Capitolo dodicesimo

Hitler voleva conquistare Mosca e Stalingrado. Ma fu qui che lui perse la guerra e il suo carisma: vero o presunto. L’arma segreta del Reich nella Germania nazista era ormai il Pervitin: droghe e anfetamine! Stalin fu nominato «Uomo dell’anno» su «Time»: 1942.

L’Operazione Barbarossa, lanciata nel giugno 1941, non era stata concepita da Hitler solo per conquistare Leningrado, anche se si trattava di una importante città sul Baltico, e dotata di armamenti di particolare importanza. In effetti l’assedio della città rappresentava soltanto una parte dello svolgersi della guerra sull’intero fronte orientale1. Il Führer voleva che, grazie al proprio eccezionale talento, la Germania si espandesse sul territorio russo, e diventasse una grande potenza. Voleva le risorse naturali e lo spazio vitale (Lebensraum) dell’Unione Sovietica, voleva impadronirsi delle ricchezze industriali e agricole dell’Ucraina, e, come è scontato, in primo luogo voleva conquistare Mosca. Non solo perché era la capitale degli zar ma – forse sin dall’inizio – proprio per dimostrare di essere riuscito, lui, a compiere ciò che non era riuscito neppure a Napoleone.

Da Ratzenburg (oggi Kętrzyn), ovvero la «tana del lupo» (un’espressione coniata dal Führer per se stesso), Hitler aveva scelto la tattica della “guerra lampo” (Blitzkrieg), con una “marcia di avvicinamento” al Cremlino, che prevedeva di conquistare Mosca prima del sopraggiungere dell’inverno. Per la precisione, nel 1941 Hitler aveva anzi fissato il 7 novembre come termine massimo per l’attacco a Mosca, e il 15 novembre per accerchiare completamente la capitale.

A posteriori, e per il modo in cui la Wehrmacht aveva invaso parte della Russia e posto l’assedio a Leningrado, si potrebbe dire che Stalin si era mostrato ingenuo, all’inizio, ma che Hitler aveva sottovalutato di molto il nemico: l’Armata Rossa e i suoi armamenti, la tenacia e il coraggio dei soldati e del popolo russo, e le capacità dei loro marescialli e generali. Purtroppo, già ad agosto il numero delle vittime era impressionante. L’Armata Rossa aveva perso piú di due milioni di combattenti, comprese molte donne-soldato. Ma anche la morte in pochi mesi di 400 000 soldati tedeschi – saranno poi oltre 700 000 nella sola Operazione Barbarossa – aveva superato ogni previsione di Hitler2. Sembrava evidente che la Germania, contrariamente alla sua reputazione (o per la presunzione del suo Führer), aveva avviato la guerra in modo superficiale. Secondo vari studiosi Hitler si era dimostrato inesperto: quasi un dilettante (lo pensavano anche i suoi generali). Ad esempio, sin dall’inizio, le armate tedesche erano meglio equipaggiate e addestrate, ma sulle malridotte strade russe i veicoli si erano subito deteriorati, mentre le scorte, di cibo, di armamenti e munizioni, e gli equipaggiamenti dell’esercito tedesco si consumavano in proporzione al pur rapido allungamento delle linee di penetrazione.

Inoltre in Russia si usavano treni e binari con scartamenti diversi da quelli tedeschi: piú larghi quelli sovietici (la cui estensione aumentò ancora nel 1942, dell’8,7 per cento). Piú ristretti quelli costruiti in Germania. In pratica, difficilmente utilizzabili dalle locomotive e dai vagoni tedeschi. Ben presto ci si era accorti di quanto già fosse catastrofico per loro “l’autunno”, a causa della rasputiza: le grandi piogge quotidiane che trasformavano le strade in pantani e acquitrini, bloccando tutti i carri armati e ogni altro veicolo.

Infine, secondo alcuni storici, pare che i tedeschi non fossero neppure al corrente delle particolari caratteristiche dei nuovi carri armati T-34 sovietici, capaci, con i loro larghi cingolati, di viaggiare velocemente su qualsiasi terreno, di essere ben riparati all’interno, e di sparare con cannoni di portata eccezionale (anche se allora la produzione era appena agli inizi). D’altra parte i tedeschi contavano molto sui propri Tiger I, che Hitler voleva sempre piú enormi, ma che proprio per questo si muovevano con maggiori difficoltà sul territorio russo.

