Capitolo nono
“Monumentalismo dinamico”: una reazione al panico determinato dal vuoto degli infiniti spazi russi? I “viaggi alati” e la sfida della Grande Madre Russia alle piccole creature umane.
Dmitrij S. Lichačëv, già citato piú volte, afferma che: «L’arte, la letteratura, il pensiero politico, teologico e filosofico, lo stile di vita, in una parola tutta la cultura della Ruś tra i secoli XI-XIII» è stata dominata da un unico stile: il monumentalismo dinamico. Le radici di questa potente formazione stilistica
[…] erano situate a Bisanzio e in Bulgaria, due Paesi dai quali la Ruś di Kiev aveva ereditato la propria cultura spirituale, completandola ulteriormente con altri particolari caratteri. I tratti principali del monumentalismo dinamico consistevano nella tendenza al «pensiero su vasta scala»; nel tentativo di risolvere i problemi fondamentali dell’esistenza, nel desiderio di comprendere e interpretare la presenza storica dello Stato della Ruś.
E, aggiungeva ancora Lichačëv:
Nell’aspirazione a superare i grandi spazi, e a muovere grandi masse; nella sensazione di bellezza suscitata dalla pesantezza e dal superamento di questa pesantezza, nel valore attribuito alla maestosità e all’eternità delle immagini, che portava alla creazione di quel metodo che si può definire «visione paesaggistica» in letteratura, e «visione temporale» in pittura1.
A suo parere, tale gigantismo dinamico aveva anche influenzato due grandiose opere storiche a cavallo dei secoli XI-XII: La Cronaca dei tempi passati e, sempre nel XII secolo, il poema epico: Cantare della schiera di Igoŕ, dove l’azione si estendeva a tutto il territorio della Ruś, da Novgorod al mar Nero, e fino alla Volga (come già detto, in Russia la Volga viene chiamata anche «piccola madre»: matuška).
Da ultimo:
Nell’arte in particolare, il monumentalismo dinamico si è espresso sin dal principio con il massimo della maestosità, ovviamente nel centro ideale della Ruś – cioè nelle terre che appartenevano al principato di Kiev. Monumentale è l’architettura delle sue chiese e delle città, spesso collocate sulla riva scoscesa dei fiumi, sopra i prati inondati in primavera dalla piena della riva opposta, con una sfilata di cupole e campanili visibili da lontano a chiunque si avvicini al fiume. Il monumentalismo si impadroniva di tutto il paese, mentre le città venivano costruite come singolari quartieri di Kiev.
Il monumentalismo dinamico rispondeva dunque in modo perfetto al bisogno di mantenere l’unità di un popolo sparso su un territorio enorme, e contribuiva ai fini dell’unificazione. Queste città riproducevano Kiev nell’aspetto esteriore, nella consacrazione delle chiese della Dormizione, e gli abitanti della Ruś di Kiev si sentivano particelle dell’immenso universo, e perciò, ad esempio, orientavano le proprie chiese e le abitazioni secondo i quattro punti cardinali. Le persone si alzavano prima della luce del mattino, per non perdere il sorgere del sole, e riproducevano nelle chiese e nel loro allestimento interno tutto l’universo, e tutta la storia del mondo, secondo la concezione dell’epoca2.
Ancora secondo Dmitrij S. Lichačëv, nell’ideale elaborato da questo stile, gli uomini amavano le campagne militari, in difesa di un territorio comune, e avevano la capacità di portarsi con il pensiero da un punto all’altro della Ruś, coltivando persino la visione onirica dei viaggi alati, come accadeva infatti nei miti riportati nel Cantare della schiera di Igoŕ…3. Anche il «sogno dei viaggi alati» compare infatti abbastanza spesso nelle antiche leggende russe dove si trovano non solo racconti di persone che viaggiano nell’aria, ma persino cattedrali che volano. Viste addirittura mentre, per quanto enormi e maestose, si alzavano leggere verso il cielo e volavano via. Soprattutto quelle votate alla «Dormizione della Vergine».
