Il commendatore
Un breve fischio, uno strappo, un cigolio lungo di ferraglia sotto i piedi dei viaggiatori e l’accelerato per Palermo si rimise in moto, stridendo e scricchiolando in tutte le connessioni delle sue carrozze vetuste, mentre dalla locomotiva lontana giungeva l’ànsito del vapore imprigionato nella caldaia e mentre il tonfo dei pistoni si faceva sempre più rapido e convulso, a mano a mano che il treno acquistava velocità. Il commendator Emanuele Notarbartolo si sedette e quasi si sdraiò sul divano di velluto rosso dello scompartimento di prima classe di cui era l’unico occupante, dopo averne alzato uno dei bracciuoli. Si sentì stanco ma soddisfatto. Anche quell’anno, pensò, era riuscito a badare personalmente, come gli aveva sempre raccomandato di fare la buonanima di suo padre, ai lavori per l’avvio della nuova stagione nei poderi di famiglia: aveva controllato le potature e il vino nuovo, aveva verificato che la quantità e la qualità delle sementi corrispondessero al denaro speso per acquistarle, aveva fatto rassettare le botti, aveva riscosso un piccolo credito d’un affitto arretrato…
Con un’occhiata verso l’alto si assicurò che il fucile a due canne, da cui aveva tolto per precauzione le cartucce come faceva sempre quando saliva in treno, fosse collocato nella reticella del portabagagli in modo da non cadere.
Guardò fuori, per vedere dov’era: ma il vetro del finestrino, rigato trasversalmente dalla pioggia e quasi opaco, gli lasciò scorgere soltanto vaghe ombre di fichidindia, muricce e canneti che balzavano incontro al viaggiatore e immediatamente sparivano, nell’estrema luce di una giornata grigia e piovosa che ormai stava per lasciare il posto alla notte. Tirò fuori dal taschino del gilé l’orologio d’argento. Erano le cinque e venti minuti del pomeriggio e il commendatore ebbe un gesto di stizza; scosse il capo, pensando alla moglie e alla figlia che probabilmente in quello stesso momento uscivano di casa per andare ad aspettarlo alla stazione, dove lui sarebbe arrivato, se tutto andava bene, con mezz’ora di ritardo… Borbottò:
«Mai una volta che s’arrivi in orario! Maledetti treni!»
Tornò ad appoggiarsi al velluto rosso del sedile, lasciando che le gambe e le braccia e anche la testa si muovessero e sobbalzassero al ritmo del treno, nella penombra dello scompartimento. I suoi occhi, ora, guardavano le goccioline di pioggia fitte fitte sul vetro del finestrino, e, dall’altra parte del vetro, gli uliveti e gli agrumeti della valle del Torto; ma i suoi pensieri erano altrove. Erano a Palermo: negli uffici della sede centrale di quel Banco di Sicilia di cui lui, Emanuele Notarbartolo, era stato il direttore per tredici anni, e da cui aveva dovuto andarsene nel 1890 per volontà dell’allora capo del governo Francesco Crispi e dei suoi amici siciliani… Un’associazione a delinquere! Una congrega di ladri, grandi e piccoli, che subito dopo la sua partenza s’erano buttati a speculare in Borsa con i soldi del Banco, a riscuotere grosse somme con cambiali intestate a defunti e ad arraffare quattrini in ogni modo, senza nemmeno preoccuparsi di mascherare gli ammanchi con qualche trucco nella contabilità. Quel saccheggio, pensò il commendatore, era durato più di due anni, e durava ancora; ma da quando a Roma era cambiato il governo, in tutta Italia e perfino a Palermo le persone oneste avevano ricominciato a sperare di poter tornare a occupare i posti da cui erano state allontanate, e di poter rimettere ordine nei vari settori dell’amministrazione pubblica. Il nuovo presidente del consiglio, marchese di Rudiní, aveva mandato a dire a Notarbartolo che si faceva affidamento su di lui per cacciare i ladri dal Banco di Sicilia; e lui, che non chiedeva di meglio. Era già riuscito a prenderne uno con le mani nel sacco, e a denunciarlo a chi di dovere. Il fatto si era verificato due mesi prima, alla fine di novembre. Un deputato e consigliere d’amministrazione del Banco, l’onorevole Raffaele Palizzolo, dopo aver giocato in Borsa con i soldi dei risparmiatori, aveva commesso l’errore di accreditare la vincita a se stesso, anziché a un prestanome o a una società anonima; e il mandato di pagamento ora era a Roma, sul tavolo del ministro…