Il supporto della Luftwaffe, essenziale per guadagnare terreno nella prima parte dell’Operazione Barbarossa, si era affievolito tra perdite e maltempo, e l’assedio della città di Leningrado. La fatale decisione di Hitler di rinunciare a puntare verso Mosca prima dell’inverno, preferendo l’Ucraina e le sue risorse naturali, consentí all’Armata Rossa di riorganizzarsi. Il freddo poi aiutò i difensori. I motori dei mezzi non si accendevano, i soldati dovevano riscaldarli attizzando il fuoco, ma il grasso e l’olio ricominciavano a gelare subito dopo il tentativo di farli partire. Sembrava quasi che Hitler avesse mandato la sua Wehrmacht alla campagna di Russia (cioè quella di un secolo e mezzo prima, terminata comunque a suo tempo con la disastrosa sconfitta napoleonica), avendo in mente soltanto gli splendidi quadri dei pittori dell’epoca del Bonaparte, con i fasti e le uniformi della guardia imperiale, le armate a cavallo e la cavalleria di riserva.

Anche per riuscire a scavare dei ripari per se stessi, i fanti erano costretti a scaldare il terreno per tentare di scongelarlo. Il 6 dicembre 1941, a nord-ovest di Klin, 88 chilometri a nord-ovest di Mosca, i tedeschi avevano registrato una temperatura di -35 gradi, e verso l’alba avevano già dovuto abbandonare 15 carri armati, 3 obici pesanti, 6 cannoni antiaerei e una moltitudine di camion e automobili dello stato maggiore. Piú di quanto si sarebbe perso di norma in una settimana di combattimenti pesanti. Forse fu quello, il 7 dicembre 1941, «il punto di svolta della guerra», con la controffensiva partita da Mosca3.

In quei primi giorni di dicembre inoltre il feldmaresciallo Fedor von Bock, che il Führer avrebbe poi sollevato dall’incarico, annotava nel proprio diario di aver trovato, nella notte tra il 4 e il 5 dicembre, 318 soldati morti per congelamento, in un reggimento della Seconda armata. In effetti, in tale situazione nessuna droga, neppure il Pervitin, avrebbe salvato i soldati tedeschi. Potevano marciare per quattro giorni senza dormire, ma non potevano resistere al gelo.

Nel frattempo, dal proprio bunker in Germania, Hitler continuava a ragguagliare quasi quotidianamente la popolazione tedesca con le sue affermazioni riguardo alla «grande offensiva sul fronte orientale». E piú volte aveva ordinato ai suoi generali: «Non un passo indietro». La stessa frase che pare ripetesse anche Stalin. Ancora a Capodanno del 1942 il Führer aveva confermato la proibizione di qualunque ritirata delle truppe, senza badare al fatto che, a misura che i soldati penetravano all’interno, diminuivano tutti i loro rifornimenti. Mancava il carburante e i fanti marciavano a piedi per 30 o 60 chilometri al giorno, portando con sé piú di venti chilogrammi di equipaggiamento. Molti di loro erano talmente stanchi da addormentarsi mentre camminavano. La maggioranza delle formazioni tedesche aveva continuato la battaglia sino all’esaurimento (di se stessi, e delle pillole da ingoiare), ma alla fine si erano fermati a meno di 20 chilometri dal Cremlino. Sono state ritrovate anche numerose lettere di soldati che richiedevano con insistenza ai propri familiari di inviare loro dell’altro Pervitin, perché non bastava piú quello fornito dagli ufficiali.

Alcune truppe di ricognizione si erano spinte addirittura a 8 o 9 chilometri dal Cremlino, ben visibile nei cannocchiali, ma avevano ricevuto l’ordine di ritirarsi: era stata quella la massima vicinanza a Mosca, mentre i generali e i marescialli russi disponevano il contrattacco agli invasori da tutti i punti cardinali4. Alla fine, si può affermare che la guerra è stata vinta dai russi soprattutto a causa della sovrumana capacità di accettare perdite e dalla tenacia che li aveva sempre distinti. Quando si era saputo delle gravi perdite subite dai civili e dall’Armata Rossa, sin dal 1941, ben quattro milioni di cittadini russi, uomini e donne, giovani e anziani, si erano presentati volontari per venir arruolati nella milizia. Per la maggior parte non erano addestrati, erano senza armi e in abiti civili quando vennero mandati contro le truppe corazzate tedesche. Le famiglie poi, non sapevano nulla del caos del fronte, e piangevano i loro morti senza dare colpe al governo. La collera si esprimeva solo sui nemici.