Nel Paterikon4 del monastero delle Grotte di Kiev si narra ad esempio che, quando i briganti stavano per aggredire i fedeli di Teodosio e massacrarli nella cattedrale della Dormizione, il tempio salvò tutti coloro che vi si trovavano, sollevandosi in aria: «E vennero i briganti e d’un tratto si verificò uno spaventevole miracolo: dalla terra si sollevò la chiesa con coloro che vi stavano dentro e salí nell’aria, cosí che essi (i nemici) non poterono raggiungerla con le loro frecce»5. Lichačëv, sosteneva poi che anche «l’architettura aveva di per sé un profondo significato ideologico. Le grandiose cattedrali edificate ai confini della Ruś dovevano infatti simboleggiare la sicurezza e la destrezza del popolo russo a respingere ogni attacco. Grazie a simili costruzioni in pietra, la stessa Mosca era diventata inattaccabile dai nemici»6. Del resto, come già si è detto, le cattedrali di Mosca e le loro cupole d’oro sono rimaste assai diverse da quelle di Kiev e di San Pietroburgo. Ma tutte mantengono costantemente il titolo di Dormizione della Vergine.
Molti studiosi russi hanno comunque introdotto l’ipotesi che Mosca sia in realtà afflitta dal gigantismo, inteso come una vera e propria malattia che ha infettato e deturpato anche Pietroburgo e altre città russe, e continua tuttora a stordire gli abitanti e peggio i governanti, che sembrano fare confusione sul significato di certi termini. Come se grande, grandezza fossero uguali o addirittura superiori e piú convincenti di bello, bellezza, mentre anche la coppia maestosità-pesantezza diventava equivalente. Ma una cattedrale, un palazzo, persino una dimora o una statua, sono belli/e o artistici/che per la loro dimensione gigantesca, talvolta colossale, o piuttosto per l’eleganza della configurazione, la distinzione e la raffinatezza, “la classe” che li/le distingue da ogni altro/a? Pare di fatto indispensabile che tutti gli edifici, e magari anche i ponti siano monumentali, arricchiti con una quantità di addobbi. Come ad esempio le statue dei cavalli con i loro palafrenieri persino sopra il ponte Aničkov (anch’esso a Pietroburgo), e ancora, colonne e colonnati, torri e torrette, gli uni sugli altri. Tutti tesi a renderli eccezionali e unici7.
Gli esperti si domandano se non ci si accorge mai – o almeno in taluni, determinati casi – di averli semplicemente sfigurati e imbruttiti. Si intende che ciò che era colossale è sempre piaciuto e appartenuto agli zar, e ai boiardi (entrambi considerevolmente ricchi). Lo stesso era accaduto d’altronde piú tardi ai Soviet, e ai capi di Stato e di governo, che li avevano sostituiti via via. E continua cosí anche oggi negli edifici e palazzi, o forse in particolare nelle ville dei ricchi oligarchi, a Mosca come a Pietroburgo e in altre città: il gigantismo appare di fatto inteso come immagine indispensabile della bellezza, dell’estetica e dell’attrattiva, senza rendersi conto che l’ostentazione del fasto e dell’opulenza può dar luogo alla grossolanità, alla goffaggine, al gusto sbagliato e infausto.
Si potrebbe tuttavia supporre che in Russia proprio lo “spazio” abbia in sé qualcosa di seducente o quasi magnetico. E insieme terribile: una immagine panica ben comprensibile – data la grandezza smisurata del territorio e degli spazi vuoti – impressa nelle profondità della mente umana e tale da perdersi nella notte dei tempi, proprio a causa dell’immensità territoriale. Tanto per fare un esempio spaziale, si può rilevare che la Russia ha una superficie di 17 075 400 chilometri quadrati, che la rende il piú grande Stato del mondo, per dimensioni8. Oppure, se si parla di idrografia, viene in mente la Volga, il fiume piú lungo (oltre 3500 chilometri) della Russia ma anche di tutto il continente europeo, che sfocia nel mar Caspio, e ha un bacino di 1 400 000 chilometri quadrati9. Equivalente da solo a quasi cinque volte la superficie dell’Italia.
