provare
a
controllarlo, ma non ne era in grado.
Eric era un drow, lei una cacciatrice.
Il significato e le implicazioni di quella
semplice
parola
iniziarono
a
materializzarsi davanti ai suoi occhi.
Quale sarebbe stato il futuro per
loro? Se ciò che suo padre diceva era
vero, i loro destini si sarebbero potuti
unire solo per generare odio, per
scontrarsi e farsi a pezzi. Sarebbero stati
destinati ad amarsi come il sole e la
luna: di nascosto, senza mai toccarsi, nei
loro pensieri. Morendo ogni giorno,
lentamente.
Era solo questione di tempo.
Il rumore della pioggia battente era
sfumato via, senza che nessuno nella
stanza
vi
prestasse
attenzione;
all'orizzonte s’intravedevano i raggi
ramati del sole che illuminavano il
cielo, a cui il vento aveva restituito
limpidezza, spazzando via le nuvole.
Haufmann aveva fatto cenno a Jimmy
di uscire dalla stanza. Riteneva giusto
che padre e figlia potessero avere un
momento per loro, per schiarirsi le idee,
anche se il professore sapeva che a
Sophie sarebbe servito del tempo, per
assimilare tutti i cambiamenti di quella
vita che ora sembrava non appartenerle
più.
All’esterno
della
stanza
Jimmy
rifletteva in silenzio.
Sophie, una cacciatrice?
Stentava a credere che Luther avesse
sempre saputo tutto di lui e degli elfi. In
qualche modo, essere stato tenuto
all’oscuro dell’esistenza dei drow e dei
cacciatori, gli faceva sentire di essere
stato ingannato.
Haufmann fissò nervoso le lancette
dell’orologio. I suoi timori di perdere i
fuggitivi
si
concretizzavano
ogni
secondo che passava.
Dopo mezz’ora rientrarono nella Sala
Consiglio. Sophie era seduta e sembrava
essersi finalmente calmata, colta anche
dall’improvvisa stanchezza per gli
eventi della giornata.
Haufmann si rivolse a Luther con
preoccupazione.
«Il nostro piano non ha funzionato.
Hai sentito la notizia al telegiornale?»
«Sì, è colpa mia, e me ne assumo
tutte le responsabilità. Ho sottovalutato
Kaine, due cacciatori non erano
sufficienti.
Quell’essere,
anche
se
disarmato, è più pericoloso di quanto
sembri.»
Essere? pensò Sophie. Dunque era
quella la sua visione degli elfi oscuri.
Avrebbe guardato così anche Eric?
A Jimmy ci volle meno di un secondo
per ricollegare gli eventi della sera
precedente e capire di essere stato
l'ignaro spettatore di due omicidi, di
fronte ai quali Eric non aveva né fatto,
né detto nulla. Forse aveva davvero
ragione il professor Haufmann: quella
era la vera natura di Eric e nulla
avrebbe mai potuto cambiarla, nemmeno
essere stato cresciuto dagli umani.
Nemmeno
Sophie.
Rimase
ancora
qualche istante a riflettere su quello che
aveva sentito. Ciò che non gli tornava
era il piano di cui aveva appena parlato
Haufmann.
«Di
che
piano
sta
parlando,
professore?» si affrettò a chiedere.
In condizioni normali Haufmann non
si sarebbe degnato di rispondergli, ma,
come aveva fatto poco prima nello
studio, si rese conto di dovergli dare
spiegazioni, se voleva tenerlo dalla sua
parte. Sperava in questo modo di
ottenere qualche indizio su Eric e Kaine,
dato che Jimmy era l'ultima persona ad
averli visti ed era l'unico, insieme a
Sophie, a conoscere il luogo da dove
poter far ripartire le ricerche.
«Quando tu ed Eric siete venuti da
me e mi avete mostrato il biglietto,
avevo intuito che Eric era il figlio di
Logan. Sapevo che Kaine era fuggito e,
dalle
registrazioni
della
prigione,
sapevo che era alla ricerca di Eric.» Per
un’istante gli tornarono alla mente le
immagini del video che il sottotenente
Stevens aveva mostrato, prima a Luther
e poi a lui. “Troverai mio figlio” era
stato il labiale che erano riusciti a
decifrare. «Per questo motivo ho fatto
seguire Eric da due drowhunter:
volevamo che ci portasse da Kaine. Il
nostro obiettivo era catturarli entrambi,
ma le cose non sono andate come
avevamo previsto.»
