Il prete
«Ave Maria gratia plena, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui…»
«Sancta Maria mater Dei ora pro nobis peccatori bus, nunc et in hora mortis nostrae amen».
Ogni volta che arrivavano in un centro abitato, gli uomini che erano sul carro incominciavano a recitare, anzi: a gridare, le preghiere del rosario; e se l’ussaro di scorta (un veterano della battaglia di Marengo, con la manica sinistra della giubba tenuta ferma da una spilla là dove c’era stato il braccio) ordinava al barrocciaio di fermarsi perché aveva visto un’osteria e voleva andare a bere un grappino, loro subito chiamavano la gente che c’era lì in strada e gli raccontavano la loro storia. Gli dicevano:
«Veniamo da Roma. Siamo preti e i francesi ci hanno condannati ad andare in esilio perché non abbiamo voluto giurare fedeltà al loro imperatore Napoleone. Siamo in viaggio da ventisei giorni e ancora non ci è stato detto dove siamo diretti e quale sarà la nostra sorte. Pregate Dio per noi, se siete cattolici, ma soprattutto pregatelo per il nostro santo padre Pio Settimo, che è prigioniero dell’Anticristo! Chiedete a Dio di aiutare la sua Chiesa e i suoi preti. Ripetete insieme a noi:
Pater noster qui es in coelis…»
Qualcuno tra i curiosi si metteva a pregare, i più scuotevano la testa e se ne andavano perché già sapevano quale sarebbe stata la conclusione di tutti quei preamboli, e di quelle preghiere in latino: una richiesta di cibo e di soldi. «Abbiamo fame, - avrebbero detto, alla fine del Pater noster gli uomini sporchi e impolverati che erano sul carro. – Se potete darci del pane o qualche soldo, Dio ve ne renderà merito…» Era una storia che si ripeteva. Da due mesi, ormai, o forse addirittura da tre, chi viaggiava sulla via Emilia e sulle altre strade della valle del Po, incontrava carri e carri carichi di preti che venivano da ogni parte d’Italia ma soprattutto da Roma, e che andavano “in esilio”. (Dove, non lo sapeva nessuno). L’imperatore Napoleone, dopo aver deciso di castigare quei ribelli, li aveva affidati a dei veterani come l’ussaro Gaston, ormai inabili per la guerra, e però si era dimenticato di dirgli dove dovevano portarli e per fare cosa. Dai comandi militari e dalle prefetture arrivavano ordini contraddittorii: «Andate a Ferrara». «Andate a Torino». «Andate a Padova». Se i preti fossero morti di fame, o se si fossero decisi a scappare, il compito dei veterani sarebbe finiti; invece loro, di solito, non scappavano. Riuscivano a sopravvivere chiedendo l’elemosina e si sentivano crescere sopra la testa l’aureola dei Santi: erano dei martiri della fede, che avrebbero trovato una sistemazione definitiva sugli altari delle chiese e nei calendari! Ogni tanto, recitavano ad alta voce le loro preghiere o cantavano qualche loro inno. L’ussaro Gaston, che si era stancato di dovergli fare da balia, li considerava dei perfetti cretini. Un giorno gli aveva chiesto, nel suo italiano approssimativo:
«Perché non cercate di ammazzarmi? Perché non scappate?»
«Perché siamo preti, e i preti non ammazzano la gente, - gli aveva risposto il prigioniero più anziano: don Fulgenzio, che prima di essere arrestato e condannato all’esilio aveva fatto il parroco in un villaggio dei Colli laziali. – Dovreste saperlo anche in Francia, e dovrebbe saperlo anche l’Anticristo che vi comanda. Ecclesia aborrhet sanguine. Anche i francesi una volta erano cristiani, e molti di loro forse lo sono ancora nel segreto delle loro coscienze».
«Perché Dio e la giustizia sono dalla nostra parte, - aveva aggiunto don Gaspare: che tra i prigionieri di quel carro era invece il più giovane, e che è anche il protagonista di questa storia. – Alla fine, saremo noi a vincere».
