Il doge

 

Gli orologi di tutte le chiese di Venezia avevano appena finito di battere otto colpi, secondo il nuovo modo di calcolare le ore voluto dagli austriaci. Due uomini vestiti di nero uscirono da una porticina di ferro, senza targhe né nomi, di un muro che era la recinzione di un parco: dietro a quel muro si vedevano alberi d’alto fusto, e dietro agli alberi s’intravvedeva la facciata di un palazzo che era stata la residenza d’estate dei nobili Grimani, e che probabilmente apparteneva ancora a quella famiglia. Dopo essersi guardati attorno nella calle deserta, i nostri personaggi svoltarono a sinistra; arrivarono in fondo alla calle, in una piccola piazza che si affacciava su un canale e si fermarono davanti a un ponte, come se fossero stati incerti circa la direzione che dovevano prendere.

La città-teatro del mondo, Venezia, nella prima luce del sole sembrava un pianeta disabitato; soltanto le grida di un’invisibile bigolante, cioè di una venditrice d’acqua in una calle di là dal canale, e soltanto la presenza, nel paesaggio, dei nostri viandanti, testimoniavano che quel pianeta era ancora vivo, e che ospitava delle persone. Uno dei due uomini aveva il viso scoperto e doveva essere il servitore dell’altro, perché camminandogli a fianco si teneva indietro d’un mezzo passo in segno di rispetto. L’altro viandante, invece, aveva la testa e la faccia nascosti dalla baùta: che è un cappello rotondo a tesa larga, con attaccate una mantellina per coprire le spalle e una maschera (la larva) per coprire gli occhi. Dal contegno dell’uomo in baùta, e dai suoi gesti, si capiva che doveva essere una persona importante; ma nessuno, incontrandolo in quell’estrema periferia della città, avrebbe riconosciuto in lui il nobile Ludovico Manin: addirittura, l’ultimo doge di Venezia!

Ludovico Manin, per ciò che se ne sapeva, era scomparso dopo aver ceduto i suoi poteri a un governo provvisorio di cittadini veneziani, che dovevano fare la rivoluzione con l’aiuto dei soldati francesi. Sul suo conto correvano voci vaghe. C’era che diceva che si fosse ritirato nella sua villa di Passariano in Friuli, e chi invece che si nascondesse a Venezia in casa di parenti, e che collaborasse in segreto con i nuovi padroni della città, cioè con gli austriaci.

Secondo quest’altra versione, il vecchio doge non avrebbe esitato a tradire i suoi sudditi di un tempo e la sua stessa patria, pur di mantenere i suoi privilegi… Dopo aver riflettuto sulla strada da prendere, l’uomo in baùta comunicò la sua decisione al servitore:

«Remigio».

«Comandi, eccellenza».

«Andiamo alla chiesa dei Servi come gli altri giorni; ma, invece di fare la solita strada, facciamo il giro delle fondamenta. Così, tanto per camminare un po’. Il mio dottore, ogni volta che viene a trovarmi, mi dice che devo fare del moto, se voglio mantenermi in salute».

«Come desidera vostra eccellenza».

Le fondamenta, a Venezia, sono le strade che costeggiano i canali; e i due uomini si avviarono a sinistra verso la Sacca della Misericordia e verso il mare, seguendo il Rio ella Madonna dell’Orto e le fondamenta di quel rio. Incontrarono due venditrici d’acqua con i secchi a tracolla; incontrarono una comare che trasportava qualcosa di vivo in un cesto (una gallina? Un gatto?), tenendolo coperto con un tovagliolo e parlandogli perché stesse tranquillo; incontrarono due carpentieri, riconoscibili per gli attrezzi appesi alle cinture.

