Capitolo 1
Pia era stata ricattata, costretta a commettere un crimine che assomigliava a una missione suicida più di quanto potesse mai aver immaginato; ed era tutta colpa sua.
Saperlo non semplificava per niente le cose. Non riusciva a credere di essere stata così povera di giudizio, gusto e sensibilità.
In tutta onestà, cosa aveva fatto? Con un solo sguardo a un bel faccino, si era dimenticata tutto quello che sua madre le aveva insegnato sulla sopravvivenza. Era in una situazione così schifosa che avrebbe potuto benissimo puntarsi una pistola alla tempia e premere il grilletto. Solo che non possedeva alcuna pistola, perché non le piacevano. E poi, premere il grilletto di una pistola era una soluzione un po’ drastica: aveva un po’ di problemi nell’affrontare situazioni così impegnative. E poi era comunque già spacciata, perciò perché darsi tanto da fare?
Il clacson di un taxi strombazzò. A New York quel suono era così comune che tutti lo ignoravano, ma in quel momento la fece sussultare. Lanciò un’occhiata oltre la spalla ricurva.
La sua vita era un disastro. Sarebbe stata in fuga per il resto dei suoi giorni, o meglio, per il resto di quel quarto d’ora circa che le rimaneva, grazie al suo stesso comportamento sconsiderato e a quella testa di cazzo del suo ex, che l’aveva scopata e poi l’aveva fottuta così bene da non permetterle di superare la sensazione di avere una lama di coltello piantata nello stomaco.
Andò a finire in una stradina coperta di rifiuti, vicino a un ristorante coreano. Stappò una bottiglia d’acqua da un litro e ne trangugiò metà, con una mano appoggiata sull’intonaco del muro, continuando a controllare il passaggio sui marciapiedi. Il vapore proveniente dalla cucina del ristorante la avvolse in una nuvola profumata di peperoncino e soia delle salse gochujang e ganjang, coprendo l’olezzo della spazzatura che marciva nel cassonetto vicino e l’odore aspro dei gas di scarico nel traffico.
La gente in strada aveva lo stesso aspetto di sempre, sembrava guidata da una forza interiore, mentre attraversava a grandi passi i marciapiedi, urlando al cellulare. C’era anche chi borbottava fra sé e sé, scavando nei bidoni della spazzatura e guardando il mondo con occhi persi e diffidenti. Normale amministrazione. Fin lì tutto bene?
Dopo una settimana da incubo che sembrava non finire mai, aveva appena commesso il crimine. Aveva derubato una delle creature più pericolose della Terra, una creatura così spaventosa che il solo immaginarla la terrorizzava più di ogni altra cosa nella vita. E ormai era quasi fatta: doveva sbrigare ancora un paio di cose, incontrare un’ultima volta la testa di cazzo e poi avrebbe potuto ridere istericamente per, diciamo, un paio di giorni, pensando a quale fosse il posto migliore in cui correre a nascondersi.
Aggrappandosi forte a quel pensiero, attraversò la stradina con passo deciso, fino ad arrivare nel Magic District. Situato a est del Garment District e a nord di Koreatown, il Magic District di New York era anche conosciuto come il Calderone, per via della concentrazione di negozi di magia, e comprendeva numerosi isolati che ribollivano di energie positive e oscure.
Il Calderone si gloriava di un caveat emptor come fosse la vestaglia di seta di un pugile. Tutta la zona pullulava di palazzi alti diversi piani, con chioschi e negozi che offrivano lettura dei tarocchi, consultazioni psichiche, feticci e incantesimi, venditori all’ingrosso e al dettaglio, importatori, venditori di merce falsa e di oggetti magici spaventosamente veri. Anche a distanza di un intero isolato, quella zona investiva i suoi sensi.
Arrivò davanti a un negozio situato al limite del distretto. La facciata era stata pitturata di verde sabbia, invece la porta e la modanatura delle finestre di vetro laminato erano dipinte di giallo pallido. Fece un passo indietro per guardare in alto. Sopra la vetrina, delle lettere di metallo satinato componevano la parola DIVINUS. Anni prima, sua madre aveva comprato qualche pozione dalla strega proprietaria del negozio. E anche il capo di Pia, Quentin, aveva detto che quella strega aveva uno dei talenti magici più grandi che avesse mai percepito in un’umana.
