Capitolo secondo

Quando la Russia non era ancora la Russia e si chiamava Ruś. Mai attaccare la Russia, se non si è Gengis Khan.

La Russia o Ruś è una terra gigantesca. Ed è appunto una terra, un suolo, poi è anche un paese, uno stato, un popolo. E non a caso, quando gli antichi russi andavano in pellegrinaggio ai loro santuari per lavar via il peccato o ringraziare Dio, vi andavano a piedi, o scalzi, per sentire il terreno o lo spazio, la polvere delle strade e l’erba dei sentieri, per vedere o sentire tutto ciò che incontravano per via. Non c’è felicità senza difficoltà per raggiungerla. Coprire migliaia di verste fino a Kiev, alle isole Solovki, navigare fino al monte Athos… perché anche questa è una piccola parte della grande Russia.

Certo non si potrebbe iniziare meglio di cosí una narrazione, una presentazione della Russia, a partire dalla sua antichità, dalla sua storia. Le frasi poco sopra sono infatti dovute a Dmitrij S. Lichačëv, le cui opere sulla letteratura e sull’arte russa sono considerate un classico dagli esperti slavisti. Aggiunge inoltre Lichačëv:

Alcuni scorgono nella Russia l’ipertrofia del principio statale, e vedono il popolo come sottomesso. Oppure notano nel popolo russo un principio anarchico e un costante ribellismo, o il rifiuto del potere. Certuni rilevano nella nostra storia passata l’assenza di forte determinazione. Altri ancora vedono nella storia russa “l’idea russa”, o la coscienza ipertrofica di una missione propria. Ma non è possibile muoversi verso il futuro senza una chiara visione del passato e delle caratteristiche proprie o altrui […] La Russia non si può abbracciare nella sua interezza1.

La terra russa, o meglio, l’antica Ruś, che comprendeva le future Ucraina, Bielorussia e Grande Russia, era relativamente poco popolata. La popolazione soffriva di questa forzata separazione, e si insediava in prevalenza lungo le vie di comunicazione commerciali (i fiumi), nei paesi, che non erano poi cosí grandi. Molti temevano l’ignoto che li circondava.

Nell’affrontare il tema dell’antica Ruś, si potrebbe premettere che colpisce comunque molto il fatto che – dopo aver compiuto nel primo ventennio del Novecento (nell’ottobre del 1917) una insurrezione cosí straordinaria come quella contro la tirannide degli zar – la popolazione russa si sia nuovamente ritrovata, all’incirca in due decenni, sotto il giogo di una ulteriore dittatura: non meno dispotica e per certi versi peggiore della precedente, come era diventata quella staliniana. Sopportandola poi a lungo. E addirittura magnificandola, come molti facevano. Se risaliamo però al piú lontano passato della storia russa vediamo che questa caratteristica pare essersi ripetuta altre volte, anche se è opportuno precisare che le informazioni sono poche e incerte, nonostante i molti tentativi compiuti dagli storici, talvolta anche stimolati dall’appartenenza a ideologie differenti. D’altra parte sono ben comprensibili le difficoltà incontrate nel corso di determinati tentativi di rivolta, se si considera la diversità dei popoli o delle tribú, stabili e non, che l’abitavano – oltre a indoeuropei, e slavi dell’alto Medioevo – e delle tante genti provenienti sia dal nord che dal sud, e dei popoli nomadi che provenivano da altre terre a est. La vastità del territorio dell’antica Ruś e di quella che oggi chiamiamo genericamente Russia (in modo piú specifico «Russia europea o centro-occidentale») – che comprendeva grandi circoscrizioni a sud – si estendeva alla Siberia a nord; e arrivava all’Estremo Oriente. Mentre la maggior parte delle sue coste a nord erano bagnate dal mar Glaciale Artico.

