La femminista
«Ieri una giovine – non ne dirò il nome – ha avuto davanti a me e a suo marito una crisi di disperata ira perché è incinta: non vuole, non vuole un’altra gravidanza, un altro parto, un altro “mostriciattolo” da allattare e da lavare… Era di un’eloquenza impressionante nella sua furia. Sta cercando chi possa farla abortire, a qualunque prezzo, con qualunque rischio, sebbene gli amici, io compresa, la dissuadano. Ha soltanto avuto sinora una bambina, sei anni fa. Forse un fratellino gioverebbe a quest’ultima, che cresce viziatissima.
Ma la madre non si rassegna all’idea di andare incontro a un aggravio di preoccupazioni in questo tempo terribile (sebbene economicamente stia abbastanza bene). Il marito non interviene, sorride tra imbarazzato e indulgente, perché conosce la moglie e il suo carattere irruente e alquanto squilibrato. Entrambi non volevano credere che io non avessi mai, in tutta la mia vita, messo in pratica il malthusianesimo, e tanto meno attentato a un embrione vitale nel mio grembo».
Dopo avere scritto queste parole nel suo diario, Sibilla Aleramo tornò a rileggerle, sostando a lungo con la penna sulla parola “malthusianesimo”, che era stata in voga all’inizio del secolo per indicare le pratiche anticoncezionali, e che ormai quasi non si usava più. Doveva sostituirla con un termine di uso comune o doveva lasciarla? Alla fine si decise a lasciarla. Si alzò in piedi, e si passò una mano sopra la fronte. L’episodio di cui era riuscita a parlare in tono distaccato si era verificato il giorno precedente, lì in casa sua, e non era stato piacevole. Al contrario. Le aveva mostrato la distanza tra l’immagine che lei aveva di se stessa, e quella che gli altri avevano di lei. Gli altri in generale: non soltanto gli ipocriti e i bigotti che la conoscevano attraverso le cronache dei giornali ed erano sempre pronti a scandalizzarsi, qualunque cosa facesse o dicesse. Anche i conoscenti di vecchia data e anche gli amici, come quelli a cui si riferiva nel diario. Costanza e suo marito Giuseppe, i suoi vicini di casa, erano due persone gentili e simpatiche, che in passato non le avevano mai mancato di rispetto, e che probabilmente non si erano nemmeno resi conto di quanto il loro comportamento fosse stato offensivo. Del resto, erano molto giovani: due ragazzi, in confronto a una donna come Sibilla, che aveva già oltrepassato i sessant’anni (e anzi, a voler proprio essere precisi, era più vicina ai settanta che ai sessanta).
Giuseppe era un pittore conosciuto e stimato, a Roma e non solo a Roma; Costanza era una giovane signora che di tanto in tanto suonava alla porta di Sibilla per parlarle delle sue letture o per chiederle qualche consiglio, sul modo di vestirsi o di comportarsi. Nessuno dei due, prima d’allora, si era mai permesso di alludere alle esperienze di vita della vicina di casa, e alla fama non proprio positiva che quelle esperienze le avevano procurato presso i benpensanti… La nostra protagonista era consapevole dello scandalo suscitato dai suoi comportamenti e dai suoi libri, in un ambiente chiuso e provinciale com’era stata l’Italia dell’inizio del secolo; ma credeva, anzi ne era sicura, che lo scandalo riguardasse soltanto una parte del pubblico, e che le persone intelligenti e civili la giudicassero in un altro modo. L’episodio raccontato nel diario aveva messo in crisi proprio quella certezza, rivelandole che anche le persone colte e anche gli amici, dietro un velo ipocrita di cortesia e di buone maniere, conservavano un’immagine di lei in cui lei, assolutamente, non poteva riconoscersi. Un’immagine che la offendeva e la mortificava. Tutto era incominciato all’improvviso, con una scampanellata alla porta. I vicini le erano piombati in casa e Costanza, in lacrime, le aveva rivelato di essere incinta. Voleva sapere come si fa a liberarsi di un figlio, se non si vuole metterlo al mondo; e come aveva fatto lei, Sibilla, nel corso della sua vita piena di avventure e di uomini. Chissà quante volte, da giovane, si era trovata nella necessità di dover abortire! Aveva provveduto da sola, o si era fatta aiutare da persone esperte? Lei che conosceva tanti dottori e tanta gente, a Roma e in ogni parte d’Italia, avrebbe potuto risolvere anche il problema di Costanza, scrivendole un biglietto di raccomandazione o facendo una telefonata alla persona giusta, nella clinica giusta… In fondo, cosa le sarebbe costato?
La ragazza teneva in mano un fazzolettino di tela azzurra, e mentre parlava continuava a tormentarlo con le dita, e ad asciugarsi le lacrime. Guardava Sibilla, come se si aspettasse da lei chissà quali suggerimenti e chissà quali favori. La implorava: «Aiutami!»
«Non me la sento di dover accudire a un altro figlio! Non voglio farlo nascere in questo mondo di merda! Non lo voglio!»
