Capitolo tredicesimo

Stalin, Hitler e i loro 50 o 60 milioni di morti. Due despoti somiglianti, crudeli, asserragliati nel proprio egoismo autocratico. Una vita divinizzata. Una morte brutta, poco eroica e umiliante.

Lo psichiatra russo Vladimir Bechterev è stato forse fra i primi medici a subire l’ira di Stalin, dopo avergli incautamente diagnosticato, nel 1927, una sindrome paranoide. Poco piú tardi infatti morí per qualche strana combinazione. Lo storico Isaac Deutscher ha ipotizzato che lo stesso Stalin ne avesse ordinato l’uccisione (il che del resto non sembrerebbe davvero un fatto insolito, trattandosi di Stalin). Quanto a Hitler, è stato spesso giudicato pazzo, a livello popolare, ma tale giudizio non è mai stato davvero confermato da psichiatri o resoconti clinici, e neppure da storici e biografi1. Come è logico, il fatto di non essere dichiaratamente pazzi, ha privato sia Stalin sia Hitler di qualunque scusante o giustificazione, e ha reso ancora piú aberrante e mostruoso il comportamento e la determinazione che i due despoti condividevano: la megalomania, l’egocentrismo, la cupidigia del potere, la crudeltà, e la sete di uccidere2.

Colpiscono in particolare certe evidenti somiglianze fra i due dittatori (forse tuttora non abbastanza esplorate), a cominciare dalla loro nascita e dal loro essere vissuti entrambi, da bambini, in un ambiente squallido, quasi identico. E in seguito, come essi abbiano manifestato le medesime propensioni ad imporsi sugli altri sin da adolescenti e, crescendo, espresso un dispotismo sempre piú rigido, l’uno in Russia, l’altro in Germania, compiendo un percorso in qualche modo analogo, impetuoso e violento, sin da quando erano ambedue giovani facinorosi. Tutte circostanze e similarità che valgono qualche riflessione, sia pure in breve, sulla vita e la personalità di Stalin e di Hitler.

Iosif Vissarionovič Džugašvili, conosciuto poi come Stalin (dal russo staĺ, “acciaio”), un nome che si era dato da solo sin da giovane, era nato nel dicembre del 1878 in una famiglia poverissima, cresciuto in un tugurio, in uno sperduto paese, Gori, al centro della Georgia, tra l’Ossezia del sud e l’Armenia, lungo il fiume Mtkvari. Due fratelli maggiori erano morti da bambini. Il padre alcolizzato, privo di istruzione e analfabeta, picchiava spesso figlio e moglie nei momenti d’ira. Talvolta impediva al figlio di andare a scuola, per farlo lavorare con sé da ciabattino. Infine se ne era andato abbandonando madre e bambino. Era poi morto in un’osteria, accoltellato da un altro avventore, in una rissa fra ubriachi, lasciando il figlio orfano a 11 anni.

Secondo qualche studioso, tali eventi avrebbero contribuito a creare varie turbe psicologiche a Iosif. Intervistato dal suo biografo (Emil Ludvig), Stalin (come è ovvio) aveva dichiarato che i rapporti con i genitori erano sempre stati ottimi, nessuno lo maltrattava, e il padre era un piccolo-borghese. Era poi ritornato sullo stesso tema anche in un suo testo didattico sul marxismo, insistendo sulla figura del proprio padre come esempio di proletario dalla «coscienza piccolo-borghese».

Sua madre aveva lavorato duramente per fargli proseguire gli studi, in cui Stalin si era distinto fra gli altri ragazzi per la sua intelligenza, tanto da ricevere una borsa di studio con cui, a 15 anni, era stato accolto nel Seminario teologico ortodosso di Tbilisi (Tiflis, a oltre sessanta chilometri da Gori). Qui Iosif aveva però iniziato a partecipare anche alle riunioni clandestine dei ferrovieri di Tiflis, sino a diventarne un militante. Fatto per cui, nella primavera del 1899, era stato cacciato dal Seminario teologico, con grande dispiacere di sua madre che avrebbe desiderato che diventasse sacerdote (pope). Al contrario Iosif/Stalin si era subito trasformato in un “agitatore di professione”, acquisendo un nome di battaglia: il «Koba». Era poi entrato nel Partito socialdemocratico, ma in particolare si era dato all’attività politica di propaganda, e di istigazione allo sciopero nelle fabbriche georgiane. Il fervore giovanile di combattente lo aveva tuttavia messo in cattiva luce presso gli stessi capi del movimento nazionalista georgiano, da lui diffamati, che l’avevano espulso a loro volta.