Guardò nella vetrina. Il suo riflesso sfocato ricambiava lo sguardo, quello di una giovane donna stanca, dalla corporatura piuttosto slanciata e scattante, dai lineamenti tesi e con una coda di cavallo di capelli sparsi biondo pallido. Guardò oltre sé stessa, verso l’interno oscurato.
In contrasto con la strada cittadina che lo circondava, rumorosa e decisamente meno pulita, l’interno del negozio sembrava un luogo fresco e tranquillo. L’edificio diffondeva un bagliore accogliente. Individuò degli incantesimi di protezione su di esso. In una vetrinetta vicino alla porta, delle energie armoniche scintillavano in un’allettante composizione di cristalli, ametista, peridoto, quarzo rosa, topazio blu e celestina. I cristalli raccoglievano i raggi solari ed emanavano sul soffitto dei fasci di luce color arcobaleno. Gli occhi di Pia individuarono la sola persona presente in quello spazio: una donna alta, dal portamento regale, probabilmente di origini ispaniche, con uno sguardo che si incrociò con il suo con una scintilla di potere.
Fu allora che iniziarono le urla.
«Non sei obbligata a entrare!» strillò un uomo. Poi una donna gridò: «Fermati, prima che sia troppo tardi!»
Pia si fermò a guardare alle sue spalle. Un gruppo di una ventina di persone stava dall’altra parte della strada, con vari cartelli. Uno diceva: MAGIA = LA VIA PIÙ BREVE PER L’INFERNO. Un altro recitava: DIO CI SALVERÀ. Un terzo proclamava: LE ANTICHE RAZZE, UNA BUFALA SNOB.
La sensazione di irrealtà che già provava, a causa dello stress, della mancanza di riposo e di un senso di paura costante, non fece che acuirsi. Stavano gridando a lei.
Alcuni umani perseveravano nella loro bellicosa incredulità verso le Antiche Razze, nonostante i racconti popolari di molte generazioni precedenti avessero trovato riscontro, non appena il metodo scientifico era stato sviluppato. Le Antiche Razze e gli umani vivevano insieme apertamente fin dall’Età elisabettiana. Questi umani, con la loro storiografia revisionista, avevano la stessa credibilità di quelli che dicevano che gli ebrei non erano stati perseguitati durante la Seconda guerra mondiale.
E poi, oltre ad aver perso il contatto con la realtà, stavano picchettando il negozio di una strega umana per protestare contro le Antiche Razze? Pia scosse la testa.
Un leggero scampanellio riportò la sua attenzione verso il negozio. La donna con il potere nello sguardo stava mantenendo la porta aperta. «L’ordinanza cittadina funziona in entrambi i sensi» disse a Pia con voce piena di sdegno. «I negozi di magia devono stare all’interno di un certo distretto, ma i dimostranti devono restare a venti metri dai negozi. Non possono attraversare la strada, non possono entrare nel Magic District e non possono fare altro che urlare dietro ai potenziali clienti, nel tentativo di spaventarli da lontano. Vuoi entrare?» Un sopracciglio perfetto si sollevò con arroganza, in segno di sfida, come a indicare che l’ingresso nel negozio richiedesse un vero gesto di coraggio.
Pia sbatté le palpebre, perplessa. Dopo tutto ciò che aveva passato, la sfida di quella donna era meno che insignificante: era inesistente. Entrò senza battere ciglio.
La porta scampanellò, chiudendosi alle sue spalle. La donna si fermò per un attimo, come se Pia l’avesse sorpresa. Poi si mise davanti a lei, con un sorriso tranquillo.
«Sono Adela, la proprietaria di Divinus. Cosa posso fare per te, mia cara?» Il volto della negoziante si fece interrogativo e curioso, mentre la squadrava. Poi borbottò, quasi fra sé e sé: «Ma cosa può essere? Eppure c’è qualcosa in te che mi...»
Merda, non ci aveva pensato. La strega poteva ricordarsi di sua madre.
«Sì, somiglio a Greta Garbo» la interruppe Pia, con un viso privo di espressione. «Andiamo avanti.»
Lo sguardo della donna risalì di colpo verso il suo. Il volto e il corpo di Pia sembravano trasmettere un’insegna con scritto CHIUSO, e i modi di fare della strega tornarono quelli professionali di una commerciante. «Chiedo scusa» disse con la sua voce dolce come il miele. Gesticolò. «Ho dei cosmetici a base di erbe, dei rimedi di bellezza, in quell’angolo ci sono le tinture, i cristalli caricati con incantesimi di guarigione...»
