14

Restammo più o meno in conferenza per tutto il resto della giornata, col solo intervallo dei pasti. I quali pasti furono desolanti. I piccioncini in salsa di crema sono uno dei piatti preferiti da Wolfe. Di solito, ne mangia tre, e l’ho visto arrivare agevolmente a quattro. Quel giorno, io volevo pranzare in cucina, ma no, lui non volle. Dovetti ingollare i miei due piatti abbondanti al suo cospetto, mentre si gingillava con i piselli, l’insalata verde e il formaggio. Uno strazio. E la sera fu peggio. Più tardi, in ufficio, sgranocchiò una coppa di noccioline, poi andò personalmente a prendere una spazzola e una paletta per pulire la scrivania e il tappeto. Stava rigirandosi il coltello nella piaga.

Nello stato in cui era, il capo sarebbe stato disposto a tentare le più pedestri vie della normale amministrazione, perfino quelle già battute dal poliziotto. Le discutemmo tutte e ne facemmo un elenco. Erano diciannove, una più arida e banale dell’altra. E per ogni voce della lista, avevo potuto aggiungere due o tre codicilli di impedimenti e difficoltà varie. Una vera pacchia.

Il guaio più grosso era il movente. Nei delitti come si deve, si restringe il campo alle persone che hanno un movente, e si comincia di lì. Nel nostro caso il movente era stato palese fin dall’inizio; ma c’era un guaio: chi l’aveva fatto suo in particolare? Così com’era, si adattava, diciamo, a cinque milioni di cittadini dell’area metropolitana. L’unico punto focale della faccenda era Alice Porter. La quale, tra parentesi, la domenica a mezzanotte era ancora viva. Ci diede la lieta novella Orrie Cather, poco prima che andassimo a letto, alle dodici e ventitré, precisando che la Porter aveva spento tutte le luci alle dieci e cinquantadue, e che Saul Panzer si era presentato puntualmente per dargli il cambio.

In cucina, alle nove meno un quarto, mentre mi versavo la terza tazza di caffè, Fritz mi domandò perché mai ero tanto nervoso. Io risposi che non ero nervoso. Lui replicò che certo ero nervoso: negli ultimi dieci minuti avevo trasalito continuamente, e poi avevo preso una tazza di caffè in più. Io dissi che in quella maledetta casa avevano tutti troppo spirito d’osservazione. Fritz ribatté: «Lo vedete che siete nervoso?» e io presi la tazzina e me la portai in ufficio.

Ero effettivamente nervoso. Fred Durkin aveva telefonato alle sette e trentanove, per annunziare che andava a dare il cambio a Saul, e che Dol Bonner era con lui. Ora Saul avrebbe dovuto telefonare verso le otto, al massimo alle otto e mezzo, per farci il suo rapporto. Alle otto e tre quarti, ancora silenzio. Se si fosse trattato di Orrie e di Fred, avrei pensato a un contrattempo o a un guasto alla macchina, ma Saul non ha mai avuto contrattempi o guasti, in vita sua. Alle nove, ero ormai convinto che fosse successo qualcosa di orrendo. Alle nove e un quarto ero sicuro che Alice Porter fosse morta. Alle nove e venti ero convinto che fosse morto anche Saul. Quando il telefono squillò, alle nove e venticinque, afferrai il ricevitore e ululai:

«E allora?» Il che non è precisamente il modo di rispondere al telefono.

«Archie?»

«Sì.»

«Qui Saul. Qui siamo finiti in un caravanserraglio.»

Ero così sollevato che gli mandai un sorriso per telefono.

«Ma no! Sei stato morsicato da un leone?»

«No, sono stato morsicato da un vicesceriffo e da un agente di polizia. Fred non è venuto all’appuntamento, e allora, alle otto e un quarto, sono andato a vedere che cosa succedeva, dove avevo parcheggiato la macchina. Fred era là che rifiutava di rispondere alle domande di un vicesceriffo della contea di Putnam. Poco lontano, c’era un tuo vecchio amico, il sergente Purley Stebbins.»

«Ah! Oh!»