Gaston li aveva guardati e si era limitato a scuotere la testa. Più scemi di così…
Quella sera, il carro di cui ci stiamo occupando era fermo in uno stradone polveroso, alla periferia di una città che, fino a quel momento, non si era mostrata particolarmente accogliente. La recita del santo rosario non aveva coinvolto nessuno, e la richiesta di “pane casereccio”, rivolta alle persone che abitavano nelle case lì attorno, aveva avuto come unico risultato quello di fargli sbarrare porte e finestre. Il canonico della basilica di San Nicola in Carcere a Roma, don Francesco, che era andato personalmente a bussare alle porte di quegli uomini e di quelle donne così poco caritatevoli, aveva cercato di rassicurarli. Gli aveva gridato: «Siamo preti! Non siamo zingari»; ma nessuno gli aveva aperto. «Forse, - aveva detto il sant’uomo quando era tornato tra i suoi confratelli, - questa gente non capisce la nostra lingua. Anche se sono italiani come noi: chissà che dialetto parlano…»
«Forse sono luterani, - aveva azzardato don Fulgenzio. – Ho sentito dire che nella valle del Po ce ne sono molti».
I nostri preti erano inquieti. Gaston, il loro accompagnatore, era scomparso già da qualche ora e non se ne sapeva più niente; il sole aveva incominciato a scendere dietro le case e loro si sentivano abbandonati in un paese straniero, tra infedeli, senza nemmeno un rifugio per passarci la note. Si chiedevano:
«Dove siamo? Perché Gaston non torna a dirci qualcosa? Dove dormiremo?»
«È da ieri che non mangiamo più niente. Abbiamo fame!»
«Ehi tu, buon uomo. Capisci quello che ti sto dicendo?»
C’era un tale con in spalla una zappa che passava proprio in quel momento vicino al carro e don Gaspare gli andò incontro. Gli chiese:
«Puoi dirmi come si chiama questa borgata, e se ci sono dei preti cattolici come noi?»
Il contadino lo guardava e gli occhi gli ridevano.
«Questa porcata, - rispose, - è la città di Piacenza. Preti ce n’è sempre stati anche troppi e da un po’ di tempo ne arrivano ogni giorno di nuovi, con i carri: ma poi se ne vanno».
Tornò l’ussaro e si vedeva che aveva bevuto, perché pendeva tutto dalla parte sinistra del cavallo e sembrava dovesse cadere da un momento all’altro. Insieme a lui, a piedi, c’era una guardia municipale: un italiano, con indosso una specie di divisa messa insieme unendo capi di vestiario di almeno tre divise diverse, francesi e forse anche austriache.
«Il carcere correzionale di Piacenza è pieno zeppo di preti, - disse la guardia municipale agli uomini del carro, che gli si erano fatti intorno per ascoltare le novità: - e non ce ne stanno altri. Mi dispiace, ma per questa notte dovrò farvi dormire in una stalla insieme ai vostri cavalli».
Si voltò per andarsene; poi si ricordò di qualcosa che non aveva detto e tornò indietro.
«Se qualcuno di voi ha dei soldi per pagarsi l’albergo, - gli disse, - può andare all’osteria della Luna Rossa che è quella locanda laggiù, dall’altra parte dello stradone: la vedete? Là dove c’è una lanterna accesa. Il gestore è un mio amico e se gli dite che vi ha mandato Antonino: lo sbirro, vi farà un prezzo di favore e vi tratterà come ospiti di riguardo. Dormirete benissimo».
«Prima di dormire, dobbiamo mangiare, - disse don Luigi, che era un canonico penitenziere del duomo di Anagni. – Non possiamo vivere senza mangiare. Moriamo di fame!»
La parola “mangiare” ebbe l’effetto di risvegliare l’ussaro, che fino a quel momento era rimasto in bilico sul suo cavallo e non aveva detto nulla.
«Mangiare, sempre mangiare, - sghignazzò il soldato ubriaco. – Preti pensa solo mangiare». Si batté la mano sulla pancia: «Paté, poulets, langoustes… Preti vuole mangiare tutti i giorni a tutte ore di giorno. Pollo, arósti, salami…»
«Gnam, gnam, gnam, gnam!»
Dopo avere contato e ricontato alcune monetine che avevano in tasca, e dopo avere augurato la buona notte agli altri del carro, don Francesco e don Gaspare si diressero verso la locanda che gli era stata indicata e ci entrarono, facendo suonare il campanello attaccato alla porta. L’oste della Luna Rossa era un uomo di circa cinquant’anni, quasi completamente calvo, ed era intento a fare dei conti. Quando vide quei due forestieri non riuscì a trattenere un’esclamazione:
«Ancora preti!»