In pratica lo spazio, in particolare lo “spazio vuoto” – in tutte le sue dimensioni e particolarità, orizzontale, verticale, ampio, ristretto, terreno, sotterraneo, aereo e celeste, stellare, sconfinato, cosmico – poteva davvero incutere, da sempre e inconsciamente, un senso di spaesamento, o addirittura un profondo sgomento negli abitanti – assai pochi in rapporto alle dimensioni del territorio –, mentre al tempo stesso costituiva forse per loro una sorta di provocazione. Un invito a mettersi alla prova, quasi un modello da imitare, realizzando qualcosa di enorme a propria volta, che consentisse di dominare lo spazio, almeno mentalmente, nella interiorità individuale e collettiva. Per non sentirsi sempre impari in quella disfida imposta da Madre-natura, o dalla Grande Madre Russia, che talvolta poteva mostrarsi minacciosa assai piú di una pur terribile Baba Jaga.
La sfida maggiore, impressa dalla maestosità di quello spazio smisurato, poteva provenire in effetti dalla natura stessa e risalire ad epoche molto lontane, primigenie, tanto da essere stata trasmessa in modo inconsapevole di generazione in generazione, quasi come una sorta di imprinting, sin da quando tundra e taiga desertiche – per molti mesi terre di ghiaccio – si dovevano percorrere a piedi, senza incontrare mai altre persone, o al contrario con il terrore di incontrarle, e non potersi neppure nascondere. Di giorno l’orizzonte era piatto e infinito, di notte la volta celeste, quando il cielo era terso e stellato, ricopriva e avvolgeva tutta la terra attorno, come una immensa cupola. Ma quando nevicava e il gelo era piú intenso, non esisteva protezione alcuna. Davanti o dietro, o di fianco a se stessi, permaneva solo una landa pianeggiante, con laghi ghiacciati oppure immense paludi, dove si affondava in un fango diventato quasi liquido.
Dalla zona piú occidentale e pianeggiante della Russia, si potevano immaginare soltanto luoghi lontani, dove si estendono le catene montuose degli Urali che formano una barriera tra la Russia europea e quella asiatica, in particolare con la Siberia, che occupa piú del 70 per cento del territorio amministrativo russo e si estende a est sino all’oceano Pacifico. Verso il limite meridionale della tundra, iniziava invece la taiga, 755 milioni di ettari (il 46 per cento del territorio fisico) di terra produttiva solo in parte, esposta al vento e all’acqua, che nell’epoca del disgelo si trasformava in paludi inaccessibili10. Anche la steppa era immensa: 400 milioni di ettari di foreste (oggi in parte disboscate), ma anche di terre fertili e coltivabili: le “terre nere”. Che però durante l’inverno e la primavera erano bruciate da un vento violento, sferzante, mentre verso est diventavano steppe aride nella regione della Volga o dell’Asia centrale.
L’inverno glaciale iniziava presto e quasi non terminava mai, da novembre ad aprile: piú di 200 giorni, sempre grigi. D’inverno anche i fiumi, oltre ai laghi, diventavano di ghiaccio e il pack, per quanto composto di spessi lastroni, poteva rompersi all’improvviso e inghiottire chiunque. In certi casi, persino i fiumi parevano avere una sola sponda, poiché l’altra, se mai esisteva, era lontana chilometri e spesso non la si vedeva neppure nello sfondo. Il ghiaccio, la neve, la nebbia rendevano ugualmente biancastro, lattiginoso, tutto il mondo attorno a sé, tanto da non riuscire piú ad orientarsi. Era facile perdersi forse per sempre in quello spazio sterminato o – nelle regioni piú a nord – finire in mezzo ad un branco di lupi affamati.
Tutto poteva incutere paura, in quella distesa cosí smisurata, in quell’universo, in cui uomini e donne apparivano come piccole creature indifese. Ma forse è stata proprio questa situazione a far emergere in modo inconsapevole l’idea, l’interesse, la spinta a costruire città con cose e case gigantesche, associando via via tra loro la maestosità, la pesantezza, l’incolumità, il riparo, se non la bellezza. Ricorrendo ad una interpretazione psicologica, si può affermare che proprio tutto l’insieme contribuiva a eliminare le paure, a introdurre una sensazione di sicurezza che nessuno dei loro remoti antenati avrebbe mai potuto neppure immaginare. A misura che si costruivano i paesi e le città – e in primo luogo, al centro, un fortino di legno (il Kremĺ o Cremlino), e lí accanto almeno una chiesa, con campanile e cupole – quella immensa estensione del mondo intorno a sé non spaventava piú come prima, forse rendeva persino baldanzosi, confermando la capacità di uomini e donne russi nel saper creare cattedrali e palazzi che sembravano grandi come montagne e parevano proteggere dallo spazio vuoto.