Le tessere del puzzle nella mente di
Jimmy adesso s’incastravano tutte alla
perfezione: avevano usato Eric come
esca per arrivare a Kaine e lui si era
trovato casualmente in mezzo ai pesci
che dovevano abboccare.
Haufmann si rivolse di nuovo a
Luther.
«Capitano Evans, adesso che Kaine
ed Eric sono insieme rappresentano
entrambi una minaccia. Per questo vanno
catturati al più presto. È il momento di
far uscire tutti i cacciatori perché inizino
la ricerca. Partiremo dal luogo in cui
hanno lasciato Jimmy tramortito.»
Jimmy rimase per un attimo interdetto
da come Haufmann aveva chiamato
Luther, poi ricordò che sin da bambina
Sophie aveva sempre usato il cognome
della madre. Era un modo per sentirla
più vicina, visto che era sempre lontana
da casa.
L u t h e r annuì
agli
ordini
del
comandante.
«Do
l’ordine
immediatamente» disse.
Sophi e sbatté i pugni sul tavolo.
«Volete dare la caccia a Eric?»
domandò incredula. «Non penserete
seriamente che sia una minaccia? Non
farebbe mai del male a nessuno. Vi state
sbagliando!»
«Non credere di conoscerlo così
bene» disse Jimmy ripensando alle lotte
clandestine in cui lo aveva visto
combattere e di cui Sophie era ancora
ignara. «Non puoi fidarti ciecamente di
lui.»
Sophie si sentì pugnalata alla schiena
da quelle parole. Lo scrutò, pronta a
esplodere tutta la sua rabbia.
«Hai ragione» gli urlò in volto. Dal
suo sguardo traspariva tutto l'astio di
quel momento, un sentimento che non
aveva mai nemmeno pensato di provare
nei
confronti
di
Jimmy.
«Come
evidentemente non conosco te, che mi
hai mentito per tutti questi anni...»
Jimmy vacillò, come un pugile
appena colpito al volto.
«Sophie...» la sua voce si udì a
stento,
soffocata
dalla
reazione
veemente di Sophie.
«Come puoi pretendere di giudicare
una persona e pensare che io possa
crederti, quando la tua intera vita è una
menzogna? Quando mi hai tradito ogni
singolo giorno della tua vita, prendendo
in giro prima me e poi la nostra
amicizia...»
Si alzò in piedi infuriata. Le poche
parole pronunciate da Jimmy contro Eric
avevano fatto esplodere l’ordigno dei
sentimenti, che fino ad allora era riuscita
a tenere sotto controllo. La persona con
cui si era più aperta in tutta la sua vita,
in realtà le aveva sempre mentito. Non
riusciva a sopportarlo. Jimmy aveva
appena perso la sua fiducia e, con essa,
il suo cuore.
Si avvicinò a lui in preda all'ira, lo
guardò dritto negli occhi e, con le
lacrime che le rigavano il viso, scandì
con la poca voce che le era rimasta:
«Non voglio vederti mai più. Tu per me
sei morto.»
Si voltò e in un attimo fu fuori dalla
stanza, sbattendo la porta alle spalle con
quanta più forza aveva.
«Sophie!»
Jimmy
fece
per
rincorrerla, ma Haufmann lo fermò
tenendolo per un bracciò. In quel
momento gli serviva e non poteva
permettere che una scenata tra ragazzini
ritardasse ulteriormente la ricerca di
Kaine ed Eric.
«Lasciala sfogare, le passerà. Non è
in sé in questo momento. Ha subito
troppi shock, dalle il tempo di capire e
riprendersi.»
Le parole del professore sortirono
immediatamente il loro effetto e Jimmy
smise di opporsi alla presa di
Haufmann. Guardò la porta chiusa di
fronte a sé e sospirò scoraggiato.
«Più tardi o al massimo domani le
parlerai, le spiegherai del giuramento
elfico e vedrai che, se tiene a te, capirà
e ti perdonerà.»
Luther annuì.