Pia si guardò attorno senza osservare davvero, anche se notò subito un odore speziato. Era un profumo così buono che non poteva fare a meno di inspirarlo profondamente. Nonostante fosse molto tesa, i muscoli del collo e delle spalle si rilassarono. Il profumo conteneva un incantesimo di basso livello, che aveva il chiaro scopo di rilassare i clienti nervosi.
Sebbene non potesse causarle alcun danno e non annebbiasse i suoi sensi in alcun modo, la sua natura manipolatoria la disgustò. Quante persone si rilassavano e spendevano più soldi grazie a quell’incantesimo? Strinse i pugni, allontanandolo. Il profumo magico le rimase attaccato alla pelle ancora per un attimo, poi si dissolse. Era come avere delle ragnatele che le scorrevano addosso, e dovette combattere contro il bisogno di strofinare le mani sopra braccia e gambe.
Seccata, si voltò per incontrare lo sguardo della negoziante. «Questo negozio mi è stato raccomandato da fonti fidate» le disse in tono sincopato. «Devo comprare un incantesimo vincolante.»
L’atteggiamento distaccato di Adela scomparve. «Capisco» disse, con fare schietto quanto quello di Pia. Le sopracciglia si sollevarono per lanciare un’altra piccola sfida. «Se hai sentito parlare di me, allora sai che i miei servizi costano.»
«Costano perché dovrebbero essere fra i migliori della città» disse Pia, mentre a grandi passi si avvicinava a un bancone di vetro. Tolse lo zaino dalla spalla dolorante e lo appoggiò sul banco, sfilando la coda aggrovigliata da sotto una delle cinghie. Infilò la bottiglia d’acqua nello zaino e lo richiuse.
«Gracias» disse la strega con distacco.
Pia abbassò lo sguardo verso i cristalli nella teca. Erano così belli e luminosi, pieni di magia, luce e colore. Come sarebbe stato tenerne uno fra le mani, sentirne il peso freddo sul palmo, ascoltarlo cantare la luce delle stelle e la profondità delle montagne? Come sarebbe stato possederne uno?
Interruppe quell’attrazione voltandosi. E rivolse la propria sfida alla donna. «Posso sentire anche gli incantesimi intorno e dentro il negozio, compresi quelli di attrazione su quei cristalli, e quello che dovrebbe rilassare i clienti. Posso dire che lavori in modo abbastanza competente. Ho bisogno di un incantesimo vincolante a un giuramento, e ho bisogno di averlo oggi stesso, prima di uscire di qui.»
«Non è facile come sembra» rispose la strega. Le sue lunghe palpebre calarono, serrandone l’espressione. «Questo non è un fast food.»
«Non mi serve che sia elaborato» disse Pia. «Guarda, sappiamo entrambe che me lo farai pagare di più perché ne ho bisogno con urgenza. Ho un sacco di cose da fare perciò, per favore, possiamo saltare la parte in cui ci giriamo intorno e negoziamo? Perché, senza offesa, è stata una giornataccia lunghissima. Sono stanca e non sono dell’umore adatto.»
La bocca della strega si incurvò. «Certamente» disse. «Anche se, con i vincolanti, posso arrivare solo fino a un certo punto, così su due piedi. E poi ci sono cose che non faccio. Se hai bisogno di qualcosa in particolare, studiata per uno scopo specifico, ci vorrà un po’ di tempo. Se ne vuoi uno oscuro poi, sei nel posto sbagliato: io non uso la magia nera.»
Pia scosse la testa, sollevata dall’atteggiamento professionale della donna. «Niente di oscuro, credo» disse con voce secca. «Ma voglio qualcosa che abbia delle conseguenze reali. Deve essere una cosa seria.»
Gli occhi scuri della strega brillarono di una luce beffarda. «Intendi qualcosa del tipo: ‘giuro di fare così e così o il culo mi prenderà fuoco e brucerà fino alla fine dei tempi’?»
Pia annuì, curvando le labbra. «Sì. Quel genere di cose.»