Iosif aveva quindi lasciato Tiflis trasferendosi a Batum, ma la sua era diventata ormai una vita decisamente avventurosa e arrischiata tanto che, mentre partecipava a una dimostrazione di scioperanti, era stato accusato di essere il capo della sommossa, e arrestato dalla polizia segreta degli zar. Era stato deportato in Siberia dove era rimasto per tre anni, ma era riuscito a fuggire e partecipare ai movimenti insurrezionalisti di operai e contadini. Intanto aveva anche pubblicato un suo primo saggio intitolato A proposito dei dissensi nel partito (un titolo che sembrava quasi anticipare le future lotte intestine del partito bolscevico). Aveva poi incontrato Lenin per la prima volta in Finlandia, ad una conferenza bolscevica. In seguito aveva alternato le sue capacità organizzative non comuni con altri arresti, successive deportazioni in Siberia, e nuove fughe.

Tutti questi eventi gli avevano però consentito di conquistarsi a buon diritto il titolo di dirigente nazionale, riconosciuto da Lenin, che ben presto l’aveva chiamato a far parte del Comitato centrale del Partito operaio socialdemocratico russo, dove aveva dimostrato di essere un coordinatore di grande energia, aspro e rigoroso. Il nome che da tempo aveva scelto per sé, Stalin/Acciaio, confermava bene i suoi atteggiamenti duri e brutali, ma utili al Partito, tanto da diventare un inflessibile collaboratore di Lenin, e uno dei capi piú importanti della Rivoluzione d’ottobre e del nuovo Stato socialista, l’Unione Sovietica. Il suo potere politico e militare sarebbe aumentato durante la Guerra civile russa, tanto che, da membro del Comitato esecutivo centrale, nell’aprile del 1918 Stalin era stato nominato plenipotenziario per i negoziati con l’Ucraina.

Adolf Hitler era nato il 20 aprile del 1889 a Braunau, sul fiume Inn, in Austria. Era il quarto figlio del terzo matrimonio del padre, Alois Hitler (tre precedenti figli erano morti da bambini). La madre Klara faceva la domestica. Alois è stato descritto come un uomo tirannico e manesco che rientrava a casa ubriaco e picchiava moglie e figli, tanto che il primogenito Alois junior, fratellastro di Adolf, aveva abbandonato la famiglia a 14 anni3. Hitler padre era poi morto improvvisamente, per un attacco di cuore, anch’egli in un’osteria.

Nel suo Mein Kampf [«La mia battaglia»], anche Adolf Hitler aveva cercato di dare una immagine armoniosa della sua famiglia, «mio padre, un integerrimo impiegato dello Stato, mia madre casalinga e dedita a noi bambini in modo amoroso e equanime…» Aggiungeva poi che suo padre aveva lavorato tutta la vita e, per quanto in pensione, non aveva trascorso neppure un giorno di ozio. «Purtroppo a 13 anni io persi improvvisamente mio padre. Un colpo apoplettico abbatté quell’uomo ancora robusto […] piombandoci nel lutto piú profondo». In realtà quella morte aveva risolto tutti i problemi del giovane Adolf, poiché il padre intendeva farlo diventare un impiegato statale, mentre lui (all’epoca) ambiva dedicarsi alla pittura, convinto com’era che il suo «talento per il disegno fosse fuori discussione».