«Già. Stebbins ha detto al vicesceriffo che ero un altro agente di Nero Wolfe! Non ha detto altro che questo, per tutto il tempo. Del resto, ha lasciato fare al vicesceriffo, che ha parlato fino a seccarsi la gola. Evidentemente, Fred aveva mostrato la patente, poi aveva chiuso il becco. A me, è parso un atteggiamento un po’ esagerato, specialmente data la presenta di Stebbins, e ho fornito qualche particolare indispensabile, ma non è servito a nulla. Il vicesceriffo ci ha arrestati tutti e due per violazione di domicilio, cioè per essere entrati abusivamente in un terreno privato e poi, ripensandoci, ha aggiunto disturbo della pubblica quiete. Ha parlato nel microfono della sua autoradio, e poco dopo è arrivato quello della statale. Sulla strada di terra battuta, ostacolavamo il traffico. Così ci hanno portati a Carmel e siamo trattenuti in stato di fermo. Ufficialmente, sto telefonando al mio avvocato. A quanto pare, il vicesceriffo intende vagabondare personalmente intorno a casa Porter, e il sergente Stebbins vuoi fare altrettanto. Lungo la via di Carmel, ci siamo fermati un momento sulla strada asfaltata. Dietro Dol Bonner, sul ciglio della strada, era ferma un’altra macchina della polizia statale. Dol e un agente stavano chiacchierando a tutt’andare. Dol, prima, aveva nascosto l’auto in un boschetto; avranno pizzicato anche lei con la scusa del terreno privato. Se l’hanno poi tradotta a Carmel, io non l’ho vista. Ti parlo da una cabina dell’ufficio dello sceriffo. Il numero dello sceriffo è: Carmel cinquetrequattroseisei.»

Quando Saul fa un rapporto, non lascia mai lacune che richiedano domande. Così mi informai soltanto:

«Hai fatto colazione?»

«Non ancora. Prima volevo parlarti. Vado a mangiare adesso.»

«Mangia più carne che puoi. Noi cercheremo di farti rimettere in libertà per la Festa dell’Indipendenza. Tra parentesi, hai visto Alice Porter prima di essere rapito?»

«Sì, stava regolando l’erba del giardino.»

Attaccai il ricevitore e rimasi un paio di minuti a meditare. Poi salii di corsa tre piani di scale ed entrai nella serra. Fra me e il mio signore c’erano diecimila piante di orchidee, quasi tutte in fiore: uno spettacolo da abbagliare chiunque, persino chi, come me, lo sapeva a memoria. Ma io continuai a procedere di buon passo attraversando la stanza a temperatura moderata, la stanza tropicale, la stanza fresca, finché raggiunsi la stanza dei trapianti. Theodore, il balio delle orchidee, era all’acquaio, a lavare vasi. Wolfe stata introducendo del concime a base di torba, nelle fiasche. Quando udì il mio passo, si voltò, stringendo le labbra e alzando il mento. Sapeva che non avrei salito tre rampe di scale per una barzelletta.

«Calmatevi» dissi. «È ancora viva, o almeno, lo era, due ore fa. E falciava il praticello. Ma Saul e Fred sono in gattabuia, e Dol Bonner si abbandona a illeciti amori con un agente della polizia statale.»

Wolfe si voltò a deporre la fiasca sul bancone e ordinò:

«Continuate.»

Eseguii, ripetendogli, parola per parola, quel che Saul e io ci eravamo detti. Il suo mento ritornò al suo posto, ma le labbra rimasero strette e tirate. Quando ebbi terminato, Wolfe domandò, gelido:

«Dunque, considerate la mia rinunzia alla carne un motivo di ilarità?»

«Nossignore, sfogavo la mia amarezza.»

«Vi conosco.» Una pausa. «Quel vicesceriffo, probabilmente, è un somaro. Avete telefonato all’avvocato Parker?»

«Nossignore.»

«Chiamatelo immediatamente. Ditegli che faccia ritirare quelle denunzie assurde. Se gli è impossibile, che provveda a far scarcerare tutti, dietro cauzione. E telefonate al signor Ballard, o al signor Tabb che presenzierò a quella riunione, alle due e mezzo.»

Strabuzzai gli occhi.

«Che?»

«Devo ripetermi?»

«No, no. Uhm... Verrò con voi?»

«Certo.»

Scesi le scale facendo gli scongiuri.

^