«Se qualcuno fa un giuramento di sua spontanea volontà, il vincolo ricade nell’ambito degli obblighi contrattuali e della giustizia. E perciò posso farlo. E l’ho fatto, in effetti» disse la donna. Si diresse verso il retro del negozio. «Vieni con me.»
La coscienza turbata di Pia si contorse. Diversamente dalla magia bianca e da quella nera, entrambe molto polarizzate, quella grigia doveva essere neutrale, ma l’analisi etica della strega non si sposava molto bene con il suo modo di vedere le cose. Come per l’incantesimo di rilassamento che impregnava il negozio, le sembrava un modo per manipolare le menti, privo di un qualsiasi fondamento morale concreto. Una grande varietà di mali potevano essere inflitti nascondendosi sotto la maschera della neutralità.
Ma era abbastanza presuntuoso da parte sua fare questo genere di valutazioni, ancora fresca com’era della scena del crimine di cui si era macchiata, alla disperata ricerca di un incantesimo vincolante su cui mettere le mani. Il bisogno di scappare pompò adrenalina nelle vene. L’autoconservazione la teneva ancorata dov’era. Disgustata da sé stessa, scosse la testa e seguì la strega. Che cazzata.
Sperava sinceramente che non fosse così.
Conclusero l’affare in meno di un’ora. Su consiglio della strega, sgattaiolò fuori dal retro, per evitare che i contestatori la infastidissero ancora. Il suo zaino si era alleggerito di una importante quantità di denaro, ma Pia pensò che in una situazione di vita o di morte quei soldi fossero ben spesi.
«Solo una cosa» disse la strega, piegando il suo corpo sinuoso in una posa languida contro lo stipite della porta del negozio.
Pia si fermò e si voltò indietro verso di lei.
La strega la guardava negli occhi. «Se c’è del coinvolgimento con l’uomo per cui lo hai comprato, lasciami dire, tesoro, che non ne vale la pena.»
Le scappò una risata amara. Sistemò lo zaino, sollevando la cinghia su una spalla. «Se solo i miei problemi fossero così semplici...»
Qualcosa si mosse sotto la superficie dei bellissimi occhi scuri dell’altra donna. Sembrava che stesse riflettendo, ma poteva essere un effetto dato dalla luce del tardo pomeriggio. Un attimo dopo, il suo splendido viso indossava una maschera di indifferenza, come se avesse già iniziato a pensare ad altro.
«Allora buona fortuna, chica» disse. «Se hai bisogno di qualcos’altro, torna quando vuoi.»
Pia deglutì e con la gola secca ringraziò.
La strega chiuse la porta e Pia arrivò in fretta alla fine dell’isolato, per infilarsi nella calca sul marciapiede.
Non le aveva detto come si chiamava. Dopo il primo rifiuto, la strega aveva capito che non doveva chiedere, e lei non aveva dato informazioni. Si domandò se per caso avesse la parola ‘guai’ tatuata in fronte. O forse ce l’aveva nel sudore: la disperazione aveva un odore inconfondibile.
Accarezzò la tasca dei jeans in cui aveva infilato l’incantesimo, avvolto in un fazzoletto di stoffa bianca. Un bagliore magico molto intenso si spanse attraverso i denim consumati e le pizzicò la mano. Forse, dopo l’incontro con la testa di cazzo, dopo aver concluso la loro transazione, avrebbe potuto riprendere fiato per la prima volta dopo giorni e giorni. Pensò di doversi rallegrare del fatto che la strega non fosse stata esattamente uno squalo.
Poi sentì il più terribile suono della sua vita. Iniziò come una vibrazione bassa, ma così profonda e potente da scuoterle le ossa. Rallentò davanti a uno STOP insieme agli altri pedoni. La gente si faceva ombra con le mani per vedere meglio, e si guardava attorno, intanto che la vibrazione cresceva e diventava un ruggito che faceva tremare strade e palazzi.
Era come cento treni in corsa, cento tornado, come se il monte Olimpo stesse esplodendo in una pioggia d’acqua e di fuoco.
Pia cadde in ginocchio e si gettò le braccia sopra la testa. Altri, urlando, fecero lo stesso. Altri ancora continuarono a guardare con occhi spalancati, alla ricerca del disastro. Alcuni corsero via in preda al panico. Gli incroci lì attorno erano puntinati di incidenti, perché gli automobilisti perdevano il controllo delle auto e tamponavano quelle degli altri.