Sin da ragazzo Hitler era persuaso di possedere inoltre uno straordinario «talento oratorio», grazie al quale si imponeva ai compagni di classe: «ero diventato un piccolo capobanda…» Sempre nel primo volume del Mein Kampf, raccontava di essere anche stato tentato dalla professione ecclesiastica: «Nelle ore libere frequentavo le lezioni di canto dell’Abbazia di Lambach […] e mi esaltavo per la fastosità delle cerimonie ecclesiastiche […] mentre il signor abate mi appariva un simbolo ideale di vita». La «tentazione per la professione ecclesiastica si perse comunque assai presto, per fare posto a speranze piú corrispondenti al mio temperamento». Dopo essere stato bocciato piú volte nelle scuole normali, alla morte del padre e poi della madre, nel 1907, aveva ottenuto la «pensione di orfano», ed era quindi andato a vivere a Vienna, intenzionato a frequentare l’Accademia delle arti figurative, per via del suo «talento pittorico». Ma non superò l’esame di ammissione.

Tra 1909 e 1912 era vissuto a Vienna, conducendo una precaria esistenza bohémienne da artista mancato, arrangiandosi con i soldi che gli aveva lasciato la madre e sottraendosi agli obblighi militari, perché non voleva combattere per l’Austria. Si era poi trasferito a Monaco, in Baviera, dove, pur offrendosi spontaneamente, in un primo tempo era stato giudicato inidoneo e pertanto esentato dal servizio militare. Quando però era scoppiata la Prima guerra mondiale, era riuscito ad arruolarsi come volontario, e da ultimo era stato promosso caporale. Dopo la fine della guerra e in seguito all’accordo di Versailles, la Germania si era trovava impoverita e in uno stato di caos politico. A settembre Hitler si era iscritto al Partito tedesco dei lavoratori (Dap), e a ottobre aveva tenuto il suo primo discorso nella birreria Hofbräukeller, come dirigente del Dap.

Qui Hitler aveva annunciato la piattaforma politico-programmatica, che sarebbe poi diventata il Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (Nsdap), per il quale venne scelta la svastica come simbolo. Da quel momento si era dedicato con tutta la propria energia alla propaganda e all’attività organizzativa. Anche la sua era una vita da agitatore professionista. Nel corso dell’anno 1921 aveva preteso e ottenuto la carica di primo presidente del Partito e il titolo di Führer (“Duce”), e ai primi di agosto aveva iniziato a organizzare le Sturmabteilungen (“Squadre d’assalto”, in sigla SA), il corpo paramilitare del suo Partito. Nel 1923 la situazione tedesca era diventata sempre piú grave, a causa della crisi politica ed economica che affliggeva la Germania di Weimar e, come altri, anche Hitler progettò un suo Putsch nazionalsocialista, che venne però fermato. Il nuovo Führer fu infatti incarcerato nella fortezza di Landsberg (1924) dove compose, dettandola ad un altro carcerato, la prima parte, autobiografica, del suo famoso Mein Kampf 4.

Come si è accennato in precedenza – per quanto narrate in estrema sintesi, non me ne vorranno gli storici –, le biografie di Stalin e di Hitler mostrano certe somiglianze che si possono notare fra loro sin da bambini e adolescenti. Hitler era nato poco piú di una decina d’anni dopo Stalin, ma in un periodo sociopolitico all’incirca analogo. Entrambi erano cresciuti in famiglie economicamente e culturalmente molto povere, in un ambiente provinciale e stagnante che avrebbe dato loro poca o nessuna possibilità di emergere. I due padri erano tirannici e violenti, soprattutto quando erano ubriachi – come è probabile fosse ogni giorno e sera – e le madri ne erano le prime vittime. Certo non avrebbero potuto difendere i propri figli e insegnare loro qualcosa.

Fin dal principio, tutti e due i futuri leader avevano deciso di costruirsi una immagine pubblica migliore della propria famiglia e di se stessi, non certo per affetto verso padre e madre, ma piuttosto per nascondere di essere nati e cresciuti in un ambiente oltremodo squallido. Proprio questa scialba situazione primigenia – in totale contrasto con quella megalomania che sin da giovanissimi li aveva stimolati entrambi a sopravvalutare se stessi e predominare sui coetanei – aveva agito da sprone, come una sferzata.