Intanto, nel nuovo anno 1942 Hitler si era convinto della necessità di impadronirsi dei bacini petroliferi del Caucaso per riuscire a continuare la guerra, con nuove armate e nuovi alleati (una armata italiana, una ungherese, una romena, oltre ad una, ulteriore, tedesca). Riteneva infatti che i bacini petroliferi non solo avrebbero arrecato vantaggi alla guerra, e alla Germania in genere, ma che la loro conquista sarebbe anche stata un duro colpo per i russi. A luglio aveva dunque puntato improvvisamente sull’obiettivo che gli sembrava piú facile, quello di conquistare Stalingrado, mentre, al contrario, i suoi ufficiali di stato maggiore si stavano ormai convincendo di una sua assoluta perdita di lucidità, e della sottovalutazione di quanto erano in grado di fare i russi. In sostanza, «nel 1942 Hitler si era dimostrato altrettanto inadeguato: come nell’anno precedente»5. Ma nessuno avrebbe potuto permettersi di fargli presente la vera situazione.

La battaglia di Stalingrado, l’antica Caricyn, sulla Volga, sarebbe durata dal 23 agosto 1942 sino al 2 febbraio 1943. Si può supporre che, nel suo inconscio (o anche a livello razionale, se ci riusciva), Hitler fosse rimasto angustiato dal fatto che nell’Urss era stata conferita a una città il nome di «Stalingrado», evidentemente in onore di Stalin. Mentre nessuno, in Germania, sembrava aver mai pensato di intitolare una città a suo nome, come poteva essere ad esempio Hitlerburg. O meglio ancora, scegliere una città famosa come Norimberga (Nürnberg), e farla diventare Hitler/nürnberg. Cioè proprio quella città in cui venivano pianificati, sotto il diretto controllo del Führer, i Congressi, i raduni del Partito nazionalsocialista, le musiche di Wagner, le marce e le parate militari, diurne e notturne, e soprattutto i suoi discorsi e il «proprio talento oratorio» (di cui Hitler andava tanto fiero)6.

Forse, nel suo intimo, il Führer si sarebbe accontentato anche soltanto di Hitlerköln (Köln, Colonia). O di Dresdenhitler. Una città d’arte come Dresden (Dresda) sarebbe anzi stata davvero adatta al grande artista che lui era sempre stato convinto di essere. O magari sarebbe bastata una «porta» (Tor), come quella di Berlino per dare anche a lui un nominativo adatto, come ad esempio: HitlerbrandenburgerTor7. Strano che nessuno dei suoi generali, delle sue SS (Schutz-Staffeln, le squadre di protezione), o dei suoi fanatici ammiratori non l’avesse mai suggerito o imposto, come forse pensava lo stesso Hitler.

La battaglia di Stalingrado continuava comunque ad essere giudicata e presentata in modo mistificatorio, dal ministero tedesco della Propaganda come: «la piú grande battaglia di logoramento, del nemico mai vista al mondo», aggiungendo che la guerra era nella sua fase finale. Il 23 luglio 1942 Hitler aveva anzi dato al tenente generale Friedrich Paulus l’ordine di prendere Stalingrado con un attacco di sorpresa, rivelatosi però impossibile perché le armate russe controllavano tutti i ponti.

Solo il 23 agosto i tedeschi erano riusciti a conquistare uno dei ponti, causando purtroppo una carneficina di civili e soldati russi: 40 000 morti e 150 000 feriti in un unico giorno e un unico bombardamento aereo, di 2000 incursioni. I tedeschi avevano inoltre colpito i serbatoi di combustibile che si era riversato nella Volga, con fiamme che si erano alzate fino a 200 metri8. I civili russi, che in questa o in precedenti occasioni avevano tentato di salvarsi attraversando il fiume a nuoto, erano anzi divenuti carne da macello per l’aviazione tedesca, tanto che il terreno lungo la costa rimase impregnato e viscido di sangue. Oltre a continue battaglie e ad altri bombardamenti, un massiccio attacco aereo, con gli Stuka in picchiata, aveva colpito Stalingrado il 13 settembre, mentre per parte sua l’artiglieria russa si difendeva dalla riva orientale con 300 bocche di fuoco e 50 cannoni di calibro pesante, ai quali se ne aggiunsero altri da metà ottobre in poi.