Poi il ruggito finì. Gli edifici si fermarono. Il cielo senza nuvole era sereno, ma New York non lo era di certo.
E va bene.
Si tirò in piedi sulle gambe tremanti e si asciugò il volto grondante sudore, indifferente al caos che le si agitava attorno.
Pia sapeva cosa, o meglio, chi aveva causato quel suono atroce e perché. E quella consapevolezza le faceva contorcere le budella.
Se per salvarsi la vita avesse dovuto correre una gara, quel ruggito sarebbe stato lo sparo d’inizio. E se Dio fosse stato l’arbitro, avrebbe appena urlato ‘via!’.
Era nato con il sistema solare. Giorno più, giorno meno. Ricordava un bagliore trascendente e un vento immenso. La scienza moderna lo aveva chiamato vento solare. Ricordava una sensazione di volo infinito, un eterno crogiolarsi nella luce e una magia così penetrante e giovane e pura da suonare come una sinfonia angelica.
Il suo imponente corpo di ossa e carne si era formato insieme ai pianeti. Divenne legato alla Terra. Conobbe la fame e imparò a cacciare e a nutrirsi. La fame gli insegnò concetti come ‘prima ’ e ‘dopo’, ‘pericolo’, ‘dolore’ e ‘piacere’.
Iniziò ad avere opinioni. Gli piaceva il sangue che zampillava dalla carne di cui si abbuffava. Gli piaceva sonnecchiare disteso su una pietra sotto il sole. Adorava lanciarsi nell’aria, spiccare il volo e sfruttare le correnti ascensionali per andare più in alto, riproducendo l’estasi di quel primo volo senza fine.
Dopo la fame, scoprì la curiosità. Nuove specie si svilupparono. C’erano i wyr, gli elfi, i fae di luce e di oscurità, individui alti e dagli occhi brillanti e creature bassine del colore dei funghi, incubi alati e timidi esserini che si muovevano svogliati fra le foglie e si nascondevano non appena lui appariva. Quelle che poi divennero note come le Antiche Razze tendevano a raggrupparsi attorno o dentro a sacche dimensionali di Altre Terre, luoghi pieni di magia in cui il tempo e lo spazio si erano piegati durante la formazione della Terra e il sole brillava in maniera diversa.
La magia aveva lo stesso sapore del sangue, solo che era dorata e calda come la luce del sole. Era ottima da trangugiare con la carne rossa.
Apprese a usare il linguaggio ascoltando di nascosto le Antiche Razze. Faceva pratica da solo quando era in volo, rimuginando su ogni parola e sul suo significato. Le Antiche Razze usavano diverse parole per lui.
Lo chiamavano Wyrm. Mostro. Maligno. Grande bestia. Dragua.
E da ciò deriva il suo nome.
All’inizio non si accorse dei primi Homo sapiens che presero a proliferare in Africa. Di tutte le specie, non avrebbe mai scommesso su di loro: erano deboli, vivevano vite brevi, non avevano armature naturali e si potevano uccidere facilmente.
Li tenne d’occhio e imparò le loro lingue. Proprio come fecero gli altri wyr, sviluppò l’abilità di mutare la propria forma, così da poter camminare in mezzo a loro. Gli umani estraevano dalla terra le cose che più piacevano loro: l’oro, l’argento, i cristalli splendenti e le gemme preziose, che lavoravano e modellavano in creazioni di grande bellezza. Avido per natura, collezionava tutto ciò che attirava il suo sguardo.
Queste nuove specie si diffusero in tutto il mondo, così lui creò delle tane segrete in caverne sotterranee in cui raccolse i suoi averi. Essi comprendevano lavori degli elfi, dei fae e dei wyr, così come creazioni umane di tutti i tipi come piatti, calici, manufatti religiosi e monete d’oro, argento e rame. Il denaro: quello era un concetto che lo intrigava, legato com’era a tanti altri concetti interessanti come il commercio, la politica, la guerra e l’avidità. C’erano anche cascate di cristalli e gemme preziose, e gioielli artigianali di ogni tipo. La marea dei suoi averi crebbe fino a includere scritti di tutte le Antiche Razze e degli umani, poiché, a volte, credeva che i libri fossero un’invenzione ancora più preziosa di qualsiasi altro tesoro.
