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«Stai leggendo l’oroscopo, Armand?»

Il nonno fa spallucce, Jules gli gira intorno e si sporge a dare un’occhiata. «’Ariete: state per fare un incontro decisivo.’»

Altra scrollata di spalle. «Non leggo ’ste stronzate, io», mugugna il nonno.

Ma Jules insiste: «Il che non impedisce che tu stia per fare un incontro decisivo».

«Finisci le tue patate, invece d’infastidire il nonno», borbotta la nonna.

Jules riprende il proprio posto a tavola e inonda di ketchup le uova al tegamino. A casa nostra si cena alle sei e mezzo. Come le galline: un’espressione che odio perché, quand’ero piccola, le mie amiche la usavano per prendermi in giro. In effetti non erano proprio amiche, ma vicine in vacanza da altri vicini.

A tavola siedo sempre allo stesso posto, di fronte al nonno, con Jules alla mia sinistra e la nonna a destra. È sempre stato così, anche perché siamo certi che il nonno altrimenti si metterebbe a strillare. Un giorno, quando avrò una casa tutta mia, mangerò soltanto su tavolini da caffè in colori pastello. Non avrò neanche una tovaglia cerata e non siederò mai allo stesso posto. A casa nostra, tutto è in legno di quercia, quindi marrone scuro. Il nonno dice che è bello perché è un legno nobile. Io lo trovo orrendo. E poi tutto è coperto, tutto è protetto. Fodere sui divani, fodere sulle poltrone. E tovaglie su ogni tavolo. È come se casa nostra avesse qualcosa da nascondere.

Ogni sera, dopo cena, Jules sale in camera sua a ripassare e io, se non sono di turno, mi chiudo nella mia per scrivere sul quaderno azzurro. Il nonno rimane a guardare la TV. E la nonna va in camera sua per leggere un romanzo di Danielle Steel che impiegherà un anno a terminare perché, puntualmente, crolla addormentata dopo un paio di pagine.

A Natale le regalo sempre un po’ di libri. Quelli di Danielle Steel hanno spesso copertine color pastello, come i tavolini da caffè della mia futura casa, e titoli del tipo: Ora e per sempre, Stagione di passione o L’anello. Non so cosa accenda la fantasia della nonna: forse le copertine.

Intorno ai sei anni, ho scoperto che la nonna e il nonno avevano un nome. La nonna si chiama Eugénie e il nonno Armand. A Jules capita spesso di chiamarli per nome: «Eugénie, sono finiti i sottaceti!» «Armand, ho trovato i tuoi occhiali!»

Con loro, Jules è molto più insolente di me.

Fa un po’ strano vederli giovani nella foto del matrimonio. E ancor di più vedere che la nonna indossa un vestito aderente. Il tempo ha trasformato il suo vitino di vespa in quello di un labrador. La nonna non ha più un corpo: sembra intagliata nel tronco di un albero. Ormai è impossibile capire dove si trovino il seno, la vita, i fianchi, le chiappe. Non che sia grassa: è massiccia, tutta d’un pezzo. Le gambe e i piedi sono compressi dalle calze elastiche – sempre, anche in estate – e le mani sono perennemente ruvide, come se nessuno le avesse mai accarezzate. Non riesco a vedermi il nonno che corteggia la nonna. Non riesco a figurarmi lui che la butta su un letto. Non riesco nemmeno a concepire l’idea che la nonna possa aver fatto un pompino al nonno. Quando Hélène mi parla di Lucien, invece, certe cose le immagino benissimo.

Il nonno e la nonna non si rivolgono quasi mai la parola. L’unica cosa che fanno insieme è la spesa. Non litigano mai. Sembra che abbiano deciso di comune accordo di non rompersi le palle a vicenda. Non li ho mai visti baciarsi sulla bocca. Giusto un bacetto sulla guancia, a Natale, come ringraziamento per i regali. E per esserci, sempre. Certa gente si bacia di nascosto, per pudore. Con loro è il contrario.

Non si può certo dire che ci trattino male: sono assenti e basta. Sono sempre in casa, ma mai nelle stanze. Sono sempre a tavola, ma mai sul menu del giorno.