La vettura sobbalzò sugli scambi. Avvicinandosi la stazione di Cerda, si udì il rumore lancinante dei freni che si stringevano intorno ai ceppi delle ruote; si videro le case di là della strada e i marciapiedi lucidi di pioggia con le ombre scure dei viaggiatori che aspettavano il treno riparandosi sotto i cappucci degli scappulari o sotto gli ombrelli. Infine, il treno si fermò in una nuvola di vapore bianchissimo e il commendator Notarbartolo, continuando a guardare fuori dal finestrino, ebbe modo di assistere a un piccolo episodio, che lo sorprese e lo incuriosì. Un uomo alto e barbuto, con gli occhiali, s’avvicinò allo scompartimento dov’era lui, con la mano alzata per aprire lo sportello; e l’avrebbe certamente aperto, e sarebbe salito, se un ferroviere che era sul marciapiedi non gli avesse fatto segno di salire nello scompartimento a fianco, dicendogli anche alcune parole che Notarbartolo non poté sentire a causa del frastuono della locomotiva. Per quanto insignificante, la vicenda lo lasciò sconcertato. Da quando in qua, si chiese il commendatore, i controllori delle ferrovie hanno questo potere, di far viaggiare i passeggeri negli scompartimenti che scelgono loro? Chi paga il biglietto è libero di sedersi dove gli pare e piace! Ma il convoglio si rimise in moto con il suo solito rumore di sportelli sbattuti e di ferraglia sottoposta a sforzi intollerabili, e anche il commendator Notarbartolo si liberò di quel problema con un’alzata di spalle, mormorò a mezza voce: tanto meglio! Mi ha evitato il fastidio di dover fare conversazione con uno sconosciuto! Poi pensò che quando il controllore sarebbe passato a forare i biglietti gli avrebbe chiesto chi era quell’uomo con gli occhiali: così, tanto per togliersi una curiosità!, e il motivo per cui gli era stato consigliato di salire in un altro scompartimento, mentre già teneva un piede sul predellino del suo…
Il treno, ora, stava correndo lungo il mare e la certezza di quella presenza nella sera d’inverno rappacificò i pensieri del nostro viaggiatore di prima classe, li fece tornare in sintonia con l’ansimare della locomotiva e con la luce azzurrata all’interno della vettura, che aveva acceso lui stesso. Accostò la fronte al vetro del finestrino. Il mare era laggiù, grigio come piombo e deserto di vele, ma Notarbartolo per un istante lo rivide com’era nella bella stagione, con il sole che accendeva la sabbia di bagliori dorati e l’acqua tra gli scogli che pullulava di vita, come nel giorno della creazione… In quei luoghi, che erano i luoghi della sua infanzia, lui contava di venire a ritirarsi di lì a qualche anno: quando anche la figlia più piccola fosse stata sposata, e quando Palermo e il Banco di Sicilia fossero stati in mano di amministratori onesti e capaci. Quel tempo, però, era ancora lontano e i pensieri del commendatore si spostarono nuovamente nella sede del Banco: dove stavano accadendo cose di una tale gravità, da far sembrare giochi di bambini le speculazioni in Borsa e i prestiti ai defunti. Da un mese, forse addirittura da due mesi, nella zecca del Banco di Sicilia si stampavano banconote con numeri di serie già circolanti, all’insaputa di tutti: soldi falsi! E quei soldi che non avrebbero dovuto esistere, quei soldi maledetti che creavano plebi affamate, miseria, emigrazione all’estero, servivano ai signori della politica, lassù a Roma, per pagare le cambiali di centinaia di migliaia di lire delle loro campagne elettorali e di quelle dei loro amici: le cambiali della vergogna e dello scandalo della Banca Romana, di cui parlavano tutte le prime pagine dei giornali, e per cui già c’erano stati arresti e suicidi… Ora che lo scandalo, finalmente, era scoppiato, qualcuno a Palermo si stava dando da fare per coprire tutto e per pagare tutti con i soldi falsi del Banco di Sicilia: ma lui, Notarbartolo, non lo avrebbe permesso!
