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«Se volevate farmi colpo, state riuscendoci molto bene» mi disse Cora Ballard.

L’avevo portata a pranzo al ”Rustermann”, dove c’è sempre un tavolo pronto per me, e i camerieri mi conoscono personalmente. Come sempre, il locale trasudava classe da tutti i muri.

Io sono favorevolissimo alla regola di Wolfe di non parlare d’affari durante i pasti, ma poiché la mia dama doveva abbandonarmi alle due e mezzo, per un appuntamento importantissimo, apersi il fuoco non appena ci servirono il cocktail, osservando che lei doveva essere molto ben informata su tutti gli scrittori, appartenenti all’ANSED e no. La Ballard fece la modesta. No, no, molti abitavano in altri Stati, e non partecipavano comunque alla vita del mondo editoriale. Non potevo crederci, dichiarai. Perché non fare la prova? Che cosa sapeva di Alice Porter, ad esempio? Be’, sì, quella la conosceva discretamente, ammise Cora Ballard: la Porter aveva partecipato a molte riunioni dell’ANSED, specialmente da quando avevano pubblicato il suo libro.

 

Quando attaccammo i timballi al prosciutto, ormai avevo creato l’atmosfera adatta, e le spiegai che cosa cercavo. Avevamo motivo di credere, dissi, che Alice Porter avesse affidato a qualcuno un documento. Gl’iscritti all’ANSED forse potevano depositare documenti, presso la sede dell’associazione? E, in caso contrario, dove si poteva pensare che Alice Porter avesse lasciato un documento importante... ad esempio, una busta da aprire dopo la sua morte?

Cora Ballard si fermò con la forchetta a mezz’aria.

«Capisco... È un’idea molto astuta...» mormorò. «Che cosa c’è, nella busta?»

«Non lo so. Non so nemmeno se esiste la busta. Gl’investigatori trascorrono buona parte del loro tempo, cercando cose che non esistono. Il signor Wolfe pensava che potesse averla affidata a voi.»

«Impossibile. Se cominciassimo a fare simili favori agli iscritti, dovremmo affittare un magazzino blindato. Ma forse ho un’idea. Vediamo... Alice Porter...»

 

Pian piano, l’idea si moltiplicò per sei.

 

1) La cassetta di sicurezza, se Alice Porter ne aveva una.
2) Arnold Green, della Best &Green. Era uno dei pochi editori che facevano piaceri agli scrittori, anche a quelli che scrivevano libri bidone.
3) I genitori di Alice Porter, che vivevano nell’Ovest, sulla costa. Nell’Oregon, le sembrava.
4) Il suo agente, se l’aveva ancora. Subito dopo la pubblicazione della «Falena», l’aveva rappresentata Lyle Bascomb, ma poteva darsi che l’avesse lasciata perdere, in seguito.
5) La direttrice della Collander House, la casa albergo per sole signore con quattrini limitati, dove Alice Porter aveva vissuto per alcuni anni. La direttrice era una certa Garvin. Una ragazza dell’ANSED abitava attualmente da lei, e sosteneva che era una donna di cui ci si poteva fidare al duecento per cento.
6) L’avvocato che l’aveva assistita durante la causa per plagio contro Ellen Sturdevant. Cora Ballard non ricordava il nome, ma io sì.

 

Nel corso degli anni sono andato spesso a caccia di ombre, ma di ombre vaghe come quelle, mai. Pensate che bello: girare chiedendo a una turba di sconosciuti informazioni su una cosa che forse non esisteva. E poi, se anche fosse esistita, poteva darsi che quelli non l’avessero mai sentita nominare, e se anche uno di loro l’avesse sentita nominare, perché sarebbe venuto a dirlo proprio a me? Comunque, trascorsi cinque ore, dedicandomi intensamente all’impresa.

 

Abbordai, per primo, Lyle Bascomb, perché il suo ufficio era relativamente vicino al «Rustermann». Era fuori, quando arrivai nel suo ufficio, ma doveva rientrare da un momento all’altro, mi dissero. E aspettai cinquantun minuti. Bascomb arrivò alle tre e trentatré, e dovette concentrarsi per ricordarsi chi fosse Alice Porter. Oh, sì, quella là. Aveva cominciato a rappresentarla dopo la pubblicazione del suo libro, ma l’aveva lasciata cadere, in seguito alla causa per plagio. Intuii, dal suo tono, che chiunque avesse a che fare coi plagi, per lui, era la controfigura di Caino.

Nello studio dell’avvocato feci anticamera solo per mezz’ora, il che era già un progresso. Dopo di che, l’avvocato mi disse che sarebbe stato ben lieto di rendersi utile. Quando un legale vi dice così, significa che sarà ben lieto di estirparvi tutte le informazioni che possono tornargli utili, facendo bene attenzione, nel contempo, a evitare di affaticarvi con il peso di eventuali informazioni che non possediate già. Quello non acconsentì nemmeno a riconoscere di aver sentito nominare una certa Alice Porter, finché non gli dissi di aver letto tre lettere firmate da lui, in cui definiva la signorina sua cliente. Allora, riuscii a strappargli la notizia che erano in contatto da un certo tempo. Due anni? Tre? Il signor avvocato non poteva dirlo, di preciso: certo, un periodo piuttosto lungo.