Parallelamente all’interesse per la storia, la matematica, la filosofia, l’astronomia, l’alchimia e la magia, si appassionò alle scienze moderne. Nel XIX secolo, viaggiò fino in Inghilterra per poter discutere dell’origine delle specie con un famoso scienziato. Si erano ubriacati insieme – l’inglese con molta più disperazione di lui – e avevano parlato a lungo, nelle ore delle streghe, finché la foschia della notte non si era sciolta sotto i raggi del sole.
Ricordava di aver detto a quell’acuto scienziato ubriaco che lui e la civiltà umana avevano molte cose in comune. La differenza stava nel fatto che la sua esperienza era concentrata in una singola entità, in un unico insieme di ricordi. In un certo senso, questo significava che lui incarnava tutti gli stadi dell’evoluzione contemporaneamente: bestia e predatore, mago e aristocratico, brutalità e intelletto. Non era così sicuro di aver acquisito emozioni come quelle umane. Di sicuro non aveva acquisito la loro morale. Forse il suo più grande traguardo era stato la comprensione della legge.
Gli umani, nelle loro diverse culture, avevano molti nomi per lui. Lo chiamavano ryu. Viverna. Naga. Per gli Aztechi lui era il serpente alato Quetzalcoatl, che consideravano Dio.
Dragos.
Quando scoprì il furto, Dragos Cuelebre schizzò in cielo con grandi spinte delle sue ali gigantesche, la cui apertura si avvicinava a quella di un jet Cessna a otto posti.
La vita moderna era diventata complicata. Di solito, quando volava, concentrava il potere per evitare gli aerei o, molto più semplicemente, stilava un piano di volo con il controllo del traffico aereo locale. Con la sua esorbitante ricchezza e la sua posizione di wyr fra i più antichi e potenti, era la vita stessa a farsi in quattro per adattarsi ai suoi desideri.
Quella volta non fu così educato. Si trattava di un volo del tipo ‘toglietevi dal cazzo’. Era accecato dalla rabbia, reso violento dall’incredulità. La lava scorreva fra le sue antiche vene e i suoi polmoni si gonfiavano come per urlare. Mentre raggiungeva lo zenit della sua ascesa, la lunga testa scattò avanti e indietro, e lui ruggì ancora. Il suono squarciò il cielo, come se con i suoi artigli affilati avesse dilaniato un nemico immaginario. Con tutti i suoi artigli, eccetto quelli di una delle zampe anteriori, fra i quali stringeva qualcosa di fragile e, a essere sinceri, inconcepibile. Questo foglietto minuscolo gli sembrava ridicolo e insensato, come una colata di cioccolato fuso sulla testa di uno struzzo. La ciliegina sul cioccolato era quel leggero profumo che si spandeva dallo stralcio di carta. Stuzzicava i suoi sensi, risvegliando una frenesia che sembrava legata a ricordi lontani, che non riusciva a riconoscere...
La mente divenne incandescente e perse la rotta nel flusso del tempo. Cedendo all’ira, volò fino a tornare in sé e poi riprese a pensare.
Poi Rune disse alla sua mente: Signore, tutto bene?
Dragos piegò la testa, accorgendosi solo allora che il suo Primo stava volando dietro di lui, a distanza di sicurezza. Era per colpa di tutta quella rabbia se non se n’era accorto. Di solito Dragos era consapevole di tutto ciò che gli accadeva attorno.
Notò che la voce telepatica di Rune era calma e indifferente, esattamente come sarebbe stata la sua voce fisica se gli avesse parlato.
C’erano molte ragioni per cui Dragos aveva nominato Rune Primo della sua corte. Erano quelle ragioni ad aver fatto sì che Rune prosperasse tanto a lungo al suo servizio. Era un maschio maturo, esperto e sufficientemente dominante da godere di una certa autorità in quella società wyr a volte turbolenta. Era intelligente, con particolari doti di astuzia e violenza, simili a quelle di Dragos.
Ma più di tutto, Rune aveva il dono della diplomazia che Dragos non era mai riuscito a raggiungere. Quel talento lo rendeva indispensabile quando avevano a che fare con altre corti di Antichi. E lo aiutava a tenere la rotta nei momenti di burrasca in cui il suo signore perdeva le staffe.
Dragos serrò la mascella e digrignò i denti imponenti, studiati per fare una carneficina. Sto bene, rispose dopo un attimo.