Non si trattava dunque soltanto di pura megalomania architettonica, di voglia insulsa di costruire edifici dalle dimensioni smisurate. E il gigantismo non era una malattia ma piuttosto una risposta a quella natura senza limiti. Certo la popolazione cittadina, e peggio i nuovi proletari, non avrebbero mai potuto entrare e neppure avvicinarsi a quei palazzoni faraonici e imperiali, ma anche il solo vederli dal di fuori, da lontano, poteva rincuorare e acquietare l’ansia. Quelle opere maestose, qualunque cosa fossero – quell’architettura densa di cupole d’oro al femminile e campanili al maschile – che si mostravano visibili da qualsiasi parte si volgesse lo sguardo, costituivano una testimonianza inoppugnabile. Erano state costruite dal nulla – in mezzo, o ai confini dello spazio vuoto – grazie all’intelletto umano e alla forza delle braccia, e avevano cambiato il mondo di fuori. Cosí si era sfidata la sorte e si erano superate e vinte le paure ancestrali che altrimenti avrebbero forse portato alla paralisi.
E il trasferimento dei palazzi o l’allargamento delle strade che stupisce chi giunga da un altro Paese? Alla fin fine tutti quegli edifici grandiosi costruiti dall’uomo, dalla mano umana, potrebbero aver suggerito in effetti un tale senso di padronanza degli spazi, e dei palazzi stessi, da immaginare e decidere di trasferirli persino a proprio piacere, da un sito o da uno spazio all’altro, come nulla fosse, con interventi che in nazioni differenti non sarebbero stati neppure concepibili.
Al contrario, sembra che in Russia il dislocamento di edifici e cattedrali, per quanto grandi e maestose esse fossero e siano, non abbia mai preoccupato nessuno. E del resto, il trasloco dei palazzi, compiuto con mani e braccia, non era neppure equiparabile alle immagini leggendarie e suggestive delle cattedrali della Vergine che, per mito o tradizione, si alzavano da sole dal terreno e volavano lievi nel cielo: come si narrava nel Cantare della schiera di Igoŕ, o in altri antichi poemi.
D’altra parte nel nuovo secolo, a causa della propaganda e del “culto” di Stalin, il proletariato era stato molto stimolato a lavorare con una foga straordinaria. Un modello considerato eccezionale era stato Aleksej Grigoŕevič Stachanov, il minatore sovietico diventato celebre per la sua tecnica di estrazione del carbone. Nella notte del 31 agosto 1935, aveva infatti accumulato da solo «102 tonnellate di carbone in 5 ore e 45 minuti», dirigendo e migliorando anche altre attività e produttività della sua squadra. Il cosiddetto «movimento stachanovista» si era poi diffuso fra tutti i settori dell’economia, dell’industria e dell’agricoltura, creando nuovi, imprevisti record. Cosí, da semplice minatore, Stachanov era diventato un simbolo dei lavoratori che tutti volevano (o dovevano?) imitare11. La sua immagine era persino comparsa sulla copertina di «Time». Dato un simile clima socio-economico-politico, è comprensibile che venissero considerate operazioni ordinarie, quotidiane, persino i dislocamenti degli edifici e dei palazzi – si presume senza sventrarli e demolirli – e senza far sobbalzare all’improvviso i compagni cittadini che abitavano o erano in vicinanza di quella/e casa/e, anche quando si trattava di stabili molto grandi e a piú piani.
Palazzi e abitazioni sono dunque stati rimossi a piacere, e portati solo leggermente piú in là: perché davano fastidio dove stavano prima, o perché era opportuno allargare una strada cittadina. Una strada nel centro storico di Mosca risultava troppo costipata e non sopportava piú il traffico cittadino delle auto? Ma benedetti automobilisti! Bastava dirlo! Invece delle due solite corsie, si creavano otto corsie in su e in giú, da una parte e dall’altra, e la strada o il viale diventavano una sorta di doppia autostrada lunga anche sedici chilometri o piú, in pieno centro storico di Mosca. Dove le auto sfrecciano velocissime anche oggi, in maniera quasi impressionante.