Si raddrizzò sul sedile. Guardò il buio fuori dal finestrino e vide riflessa nel vetro l’immagine di un uomo che lì per lì stentò a riconoscere: un uomo accigliato, con gli occhi che sembravano minacciare chi lo guardava e una ruga profonda che gli attraversava la fronte. Si domandò: sono così brutto quando mi arrabbio? E subito i lineamenti dell’uomo si spianarono, la sua immagine si mosse e si scompose fino ad accennare un sorriso. Il commendator Notarbartolo si era ricordato di ciò che gli diceva suo figlio Leopoldi da bambino, quando lui lo sgridava: «Papà, non arrabbiarti che diventi brutto!» Si passò una mano sulla guancia ispida. Da buon siciliano, pensò che quelle sole, in definitiva, erano le cose importanti della vita: la famiglia, i figli…
A poco a poco, e senza quasi che lui se ne fosse reso conto, il buio fuori dei finestrini si era venuto riempiendo di luci e il treno si era riempito di rumori. Una voce aveva gridato di vagone in vagone: «Termini Imerese!, Termini Imerese!», e poi si erano visti i fanali della stazione, e la tettoia di ferro, e le réclames del dentifricio Kalodont (“articolo mondiale”) e della Catramina Bertelli, con l’aquila che stringeva tra gli artigli la scatola delle pastiglie. Nella stazione di Termini, di solito, la sosta durava non meno di venti minuti perché i ferrovieri dovevano unire i due treni per Palermo, quello che veniva da Catania e quello che veniva da Messina, e c’erano i venditori sui marciapiedi che offrivano le loro mercanzie con grida lunghe e cadenzate come lamenti: acqua e limone, lupini, frittelle calde di farina di ceci…
Il commendator Notarbartolo si alzò, mosse qualche passo nello scompartimento per sgranchirsi le gambe. Guardò fuori dal finestrino e si sorprese di vedere, fermo sulla banchina, quello stesso controllore che a Cerda aveva dirottato l’uomo con gli occhiali verso un’altra parte del treno: stava là, con in mano la lanterna delle segnalazioni, e sembrava che montasse la guardia alla carrozza di prima classe. Notarbartolo abbassò il finestrino. Disse: «Ehi, voi!»
Il controllore si voltò. Era un uomo sui trentacinque anni, magro e basso di statura, con due baffetti sottili e un’espressione del viso tra losca e stupita, come di chi sia stato sorpreso a fare qualcosa che non avrebbe dovuto fare. Guardò il viaggiatore che l’aveva chiamato e poi guardò dietro di sé, verso la stazione, per sincerarsi che quello non stesse parlando con un’altra persona.
«Con quanto ritardo arriveremo a Palermo?», chiese Notarbartolo.
L’uomo in divisa sembrava impaurito. Cercò nel taschino l’orologio: lo fissò a lungo, come se avesse difficoltà a leggere le ore.
«Partiremo tra dieci minuti, - disse infine, senza guardare in viso il destinatario dell’informazione. – Saremo a Palermo verso le sette». Il commendatore avrebbe voluto chiedergli ancora qualcosa, circa quel tale che era salito a Cerda; ma si sentì il fischio della locomotiva che agganciava le carrozze provenienti da Messina e l’intero convoglio sussultò, si spostò in avanti d’alcuni metri. Una voce da sotto la tettoia, forse d’un facchino, intonò uno stornello che s’impose con la sua melodia sull’ansimare della locomotiva e sugli altri rumori della stazione ferroviaria. Le parole dicevano:
Amuri, amuri, amuri,
amuri amaru!
L’amuri s’assumigghia a lu citrolu:
na punta è duci e l’autra punta è amara!
Dall’altra parte dello scalo, da un binario dove sostava nel buio un treno merci, un’altra voce altrettanto melodiosa rispose alla prima:
Amuri, amuri, amuri,
amuri è focu!
Amuri è dinta e nun vi n’addunati:
l uvuliti cacciari e nun putiti!