Come posso aiutarla?, chiese il suo Primo.
La mente di Dragos si sentì minacciata all’idea di poter cadere ancora vittima dell’incredulità totale davanti a ciò che aveva scoperto. C’è stato un furto, rispose ringhiando:
Un attimo di pausa. Signore?, chiese Rune.
Per una volta, il proverbiale sangue freddo del Primo fu scosso. Gli diede un triste senso di soddisfazione. Un ladro, Rune. Ogni parola era come un ruggito. Un ladro è entrato nel mio nascondiglio e ha preso una cosa che mi appartiene.
Ci volle un po’ di tempo perché Rune metabolizzasse quelle parole. E Dragos lasciò che si prendesse il tempo necessario.
Era un crimine impensabile. Non era mai successo, non in tutti i millenni in cui aveva vissuto. Eppure era successo adesso. Prima qualcuno aveva, chissà come, trovato il suo tesoro, il che era già un’impresa incredibile. Un raffinato allestimento finto, con tanto di sistema di sicurezza all’avanguardia, era situato nei livelli sotterranei della Torre Cuelebre, ma nessuno sapeva dove si trovasse il vero tesoro di Dragos, a parte lui.
Era protetto da potenti incantesimi di velo e di repulsione, più antichi delle tombe dei faraoni egizi, e subdoli come un veleno insapore. Ma, dopo aver trovato il suo nascondiglio segreto, il ladro era riuscito a superare tutte le serrature e le barriere, fisiche e magiche, usate da Dragos, con la facilità con cui un coltello avrebbe attraversato il burro. Ciò che era peggio era che il ladro era riuscito a sgattaiolare fuori esattamente nello stesso modo.
L’unico avvertimento che Dragos aveva ricevuto era stato un disagio opprimente che lo aveva tormentato per tutto il pomeriggio. Un disagio che era cresciuto fino al punto da non essere più gestibile e che lo costrinse ad andare a controllare i suoi averi.
Aveva capito che la tana era stata violata non appena aveva messo piede nell’entrata segreta della caverna sotterranea. Eppure non riusciva a crederci, neanche dopo essere andato su tutte le furie, scoprendo la prova inconfutabile del furto, insieme a qualcos’altro che aveva portato la situazione a un livello totalmente inconcepibile.
Abbassò lo sguardo verso la zampa destra chiusa. Virò bruscamente per mettersi sulla rotta che lo avrebbe riportato in città. Rune lo seguì e si sistemò agevolmente dietro di lui, fedele e sempre pronto a guardargli le spalle.
Devi trovare il ladro. Devi fare tutto ciò che è in tuo potere, disse Dragos. Tutto, capisci? Usa ogni mezzo, magico e non. Non deve esistere nient’altro per te. Nessun altro incarico, nessuna distrazione. Passa tutte le tue mansioni ad Aryal o a Grym.
Capisco, signore, disse Rune, mantenendo un tono telepatico tranquillo.
Dragos percepì altre conversazioni nell’aria, anche se nessuno osava entrare in contatto diretto con lui. Pensò che il suo Primo avesse iniziato a dare ordini, per trasferire le sue mansioni agli altri.
Dobbiamo chiarire bene una cosa, Rune. Non voglio che al ladro venga fatto alcun male, né che venga ucciso da nessuno al di fuori di me. Non ti sarà concesso farlo. Scegli bene le persone che userai per questa caccia.
Lo farò.
Sarai tu a pagare, se qualcosa va storto, gli disse Dragos. Non riusciva a spiegare neanche a sé stesso perché se la prendesse tanto con quella creatura che per secoli era stata precisa e affidabile come un metronomo. Strinse gli artigli su quel brandello inconcepibile di prova. Hai capito?
Ho capito, signore, rispose Rune, calmo come sempre.
Bene, allora, ringhiò lui.
Dragos si accorse che erano tornati a volare sopra la città. Il cielo attorno a loro era privo di traffico aereo. Planò in un grande cerchio per atterrare sull’ampia piattaforma d’atterraggio sopra la Torre Cuelebre. Non appena toccò terra, assunse la sua forma umana, quella di un imponente uomo di un metro e ottantacinque, con i capelli scuri, la pelle color bronzo e gli occhi dorati da rapace.