Videro passare un’imbarcazione militare: un burchio, con a bordo otto soldati austriaci rigidi e impettiti nelle loro divise blu e bianche. A Venezia, ormai, c’erano gli austriaci e ci sarebbero rimasti per chissà quanto tempo… Forse, addirittura per sempre! Le smanie di libertà dei rivoluzionari locali, pensò Ludovico Manin, alla fine avevano prodotto quel bel risultato, che la città aveva un nuovo sovrano, l’imperatore d’Austria, e nuove leggi, più oppressive di quelle dei dogi; e che i suoi nuovi governanti parlavano tedesco. Ma nessuno più si ribellava. Venezia, pensò ancora il nostro viandante, era morta insieme alla Repubblica. Anche se, a guardarla da fuori, sembrava che non fosse cambiato nulla: le sue case e le sue chiese e i suoi cento palazzi sopravvivevano nel sole tiepido di marzo, come sopravvivono le conchiglie dopo che il mare le ha buttate sulla spiaggia senza più niente dentro. E sopravviveva, ma ancora per poco, l’ultimo dei dogi. Ludovico Manin: lui…

La Sacca della Misericordia, nella luce del primo mattino, era uno specchio d’acqua immenso e accecante, dove i carpentieri lavoravano a disfare le zattere arrivate il giorno prima dalla parte del Piave, e dove venivano ad approdare le tartane e le altre imbarcazioni che portavano a Venezia gli operai e le merci della Terra Ferma: gli ortaggi, i polli, i tessuti, le stoviglie, il carbone… Era la porta di servizio della città, così come la Riva degli Schiavoni e la Piazzetta, dalla parte opposta, ne erano l’ingresso principale e splendido. Ludovico Manin si sporse dalla balaustra e si stupì di vedere la Sacca quasi vuota, rispetto a come avrebbe dovuto essere a quell’ora del giorno e rispetto a come lui se la ricordava. Ogni volta che aveva avuto occasione di passare in quel luogo, pensò il doge, aveva sempre visto un gran movimento di barche, di zattere, di operai che si affannavano a trasferire le merci da una barca all’altra per portarle in città; mentre ciò che ora stava davanti ai suoi occhi era un’immagine di vuoto e di abbandono, più eloquente di qualsiasi discorso. Poche barche, poche zattere, pochi operai si muovevano in controluce tra i vapori della laguna, e con la loro presenza stringevano il cuore di chi li guardava, in quello spazio così grande diventato improvvisamente inutile. Anche i gabbiani erano meno numerosi di un tempo, e sembravano meno sfrontati. Una voce lontana, di un barcaiolo o di un carpentiere, intonò una canzone che a Venezia in quegli anni si sentiva dovunque e che tutti cantavano, perfino i soldati austriaci con le loro voci stonate:

La biondina in gondoleta

L’altra sera g’ho menà:

Dal piacer la povereta

La s’ha in bota indormenzà.

L’ultimo dei dogi aveva già ascoltato quella canzone chissà quante volte, nel corso delle sue passeggiate solitarie e nel suo stesso palazzo; e non solo ne conosceva le parole, ma conosceva anche l’uomo che le aveva scritte e la donna che le aveva ispirate. Marina Querini Benzon, la “biondina in gondoleta”, era una di quegli aristocratici veneziani che avevano festeggiato la fine della Repubblica come la liberazione da un incubo, e che in quei giorni di lutto per la patria si erano abbandonati a ogni genere di eccessi, sia in privato che in pubblico… Dopo l’arrivo dei soldati francesi, era stata vista ballare seminuda sotto l’Albero della Libertà in piazza San Marco; e anche suo marito Pietro Benzon aveva fatto tutto ciò che poteva essere fatto per meritarsi gli stranieri al governo, così come si era meritato le sue corna, immortalate nella canzone. Il vecchio doge scosse la testa. Mormorò:

«Venezia non l’hanno fatta morire i francesi e nemmeno gli austriaci. Sono stati i nobili veneziani a ucciderla».

Una voce d’uomo, da un’altra parte dell’immensa Sacca della Misericordia, si sovrappose e si intrecciò a quella che già stava cantando:

Gera in cielo mezza sconta

Fra le nuvole la luna,

Gera in calma la laguna,

Gera il vento bonazzà.