Notarbartolo richiuse il finestrino, tornò a sedersi al suo posto. Chissà, gli venne fatto di domandarsi, se ci sono altri paesi al mondo dove gli uomini cantano così, senza una ragione apparente, al modo stesso degli uccelli: per dare sfogo e voce a ciò che hanno dentro! E pensò che la “sua” Sicilia era un paradiso, dove la gente avrebbe potuto vivere felice se non ci fosse stato acquattato da qualche parte, tra i mentastri e le salvie, un serpente velenosissimo: forse, quello stesso serpente di cui si parla nella Genesi, che tentò i progenitori…
Tornò a guardare l’orologio. Quel viaggio aveva incominciato a innervosirlo, e si domandò che cosa aspettasse il capostazione a fischiare la partenza, ora che le carrozze da Messina erano state attaccate: perché non si cercava almeno di recuperare un poco del ritardo accumulato fino a quel momento? Attraverso il vetro, vide che il ferroviere era rimasto fermo sotto la tettoia e che stava parlando con un altro uomo: un frenatore, con il berretto azzurro da operaio delle ferrovie e due grandi baffi a manubrio. L’operaio indicava qualcosa in direzione delle sale d’aspetto e il controllore, a giudicare dai gesti, gli stava dicendo di avere pazienza: bisognava aspettare… Poi tutt’e due si voltarono verso la carrozza di prima classe, e soltanto quando si accorsero di essere a loro volta osservati fecero finta di guardare gli uomini del servizio postale, che passavano di lì proprio in quel momento. Cosa stava succedendo? Una percezione improvvisa e acuta di pericolo attraversò come un lampo la mente del commendator Notarbartolo: ma non c’era nessun pericolo lì attorno, c’erano soltanto le grida cadenzate dei venditori di lupini e di frittelle, la monotonia della pioggia, le réclames, i fanali a gas… Quando la campanella che annunciava la partenza dei treni incominciò a suonare, il capostazione uscì dal suo ufficio sotto la tettoia e si diresse verso la locomotiva. Sbuffando come sempre, il treno si mosse; allora dalla sala d’aspetto di prima classe vennero fuori due uomini vestiti di scuro con i cappelli rigidi calcati fin sopra le orecchie, e Notarbartolo capì che erano i suoi assassini. Li guardò con gli occhi dilatati dal terrore mentre si dirigevano verso il treno che gli sfilava davanti, affrettando il passo ma senza correre; vide il controllore che gli indicava uno scompartimento: il suo scompartimento!, e poi anche vide lo sportello che si apriva e i due uomini che entravano nella luce azzurrata. Uno dei due, l’uomo più grasso con la faccia deturpata dal vaiolo, si buttò a sedere sul divano di fronte a lui e lo guardò come se avesse voluto valutare la resistenza che gli avrebbe opposto all’atto d’essere scannato. L’altro uomo, invece, quello con la faccia larga e gli occhi incavati, dopo aver chiuso lo sportello restò in piedi davanti al finestrino e gli voltò le spalle, mentre il treno sferragliava nell’intrico di scambi e di binari lucidi di pioggia e superava uno dopo l’altro gli ultimi fanali a gas dello scambio ferroviario, avviandosi, senza possibilità di ritorno, verso il buio della notte e dell’aperta campagna…
Notarbartolo era solo e disperato, come ogni uomo è solo e disperato di fronte alla morte. Gridare non gli sarebbe servito a niente, perché se anche gli altri viaggiatori l’avessero sentito non avrebbero potuto aiutarlo: la carrozza in cui si trovava, infatti, era composta da tre grandi scompartimenti isolati l’uno dall’altro e accessibili soltanto dall’esterno del treno. Se il fucile non fosse stato scarico, pensò, quella sua ultima partita col destino non sarebbe stata così disuguale! Ma il fucile era lassù nella reticella, del tutto inoffensivo, e non c’era tempo né modo di ricaricarlo. Si poteva solo cercare di prenderlo per la canna, per usarlo come si usa un bastone…
La locomotiva, ormai, aveva acquistato velocità. Subito dopo il ponte sul fiume San Leonardo c’è una galleria e il treno per Palermo ci si buttò a capofitto, fischiando come un demonio e riempiendola di vapore. Allora l’uomo che fino a quel momento era rimasto in piedi davanti al finestrino si voltò, fece cenno all’altro che tirò fuori dalla giacca un feddapani (coltello per affettare il pane) con la lama seghettata e lunga più di venti centimetri. Notarbartolo si slanciò verso il portabagagli per prendere il fucile e quel gesto probabilmente gli costò la vita, perché la prima coltellata lo raggiunse all’addome mentre ancora aveva tutt’e due le braccia sollevate sopra la testa; s’aggrappò alla reticella, che si ruppe, e crollò in avanti. Con la forza della disperazione cercò di raggiungere lo sportello dello scompartimento per aprirlo e buttarsi fuori: ma fu trattenuto per le braccia e costretto a rialzarsi mentre le sue grida si perdevano nel rimbombo del treno sotto la galleria e mentre l’uomo con la faccia rovinata dal vaiolo continuava a estrarre e ad affondare il coltello, nella luce azzurra dello scompartimento.