Persino nella famosa prospettiva Nevskij di Pietroburgo – tanto citata dai grandi scrittori dell’Ottocento – era stato necessario spostare o far arretrare vari palazzi di stile nobiliare, per ampliare la “prospettiva” con nuove corsie automobilistiche.
Il caso piú conosciuto di Mosca è forse quello della via Tverskaja, dove c’erano molti palazzi storici e signorili, già abitati da importanti personaggi. La Tverskaja era sempre stata l’arteria piú importante della città, quella che collegava Mosca con l’Occidente e con il Baltico sin dal XIV secolo. Nel XVIII secolo era poi diventata la prima strada moscovita ad essere lastricata in pietra, poiché lo zar Pietro il Grande la percorreva in carrozza, quando da San Pietroburgo tornava nella sua città natale, Mosca. Nel XIX secolo la Tverskaja era già larga venti metri e uno dei palazzi piú importanti, costruito nel 1782 in stile “neoclassico moscovita”, era diventato la sede del Comitato militare rivoluzionario, durante la Rivoluzione dell’Ottobre rosso. Da qui venivano inviati i comandi agli insorti. Ma con l’aumentare del traffico e in seguito su ordine di Stalin, tra il 1935 e il 1937 la strada fu fatta allargare fino a 42 metri, cioè piú del doppio. Lo stesso edificio che in precedenza era stato abitato da Lenin venne poi leggermente spostato all’indietro di 13 o piú metri12.
Un’opera colossale deve essere stata quella compiuta nell’antico quartiere Novyj Arbat, dove non solo la strada era stata ampliata fino a 70 metri, ma, al posto degli angoli pittoreschi di un tempo, erano sorti nuovi palazzi e, nelle vicinanze, tre edifici di un celebre gruppo di sette grattacieli, di un gradevole colore grigio, alti piú di venti piani. Anch’essi fanno parte del monumentalismo dinamico. Sono chiamati «alti edifici di Stalin», o anche le «Sette sorelle».
Hanno una configurazione interessante – si mischiano barocco, gotico e neoclassico – e restano originali pur con qualche influenza dai grattacieli statunitensi degli anni Trenta. Quelli voluti da Stalin e edificati tra 1947 e 1957 appartengono invece allo stile detto «classicismo socialista», designato anche come «barocco elisabettiano e gotico», e rientrano in un grandioso programma urbanistico.
In effetti sono stati tutti studiati per essere edificati in luoghi strategici, alti e ben visibili da ogni parte della città. Con le loro torrette appuntite i grattacieli spiccano nella notte contro il cielo di Mosca, in particolare quando appaiono attorniati, nella parte bassa, dalle tante piccole cupole dorate delle chiese. La loro altezza varia da 130 a 240 metri. Il primo a essere terminato, nel 1953, e, a detta degli esperti, il meglio riuscito, il piú alto in assoluto e in effetti assai piacevole nell’ottica architettonica, è stato quello adibito a sede dell’Università dello Stato di Mosca, di 36 piani. Grazie all’antenna svetta sino a 240 metri. Cosí anche Stalin avrebbe potuto essere individuato come despota edificatore.
Molti notevoli cambiamenti sono poi avvenuti anche in occasione delle nuove forme espressive artistiche, fra cui lo stile modernista ( Jugendstil o Art nouveau o Liberty o stile floreale) spesso adottato nei primi decenni del XX secolo per la costruzione di abitazioni a piú piani, ma anche ville o palazzi unifamiliari quasi altrettanto imponenti. Quando poi non si allargavano le strade cittadine, sino a farle diventare autostrade con piú corsie, e non si spostavano gli edifici, e neppure si costruivano grattacieli, a Mosca si interravano, come nulla fosse, anche i fiumi che attraversavano la città. Un esempio è il fiume Neglinka, colmato di terra sin dal 1818 e piú tardi diventato un viale commerciale in cui si alternano epoche e stili architettonici di rilievo, dal neoclassico al modernista sino al costruttivismo.