«Ci sono conto modi per interrompere una gravidanza. Lo so anch’io, ma non ne conosco nemmeno uno! Non conosco nessuno che possa aiutarmi! Tu sei l’unica!»
Anche il marito pittore faceva segno di sì con la testa. Sì, sì, sì…
Sibilla era esterrefatta. Aveva tentato, un paio di volte, di interrompere il monologo (o, forse, bisognerebbe dire la scenata…) della vicina di casa; quando finalmente era riuscita a parlare, le aveva risposto che lei non sapeva niente di aborti, e che in tutta la sua vita non si era mai posta quel genere di problemi. Aveva avuto un solo figlio, a diciannove anni, da un uomo che non la amava e che lei non amava; e dopo d’allora non era successo più niente. Non le era capitato di rimanere incinta, mai più… Aveva visto un lampo di incredulità e forse anche di ironia negli occhi del pittore; e un’espressione risentita, di odio, in quelli di sia moglie. Aveva allargato le braccia:
«Lo so che quanto vi sto dicendo può sembrare impossibile, ma è la verità. Ci sono stati tanti uomini nella mia vita e, ci crediate o no, con nessuno di loro ho mai preso delle precauzioni per evitare di avere un figlio. Forse sono stata fortunata, dal vostro punto di vista… O, forse, non potevo avere dei figli, per qualche ragione che non ho mai voluto indagare».
«Costanza, cosa ti avevo detto? Lascia perdere».
Il pittore, adesso, scuoteva la testa. «Sono cose, queste, che ognuno preferisce tenerle per sé…»
Poi, però, si era accorto che Sibilla avrebbe potuto offendersi e aveva cambiato discorso. «Lo so che l’idea di avere un altro figlio ti spaventa, - aveva detto alla moglie, - e ti capisco, perché anch’io sono spaventato… Ma il destino ha voluto che le cose andassero in questo modo e tutto ciò che possiamo fare, ormai, è prepararci ad accogliere un nuovo compagno di vita, maschio o femmina che sia…»
Sibilla Aleramo si aggiustò una ciocca di capelli che le scendeva sulla fronte. I capelli di quella ciocca erano tutti bianchi e lei non aveva voluto tingerli: li aveva tenuti così, perché le sembrava che aggiungessero una nota di luce al suo viso. Si guardò nello specchio sopra il cassettone; poi si avvicinò alla finestra. «È probabile, - pensò, - che la maggior parte dei miei conoscenti e dei miei stessi amici mi abbiano sempre considerata come mi considerano Giuseppe e Costanza: una donna viziosa, attratta solo dal piacere fisico e quindi anche esperta di pratiche anticoncezionali e di infanticidi. Invece io i miei uomini li ho amati davvero e li ho amati tutti, con il corpo e con l’anima, e da ognuno di loro avrei voluto avere un figlio che servisse ad unirci. Un figlio dell’amore: un vero figlio! Ma, forse perché lo desideravo troppo, quel figlio non è mai venuto».
Fuori dalla finestra era primavera. Gli alberi del Pincio, uno dei colli di Roma, erano tutti fioriti; e via Margutta, la strada dove Sibilla Aleramo abitava già da qualche anno e che ormai era entrata a far parte di lei e della sua vita come nessun altro luogo in passato, continuava a essere ciò che era sempre stata: un piccolo villaggio, in mezzo a una grande città. Bastava socchiudere la finestra, in quel villaggio, e si sentivano le grida di qualcuno che si offriva di aggiustare ombrelli o di stagnare pentole; si sentivano cantare i galli, alla mattina e anche durante il giorno, perché negli anni della guerra ogni terrazza era diventata un pollaio, e ogni abbaino era diventato una piccionaia. L’odore di fritto si mescolava ai profumi della primavera e le voci lontane, di invisibili comari che si parlavano da una finestra all’altra e di monelli impegnati in chissà quali giochi, non appartenevano a quell’epoca e a nessuna epoca. Appartenevano al tempo di Roma e alla storia di Roma, come tutto ciò che si vedeva attraverso le finestre di Sibilla: gli alberi fioriti, il Pincio, le tegole dei tetti… Per tornare a vivere nel presente: in quel presente, bisognava sporgersi dalla finestra. Soltanto guardando verso il basso e guardando giù in strada ci si accorgeva che la guerra non si era limitata a trasformare le terrazze di via Margutta in pollai, ma aveva cambiato molte cose anche nella vita delle persone. C’erano delle imposte chiuse da anni, nelle case di fronte; e c’erano delle saracinesche abbassate, di negozi che erano stati un caffè frequentato dagli artisti e una fiaschetteria, la bottega di un robivecchi e l’atelier di un pittore, una libreria antiquaria e una sartoria. Ognuna di quelle saracinesche abbassate, pensò Sibilla Aleramo, e ognuna di quelle imposte chiuse era il sipario di una tragedia che si era compiuta chissà dove, in quella guerra di cui nessuno aveva capito le ragioni, ma che aveva fatto milioni di morti in ogni parte del mondo… Soltanto dietro la saracinesca della trattoria “da