Nelle loro menti era cresciuta la voglia di vendetta, di rivincita verso la vita, verso quell’ambiente in cui erano stati costretti a vivere sin da bambini, dove non avevano ricevuto incoraggiamenti adeguati al loro ingegno, e semmai erano stati intralciati e soffocati. Avevano dovuto fare tutto da soli, tanto da tramutarsi in caparbi ostinati. In loro era cresciuta, in modo convulso, incontrollabile, la smania, la bramosia di mostrarsi superiori a tutti, diventando capi indiscussi e prestigiosi, e manifestando un dispotismo illimitato, assieme a un sovrano disprezzo per le vite degli altri, che avrebbero poi mantenuto per tutta l’esistenza5. Per entrambi era stata quasi una fortuna la morte precoce del padre; entrambi avevano frequentato poco o niente le scuole normali. Per cui erano in pratica autodidatti. Sin dall’inizio si erano comportati come adolescenti inquieti e ribelli, per diventare poi agitatori di professione. E in quale luogo avevano potuto ricevere almeno un minimo di educazione e di cultura?

Ecco un altro fatto che li accomuna. L’insegnamento religioso acquisito da ambedue come seminaristi: da Stalin nel Seminario teologico ortodosso di Tbilisi, da Hitler nell’Abbazia di Lambach. Sappiamo qualcosa di piú preciso su Hitler, per via della sua autobiografia nel Mein Kampf, ma le informazioni da lui espresse valgono probabilmente anche per Stalin, poiché popi o preti erano le uniche persone di una certa cultura che – sia Adolf Hitler che Iosif Stalin – avevano potuto frequentare da adolescenti. Come già si è detto, Hitler dichiarava di essere stato addirittura tentato dalla professione ecclesiastica.

È ovvio che l’intenzione proclamata da Hitler di diventare seminarista non era certo dovuta alla vocazione religiosa, ma piuttosto al fatto che il signor abate lo esaltasse, tanto da sembrargli «un simbolo ideale di vita», un capo o duce (l’unico da lui conosciuto), che avrebbe voluto imitare per poter spadroneggiare sugli altri. Altrettanto potrebbe dirsi di Stalin: tanto l’abate quanto il pope erano stati gli unici rappresentanti dell’autorità e del potere, negli ambienti in cui erano vissuti da ragazzi. Come è stato notato da alcuni storici, l’aver studiato da prete in un seminario ortodosso aveva inciso sul comportamento, e «il suo modo di condurre il cerimoniale aveva un carattere ecclesiastico». Stalin si esibiva infatti con foga nei suoi discorsi e, dopo il consueto «fragoroso applauso», riusciva a provocare ancora un ulteriore «scroscio». (Ad «immagine e somiglianza dei rituali liturgici»)6.

Per parte sua Adolf Hitler, sin da quando era poco piú che bambino, già si vantava di essere il «capobanda tra i compagni di scuola»7. In entrambi i leader era ben evidente la pervicacia e la forte carica interiore che li animava, determinando una irrefrenabile volontà di potenza, puntata a raggiungere i medesimi scopi. Di certo l’uno e l’altro si sono dimostrati eccezionali maestri nell’incentivare il culto della personalità: la propria. Un ulteriore aspetto che li assimilava era quello dell’apparire (fisicamente), a cominciare dal proprio volto, ideando una immagine di se stessi che fosse unica, tale da distinguerli da chiunque altro, anche se in mezzo alla folla o se visti da lontano. Hitler aveva dunque adottato per sé non una sembianza qualunque, ma una effigie studiata ad arte nella sua qualità di pittore e artista, iniziando dalla parte alta del volto. Non aveva capelli particolarmente folti ma li divideva obliquamente in due sulla fronte, rendendola in parte chiara e in parte scura: una sorta di Gestalt o configurazione, a forma triangolare. Sulla parte piú bassa del volto si vedevano invece quei singolari e ispidi baffetti neri che, «nell’imitazione cinematografica di Charlie Chaplin [Il grande dittatore, 1940] diventano comici in modo irresistibile. Ma, portati da lui, Hitler, lasciavano quasi trasparire una certa rigidità prussiana»8.