La passione dei russi, e soprattutto dei loro zar o governanti odierni, per il monumentalismo o gigantismo, inteso come immagine e caratteristica indispensabile della “bellezza”, è riemerso abbastanza di recente. Sin dal 2015, Putin ha infatti inaugurato a Mosca la moschea piú grande di tutta l’Europa, e del Medio Oriente, alla presenza di alcuni “Grandi” del mondo islamico, come il presidente iraniano Hassan Rohani, o il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Per la precisione, la moschea scelta da Putin ha una superficie di 18 000 metri quadrati, è alta come un palazzo di sei piani, ha una cupola dorata con un diametro di 46 metri, e due minareti alti 80 metri. È costruita con granito bianco e verde proveniente dal Canada, e marmo turco. Può accogliere comodamente fino a 10 000 fedeli.
Ma non era trascorso neppure un anno da allora e la bramosia per il gigantismo architettonico aveva nuovamente folgorato Vladimir Putin. Che decise di far costruire una grande statua di Vladimir il principe, detto «il Bello»: alta oltre 18 metri (all’inizio avrebbero dovuto essere 26), appoggiata su un piedistallo di 6 metri, per un totale di circa 300 tonnellate, dotata di una gigantesca croce di bronzo che avrebbe dovuto sporgersi dalla «Collina dei Passeri» sulle teste dei passanti e delle auto in corsa giorno e notte.
Il regalo della statua non è però piaciuto a tutti i cittadini moscoviti, molti dei quali hanno raccolto migliaia di firme per convincere il loro ultimo zar (Putin), a non collocare, come già aveva stabilito, «un simile monumento di bronzo su uno dei luoghi naturali e piú simbolici di Mosca, la Collina dei Passeri». Un belvedere da cui si guarda tutta la città, ma che poteva diventare pericoloso, come hanno segnalato alcuni geologi. Trattandosi di una roccia friabile, una simile statua avrebbe infatti rischiato di far smottare e crollare l’intera collina. Anche l’Unesco è intervenuto paventando una invadenza di tal genere nel centro storico di Mosca13. Alla fine la statua è stata posizionata in un luogo ancora piú centrale, in prossimità della torre Borovickaja lungo le mura del Cremlino.
Quanto a Vladimir il Santo, dimenticato da millenni (se mai sia esistito), ma oggi tornato alla ribalta, pare che sia considerato il padre della cristianità russa. Si tratterebbe di un principe risalente ai tempi della Ruś, che nel 988 avrebbe ripudiato la religione precedente (ancora basata sul paganesimo) e costretto tutto il popolo alla conversione: alla Chiesa di Bisanzio e poi al battesimo di massa nelle acque del Dnepr14. A ben vedere, sembrerebbe che sia stata per prima l’Ucraina a riesumare spiritualmente Vladimir il Santo. Difatti il governo di Kiev aveva festeggiato nell’anno precedente, con grande solennità, i mille anni dalla morte di questo santo ritenuto «solo e unicamente ucraino». Ma Vladimir Putin aveva deciso da tempo di collegare lo Stato russo e la Chiesa ortodossa, condiscendendo alle richieste del Patriarca di Mosca di basare sulla religione i nuovi valori della Russia: «Patria e Fede» (su cui Putin conta profondamente). L’inaugurazione della statua è quindi avvenuta il 4 novembre del 201615. La prima pietra del monumento del santo, scelta a Korsun (Sebastopoli) in Crimea, era già stata deposta dal patriarca Kirill, alla presenza del confessore personale di Putin, l’archimandrita Tychon, promotore di altri colossali progetti religiosi. Come la costruzione di una cattedrale vicino alla Lubjanka16 – piú imponente e piú alta ancora della cattedrale della Dormizione –, situata sulla grande piazza del Cremlino. (Permane tuttavia la legge attuale, che proibisce di costruire chiese piú alte di quelle precedenti).