«Conosco mia figlia, Jimmy, e la
conosci anche tu, non c'è niente che le
dia più fastidio delle bugie, per lei sono
come tradimenti. Per questo motivo ha
solo pochi amici fidati. Tu sei tra quelli,
non vuole perderti e, quando le parlerai,
saprà che le hai tenuto nascosta la verità
per una ragione importante. Ora lasciala
stare, dalle il tempo di calmarsi.»
Jimmy mosse la testa in segno di
approvazione, rincuorato dalle parole di
Haufmann e Luther.
«Adesso indicaci il posto dove hai
visto l'ultima volta Kaine ed Eric. Non
abbiamo
più
tempo,
dobbiamo
cominciare subito le ricerche se
vogliamo avere una minima possibilità
di trovarli.»
Haufmann fissò Jimmy negli occhi, le
pupille dilatate mostravano ancora le
sue emozioni e aggiunse: «Per la prima
volta, dopo mezzo secolo, Kaine è
libero e non sappiamo cosa abbia in
mente. Sappiamo solo che è pericoloso
e che è disposto a sacrificare chiunque
per raggiungere il suo scopo. Fidati di
me, dobbiamo trovarlo prima che metta
in atto il suo piano, qualunque cosa
abbia in mente.»
La fronte corrugata di Haufmann era
un
segno
lampante
della
sua
preoccupazione. Guardò uno dopo
l’altro Jimmy e Luther.
«Ho già vissuto sulla mia pelle
quello che è capace di fare Kaine e vi
assicuro che non mi è piaciuto. E se oggi
sono qui è solo per miracolo.»
Capitolo 30
Eric e Kaine riemersero dal bunker,
approfittando del calar del sole, mentre
gli ultimi raggi della giornata lambivano
le cime degli alberi, sottraendo luce al
terreno.
Eric
si
aspettava
che
proseguissero attraverso il bosco, verso
una delle città limitrofe, ma Kaine lo
sorprese tornando sui propri passi e
dirigendosi verso un quartiere che Eric
conosceva molto bene: Estrielle.
Non aveva idea di chi stessero per
incontrare.
Di
certo
il
luogo
dell'appuntamento non prometteva bene.
Passarono davanti al The Cage. Eric
fissò le inferriate ricoperte di ruggine
tutt’attorno al palazzo che conosceva
bene. Quante notti aveva sputato sangue
e aveva scaricato i suoi istinti più
violenti, all’interno di quei muri marci.
Ora tutto gli sembrava solo un ricordo
lontano, confuso, come se appartenesse
a un'altra vita. Scrutò all’interno tra i
vetri rotti. A quell’ora del tramonto era
vuoto e silenzioso. Niente a che vedere
con la bolgia in cui si sarebbe
trasformato, una volta calate le tenebre.
In giro non c'era anima viva. Il
quartiere iniziava a popolarsi solo
quando il giorno cedeva il passo alla
notte. Col buio, tutto diventava più
semplice da nascondere e di cose da
nascondere, a Estrielle, ce n'erano a non
finire.
«Il bello dei quartieri abbandonati è
che rimangono identici negli anni»
Kaine fece sobbalzare Eric quando
spezzò il silenzio, dopo oltre un’ora di
cammino.
«Diventano
solo
più
fatiscenti, ma tutto è esattamente lì dove
lo ricordavi.»
Eric rilevò la vena di soddisfazione
di Kaine mentre pronunciava quelle
parole.
Rimase
sorpreso
per
quell’atteggiamento
insolitamente
confidenziale. Kaine fino a quel
momento si era dimostrato restio ad
aprire qualsiasi tipo di dialogo che non
c’entrasse con la loro fuga o col suo
misterioso piano. Non si spiegava
perché fosse così compiaciuto di quel
luogo abbandonato dal mondo.
L’attesa durò solo pochi minuti. Lo
vide fermarsi di fronte a una fermata
della metropolitana posta proprio sul
loro percorso. La scala che conduceva
al livello sotterraneo era sbarrata da due
larghe transenne di ferro, abbandonate
da anni. L’intera stazione era chiusa al
pubblico. Il progetto che avrebbe dovuto
portare la metropolitana a Estrielle si
era interrotto dopo che il quartiere,
caduto nel degrado, aveva perso
appetibilità per gli investitori. Gli scavi
erano stati completati, ma non le linee.
