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Nel 1947, a Milly apre uno stabilimento tessile. La nuova fabbrica porta una cinquantina di clienti in più al bistrot di père Louis. Così, di colpo.

Grazie ai guadagni, Hélène assume ufficialmente Claude, acquista tavoli e sedie nuovi e un flipper. Claude serve i clienti, mentre Hélène trasforma la vecchia rimessa sul retro in una piccola sartoria e riprende la sua attività. Come se cucire fosse l’unica cosa in grado di rendere sostenibile l’attesa di Lucien.

Sono tanti gli uomini che, pur di poter accedere a quell’angusto laboratorio e sentire il tocco delle sue mani tra i vestiti, si scuciono l’orlo di una manica o dei pantaloni, si strappano il colletto della camicia o un bottone dalla giacca. La osservano, china, in ginocchio, accovacciata, intenta a ricucire un bottone o un orlo o a mettere una pezza, con qualche spillo in bocca e le sopracciglia inarcate.

Il massimo della vita, poi, è farsi confezionare un abito su misura. Le prove vanno avanti per ore. Hélène cinge i loro corpi col metro. Comincia dal girocollo, poi passa alle spalle, alla schiena, alla vita, al bacino, quindi percorre le gambe, misura ovunque, in lungo e in largo. Traccia linee col gesso e il fortunato di turno freme come uno sposino ogni volta che sente la pressione delle sue dita su un muscolo.

Tutti gli uomini di Milly e dei dintorni sfoggiano abiti di ottima fattura. Persino i contadini. Si potrebbe tranquillamente sostenere che, dal 1947 fino all’avvento del prêt-à-porter, gli uomini di Milly fossero più eleganti dei parigini.

Talvolta qualcuno si azzarda a dirle che è giovane e bella, e che potrebbe rifarsi una vita. Ma lei non ha nessuna voglia di rifarsi una vita. Le basterebbe continuare la sua. Con Lucien al suo fianco.

I ritratti di Lucien spediti da Claude alle associazioni che si occupano d’identificare i prigionieri di guerra non hanno sortito nessun risultato. Non sono arrivate notizie. Comunque, seduta alla macchina per cucire, Hélène tesse propositi per il futuro: per esempio dire a Lucien che lo ama.

 

 

Da quella stanza senza finestre, sente spingere la porta d’ingresso del bistrot sapendo, ogni volta, che quello appena entrato non è lui: Lucien ha un modo tutto particolare di tirar su il saliscendi senza fare rumore. Lei lo sa, non fa che ripeterselo: Lucien non è morto. Ritornerà.

Hélène sente gli uomini che ordinano da bere. Sente Claude che si dà da fare per servirli. Di rado: «Cosa prende?» Spesso: «Il solito?» A volte Claude serve senza nemmeno chiedere, perché conosce fin troppo bene la strada attraverso cui certi avventori sprofondano nell’oblio. Bottiglie che tintinnano, bicchieri che vengono riempiti e poi svuotati in corpi che non sono quello di Lucien. Gli uomini risputano l’alcol bevuto in frasi sconnesse, mentre lei disegna linee rette col filo bianco.

All’inizio, l’argomento più frequente nelle conversazioni è la guerra. Il fantasma di chi non c’è più scioglie la lingua. Poi la vita si riprende ciò che le spetta, e così si comincia a parlare di un matrimonio, di un bambino appena nato, di un centenario morto nel suo letto, della fabbrica in cui ogni giorno cercano nuova manodopera, della vecchia Michèle che ha perso il gatto.

Dopo un paio di bicchieri, alcuni si spingono fino alla rimessa e fanno un timido cenno con la mano. Hélène e Louve sollevano la testa nello stesso istante.

Nel 1950, la nuova macchina per il caffè fa lo stesso rumore della locomotiva che le riporterà Lucien. Perché lei ne è certa. Ritornerà.

 

 

Edna gli ha detto: «Se non ha un posto dove andare... Vuole venire a stare con me, giusto il tempo di trovare un lavoro?»

Lui ha accettato.

 

 

Entra nella casa di Edna per la prima volta. Lei gli ha sistemato una stanza in mansarda. Ha appeso la copia di un dipinto di Paul Gauguin a una parete e un crocifisso sopra il letto. Gli ha comprato del sapone da barba e un sapone di Marsiglia. Dentro l’armadio ha messo asciugamani puliti e qualche rametto di lavanda per profumare la biancheria. Si è ben guardata dall’appendere uno specchio, perché si è accorta che lui non riesce a sostenere la visione della propria immagine riflessa, quel volto sconosciuto e devastato che lo fissa da ogni superficie vetrata.

Lui ha ripreso qualche chilo. Non può più cingergli il polso col pollice e con l’indice. La chioma nera è ricresciuta, tranne nei punti in cui la scatola cranica è stata schiacciata. I medici erano convinti che avesse ricevuto colpi molto violenti col calcio di un fucile e che gli avessero tagliuzzato il viso con un coltellaccio simile a quello usato dai cacciatori per finire le prede di grossa taglia. Una cicatrice gli attraversa il volto dalla fronte al labbro superiore, passando dal lato sinistro del naso.

Edna gli dice: «Sei un soldato senza piastrina di riconoscimento né documenti d’identità. Non figuri nel registro delle persone ricercate. Hai bisogno di un nome e di un cognome. Come ti piacerebbe essere chiamato?»

Poi gli mostra un elenco di nomi maschili.