Complessivamente, un territorio che si estende su due continenti, per piú di 17 milioni di chilometri quadrati, scarsamente abitati, e una longitudine che, a partire dal mar Baltico, si prolunga per circa 10 000 chilometri, con, addirittura, 11 differenti fusi orari. Per quanto gli studi storici e archeologici abbiano dimostrato che pur in un cosí vasto territorio, erano già stati avviati da tempo vari commerci, con attività artigianali e scambi diversificati, si presume che nuovi e importanti stimoli si siano verificati quando, nel secolo IX, i primi mercanti vichinghi arrivarono dal mar Baltico, grazie alle loro imbarcazioni e alle differenti vie fluviali del territorio. Molti avvenimenti erano stati persino raccolti in un manoscritto intitolato Cronaca dei tempi passati, un’opera collegata alla storia del piú antico Stato della Ruś, e all’intervento dei principi che lo dominavano, in specie nel periodo dall’850 al 1110 circa, e in primis alla sua capitale, Kiev: «la Madre di tutte le città della Russia».

La Cronaca dei tempi passati, scritta intorno al 1116, era nota come «Manoscritto nestoriano», ma purtroppo l’originale è andato perduto, e le varie aggiunte introdotte in una sua copia non consentono di stabilire date ed eventi precisi e attendibili. Appare infatti difficile distinguere gli avvenimenti e le storie reali da quelle che paiono leggende, come ad esempio una fra le piú note, in cui si narra che alcune tribú slave, divise fra loro da continue lotte di potere, avevano chiesto ai varjaghi (vichinghi), scandinavi, di venire essi stessi a governarli. L’invito era stato accettato da tre fratelli, Sineus, Truvor e Rjuri, disposti a insediare il proprio principato in tre diverse regioni distanti fra loro. A parere di Dmitrij Lichačëv, quella dei principi-fratelli sarebbe una narrazione piú fantastica che reale, utile però per introdurre il concetto di fratellanza fra le tribú e i popoli dell’antica Ruś, che con il tempo avrebbe poi compreso Ucraina, Bielorussia e Grande Russia2. Quanto ai termini «Ruś», o «Terra di Ruś», se ne parla nelle fonti medioevali senza approfondirne l’origine. Secondo alcuni storici il termine potrebbe avere radice normanna, e significare «uomo al timone», secondo altri indicherebbe invece una matrice slava. Altri ancora sostengono che proprio i Ruś fossero appunto una popolazione di origine vichinga3.

Anche per quanto concerne il diffondersi della lingua russa e del suo alfabeto, le notizie appaiono piuttosto sporadiche e confuse, probabilmente a causa delle lotte intestine fra Bisanzio e Roma, gli interventi dei papi e, pare, persino del re di Baviera (la cui reggia si trovava nella parte orientale dell’ex impero carolingio). L’obiettivo piú importante per le autorità di governo era quello di convertire le popolazioni slave alla nuova religione, il cristianesimo ortodosso, e insieme introdurre un linguaggio comune e comprensibile da tutti, utile anche per i rapporti commerciali piú innovativi.

Sul finire del secolo IX furono dunque incaricati due monaci bizantini di origine greca, Cirillo e il fratello Metodio – piú tardi dichiarati santi –, che, con studenti e missionari, e partendo dall’alfabeto glagolitico (il verbo glagolati significa “parlare”), composero il primo alfabeto slavo, piú conosciuto come cirillico, formato di ben 38 lettere, molte delle quali – a parte forse quelle greche – presentano qualche difficoltà per la lettura, la comprensione e persino la tonalità o la melodia, per le popolazioni occidentali. Di sicuro la cristianizzazione del popolo russo – prima considerato pagano – non è stata priva di difficoltà, come sembra si raccontasse anche nella perduta Cronaca dei tempi passati. Si intende che, alla pari di altri popoli europei, i russi avevano una loro antica tradizione e una religione politeista – assai diversa dal monoteismo cristiano – alla quale sono stati obbligati a rinunciare, assoggettandosi poi ad essere battezzati.

Pare inoltre che in Russia, o Ruś, ma anche in altre nazioni e Paesi, le relative fedi religiose, dovute talvolta a culture slave, venissero trasmesse o imposte anche prima di diventare dottrine consolidate, ricorrendo spesso all’offerta di piccole icone in legno. L’avversione al culto delle immagini sacre è diventata poi nota con il nome di «iconoclastia», a cominciare dal sec. VIII d. C., e anche sotto il dominio della Chiesa ortodossa orientale. Tale prassi, probabilmente ispirata dalla cultura islamica che proibiva la raffigurazione di immagini di esseri viventi, serví nell’Impero bizantino anche a combattere le eresie e l’idolatria.