Così Estrielle aveva aggiunto ai suoi
innumerevoli problemi, anche quello di
essere difficilmente raggiungibile con i
mezzi pubblici, completando così la sua
opera di isolamento.
La fermata si trovava di fianco ad una
vecchia caserma militare. Un edificio in
rovina, all’apparenza come tanti altri lì
attorno, le cui crepe e finestre rotte ne
attestavano lo stato di prolungato
abbandono.
SI VIS PACEM PARA BELLUM
La scritta si leggeva ancora nitida,
incisa sul muro tra le vetrate alte del
palazzo. Se vuoi la pace, prepara la
guerra.
«Da questa parte» disse Kaine ed
entrò nell'edificio. Era tutto come lo
aveva lasciato quasi trent’anni prima.
Scese le scale che portavano al
seminterrato e imboccò il corridoio
sulla destra. Una volta raggiunta l'ultima
porta sul fondo, ruotò verso il basso il
maniglione antipanico e si ritrovò
all'interno di un cunicolo largo una
decina di metri e alto almeno il doppio,
con una volta imponente sopra la
propria testa: la metropolitana mai
terminata di Estrielle.
Fece cenno a Eric di seguirlo.
Varcarono
il
piccolo
ingresso
laterale e si inoltrarono nella galleria
che procedeva, per centinaia di metri, in
entrambe le direzioni, curvando a
sinistra per tutto il percorso. Il tunnel
era talmente lungo da non riuscire a
vederne la fine. L’aria all’interno era
irrespirabile, un tanfo di chiuso e
polvere riempiva ogni centimetro cubo
di spazio. Eric faceva attenzione a dove
metteva i piedi, il suolo era ricoperto di
travi,
calcinacci
e
materiale
da
costruzione di ogni tipo. Alcuni ponteggi
smontati erano ancora accatastati lungo
la parete sinistra del tunnel e perfino una
scavatrice era parcheggiata in una delle
nicchie che ogni cento metri fungevano
da snodo verso l’esterno, attraverso
stretti corridoi che conducevano in
superficie. La maggior parte di quei
cunicoli non doveva essere stata
nemmeno terminata. Tutto dava l’idea di
essere stato interrotto senza alcun
preavviso. Conclusi gli scavi, nessuno
doveva essersi più preoccupato di quel
posto. Guardò attorno a sé le pareti del
tunnel e rivolse lo sguardo verso la
gigantesca volta. Di tanto in tanto
comparivano lampadine appese al
soffitto, collegate da lunghi cavi che
percorrevano tutto il tunnel. I cavi erano
corrosi in diversi punti, i ratti li avevano
probabilmente rosicchiati nel corso del
tempo. La corrente elettrica doveva
comunque essere stata tolta poco dopo
la fine dei lavori, lasciando quel luogo
nella totale oscurità.
Un sottile brusio sembrava provenire
dagli anfratti più remoti del tunnel,
proprio davanti a loro. Cessava, poi
ricominciava, mescolandosi al rumore
di fondo delle tubature che passavano
vicino a loro, nascoste dagli spessi muri
della galleria. Mentre cercava di
scorgere la fine della galleria davanti a
sé, Eric toccò inavvertitamente qualcosa
con la punta del piede. L’oggetto cadde
di lato e rotolò in avanti per qualche
metro. Il rumore inconfondibile di vetro
rimbombò tra le pareti del tunnel.
«Ma che...» esclamò Eric mentre
nell’aria si diffondeva l’odore acre di
birra. Eric si chinò per osservare ciò
che aveva urtato. All’interno della
bottiglia di vetro, poteva ancora
scorgere il liquido giallastro che colava
bagnando il terreno. Si rialzò e proseguì.
Pochi
metri
e
un
altro
odore
inconfondibile arrivò alle sue narici e lo
bloccò. Annusò l’aria per esserne certo.
«Ma cosa diavolo...»
Un mozzicone di sigaretta era
abbandonato tra i ciottoli sul terreno.
Era acceso. Dalla punta bruciacchiata e
schiacciata il fumo volteggiava verso
l’alto, spargendo il suo tanfo nell’aria.
Eric provò fastidio a causa di
quell’odore troppo forte per il suo
olfatto: in quell’ambiente chiuso i suoi
sensi erano ulteriormente acuiti. Portò
una mano sul volto per coprirsi il naso.
Con la suola della scarpa agitò la terra
circostante e spostò il mozzicone.