I moscoviti oppositori della nuova statua, pur mostrandosi cauti, hanno insistito però sugli aspetti di ordine tecnico o estetico, anche in considerazione del fatto che in anni precedenti erano già stati giustamente turbati nel vedere la loro bella capitale, Mosca, popolata da numerose statue e monumenti di uno scultore straniero. L’“artista” (Zurab Cereteli) ha goduto invece per anni della piena ammirazione del precedente sindaco di Mosca, di cui i moscoviti sono riusciti a sbarazzarsi parecchio tempo dopo e solo a malapena. Il medesimo artista e scultore ha anche creato, fra gli altri, un monumento monstre dedicato a Pietro il Grande: un veliero grottesco posto oggi a fianco della riva sud della Moscova. Poiché la cittadinanza protestava per quel disgustoso colosso, lo si è offerto in dono a vari Stati sudamericani ma, nonostante fosse stato trasformato lí per lí in monumento a Cristoforo Colombo, tutti hanno risposto con un netto rifiuto. A Mosca, oggi, è ritenuta la «decima statua piú brutta del Pianeta»17. In sostanza, le statue come quella di Vladimir, che richiamano il passato, hanno, per alcuni critici come quelli del «New York Times», sostituito le discussioni sulla politica. Sarebbero una testimonianza del ritorno al nazionalismo18. Chissà se il governo dell’Ucraina e la Russia di Putin arriveranno davvero a contenderselo, in nome della religione ortodossa.
1. D. S. LICHAČËV, Le radici dell’arte russa cit., pp. 89-90.
2. Ibid.
3. Ibid., p. 93.
4. Il Paterikon del monastero delle Grotte di Kiev è uno straordinario testo letterario del XII secolo, nato dalla corrispondenza fra due monaci, uno vissuto a Kiev nel monastero delle Grotte, l’altro a Vladimir sul Kljaźma, nel Nord-Est. Ibid., pp. 80, 87, 88, 165, 167, 221, 222 e 225.
5. Ibid., p. 225.
6. Ibid., pp. 186-87.
7. Possono esserci tuttavia costruzioni gigantesche ma al tempo stesso straordinarie, come ad esempio il ponte levatoio di Pietroburgo.
8. Superfici di Paesi a confronto: Italia, 301 277 km²; Germania, 356 733 km²; Stati Uniti, 9 529 063 km² (escluse le acque interne); Cina, 9 572 900 km². Enciclopedia geografica, Garzanti, Milano 2004, p. 893.
9. Ibid., p. 922.
10. Ibid., p. 896.
11. In realtà piú tardi si è saputo che, come la gente già riteneva, l’“evento” delle tonnellate di carbone estratte dalle miniere in modo fulmineo era stato accuratamente organizzato da Stalin o dai suoi collaboratori. Stachanov aveva dovuto accettare questa messa in scena. Ma in seguito, privato del suo lavoro e costretto a fare mostra di sé in pubblico, a Mosca, non aveva fatto altro che ubriacarsi con la vodka, sino a deteriorare gravemente il suo fisico e morire. La morte era avvenuta in silenzio, come il funerale, nel paese natale e lontano da tutti.
12. Nel caso della Tverskaja, e per fare largo alla metropolitana, parecchie case furono trasferite con spese molto ingenti.
13. NICOLA LOMBARDOZZI, Il ritorno di Vladimir il Bello, in «Il Venerdí di Repubblica», n. 1472, 3 giugno 2016, pp. 34-37.
14. Il ministro degli Esteri russo, Sergej V. Lavrov ha scritto un articolo, poi pubblicato anche in Italia, in cui considera come il battesimo della Ruś, nel 988, abbia favorito un notevole avanzamento nello sviluppo delle istituzioni statali, delle relazioni sociali e della cultura, portando la Ruś kieviana a diventare un membro di diritto dell’allora comunità europea (https://www.mid.ru/en/web/guest/foreign_policy/news/-/asset_publisher/cKNonkJE02Bw/content/id/2124391?p_p_id=101_INSTANCE_cKNonkJE02Bw&_101_INSTANCE_cKNonkJE02Bw_languageId=ru_RU; tradotto in «La Stampa», 6 dicembre 2016, p. 36).
15. È risaputo che Putin è credente. Da bambino era stato fatto battezzare in segreto dalla madre, molto devota alla Chiesa ortodossa, e all’insaputa del padre, a sua volta comunista militante. GENNARO SANGIULIANO, Putin. Vita di uno zar, Mondadori, Milano 2015, p. 16.
16. Lubjanka: come si vedrà oltre, la piú terribile prigione di Mosca, ricostruita e ingrandita a causa dei tanti, troppi prigionieri.
17. N. LOMBARDOZZI, Il ritorno di Vladimir il Bello cit., pp. 34, 36 e 37.
18. A New Vladimir Overlooking Moscow, in «The New York Times», 5 novembre 2016.