Anche Stalin aveva studiato il proprio volto, facendo tesoro di una folta capigliatura, e di baffoni neri, folti e piuttosto vistosi, tipicamente georgiani. Era molto attento al modo di presentarsi in pubblico. Certo, nessun fotografo avrebbe mai osato fotografarlo senza i permessi autenticati o in atteggiamenti non autorizzati (da «piccolo padre»). In effetti tutte le fotografie, i filmati ed i manifesti di propaganda lo mostrano sempre con l’aspetto imponente che egli aveva scelto per se stesso. Stalin coglieva poi tutte le occasioni per prendere in braccio i bambini piccoli che lo circondavano, e ancora piú quelli già in braccio alle madri.

Hitler era invece ricorso ad un amico fotografo di professione, da cui si era fatto fotografare centinaia di volte. In realtà agiva come un attore, mettendosi davanti a uno specchio in ogni posizione possibile del corpo e delle braccia. Rivedeva poi tutte le foto e le studiava con molta attenzione, facendo duplicare le migliori. Altrettando faceva esplorando il proprio volto frontalmente, da sinistra e da destra, in fotografia, o al naturale, allo specchio, per analizzare le espressioni emotive che era capace di trasmettere: calma, freddezza, controllo, imperturbabilità, irritazione violenta, suscettibilità, risentimento, sdegno, collera, benevolenza verso i bambini. (Molte sue foto sono state conservate dall’amico fotografo, mentre veniva fotografato, e custodite in numerosi cataloghi, ritrovati poi in un classificatore).

È anche interessante dare un’occhiata alle età in cui Stalin e Hitler sono diventati dittatori, un ruolo che entrambi forse bramavano da sempre (per quanto la terminologia russa fosse diversa dalla tedesca). Quando, nel 1924, era deceduto Lenin, Stalin, a 46 anni, aveva assunto un potere diventato totalitario, e l’avrebbe mantenuto per 29 anni di seguito, sino alla propria morte (molto discussa e misteriosa), nel 1953.

Hitler era diventato cancelliere nel 1933, a 44 anni, e avrebbe anch’egli mantenuto la carica fino alla propria morte, nel 1945. Nel suo caso per soli 12 anni. Non si può tralasciare di ribadire come l’eccezionale potere sovrano conquistato dai due despoti sia stato un evento del tutto improvviso per entrambi, caduto dall’alto, quasi inimmaginabile, anche se profondamente voluto. Hitler era stato imputato di alto tradimento ed era finito in carcere nel 1924, soltanto 9 anni prima, a 35 anni. All’epoca Stalin aveva subito arresti e deportazioni in Siberia e, solo 7 anni prima, nel 1917, era entrato a far parte del governo provvisorio dei bolscevichi. Per diventare poi segretario generale del Partito comunista dell’Urss nel 1924, dopo la morte di Lenin.

Dittatori nello stesso periodo storico, Stalin e soprattutto Hitler hanno dominato le proprie nazioni, sconvolto tutta l’Europa, fatto uccidere milioni di persone, tra soldati e civili inermi, di tutte le età. A Hitler viene attribuita la perdita di oltre 4 milioni di uomini delle sue forze armate, già soltanto in Russia (piú dell’80 per cento di quelle perse su tutti gli altri fronti di guerra), di milioni di morti militari e civili in tutta Europa, e naturalmente l’Olocausto. Le disfatte maggiori per i tedeschi avvennero forse con la battaglia di Mosca (1941): la capitale era assediata ma le armate tedesche erano accerchiate a loro volta su tutti i fianchi.