Nei primi decenni del secondo millennio sono poi continuate le lotte intestine, anche attraverso lunghe storie fratricide tra i principi che assumevano via via il potere di territori conquistati o perduti, e campagne contro i nomadi stanziati lungo le coste del mar Nero, in particolare i peceneghi, che rappresentavano il pericolo peggiore per Kiev, ma anche i cumani o polovcy. Il regno di piú lunga durata, 35 anni, è stato probabilmente quello di Jaroslav che dopo vari conflitti familiari, nel 1015, aveva assunto il titolo di Gran Principe di Kiev e fu poi chiamato «il Saggio». In questo periodo la stessa Ruś raggiunse forse il suo maggior fulgore. Oltre alla conquista di altre terre e ai successi in politica estera, Jaroslav aveva infatti curato anche la politica interna e prestato attenzione alla legislazione, all’architettura, all’arte, alla cultura, nonché alla religione cristiana, facendo costruire molte chiese in pietra, anziché in legno, come tutte quelle precedenti.

Dopo la conversione all’ortodossia imposta da Kiev e dai suoi principi, attorno al XIII secolo, nonostante la resistenza degli abitanti, i territori russi furono conquistati dai mongoli che in precedenza avevano già invaso la Cina e l’Asia centrale, guidati da Gengis Khan4. I principi russi si erano riuniti e avevano consolidato l’esercito, ma ciò non bastò a fermare gli assalti e le scorrerie dei mongoli che arrivavano a migliaia e seminavano il terrore, incendiavano le città e le radevano al suolo, uccidendone gli abitanti.

Il famoso condottiero Gengis Khan era morto nel 1227, ma suo nipote Batu aveva fondato il Khanato (o Canato) dell’Orda d’oro, nella Russia meridionale, e occupato la Crimea, ed era deciso a invadere le terre bagnate dalla Volga (in vari luoghi della Russia chiamata «matuška», che significa “piccola Madre”: diminutivo di mat́) per espugnare poi l’Occidente ed espandersi in Europa. Una volta impadronitisi del territorio, i mongoli non si occupavano piú degli affari interni e dei commerci delle città, e non miravano a convertire la popolazione alla loro religione. Esigevano tuttavia pesanti tributi, che venivano riscossi da un “gran Principe”, loro emissario.

Batu, a sua volta capace condottiero, poteva contare sul Gran Khan Ögödei (1176-1248), straordinario generale e stratega, membro fidato della famiglia, che aveva vinto almeno venti campagne militari e – si diceva – conquistato piú territori di qualsiasi supremo comandante vissuto prima o dopo di lui. Il suo nome tartaro veniva pronunciato e scritto in modi diversi, da Ögödei a Subotai, e Subedei o Sübötei, «il valoroso». Si deve certo allo stratega Sübötei e a Djebe, altro generale, la vittoria dei mongoli sui russi, tanto famosa da diventare uno stereotipo: «Mai attaccare la Russia se non si è Gengis Khan».

In effetti, e contrariamente a quanto ci si poteva attendere, entrambi i capi avevano scelto la strategia di aggredire la Russia d’inverno, sapendo in anticipo che fiumi e paludi sarebbero stati ghiacciati, e quindi piú facili da attraversare. I due generali mongoli sono stati infatti gli unici, nei millenni, a portare a termine la loro impresa. Se, secoli piú tardi, Napoleone e poi Hitler fossero stati piú attenti alle strategie russe e al clima (si vedrà in un prossimo capitolo come il popolo russo abbia saputo avvantaggiarsi durante la guerra nel gelo invernale – contro la Wehrmacht di Hitler – costruendo addirittura strade di ghiaccio in mezzo ai laghi) non avrebbero perso le proprie guerre, con milioni di vittime.