Ludovico Manin si staccò dalla balaustra e si voltò per andarsene; e proprio in quel momento sotto di lui si alzò una terza voce, di un barcaiolo o di un carpentiere intento a recuperare le taje, cioè i tronchi di abete, di una zattera arrivata dal Cadore il giorno precedente:

Me sentiva drento in peto

Una smania, un missiamento,

Una spezie de contento

Che no so come spiegar…

Le Fondamenta della Misercordia, dove adesso camminavano i nostri personaggi dopo essersi lasciati alle spalle la Sacca, erano ingombre in ogni parte di reti da pesca. Tra le reti, c’erano degli uomini anziani e delle donne che lavoravano a ripararle, ricucendo gli strappi; e c’erano, a decine, i loro figli e i loro nipoti. Gruppi di ragazzetti seminudi giocavano al “gobeto de Rialto” (“El gobeto de Rialto/l’è vegnisto qua in un salto”), alla lippa, o, più semplicemente, a nascondersi e a inseguirsi lungo il canale. Ludovico Manin, in quella parte di Venezia, era già passato altre volte, in gondola con le tendine del felze tirate, ma non c’era mai venuto a piedi: e non si aspettava che le donne lasciassero il loro lavoro di rammendo, e che i bambini interrompessero i loro giochi per affollarsi intorno al forestiero, cioè a lui, e per chiedergli… l’elemosina! Invece, era proprio questo che stava succedendo. I bambini gridavano tutti insieme e alzavano le mani, si spingevano, reclamavano “un soldino”, “un mezzo soldino”, “un bagatin”; le donne, diventate improvvisamente piagnucolose, si asciugavano gli occhi col grembiule e raccontavano storie terribili, di mariti e di padri morti in mare e di figli consumati dal “male tisico” (tubercolosi)… Alcune di quelle donne, più disperate delle altre o forse soltanto più sfrontate, tiravano il forestiero per i vestiti; e il vecchio doge era così turbato da quello spettacolo, che non sapeva cosa fare e cosa rispondergli. Stare in mezzo ai poveri è tutt’altra cosa che occuparsi da lontano delle loro sofferenze, o anche aiutarli restando nel proprio palazzo… Si frugava in tasca, cercando delle monete che non c’erano. Balbettava: «Scusatemi. Per favore, lasciatemi passare». Venezia, per ciò che ne sapeva lui, era sempre stata piena di mendicanti, soprattutto vicino alle chiese e sul Liston, che è il passeggio in piazza San Marco. Ma che a chiedere l’elemosina fosse la gente del popolo: le mogli e i figli dei pescatori e degli operai che avrebbero dovuto guadagnarsi da vivere lavorando in laguna, quella era una novità che non si conosceva e che faceva male a vederla… «Come siamo ridotti! Povera Venezia!»

Fosse stato solo, Ludovico Manin sarebbe rimasto in balia di quei bambini e di quelle donne per chissà quanto tempo. Fortunatamente, insieme a lui c’era Remigio che lavorava di braccia e di gomiti, gridando e minacciando:

«Andè via, putei, corpo de bio! Andè via, done. Vardé, che ciamo le guardie!»

Alla fine e come Dio volle, il doge e il suo servitore riuscirono a passare dall’altra parte del Rio della Misercordia. Svoltarono in una calle silenziosa e deserta e arrivarono al convento di Santa Maria dei Servi e alla chiesa del Volto Santo, dove Ludovico Manin veniva quasi tutte le mattine ad ascoltare la messa. C’erano delle persone davanti alla chiesa: uomini e donne che si erano fermati lì sul sagrato a chiacchierare; e c’erano due signore vestite di bianco che quando videro l’uomo in baùta incominciarono a strillare e a sbracciarsi, per richiamare l’attenzione degli altri. Gridavano:

«Guardate quell’uomo vestito di nero! È l’ultimo dei dogi, che si nasconde dietro una maschera perché ha vergogna di mostrare in pubblico la sua faccia!»

«È il tiranno che adesso si è messo al servizio degli austriaci, e che gli fa da confidente e da spia!»