A quella di Mosca sarebbe poi seguita la débâcle di Stalingrado (inverno 1942-43), e le sconfitte successive, sino alla conquista di Berlino da parte dell’Armata Rossa. Complessivamente, le vittime di Hitler durante la Seconda guerra mondiale sono state stimate in circa 30 milioni di morti, tra militari e civili, compresi quelli soppressi o trattati in modo disumano nella loro stessa patria, la Germania, e in vari Paesi che avevano subito l’occupazione nazista e lo sterminio antisemita: 6 milioni e oltre di vittime nei diversi Lager nazisti, perché colpevoli di appartenere ad una religione diversa. O perché omosessuali, o comunisti, zingari o affetti da disabilità mentali9.

È incredibile che Hitler abbia potuto compiere un tale scempio, un simile sterminio, in Europa, in soli dodici anni. Quanto a Stalin, si calcolava che durante la Grande guerra patriottica, l’Unione Sovietica avesse perso 9 milioni di militari e 12 milioni di civili. Tuttavia, dopo che gli archivi di Stato sono stati aperti agli studiosi e agli storici in particolare, si è parlato di cifre assai maggiori, a cominciare dal cosiddetto bagno di sangue di quasi 800 000 persone (ma forse molti di piú secondo vari storici). Si tratta delle cosiddette condanne a morte politiche, o «purghe» imposte da Stalin tra 1930 e 1953, per supposti reati di ordine politico, complotti immaginari, moti reazionari o opposizioni alla linea stalinista, che fra l’altro fecero perdere all’Armata Rossa una gran parte dei suoi migliori marescialli o generali. E, come si vedrà in un prossimo capitolo, anche i milioni di contadini (mugiki e kulaki) morti di fame, di carestie forse volute dal dittatore, o inviati nei GULag10.

Certo, date le loro capacità organizzative, i due despoti, Hitler e Stalin, si mostravano troppo lucidi perché li si possa definire pazzi, e anzi, manifestavano entrambi straordinarie abilità progettuali, che li rendevano ben superiori ad altri. Ma è indubbio che fossero svisceratamente megalomani, del tutto contrari ad un vaglio critico personale, convinti della loro eccezionale genialità e personalità, immersi in una sensazione di strapotere delle proprie risorse e facoltà. Prigionieri di un egocentrismo irrazionale che li costringeva a porsi sempre al centro del mondo, ai massimi livelli e oltre. Come l’essere egoista che nella definizione di Kant: «restringe tutti i fini a se stesso e non vede altro utile al di fuori di ciò che giova a lui»11. Vari storici hanno sostenuto che non vi fossero grandi differenze tra il dispotismo di Stalin e quello di Hitler12.

E la loro morte? La vita che hanno vissuto è stata esaltata e divinizzata. La loro fine è stata brutta, poco eroica e umiliante, lenta e in qualche modo laida. Il Führer aveva da poco compiuto 56 anni, il 30 aprile del 1945, quando Berlino era prossima ad arrendersi all’Armata Rossa, e lui si suicidò nel bunker posto sotto la Cancelleria. Almeno cosí si dice, forse per attribuirgli un minimo di eroismo. Ma mancano prove certe della sua morte, ed è difficile pensare che un personaggio celebrato come lui, avvezzo ad essere applaudito e magnificato, un nuovo Cristo (come si era autoproclamato piú volte), sarebbe stato capace di eliminarsi da solo. Discutibile immaginare Hitler che si punta un revolver alla fronte o se lo infila in bocca, fino alla gola e poi, dopo tale pantomima, fa fuoco davvero. Avrebbe avuto il coraggio di uccidersi, di distruggere se stesso e i propri eccezionali talenti, tutto da solo? Parrebbe piú probabile e comprensibile che, alla disperata, abbia dato quest’ultimo ordine a un attendente, ad un soldato, e magari abbia persino chiuso gli occhi per non vedere la propria fine. Subito dopo, tutto il bunker era stato volutamente distrutto e incendiato13.

