitivo nella penombra: champagne versato nelle coppe che risalgono al loro matrimonio. Armand mastica le noccioline, mentre Alain racconta loro di come il fatturato del negozio si sia impennato. Mettere Sandrine alla cassa si è rivelata un’idea brillante: gli ha persino lasciato del tempo libero da dedicare all’attività di compositore. Ha già spedito le sue registrazioni a una casa discografica di Parigi.

Armand vede solo il volto di Annette apparire e scomparire. Proprio una pessima idea quella ghirlanda lampeggiante.

Poi si siedono a tavola.

Armand riaccende la luce, beccandosi un rimprovero da Eugénie. Annette sale i gradini delle scale quattro alla volta, per poi ridiscendere con una serie di candele che dispone sul tavolo e che accende con dei fiammiferi. Quindi spegne di nuovo la luce.

«È fantastico, amore», le sussurra Alain.

Ed è davvero fantastico. Armand riscopre la sala da pranzo in cui mangia da vent’anni; la vede sotto un’altra prospettiva. Così com’è accaduto alla sua vita.

Annette non tocca né le ostriche né il foie gras, mentre i ragazzi ci danno dentro e Armand è già al terzo bicchiere di vino. Eugénie lo guarda in un modo strano. Lui si riempie il bicchiere per la quarta volta. I ragazzi parlano del matrimonio. Sarà proprio a febbraio, dunque.

È il momento di scambiarsi i regali.

Sandrine tende un pacchetto dorato a Eugénie. «Da parte mia e di Annette.»

Eugénie fatica a sciogliere il nastro che lo circonda e mormora parole impercettibili non appena ne emerge un foulard Hermès. Non sa cosa farsene. È come se le avessero appena affidato un neonato. Invece di metterselo sulle spalle, lo riposa con cura nella sua confezione. Poi Annette si gira verso Armand e sussurra: «Questo è da parte mia».

«Grazie.»

Si sente arrossire come una ragazzina. Annette gli ha regalato un cofanetto coi film di David Lean. Breve incontro, Grandi speranze, Tempo d’estate, Il dottor Živago, La figlia di Ryan, Lawrence d’Arabia, Sogno d’amanti, La famiglia Gibbon.

Quando la bacia per ringraziarla, trema come la sera prima che ti venga l’influenza.

I ragazzi vanno in giro per casa coi loro cilindri. Alain imita Jean-Paul Belmondo in Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo. Sandrine e Annette ridono di gusto col cammeo intorno al collo. Annette non ha idea di chi sia Jean-Paul Belmondo.

 

 

Il 26 mattino, Annette deve ripartire. Da sola. Torna in Svezia per festeggiare il capodanno con la famiglia. Per consentire ad Alain di godersi ancora un po’ la compagnia dei suoi, non gli ha chiesto di accompagnarla all’aeroporto di Lione. Ha prenotato un taxi che è già fuori ad attenderla. Alain e Annette si baciano davanti a casa.

Guardandola sparire dentro il taxi, nascosto come il ladro che è divenuto, Armand si dice che non la rivedrà mai più. In quel momento, ne è assolutamente certo. Lei non tornerà in Francia. La Francia non ha il monopolio dei santi. Lei è stata solo di passaggio. Non sposerà mai Alain. Andrà a restaurare le vetrate di un altro Paese. Di vetrate ce n’è ovunque. E prima o poi incontrerà qualcun altro. Glielo legge nello sguardo. Che non è affatto come quello che Sandrine rivolge a Christian.

Lei non tornerà più.

Quanto a lui, il 2 gennaio, alle quattro del mattino, riprenderà la strada della fabbrica e, col tempo, dimenticherà.