Ludovico Manin non si aspetta quel genere di accoglienza e, a dire il vero, non si aspettava nessuna accoglienza. Si fermò. Pensò che qualcuno dei suoi domestici doveva aver rivelato a quelle signore le sue nuove abitudini: altrimenti, come avrebbero fatto a sapere che andava a messa proprio in quella chiesa, e a riconoscerlo sotto la baùta? E poi, pensò che se avesse potuto prevedere ciò che gli stava succedendo, quel giorno invece di uscire si sarebbe chiuso in casa, e tanti saluti a tutti! Non avrebbe visto i bambini che chiedevano l’elemosina, e non avrebbe dovuto sopportare che lo si chiamasse “tiranno” e “spia degli austriaci”…

Guardò le donne che lo stavano insultando. Erano Isabella e Giuditta F., madre e figlia, e facevano parte a pieno titolo di quella banda di nobili veneziani che avevano voluto a ogni costo la fine della Repubblica, per tenersi al passo con le mode o per qualche altra ragione ancora più stupida… Chissà! Come la “biondina in gondoleta” e suo marito; e come tanti altri. Negli ultimi rapporti giunti agli inquisitori di Stato prima che arrivassero i francesi, Isabella, la madre, era stata segnalata perché frequentava i “giacobini”, cioè i rivoluzionari, e perché andava in giro con “la legatura de’ vestiti sotto le brodose mamelle”, in omaggio a una moda venuta da Parigi. Sua figlia Giuditta s’era messa in luce per le cattive compagnie e per il particolare del “filo de barba”: che sarebbe bastato da solo, pensò il doge, a illustrare la follia di quei giorni, e che aveva regalato agli inquisitori un ultimo momento di buonumore, mentre la Repubblica andava in rovina! Quegli uomini carichi di anni e di responsabilità avevano dovuto leggere, nel rapporto di un confidente, che la ragazza si era mostrata in pubblico con abiti talmente scollati da lasciar intravvedere, oltre alle tette, anche “un filo de barba”: e sulla faccenda della barba si erano divisi. I più, dopo essersi fatti una risata, avevano espresso il parere che il confidente non fosse attendibile, e che con quel genere di rapporti si volessero screditare le istituzioni: «Ormai anche le nostre spie sono contro di noi». Soltanto uno degli inquisitori: un uomo austero, che si diceva portasse il cilicio sotto i vestiti e che discendeva da una delle famiglie più antiche dell’aristocrazia veneziana, era rimasto serio e aveva scosso la testa. Aveva esclamato: «Dove andremo a finire? Ci sarà pure un limite!»

«Segnalo ai miei illustri colleghi, - aveva poi detto quell’inquisitore: e mentre parlava gli tremavano la voce e le mani, - che anche le donne hanno la barba, sia pure collocata in una parte remota del loro corpo; e che il fatto riferito, per quanto ripugnante, è certamente possibile…»

( In che cosa consisteva “il filo de barba”? Ripercorrendo le cronache di quegli anni, noi oggi abbiamo qualche difficoltà a valutare in modo corretto alcuni fatti, che ci sembrano strani e poco credibili. L’unica cosa certa è che la prima e la più grande di tutte le rivoluzioni: quella che aveva mandato all’aria il Regni di Francia e poi anche la Repubblica di San Marco, non si era limitata a liberare dai pregiudizi le teste delle persone che vivevano in quell’epoca, ma in qualche caso aveva liberato anche i loro corpi dagli indumenti considerati reazionari, come le mutande).

Gli schiamazzi delle due nobildonne avevano spinto alcuni curiosi a uscire di chiesa, per vedere cosa stesse succedendo; e l’eroina delle “brodose mamelle” cioè Isabella, pensò che era il momento di fare ciò per cui lei e sua figlia erano venute fin lì, in quella lontana periferia di Venezia.