Nel corso della battaglia di Stalingrado divenne però di colpo leggendaria la potenza di fuoco dei nuovi lanciarazzi Katjuša che, sebbene a corto raggio, erano perfetti nel riversare sui nemici enormi concentrazioni di fuoco. Artiglieri e “cecchini” non erano però soltanto gli uomini. Durante la guerra e in particolare a Stalingrado le donne russe, ben addestrate, si erano rivelate altrettanto capaci dei colleghi maschi, anche come aviatori e negli attacchi dagli aerei.

I combattimenti sarebbero tuttavia durati ancora a lungo con gravi perdite da ambe le parti. Fra i tanti, un tenente tedesco aveva lasciato scritto: «immaginate Stalingrado: ottanta giorni e ottanta notti di lotte corpo a corpo. Le strade non si misurano piú a metri, ma a cadaveri». Il 2 dicembre i russi lanciarono infine il primo grande attacco contro la Sesta armata tedesca e il 4 dicembre Stalin assegnò forze supplementari al fronte del Don.

Qualche giorno dopo, la Sesta armata tedesca, intrappolata, ricevette un nome in codice: koĺco (“anello”) e il 10 dicembre l’“anello” russo cominciò a chiudersi su Stalingrado9. Il 12 dicembre i tedeschi tentarono l’Operazione Wintergewitte (“Tempesta d’inverno”). Verso Natale i soldati del Führer incominciavano quasi a morire di fame, ma dal suo bunker Hitler opponeva comunque il proprio rifiuto a qualsiasi ritirata. Il 2 febbraio un aereo ricognitore tedesco sorvolò Stalingrado e il suo messaggio fu analogo a quello trasmesso da Sebastopoli quasi sette mesi prima: «Non ci sono piú segni di combattimento a Stalingrado»10. Era finita. La battaglia aveva infuriato per piú di sei mesi. In Germania e nell’Europa occupata, la notizia aveva provocato forti emozioni. La catastrofe tedesca di Stalingrado «turbò l’intera nazione tedesca», come si legge in un rapporto delle SS – non facili ad impressionarsi – secondo cui Stalingrado rappresentava davvero un punto di svolta nella guerra.

Negli ultimi tempi i marescialli russi avevano consegnato diversi ultimatum al comando tedesco (arrendetevi, «dovete scegliere tra la vita e la morte sicura»), sottolineando che se il tenente generale Paulus non avesse acconsentito alla resa, la responsabilità del destino delle truppe sarebbe stata solo sua. Il comandante Paulus era però incline a obbedire all’ordine di Hitler di resistere. Il 19 dicembre, il suo superiore diretto, Erich von Manstein, gli aveva ordinato di rompere l’accerchiamento a sud-ovest, ma Paulus declinò la richiesta, in una lettera che iniziava cosí: «Caro feldmaresciallo, devo innanzi tutto scusarmi per la qualità della carta e per la scrittura a mano di questa lettera…» Il 31 gennaio Hitler promosse Paulus, al grado di feldmaresciallo. In realtà si trattava di un invito a suicidarsi rivolto a Paulus, che lo rifiutò, cosí come rifiutò ancora di firmare un ordine di resa per i suoi uomini, nonostante i tentativi di persuaderlo da parte dei russi, al fine di evitare un inutile, ulteriore spargimento di sangue dei soldati tedeschi.

In contrasto con la sua determinazione di resistere sul campo, e forse proprio per le conseguenze che aveva prodotto, il 6 febbraio, 3 giorni dopo la fine di Stalingrado, Hitler accettò la ritirata di parte delle sue armate. Stalingrado (che oggi ha assunto il nome di Volgograd) ero stato l’ultimo di una serie di insuccessi di Hitler che progressivamente restrinsero le opzioni tedesche. Il primo era stato Smolensk, nel luglio 1941, che aveva fermato l’avanzata tedesca, cui seguí quello di Mosca a dicembre. Dopo la disastrosa sconfitta di Stalingrado (tra il 1942 e il febbraio del 1943), e la fine precedente dell’assedio di Leningrado, non c’erano piú speranze di vittoria per la Wehrmacht.