Peppino”, in fondo alla strada, c’era una storia tutto sommato normale, di un uomo non più giovane: Peppino, che non se l’era sentita di continuare a combattere con il razionamento e con le difficoltà di quegli anni, e aveva deciso di tornare a vivere nel suo paese d’origine. Dove li trovava più, a Roma, gli ingredienti che avevano reso famose le sue code alla vaccinara, non solo tra i romani ma anche tra i forestieri? Dove li trovava più gli intestini di vitella per fare la pagliata? L’ultima volta che Sibilla era stata a cena nella sua trattoria, Peppino le aveva confidato, sottovoce, che a fine mese avrebbe chiuso bottega. I clienti, le aveva detto, c’erano ancora, anzi ce n’erano fin troppi, ma mancava la roba da mettergli nel piatto: «Non ho più nemmeno la farina per fare gli strozzapreti» (Con quel nome, a Roma, si chiamano gli gnocchi). «Ho settant’anni: me ne torno in Umbria». Anche le botteghe degli artigiani che erano state una caratteristica di via Margutta, ormai erano quasi tutte chiuse. Nel tratto di strada sotto la finestra di Sibilla ne erano rimaste in funzione solo tre. C’era, nella sua stessa casa, un restauratore di mobili che ogni giorno tirava fuori il suo campionario di divani rotti e di seggiole spogliate e metteva tutto sul marciapiede, perché il locale dove lavorava era così piccolo, che soltanto occupando un pezzetto di suolo pubblico ci si poteva stare dentro. Dall’altra parte della strada, un pittore ritrattista («Si eseguono ritratti anche a domicilio») aveva allestito una vetrina con dei quadri che raffiguravano l’allora papa Pio Dodicesimo, il presidente dell’Unione Sovietica Josip Stalin e il poeta romano Carlo Alberto Salustri, in arte Trilussa. Un po’ più in là, un calzolaio batteva il martello sul deschetto e cantava a piena voce le canzoni di quegli anni, interrompendosi soltanto quando salutava qualcuno o quando doveva parlare con un cliente.
Grazie alla radio, ma soprattutto grazie al calzolaio di via Margutta, la protagonista di questo racconto era abbastanza informata delle novità in campo musicale, e conosceva anche le parole delle canzoni più in voga. Ce n’era una, per esempio, che invocava il vento, gli diceva: «Vento, vento, portami via con te». In un’altra canzone un uomo invitava una ragazza a entrare in un bosco:
Vieni, c’è una strada nel bosco.
Una terza canzone, infine, annunciava al mondo l’acquisto di una bambola rosa, destinata (forse per ragioni di rima) a essere regalata a una sposa. Il giorno in cui Sibilla aveva annotato nel suo diario l’episodio della vicina di casa che voleva abortire, il calzolaio di via Margutta era al lavoro come al solito, e come al solito stava cantando. Cantava una canzone malinconica:
Illusione
dolce chimera sei tu
che fai sognare e sperar
tutta la vita…
Sibilla Aleramo non conosceva quella canzone, che nel repertorio del calzolaio rappresentava una novità; e, ascoltandola, fu colpita dalla parola “chimera”. La chimera era il titolo di una poesia di Dino Campana: un uomo che lei aveva incontrato tanto tempo prima, quando ancora abitava a Firenze, e che ora riaffiorava nella sua memoria per effetto di quella parola. Dino Campana, pensò Sibilla, aveva attraversato la sua vita come un fulmine d’estate attraversa un cielo pieno di nuvole, e ci aveva lasciato un segno profondo: non quel genere di segno, però, che pensavano i suoi vicini di casa, di una gravidanza interrotta con un aborto. A proposito di aborti e di gravidanze Sibilla era stata sincera. Un segno, se possibile, ancora più sanguinoso. Una ferita che ogni tanto si riapriva e tornava a fare male. Sibilla avrebbe dovuto odiare quell’uomo, che l’aveva riempita di sputi e di botte e l’aveva anche contagiata con un male immondo: e, infatti, nella sua memoria il ricordo di Campana non evocava sensazioni piacevoli. Evocava insulti, oggetti fracassati, scenate… Mentre il calzolaio di via Margutta continuava a cantare, Sibilla ricordò le parole di un medico di Firenze, il dottor Tanzi, che le aveva consigliato di abbandonare Campana al suo destino, e di pensare soltanto a curarsi. «Lei, signora, - le aveva detto il dottor Tanzi, - guarirà in pochi mesi e guarirà completamente, ma per il suo amico non ci sono speranze. Ormai è marcio».
Tanzi, ricordò Sibilla, aveva usato proprio quell’aggettivo: “marcio”; e anche la parola “marcio”, così come la parola “chimera”, da quasi trent’anni aveva il potere di far riaffiorare nella sua memoria il ricordo e l’immagine di un uomo che l’aveva amata per qualche mese e poi l’aveva perseguitata per più di un anno, costringendola a nascondersi in casa di amici e a fuggire da una città all’altra… Si raddrizzò e chiuse la finestra. Mormorò: «Al diavolo le canzoni e le loro chimere. Al diavolo i ricordi».