In realtà, anche il decesso di Stalin presenta varie ombre. Il dittatore aveva 75 anni quando fu improvvisamente colpito da un ictus nella sua dacia di Kuncevo, non lontano da Mosca, una notte fra il 28 febbraio e il 1o marzo 1953. Per ironia della sorte, le guardie di sorveglianza davanti alla sua camera da letto non erano autorizzate a forzare la porta blindata. Avrebbero dato la vita per proteggere il «piccolo padre» dagli assalti esterni ma non potevano difenderlo dai pericoli interni: in pratica da se stesso. E lui non era in grado di gridare e invocare aiuto. Per motivi che paiono inspiegabili, soltanto la sera del 1o marzo furono avvertiti Malenkov e Berija, però i medici inviati dal ministero della Sanità arrivarono addirittura il mattino del 2 marzo. Stalin morí all’alba del 5 marzo, quando sembrava che stesse migliorando. La figlia Svetlana ha raccontato che suo padre, convinto di essere vittima di una congiura, aveva maledetto fino ai suoi ultimi istanti di vita i leader comunisti riuniti attorno al suo letto mentre moriva14.

Brutta, bruttissima morte. Forse la peggiore in cui il dittatore sarebbe potuto incappare. La notte del 1o marzo, quando erano infine riusciti ad entrare nella sua stanza, Stalin era ormai molto grave: disteso a terra, perché aveva tentato di scendere dal letto, ma almeno metà del suo corpo era paralizzato. E non poteva neppure urlare. Può darsi, però, che avesse mantenuto le funzioni cognitive, uno stato di vigilanza, o una certa consapevolezza, e quindi avrà sofferto per ore e ore in modo drammatico: certo non tanto quanto ognuna delle migliaia e migliaia di persone che egli aveva fatto torturare, seviziare, uccidere, mandare senza nessuna motivazione plausibile nei GULag siberiani.

Se poi era rimasto convinto, come ha sostenuto sua figlia, di essere stato vittima di un complotto, lui, il capo carismatico, colui che aveva sconfitto Hitler e i nazisti, vinto la Grande guerra patriottica, trasformato un Paese ancora povero e retrogrado come la Russia in una grande potenza industriale… ebbene i suoi ultimissimi giorni e ore devono essere davvero stati i piú disperati e furiosi di tutta la sua vita.

Dopo essere stato imbalsamato e rivestito con l’alta uniforme, il suo corpo venne esposto al pubblico nella sala delle Colonne del Cremlino (la stessa dove a suo tempo era stato collocato Lenin), e il funerale fu davvero maestoso. Si calcola che, nella Piazza Rossa, vi abbia partecipato un milione di persone, delle quali si dice che un numero incerto, tra cento e cinquecento, morirono schiacciate dalla calca, nel tentativo di essergli vicino e onorarlo un’ultima volta. D’altronde non si sarebbe potuto attendere nulla di meno come omaggio a Stalin (considerato «l’uomo piú amato e insieme piú odiato di tutta l’Unione Sovietica»). In seguito – ma solo fino al 1961 – fu posto nel mausoleo di Lenin, sulla Piazza Rossa.

Ancora a proposito delle vittime dei due autocrati, Hitler e Stalin, pur in ambiti differenti, è opportuno ricordare che, oltre alle cifre relative alle persone che hanno perso la vita a causa loro (soprattutto di Hitler), si devono considerare le sofferenze psicologiche dei familiari e dei civili – tedeschi oppure russi o di qualsiasi altra nazionalità e religione fossero – che sono stati privati dei loro affetti piú cari. Si tratta purtroppo di situazioni impossibili da analizzare e conteggiare, cosí come è irrealistico valutare il numero di vittime che, pur ritornate dalla guerra, dai lager o dai GULag, e da tutti i campi della guerra, ma feriti o resi invalidi, o afflitti da disturbi nervosi e psichici, da stress post-traumatici, ne hanno poi sofferto per tutto il resto della loro esistenza.

La maggior parte delle famiglie dei soldati tedeschi, come quelli morti a Stalingrado, non ha neppure ricevuto le lettere e l’estremo saluto dei figli dal fronte di guerra, essi stessi ben consapevoli che la morte fosse prossima, per fame, per il terribile gelo invernale, per mancanza di cura delle ferite. Esiste, anche se ritenuta apocrifa da taluni per l’eccessiva omogeneità della scrittura, una fonte che ci ricorda questo dolore. Le Ultime lettere da Stalingrado, censurate dall’Ufficio della Propaganda diretto da Joseph Goebbels, che le aveva giudicate «insopportabili per il popolo tedesco» sono un gruppo di 39 lettere di soldati tedeschi15.