La guerra sarebbe però continuata ancora, durante la ritirata dall’Urss e sul fronte orientale tedesco, con gravi perdite per entrambi i contendenti. E i soldati russi avrebbero dovuto combattere a lungo prima di conquistare Berlino e il Reichstag, sul quale far sventolare la Bandiera rossa, con stella, falce e martello. Hitler aveva continuato intanto con i propri progetti di conduzione della guerra, rifiutando qualsiasi proposta dei suoi generali, e proibendo loro persino di parlarne. Lo stesso, anzi peggio, faceva Stalin, ripudiando i consigli dei suoi marescialli e rimpiazzandoli a seconda dei suoi umori: non pochi di loro, fra i migliori, furono torturati e fucilati, o mandati nei GULag. All’insaputa – si immagina – di tutto ciò, nel 1942, Stalin era stato designato «uomo dell’anno» e messo in copertina dalla rivista «Time»11.

1. C. BELLAMY, Guerra assoluta cit., pp. 439, 454 e 468.

2. Di recente un giornalista tedesco, Norman Ohler, con il suo libro Tossici. L’arma segreta del Reich. La droga nella Germania nazista (Rizzoli, Milano 2016) ha demitizzato in modo definitivo l’immagine della superiorità dell’esercito tedesco, che da tempo era stata affermata e diffusa. Gli stessi soldati francesi erano stati i primi a rimanere sconvolti, nel 1940, per la supremazia e l’eccezionale vigore mostrato dai tedeschi che combattevano contro di loro nelle Ardenne. Ma allora nessuno poteva sapere che i generali tedeschi somministravano a tutti i soldati il Pervitin, usato personalmente anche da Rommel, la «volpe del deserto». In realtà il Pervitin era una droga venduta come farmaco. Ben presto la metanfetamina aveva invaso lo stesso esercito tedesco. Ma orma si era diffusa anche tra i civili e in quasi tutta la popolazione tedesca: quella considerata e persino ammirata come «pura» razza ariana. Soprattutto se con i capelli biondi e gli occhi azzurri. Sin dal 1941 però, anche Hitler, convinto di vincere una guerra lampo, aveva incominciato ad assumere vari stupefacenti preparati da Theodor Morell, suo medico di fiducia, che gli iniettava oppiacei, metanfetamine, steroidi e varie altre sostanze. I risultati, impressionanti, sono raccolti oggi nei diari del dottor Morell, e nei documenti trovati negli archivi tedeschi e americani. I fedelissimi del Führer non apprezzavano il suo medico: a maggior ragione quando gli iniettava un potentissimo oppioide, l’Eukoda. Morell è una figura enigmatica, ma per il Führer, diventato tossicodipendente, era insostituibile. Secondo alcuni studiosi, nel 1945 Hitler era ormai un rottame. Nelle foto di alcune sue rarissime apparizioni in pubblico si nota anche il tremore della mano sinistra, tenuta nascosta dietro la schiena, dovuto al morbo di Parkinson.

3. C. BELLAMY, Guerra assoluta cit., pp. 385, 638 e 685.

4. Ibid., pp. 399 e 599-601; C. MERRIDALE, I soldati di Stalin cit.

5. C. BELLAMY, Guerra assoluta cit., pp. 576-83 e 638.

6. TILDE GIANI GALLINO, Viaggio nell’altra Germania, Einaudi, Torino 2013, pp. 34-35.

7. Un parere in parte simile è stato espresso anche da Bellamy, che ribadisce come «Stalingrado, pur essendo una capitale regionale abbastanza importante e un centro industriale, non costituiva una carta vincente per la guerra. L’unica ragione per farne un bersaglio era la determinazione di Hitler di distruggere la città che prendeva il nome di Stalin, il suo nemico piú acerrimo». C. BELLAMY, Guerra assoluta cit., p. 597.

8. Durante i combattimenti fu distrutto il 91 per cento della città. Oggi lo ricorda un monumento con una fiamma perenne e, in cima, l’imponente statua della Madre Russia, che chiama i suoi milioni di figli, uomini, donne e bambini a difenderla. La statua, con una potente spada levata in alto si innalza per 102 metri sulla sommità di una collina. C. BELLAMY, Guerra assoluta cit., p. 593. Le battaglie e l’assedio di Stalingrado sono citati in particolare alle pp. 587, 590, 598 e 599. Altre indicazioni si riscontrano sulle donne soldato, «piú implacabili dei maschi», alle pp. 563-68 e 604-7.

9. ANTONY BEEVOR, Stalingrado. La battaglia che segnò la svolta della Seconda guerra mondiale, Rizzoli, Milano 2000; JOHN ERICKSON, The Road to Stalingrad, Cassel, London 2003.

10. C. BELLAMY, Guerra assoluta cit., pp. 621, 625, 632 e 636.

11. Ibid., pp. 608, 632, 638-48, 683 e 8, tav. 5.