«Domani è giorno di mercato, - li avvertì – e nella stanza dove dormono gli uomini non c’è più nemmeno un angolino libero. Potrei mettervi insieme alle donne: siete preti e portate la sottana come la portano loro, ma loro forse non vi vorrebbero». Si passò una mano sulla testa pelata.
«Se mi pagate in anticipo, - gli propose, - posso sistemarvi nel ripostiglio che c’è di fianco alla stanza degli uomini. Tiro fuori le coperte e le scope e ci metto una branda tutta per voi, dove dormirete come due angioletti».
Strizzò l’occhio a don Francesco, che era il prete più anziano. Si corresse:
«Cioè, insomma… Dormirete come vi pare. Siete uomini e io, dopo che ho spento la luce, non mi preoccupo di quello che fanno i miei clienti: basta che non vadano a molestare le donne, che non cantino e che non facciano baccano. Anche voi preti, immagino, avete gli stessi stimoli che abbiamo tutti, e dovete arrangiarvi…»
La camerata degli uomini era al piano di sopra. Prima di farci entrare i nostri personaggi, l’oste della Luna Rossa gli indicò un topo morto appeso con una cordicella di fianco all’ingresso. Gli disse:
«Quello è il Santo patrono della nostra locanda e di tutte le locande. È San Ratto, che protegge il sonno dei clienti dai russatori abituali. Se vi metterete a russare lui scenderà dal muro e verrà a chiudervi la bocca: perciò, vi consiglio di dormire su un fianco, anziché sulla schiena, e di tenere la bocca ben chiusa…»
I nostri preti cenarono, se così si può dire, con dei pezzi di pane duro che erano rimasti in fondo alla bisaccia di don Gaspare, e si prepararono per la notte. Don Francesco aveva al collo una croce: se la tolse e l’appese a un chiodo nel muro. Quando l’oste gli portò la branda con il pagliericcio, si inginocchiarono e pregarono Dio per la Chiesa, per il papa prigioniero dei francesi, per se stessi e per i loro compagni che erano rimasti sul carro. Per l’osteria della Luna Rossa e per quella notte:
«Dio, benedici il nostro riposo, - lo implorarono, - e concedici il sonno ristoratore delle fatiche di questa giornata, Fa’ che domani possiamo risvegliarci nel tuo nome, per continuare a servirti in questa vita e per celebrare la tua gloria nell’altra. Amen».
Poi l’oste spense tutte le luci del piano tranne una, e don Francesco si addormentò quasi subito: nonostante i morsi della fame e quelli, ancora più fastidiosi, di certi insetti che dal pagliericcio si stavano trasferendo sotto i suoi panni, a gruppi e a interi plotoni. A differenza di don Gaspare, che doveva sempre fare qualcosa e pensare a qualcosa, lui dormiva dappertutto e dormiva sempre. Era un uomo tranquillo, che si appisolava anche di giorno mentre viaggiava sul carro, e che compensava con il sonno le angustie di quell’epoca senza Dio, in cui i preti venivano maltrattati senza che ce ne fosse il motivo: soltanto perché erano preti! Don Gaspare, invece, continuava a rigirarsi e non riusciva a prendere sonno. Gli succedeva ogni volta che si coricava: le sue membra erano appesantite dalla stanchezza, ma i pensieri non si quietavano. Nella sua mente c’era un continuo avvicendarsi di domande e di risposte, di idee per il presente e per il futuro… Forse Napoleone, rifletteva don Gaspare, era davvero l’Anticristo, come si diceva e come credevano in molti; forse i figli delle tenebre, nel mondo, dovevano sempre e comunque trionfare sui figli della luce, perché così c’è scritto nei Vangeli: ma dov’era scritto che non si potesse cercare di contrastarli? Se il popolo si fosse ribellato… Alla fine, riuscì ad addormentarsi; e poi si svegliò di colpo perché vicino a lui stava succedendo qualcosa. Don Francesco gemeva, rantolava, sembrava sul punto di dover rendere l’anima. Nella luce debolissima e lontana dell’unica lampada rimasta accesa dall’altra parte dello stanzone, il nostro prete vide una cosa lunga e scura che usciva dalla bocca del suo compagno e ne fu spaventato. Era un demonio o era il sintomo di una di quelle malattie che non lasciano scampo, come la peste o il carbonchio? Gridò: «Aiuto!»