La sera, il nonno raggiunge la nonna in camera da letto verso le dieci e mezzo. Tranne la domenica. Tutte le domeniche, il nonno guarda il Cinema di mezzanotte su France 3. Quando va a dormire, lei già ronfa da un pezzo. Ha appoggiato il bastone contro il comodino, ha messo la dentiera in un bicchiere d’acqua con una compressa effervescente e si è sistemata una reticella sulla testa. Fa paura, giuro. Quand’ero piccola, ero terrorizzata all’idea di entrare nella loro stanza di notte. Anche malata, con quaranta di febbre, aspettavo che ritornasse la nonna del mattino, quella con tutti i denti.

Non riesco nemmeno a immaginare che abbia avuto una vita «da giovane», senza tentativi di suicidio o un vaso da notte ai piedi del letto.

Una volta, un paio di anni fa, ero rientrata a casa prima del previsto. Il nonno era a Mâcon, per un check-up totalmente a carico della previdenza sociale, un regalo di compleanno per le sue settantacinque primavere. A un certo punto, avevo sentito un rumore che veniva dal bagno di sopra. Come se qualcuno stesse picchiando sui tubi con un martello. Avevo subito pensato all’idraulico, perché quella mattina c’era stata una grossa perdita tra la doccia e il lavandino. E infatti le piastrelle del pavimento erano bagnate.

Entrando in bagno, avevo trovato la nonna in tuta da lavoro, sdraiata sulla schiena, con la testa sotto il lavandino: si vedevano solo le gambe, avvolte dal cotone blu. Aveva appoggiato il bastone alla vasca da bagno. Inoltre indossava un paio di scarpe che non avevo mai visto. Parevano da uomo, però della sua misura. Lì accanto c’era una cassetta degli attrezzi, e la mano della nonna andava dai tubi alla cassetta con una destrezza sorprendente. Sono rimasta a fissarla mentre prendeva chiavi inglesi e cacciaviti. Essendo sdraiata sotto il lavandino, lei non poteva vedermi. Scoprire quella doppia vita della nonna – una vita in cui leggeva romanzi all’acqua di rose e un’altra in cui faceva l’idraulico – mi aveva fatto sentire come una bambina impicciona.

A lasciarmi interdetta era stato soprattutto vederla in pantaloni, con le gambe divaricate e un’agilità tale da far credere che non fosse poi così vecchia. Confusa e imbarazzata come se l’avessi trovata a letto con un amante, ero uscita di nuovo per andare a bere un caffè all’agenzia di scommesse ed ero rientrata un’ora dopo, annunciando rumorosamente il mio ingresso. Lei era in cucina, col suo vestito grigio ordinato tre anni prima sul catalogo della Blancheporte. Le avevo guardato i piedi e lei si era di certo domandata perché mai esaminassi con tanta attenzione le sue vecchie ciabatte consunte.

Il bagno brillava come uno specchio.

La sera, Jules aveva chiesto se poteva farsi una doccia di sopra e la nonna gli aveva risposto che, sì, poteva, perché l’idraulico era riuscito a passare e la perdita era stata riparata. Il nonno aveva chiesto quant’era costato, e lei aveva risposto: trenta euro in nero. Ero andata a cercare le tracce del perfetto travestimento da piccola bricoleuse della nonna nel capanno in giardino, nel ripostiglio e in cantina, ma non avevo trovato nulla. Mi ero detta che forse si era trattato di un’allucinazione, che tutto era nato dalla mia fantasia debordante. A meno che l’idraulico di Milly non sia un sosia della nonna.

Da quando ho iniziato a scrivere sul quaderno azzurro, non scendo più in cantina per ascoltare la musica. E così Jules studia. O finge di studiare, mentre di fatto gioca online e scarica musica techno.

Nel corso degli anni, credo di aver pianto la musica come ho pianto i miei genitori. Credo di aver cominciato a mixare per far riecheggiare il suono delle loro voci intorno a me: tutti i dischi che abbiamo appartenevano a loro, che li vendevano per mestiere.

Dopo la loro morte, il nonno e la nonna hanno smesso di pagare l’affitto del negozio che mio padre e mio zio avevano a Lione. Si erano portati via tutti i vinili e i CD però, non sapendo che farsene, li avevano messi in cantina, lasciandoli negli scatoloni finché io e Jules non li avevamo scoperti. Allora avevamo comprato un piatto per i 33 giri e poi, dopo qualche anno, un mixer, pagato da Magnus e Ada, i nonni di Jules. A quel tempo, Jules ancora rivolgeva loro la parola.

L’anno prossimo Jules non sarà più qui, a casa. Non riesco a crederci. Come non riesco a credere che il nonno stia per fare un incontro decisivo.