Nel XIV secolo, Dmitri principe di Mosca aveva finalmente sconfitto i Tartari nella battaglia di Kulikovo (1380). Mosca stessa, fino ad allora dipendente dal Principato di Vladimir-Suzdal, era diventata uno Stato sovrano, denominato Moscovia che, disperso il Khanato dell’Orda d’oro, si sarebbe poi consolidato sino a diventare il cuore della futura Russia. L’espansione territoriale è dovuta infatti a Ivan III il Grande, già citato, che ha ricevuto tale soprannome proprio per aver quadruplicato il territorio ricevuto in eredità da suo padre, e per secoli è stato considerato l’unificatore delle terre russe. Ha regnato per 43 anni, dal 1462 al 1505, e il suo regno è stato il piú lungo in assoluto. Assoluto era stato però anche il suo potere, che aveva rifiutato di dividere con chiunque: non solo ministri o consiglieri ma anche, e forse soprattutto, i propri fratelli e familiari vari.

Qualunque tentativo o accenno di rivolta veniva infatti subito stroncato da Ivan III con l’esilio o lo sterminio di intere e antiche famiglie boiarde di Mosca e di altre città. A posteriori, si potrebbe anzi ipotizzare che sia stato lui il primo ad introdurre in Russia il sistema della deportazione dei dissidenti (veri o supposti) applicata poi metodicamente nell’Ottocento dagli zar suoi successori, e ancor piú nel XX secolo, dopo la Rivoluzione dei Soviet, durante il governo di Stalin. Evidentemente i Grandi Principi di Mosca non avevano ancora neppure conquistato i territori della gelida Siberia (detta anche Sibir), da sola piú grande di tutta l’Europa moderna, in cui confinare a piacere coloro che non condividevano appieno.

Ivan III, detto il Grande, aveva intanto acquisito il titolo di gosudaŕ: “signore”. In lingua russa “signore” può anche essere detto gospodin. Quanto allo Stato, in russo si dice gosudarstvo, e si può tradurre in “signoria”. Nel frattempo aveva vinto ogni guerra intrapresa contro le maggiori città e gli Stati piú vicini, fino ad allora ricchi e indipendenti, ma costretti ora ad implorare la pace, a cedere i propri territori e pagare ingenti indennità di guerra. Ivan III visitava egli stesso le città conquistate, e ne approfittava per arrestare i boiardi del luogo (per ucciderli o almeno espatriarli, specie quelli che ostacolavano il suo disegno di unificare i principati sotto quello di Mosca) e confiscarne le terre.

Al contempo la corte di Mosca aveva adottato la lingua, le cerimonie, i titoli e lo stile bizantino, compresa l’aquila bicefala dello stemma di Bisanzio, diventata simbolo russo, dopo essere stata importata a Mosca dalla moglie di Ivan III, Sofia Paleologo, nipote di Costantino IX, l’ultimo imperatore bizantino. È in quest’ambito che è nato il mito di Mosca come “Terza Roma”. Roma città eterna era considerata infatti la capitale del mondo e, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, il titolo sarebbe passato a Mosca e ai russi, nuovi difensori della fede ortodossa e della cristianità. Cosí almeno riteneva Ivan III che, grazie al proprio matrimonio con Sofia, si considerava ora l’unico e legittimo erede dell’impero. Quanto al mito della Terza Roma, era stato perentoriamente avallato dal fatto che la stessa Mosca, come Roma, sorgeva su sette colli. L’espansione territoriale russa sarebbe poi stata proseguita dal già citato Ivan IV il Terribile, ricorrendo, purtroppo, ai massacri di migliaia di persone.

1. DMITRIJ S. LICHAČËV, Le radici dell’arte russa. Dal Medioevo alle Avanguardie, Bompiani, Milano 1955, pp. 14-15.

2. Ibid., p. 16.

3. A parere di alcuni autori sarebbe stato lo storico russo Nikolaj M. Karamsin (1766-1826) a suggerire il nome di Ruś di Kiev.

4. Si rimanda, fra altri esperti autori, a VITO BIANCHI, Gengis Khan, Laterza, Roma-Bari 2007; JOHN MAN, Gengis Khan, Mondadori, Milano 2006; FRANCO CARDINI e MARINA MONTESANO, Storia medievale, Le Monnier, Firenze 2006.