1. JOHN LUKACS, Dossier Hitler, Tea, Milano 1998, p. 78. Pare che, a sua volta, un medico che aveva avanzato qualche dubbio sulle facoltà mentali di Hitler sia stato ritrovato suicida pochi giorni dopo, con in mano una rivoltella da lui mai posseduta.

2. Molti psicoanalisti e psichiatri hanno comunque analizzato a fondo, nella propria ottica, soprattutto Adolf Hitler: fra i piú noti studiosi sono da ricordare ERICH FROMM, Anatomia della distruttività umana (1973), Mondadori, Milano 1975; ALICE MILLER, La persecuzione del bambino. Le radici della violenza (1980), Boringhieri, Torino 1987.

3. I vari riferimenti a Hitler, introdotti in questo capitolo, sono ripresi dal seguente testo: GIORGIO GALLI (a cura di), Il “Mein Kampf” di Adolf Hitler. Le radici della barbarie nazista, Kaos, Milano 2006, pp. 77, 80, 81, 83 e 91.

4. Ibid., pp. 8 e 15-17.

5. WOLFGANG SOFSKY, L’ordine del terrore (1993), Laterza, Roma-Bari 1995.

6. C. BELLAMY, Guerra assoluta cit., pp. 38 e 55.

7. Ibid., p. 80.

8. Ibid.

9. G. GALLI (a cura di), Il “Mein Kampf” di Adolf Hitler cit., pp. 30-31.

10. Lo psichiatra Erich Fromm ha classificato Stalin, nel suo libro Anatomia della distruttività umana (1973), Arnoldo Mondadori, Milano 1975, come un «sadico non sessuale».

11. IMMANUEL KANT, Antropologia pragmatica (1798), trad. it. di Giovanni Vidari, revisione della traduzione e avvertenza di Augusto Guerra, Laterza, Bari 1969.

12. R. BRAITHWAITE, Mosca 1941 cit., pp. 334 e 339. E inoltre MICHAEL BURLEIGH, The Third Reich. A New History, Macmillan, London 2000.

13. Secondo alcune leggende, Hitler si era trasferito sin dal 16 gennaio nel Führerbunker. Ne racconto una: di qui sarebbe poi fuggito quando l’Armata Rossa stava invadendo Berlino, attraverso un corridoio sotterraneo lungo chilometri, scavato a partire dagli anni Quaranta, sotto il giardino (8,2 m di profondità) del Reichskanzlei (la Cancelleria del Reich), andando in direzione del quartiere del Tiergarten, e verso la Siegessaule (la colonna della Vittoria), fino a raggiungere un aereo che lo attendeva da tempo, e che l’avrebbe portato in Spagna, ospite di un altro dittatore, Francisco Franco. Con un sottomarino e grande dovizia di fondi (in lingotti d’oro) sarebbe poi partito verso l’Argentina, addirittura con il progetto di instaurare un nuovo Reich: «il Quarto». Molte persone sostengono di averlo visto in Argentina, negli anni Cinquanta. Sbarcato a San Antonio, a Bariloce, dove già avevano avuto l’opportunità di sistemarsi parecchi alti ufficiali e generali nazisti. A sua volta Hitler si sarebbe insediato nella residenza offertagli da un altro nazista, una “casa sicura”, in un’ottima posizione nei pressi dell’oceano, da cui sarebbe potuto fuggire con tutta facilità se fosse stato rintracciato…

14. Alcuni studiosi hanno accettato l’ipotesi dell’assassinio per avvelenamento, categoricamente smentita dallo storico Roj A. Medvedev, secondo il quale nessuna prova è emersa al riguardo dagli archivi sovietici.

15. Ultime lettere da Stalingrado (1950), trad. it. di M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1971.