Erano le cinque, quando arrivai alla Best & Green, quindi era molto dubbio se ce l’avrei fatta ad acchiappare il signor Green, ma ci riuscii. La telefonista dell’atrio sospese l’operazione rossetto quanto bastava per dirmi che il signor Green era in conferenza, e stavo per domandarle quanto ci sarebbe rimasto, quando una porta si aprì e ne uscì un tizio. La ragazza lo chiamò: «C’è un signore che vi cerca, signor Green» e lui rispose: «Devo prendere il treno» e schizzò verso la porta. Ma sbagliò mira, e imboccò il mio plesso solare. Così, come dicevo, lo acchiappai. Altrimenti cadeva.

Metà delle idee di Cora Ballard le avevo vagliate senza successo. Delle rimanenti, due non promettevano gran che. C’erano centinaia di banche a New York, e io non possedevo le chiavi di tutte le cassette di sicurezza, e, a parte questo, l’orario di chiusura era passato. L’idea di prendere un aereo e di volare nell’Oregon, a caccia dei genitori Porter, mi pareva lievemente eccessiva, così catturai un taxi e mi feci portare alla Collander House.

Tutto sommato, per essere una casa albergo delle più economiche, si sarebbe potuta presentare peggio. Mi ricevette una ragazza carina, in un ufficetto con una finestra e un vaso di margherite, e mi spedì ad aspettare in un salotto con due finestre e due vasi di margherite... e dovetti fare anticamera per mezz’ora abbondante. Quando, finalmente, la signora Garvin apparve, mi bastò uno sguardo ai suoi occhi grigi e penetranti, per capire che, effettivamente, ci si poteva fidare di lei. Ò, almeno, le sue pensionanti potevano. La signora si ricordava di Alice Porter: aveva abitato là, dall’agosto del cinquantuno al maggio del cinquantasei. Ricordava anche le date, perché aveva dovuto ripescarle per un poliziotto, la settimana prima, e per una signorina che era venuta a domandarle qualcosa in proposito, quella mattina stessa. Non vedeva Alice Porter da tre anni e non teneva nulla in deposito, per lei. Nemmeno una cosa da niente, che so io, una busta? No. Il che, naturalmente, non significava nulla. La signora Garvin era una donna molto occupata, e a dire di no faceva più in fretta, che non a spiegarmi che la cosa non mi riguardava, per poi sentirmi protestare che invece sì. Una bugia non è una bugia, se è detta in risposta a una domanda che non hanno il diritto di farci.

Uno schifo di pomeriggio, tutto sommato. E l’immediato futuro era cupo come l’immediato passato. Un altro pasto orfano di carne per Wolfe, dopo un interminabile pomeriggio vedovo di birra. Disperazione e malinconia. Mi venne la tentazione di andare alla tavola calda di Bert, all’angolo, e di cenare con un paio di polpette, chiacchierando del più e del meno, ma poi pensai che era ingiusto privare il mio afflitto signore del conforto morale di avere un pubblico, e salii i gradini d’ingresso. Apersi la porta e mi fermai di botto, con un piede dentro e uno fuori, e gli occhi grandi come uova al burro. Wolfe stava sbucando dalla cucina con un vassoio carico di bicchieri, e si dirigeva verso l’ufficio. Riportai in casa anche l’altro piede, chiusi la porta e mi feci avanti.

Dalla soglia dell’ufficio, contemplai la scena. Una poltrona gialla era a un capo della mia scrivania. Altre sei, in due file, erano allineate davanti alla scrivania di Wolfe e altre cinque erano raggruppate intorno al mappamondo. Il tavolo in fondo alla stanza era coperto di una tovaglia gialla e carico di bottiglie assortite. Wolfe era intento a disporre i bicchieri sul tavolo.

Ritrovai la voce.

«Posso aiutarvi?»

«No. È già fatto.»

«Una grossa riunione, a quanto pare.»

«Sì, alle nove precise.»

«Gli ospiti sono stati invitati?»

«Sì.»

«E io? Sono invitato?»

«Stavo domandandomi dove potevate essere.»

«Al lavoro. Ma niente busta. Fritz è paralizzato?»

«No, sta cuocendo una bistecca.»

«Non me lo dite! Allora è una riunione per festeggiare qualcosa?»

«No. Anticipo gli eventi di qualche ora. Mi aspetta un compito faticoso e non mi sento di affrontarlo a stomaco vuoto.»

«E a me, niente bistecca?»

«Sì. Fritz ne sta cuocendo due.»

«Allora vado a farmi bello.»

E partii come il vento.

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