«C’è un uomo che si sente male! Chiamate un dottore! Aiuto! Aiuto!»
Lo stanzone e l’intera locanda si svegliarono.
«Basta, finitela! – gridarono molte voci: - Vogliamo dormire!»
Altre voci nella penombra chiedevano: «Che succede?» «Chi grida?» «È scoppiato un incendio?»
«Dov’è il ladro?»
«Chiamate l’oste! – continuava a strillare don Gaspare. – Chiamate un dottore! Fate in fretta!»
«C’è qualcuno che sta crepando», dicevano le voci nella camerata. Altre voci, però, rispondevano: «Che vada a crepare giù in strada!» «Che si sbrighi, perdio, e ci lasci dormire!» «Questo non è un ospedale: è un albergo!»
Don Gaspare, invece, continuava a chiamare il compagno: «Don Francesco, per l’amor di Dio, rispondetemi! Don Francesco, ditemi qualcosa!»
Chiamava l’oste: «Dov’è l’oste? Portate una luce! Aiuto, aiuto!»
«Ti ho sentito. Smettila di gridare. Basta. Vengo». Dal suo sgabuzzino a pianoterra, l’oste continuava a ripetere: «Un momento. Eccomi. Arrivo. Sto salendo le scale».
Don Francesco ruotava gli occhi e annaspava con tutt’e due le mani. Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, riuscì ad afferrare la cosa lunga e scura che aveva spaventato il suo compagno. Se la tolse di bocca e la scagliò contro il muro. Era… il topo!
Si mise a sedere sul pagliericcio mentre una luce improvvisa lo illuminava. Balbettò: «Cosa mi è successo? Dove sono?»
«È questo il morto? Hai svegliato tutta la locanda per questo?»
L’oste della Luna Rossa teneva sollevata la lanterna con la mano sinistra e con la destra indicava il topo. Con quella stessa mano colpì don Gaspare su una guancia: «Brutto stronzo! Dovrei scaraventarti giù dalle scale. Dovrei romperti la testa a cazzotti. Mi hai svegliato, e hai svegliato tutti, per una stupidaggine…»
«Buttali fuori, - gridavano gli altri clienti. – Quei due sacchi di merda! Così imparano a stare al mondo. Uno dei due russava come un porco; quando ha smesso, l’altro ha incominciato a strillare. Buttali fuori e che dormano in strada! È ancora notte, e anche noi facciamo in tempo a dormire un po’».
Una scarpa colpì sulla fronte don Francesco; una scodella di coccio andò a rompersi sul muro vicino a don Gaspare. Anche le donne, al pianoterra, gridavano:
«Mandate via i disturbatori! Buttateli fuori! Vogliamo dormire!»
In un batter d’occhi, don Francesco e don Gaspare si ritrovarono in strada con in mano i vestiti, nella luce incerta che precede l’alba. Si guardarono attorno: dov’erano i loro compagni? Dov’era il carro che li aveva portati fin lì? Dov’era l’ussaro Gaston? Si infilarono i calzoni e le tonache. Si avviarono verso una fontanella per lavarsi la faccia; ma, fatti pochi passi, don Gaspare si fermò e si toccò l’impronta della mano dell’oste, già perfettamente stampata sulla sua guancia sinistra. Guardò le case con le finestre chiuse, grigie e ostili; guardò il cielo dietro le case dalla parte dove stava per sorgere il sole, e lo vide velato di nebbie. Si dimenticò di dover diventare Santo (san Gaspare Del Bufalo, beatificato da Pio Decimo nel 1904, santificato da Pio Dodicesimo nel 1954, festa il 23 giugno). Alzò la mano in un certo modo, che forse non era proprio un anatema ma non era nemmeno una benedizione. Disse a don Francesco (monsignor Francesco Albertini, futuro vescovo di Terracina):
«Piacenza è un nome sbagliato. Questa città che non è nemmeno una città, ma soltanto un’accozzaglia di case, dovrebbe chiamarsi Dispiacenza. Io non vedo l’ora di andarmene: e prego Dio di non doverci ritornare in futuro, mai più».