Un berretto con dentro pezzetti di carta e un nome. Ed è tutto. Un ricordo furtivo: nomi in un berretto. Dove? Quando? Perché? Era un sogno? Il sogno? Quello che gli fa visita tutte le notti? Quello di cui non ha mai parlato a nessuno, nemmeno a Edna?

«Simon», risponde. «Vorrei chiamarmi Simon.»

 

 

Edna lo fissa per qualche istante. Come se non si fidasse di lui. No, non si tratta di diffidenza. Si tratta di paura. Lui ha la sensazione che Edna non voglia che ricordi. E ha paura anche lui. È terrorizzato, ossessionato da una domanda: Chi sono io?

Parla e scrive in francese. Sa a cosa servono un pennello da barba, un rasoio, una penna, un paio di forbici. Fuma le Gitanes. Sono le sue uniche certezze. In genere, ai pazienti affetti d’amnesia si mostrano fotografie, immagini, volti e luoghi. A lui non è possibile mostrare nulla. Lui ha perso le sue stesse tracce. È come caduto dal cielo, e nessuno lo cerca.

È in grado di leggere, scrivere, camminare, correre, afferrare e sollevare oggetti, riflettere e ricordare un evento appena avvenuto. La memoria a breve termine è integra. Il resto è buio. La sua mente indossa il velo nero delle vedove. Ne ha incrociata qualcuna, ogni tanto.

E ne ha avuto paura. Sono come fantasmi, spettri. E lui non si fida: teme che lo trascinino là dove non c’è più guarigione.

Per fortuna c’è il sogno, tutte le notti. Una presenza familiare, una risposta, una ribellione contro l’amnesia. Quando si sveglia, chiude gli occhi nel tentativo di farvi ritorno, ma la luce lo risucchia verso la veglia, verso Edna. Deve alzarsi, bere un caffè, rieducare il corpo, rimuovere il gusto di salsedine dalla bocca.

Da quand’è uscito dal coma, Edna dorme accanto a lui. Prima nel dispensario, adesso in casa. Ma lui non l’ha mai spogliata. A volte, le sembra di cogliere il riflesso di un ricordo di Lucien negli occhi di Simon. Repentino come un battito di ciglia.

 

 

Edna Fleming aveva ricevuto la lettera nel 1946. Il 29 maggio, per l’esattezza.

La busta bianca era spessa e grande. Quella mattina, aveva controllato lei la posta e i farmaci in arrivo. Capitava molto di rado. Proprio quella settimana, però, il direttore del dispensario era assente. Essendo la capoinfermiera, toccava a lei.

E lei l’aveva preso come un segno. Quella lettera era destinata a LEI. A LEI e a nessun altro: così aveva disposto la mano di Dio.

La vista del ritratto di Lucien Perrin le aveva procurato un conato di vomito. Un tremito le aveva scosso le mani. L’uomo che le altre infermiere del dispensario chiamavano «il malato di Edna» aveva un nome, un cognome e un indirizzo:

 

Lucien PERRIN

Conoscete quest’uomo?

Sto cercando qualsiasi informazione utile a trovarlo.

Se ne avete, scrivete a Hélène Hel,

presso il bistrot di père Louis,
sulla piazza della chiesa di Milly.

 

Una donna lo stava cercando. Ma non aveva il suo cognome. Era sua madre, una sorella, una figlia?

Aveva guardato il ritratto appena abbozzato. Nessun dubbio. Nonostante le cicatrici, i chili in meno e gli anni in più, era sicuramente lui. I suoi occhi azzurri. Nel ritratto, sorrideva. Lei non lo aveva mai visto sorridere. Si limitava a dire «grazie». Sembrava fosse l’unica parola che sapesse pronunciare. Grazie. L’unica parola in grado di riaffiorare dalla memoria.

Milly, in Borgogna. A quattrocento chilometri dal dispensario, che si trovava nell’Eure.

Conoscete quest’uomo? Certo che lo conosceva. Lo conosceva meglio di chiunque altro. Lo conosceva già sulla banchina, alla Gare de l’Est. Forse perché lui aveva dimenticato tutto. Era come un neonato. Lei lo aveva nutrito. Gli aveva bendato la testa più volte al giorno. Gli aveva tenuto la mano quando, due settimane dopo il suo arrivo, era uscito dal coma con un febbrone da cavallo. Lo aveva assistito tutte le volte in cui doveva svuotare la vescica o lo stomaco, lasciandolo soltanto se doveva curare gli altri pazienti. Quando il chirurgo le aveva detto che non sarebbe sopravvissuto, perché era messo troppo male, aveva pregato per lui, come mai aveva fatto. Gli aveva parlato. Aveva letto a voce alta, per lui. Lo aveva aiutato a muovere i primi passi fuori dal dispensario. Gli aveva ridato la voglia di rimettersi in piedi, di camminare, di mangiare, di dormire. Chi si prenderà cura di lui come aveva fatto lei? Chi potrà amarlo come lo aveva amato, come lo ama lei?

La famiglia che stava cercando quell’uomo, quel Lucien Perrin, non conosceva che il sorriso abbozzato a carboncino prima della guerra. Una vita intera separa il dopo dal prima. Nessuno poteva saperlo meglio di un’infermiera. Quanti sopravvissuti aveva restituito alle famiglie, sconvolte alla vista di quelli che un tempo erano fratelli, figli e mariti? Quel Lucien era morto e sepolto. E dalle sue ceneri era nato Simon.

Simon non era che l’ombra di Lucien. E Hélène Hel non stava cercando un’ombra: stava cercando il passato.