Si voltò per guardare Rune che atterrava. Nella luce del sole calante del pomeriggio, le maestose ali del grifone brillavano. Poi anche l’altro si trasformò in umano: un uomo fulvo, dalla corporatura possente quasi quanto quella di Dragos.
Rune chinò il capo in segno di rispetto, prima di dirigersi a grandi passi verso le porte sul tetto. Quando se ne fu andato, Dragos aprì il pugno destro, in cui aveva appallottolato un pezzo di carta.
Perché non ne aveva parlato a Rune? Perché neanche in quel momento lo stava chiamando per farlo tornare indietro e parlargliene? Non lo sapeva. Si limitava a obbedire a quello strano impulso di segretezza.
Avvicinò il foglietto al naso e inspirò. C’era ancora del profumo sulla carta, e questa aveva assorbito olio dalla mano del ladro. Era un profumo femminile che faceva pensare a un raggio di sole selvaggio, e gli era familiare, risvegliava tutti i suoi istinti più profondi.
Rimase immobile, con gli occhi chiusi, concentrato, inalando in grandi respiri quel femminile e selvaggio raggio di luce. C’era qualcosa in quel profumo, qualcosa che veniva da un tempo ormai lontano. Se solo fosse riuscito a ricordare. Aveva vissuto così a lungo, e la sua memoria era un grosso e complesso groviglio. Avrebbe potuto impiegare intere settimane a ritrovare quel ricordo.
Si sforzò ancora di più, ripensando a quel tempo sfuggente in cui il sole era più giovane, e c’erano una verde e profonda foresta e un profumo celestiale che lo aveva confuso e fatto precipitare nel sottobosco...
Ma il sottile filo che lo avrebbe guidato fino al ricordo si spezzò. Un brontolio di frustrazione gli rimbombò nel petto. Aprì gli occhi e si impose di non strappare la carta che stringeva con tanta tensione.
Gli venne in mente che Rune aveva dimenticato di chiedergli cosa aveva rubato il ladro.
Per necessità, la sua tana sotterranea era enorme, composta da caverne su caverne, piene di così tante ricchezze da non essere mai state viste dal resto del mondo tutte insieme. Le caverne erano piene del tesoro di tutti gli imperi.
Stupendi manufatti decoravano le grezze pareti delle grotte. Oggetti magici, ritratti in miniatura, orecchini con cristalli tintinnanti da cui, sotto la luce delle lampade, nascevano gli arcobaleni. Opere d’arte impacchettate per essere protette dall’ambiente circostante. Rubini e smeraldi e diamanti grandi come uova d’oca, e fili su fili di perle. Scarabei egizi, cartigli e pendenti. Oro greco, statue siriane, gemme persiane, giada cinese, tesori spagnoli trovati in relitti affondati. Aveva persino una collezione di monete moderne che aveva iniziato diversi anni prima e alla quale aggiungeva elementi in maniera disordinata, quando se ne ricordava.
Sulla testa dello struzzo c’era una colata di cioccolato caldo...
La sua ossessiva attenzione per i dettagli, il ricordo preciso di ogni singolo pezzo di quel tesoro gigantesco, la traccia di quel profumo che sembrava un raggio di sole ribelle, e l’istinto lo avevano guidato nel posto giusto. Aveva scoperto che il ladro aveva preso un penny di rame coniato negli Stati Uniti nel 1962, da un’anfora piena di monete che non si era ancora preoccupato di mettere in ordine in un raccoglitore.
...E sul cioccolato fuso, sulla testa dello struzzo, c’era una ciliegina...
Il ladro aveva lasciato qualcosa in cambio di ciò che aveva preso. L’aveva messo in cima alla catasta di monete. Era un messaggio scritto su un pezzo di carta con mano tremante e scrittura sottile. Il messaggio era avvolto attorno a un’offerta.
‘Mi dispiace’ diceva.
Il furto era una violazione della privacy. Era un incredibile atto di impudenza e mancanza di rispetto. E non solo, era anche... sconcertante. Era assetato di sangue, accecato dall’ira. Era più antico del peccato e non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui era stato così furioso.
Riguardò il pezzo di carta.
‘Mi dispiace di aver dovuto prendere il tuo penny. Eccone un altro in cambio.’
Sì, diceva proprio così.
Un angolo della bocca si arricciò. Si stupì profondamente di sé stesso, quando esplose in una risata incontenibile.