Come in sogno, Notarbartolo vide il feddapani che usciva insanguinato dal suo corpo almeno tre volte: poi gli sembrò che lo scompartimento, e il treno, e il mondo intero fossero investiti da un’esplosione di luce; le sue gambe si piegarono, i suoi occhi si rovesciarono e non videro più niente. Restò incastrato, tra i sedili, a sussultare e a segnare con le unghie il velluto dei cuscini, cercando ancora disperatamente d’aggrapparsi alla vita. Ancora l’altro uomo, che fino a quel momento si era limitato ad aiutare l’assassino immobilizzando la vittima, tirò fuori dalla tasca della giacca un coltello a serramanico, lo aprì e colpì tre volte il moribondo nella schiena dalla parte del cuore; poi lo raddrizzò e con un ultimo colpo, che fece schizzare molto sangue tutt’attorno, gli tagliò la gola. Soltanto quando fu assolutamente certo che nel corpo che aveva davanti non c’era più nemmeno un soffio di vita, don Piddu facci di lignu: tali erano il nome e il soprannome di quell’uomo feroce, si decise a pulire la mano insanguinata sulla giacca della vittima, e a intascare il coltello dopo averlo richiuso.
Uscendo dalla galleria, il treno rallentò e imboccò gli scambi per entrare nella stazione di Trabia. Don Piddu fece cenno all’uomo butterato di sollevare il cadavere del commendator Notarbartolo e di sistemarlo in un angolo del sedile, coprendolo col suo stesso soprabito come se stesse dormendo. Andò poi a mettersi davanti allo sportello, casomai a qualche incauto viaggiatore fosse venuto in mente di salire proprio in quello scompartimento; ma quando il treno fu fermo, sul marciapiedi deserto e lucido di pioggia si videro soltanto il capostazione e il controllore che dopo avere gridato due volte «Trabia!, Trabia!», passò davanti alla carrozza di prima classe guardando don Piddu in un certo modo, che significava: è andato tutto bene? L’avete ammazzato?
Don Piddu fece un cenno impercettibile della testa, abbassò le palpebre e il ferroviere allora gli mostrò la mano sinistra stretta a pugno con il pollice alzato in segno di vittoria: ce l’abbiamo fatta!
Ancora una volta la locomotiva fischiò, il treno ripartì. Facci di lignu si allontanò dal finestrino, mentre all’interno dello scompartimento il suo aiutante gli stava chiedendo: «Don Piddu, e adesso che cosa facciamo?»
Senza muovere un solo muscolo del viso, si piegò sul defunto: gli tolse una crocettina d’oro che portava al collo, gli tirò fuori il portafogli dalla tasca interna della giacca e gli prese anche l’orologio, strappando la catenina d’argento per rendere più verosimile l’ipotesi di una rapina. Poi guardò con commiserazione l’uomo che aveva parlato, tali Peppi Lauriano: un malacarne che con quell’omicidio d’una persona importante aveva firmato la sua stessa condanna a morte, ed era così minchione da non rendersene nemmeno conto! Gli rispose con una frase in dialetto, che si diceva e si dice tuttora a quelli che fanno domande stupide: «Facemu iddu chi ficiru l’antichi, ca si livaru li panzi e si misiru li viddichi» («Facciamo quello che fecero gli antichi, che si tolsero le pance e si misero gli ombelichi»). S’avvicinò allo sportello, lo aprì con qualche cautela perché il treno tra una stazione e l’altra raggiungeva il massimo della sua velocità e c’era il rischio d’esserne sbalzati fuori. Una folata di vapore misto a pioggia riempì lo scompartimento, ma Facci di lignu non si scompose: con un gesto, fece segno all’altro di aiutarlo, e di fare tutto ciò che faceva lui. Allora i due uomini vestiti di scuro presero il cadavere per le braccia: lo sollevarono e lo portarono così ritto fino all’ingresso dello scompartimento, mentre il treno, correndo nella notte, passava davanti a un casello illuminato e una donna con in testa il berretto da ferroviere alzava tutt’e due le mani verso il viso, in atto di urlare; gli diedero una spinta da dietro, anzi a dire il vero gliela diede solo don Piddu, e lo mandarono a rotolare giù per una breve scarpata, mentre già si vedevano in lontananza le luci della stazione di Altavilla.
Quando finalmente riuscì a chiudere lo sportello dello scompartimento, don Piddu imprecò contro Peppi Lauriano: «Chi mi stocchi!» («Ti venisse un accidente», o qualcosa del genere). Gli gridò: «Si può sapere che ti è preso? Ho dovuto fare tutto da solo, e siamo quasi arrivati in stazione!» Ma Lauriano era spaventato. Balbettò: «La donna… la donna del casello… ha visto il morto, e ha visto noi che lo spingevamo giù dal treno! Dobbiamo tornare ad ammazzarla!»
Facci di lignu si chinò e raccolse il fucile del defunto, che, nel trambusto, era finito sotto un sedile. Si mise a posto il cappello e si preparò a scendere, specchiandosi in quello stesso finestrino dove un’ora prima s’era specchiata anche la sua vittima. «Quella donna, - rispose tranquillo, - non ha visto niente».