Con un balzo, si avvicinò all’ultimo dei dogi e gli strappò di testa il cappello e la maschera. Ludovico Manin rimase a capo scoperto, immobile, e le persone che quella mattina si trovavano sul sagrato della chiesa dei Servi videro un uomo con il viso pieno di rughe e i capelli bianchi: un po’ più triste, e un po’ più vecchio, di come ricordavano di averlo visto nelle sue ultime apparizioni ufficiali.

«Il doge! – esclamò una voce. – È proprio lui! È sua eccellenza Ludovico Manin!»

«Guardatelo bene, - strillava la più anziana delle due nobildonne, puntandogli il dito contro. – È il traditore che ci ha venduti agli austriaci, come Giuda ha venduto Nostro Signore a chi voleva crocifiggerlo!»

«Vogliamo vederti tra Todaro e Taddeo, - gli gridava Giuditta. (Con quei due nomi, per secoli, a Venezia si era indicato il luogo dove venivano giustiziati i condannati a morte). – Vogliamo vederti in mano al boia! Chi ha tradito la patria, non merita di continuare a vivere!»

Il vecchio doge sembrava diventato una statua. Non parlava, non muoveva nemmeno un muscolo del viso e il servitore che lo aveva accompagnato fin lì pensò che quella chiassata era durata abbastanza: «Basta. El tropo xe tropo!» Si lanciò contro Isabella per toglierle di mano la baùta; ma lei riuscì a scansarlo e diede il cappello alla figlia, che lo nascose sotto i vestiti.

Remigio e le due dame si guardarono negli occhi.

«No steme a intrigar i bisi, done», disse il servo; e dal modo in cui pronunciò quelle parole, e dal colore delle sue guance che erano diventate paonazze, si capì che faceva sul serio. Alzò il pugno in viso a Giuditta. Le ordinò: «Dame la baùta de sua eccellenza. Dàmela, o te copo!»

La rivoluzionaria del “filo de barba” buttò per terra il cappello e si mise a piangere. Scappò verso le Fondamenta del Moro e sua madre le corse dietro mentre Remigio raccattava il cappello del doge. Mentre gli dava dei colpetti per togliere la polvere, continuando ad insultare, a mezza voce, le due nobildonne:

«Cagne! Vipere!»

«Putàne!»

Ludovico Manin si rimise in testa la baùta e si riaggiustò la maschera sul viso. Mormorò: «Quel che Dio manda, no gh’è rimedio». Pensò che tutto, ormai, era andato sottosopra, a Venezia e nel mondo, e che non c’era più niente di prevedibile, niente di sicuro, niente su cui si potesse fare affidamento. Dio aveva preso tra le sue mani i destini degli uomini e li stava rimescolando, come i giocatori rimescolano le carte prima di distribuirle sul tavolo verde. La saggezza era diventata pazzia e la pazzia, forse, era l’unica saggezza possibile, in una realtà dove tutti i punti di riferimento si erano persi… Alle nove e qualche minuto di quella mattina di primavera, davanti alla chiesa del Volto Santo annessa al convento di Santa Maria dei Servi, l’ultimo dei dogi prese una decisione che rifletteva il suo stato d’animo di quell’ora e le sue meditazioni degli ultimi mesi e anni. Avrebbe riscritto il suo testamento.

Sissignore. Avrebbe lasciato centodiecimila ducati d’oro: una somma enorme!, da dividersi in parti uguali tra i bambini poveri di Venezia, perché non dovessero più chiedere l’elemosina ai passanti, e i malati dell’Ospedale di San Servolo dove si curavano i matti. Se c’era ancora una via di salvezza, pensò il doge, soltanto loro: i diversi, i lunatici, gli strambi, avrebbero potuto indicarla. La ragione umana aveva fallito. Disse ad alta voce (e le persone che lo ascoltavano cedettero che, con quelle parole, Ludovico Manin volesse soltanto rammaricarsi per ciò che gli era successo):

«Sto mondo xe una cheba de mati, e i più sani sta de casa a San Servolo!»

Entrò in chiesa, per rimettere la sua decisione nelle mani di Dio.