Che ci fa una sigaretta accesa qui
sotto?
Rimase per qualche secondo con lo
sguardo fisso sul terreno.
«Questo luogo non è abbandonato.»
Quando tornò a sollevare gli occhi da
terra, Kaine era distante diverse decine
di
metri.
Sembrava
non
essere
minimamente
sorpreso
da
quella
scoperta
ed
aveva
proseguito,
addentrandosi sempre più nella galleria.
«Kaine» urlò Eric rialzandosi in
piedi. «Vuoi spiegarmi che diavolo
succede? Non avevi detto che questo
posto era deserto?»
Kaine non rispose e continuò a
camminare.
Mano
a
mano
che
avanzavano, il brusio di sottofondo
aumentava di intensità.
«Lo
senti?»
mormorò
Eric
arrestandosi di colpo.
Kaine
sembrò
nuovamente
non
prestare attenzione e si limitò a dire:
«Non fermarti, non siamo ancora
arrivati.»
La tranquillità di Kaine lo sorprese.
Dove lo stava portando? Metro dopo
metro, riusciva a distinguere il suono
sempre più chiaramente. Erano voci.
Un bagliore comparve a poche decine
di metri, dove il tunnel svoltava a
sinistra. La fine della galleria apparve
all’improvviso, illuminata debolmente
da quella fonte di luce sconosciuta. Ogni
cosa attorno a loro iniziò a prendere
forma e a proiettare la propria ombra sui
muri.
Kaine accelerò il passo ed Eric lo
seguì col cuore in gola. Per qualche
strano motivo, temeva ciò che avrebbe
trovato al di là della curva.
Arrivati al termine della galleria, lo
spettacolo che gli si presentò dinanzi fu
totalmente inaspettato.
I sotterranei di Estrielle pullulavano
di tutta la vita inesistente in superficie.
Un brulicare di persone riempiva quella
che era una vera e propria piazza
sotterranea. Banchi pieni di oggetti di
ogni tipo erano sparsi lungo tutto il
perimetro e luci circolari al neon
illuminavano l'intero spazio circostante.
Era
tutto
diverso
dall’ambiente
precedente. Anche l’aria era cambiata.
Non puzzava più di chiuso, ma era
ripulita da un sistema di ventilazione
posto chissà dove attorno a loro.
Kaine ed Eric si mischiarono senza
troppi indugi tra la folla e attraversarono
la piazza inosservati.
Passarono tra i banchi ed Eric poté
osservare con attenzione quello che
veniva comprato e in che modo.
Ogni oggetto venduto era in realtà
solo un contenitore al cui interno erano
opportunamente
celate
solo
due
tipologie di prodotti: droga e armi.
Un mercato dell'illecito in piena
regola, a poche decine di metri
sottoterra. Per quanto inquietante, era
affascinante
vedere
come
fosse
perfettamente organizzata la modalità di
compravendita. Dipendeva tutto dalla
quantità. Potevi portare a casa un
televisore che nascondeva chili di
cocaina o un vecchio cellulare che ne
conteneva qualche grammo. Oppure
acquistare una lavatrice che, al suo
interno, celava un numero concordato di
fucili mitragliatori o ancora un banale
telecomando che custodiva una scatola
di proiettili.
Nonostante il caos regnasse sovrano,
tutto sembrava seguire una precisa
regola non scritta: non creare problemi,
prendi quello che ti serve, paga e vai via
col tuo pacco.
Eric aguzzò la vista per non perdere
Kaine, mentre si facevano largo tra la
folla.
«Come fa a esistere un posto
simile?» gli sussurrò alle spalle
sbalordito. «Nessuno è mai venuto qua
sotto e si è accorto di... questo?»
«Chi vuoi che venga fin quaggiù?
Siamo a Estrielle, ragazzo. Il mondo si è
dimenticato di questo luogo o finge che
non esista per paura.»
Eric sospirò e si strinse nelle spalle.
Nessuno sembrava fare caso a lui,
eppure non si sentiva per nulla a suo
agio. Passata la piazza, si diressero
verso il cunicolo successivo. Era
illuminato e molto più corto e stretto del
precedente. Lo attraversarono e, sulla
loro destra, comparve una porta. Kaine
la aprì senza esitare ed entrò in uno
spazio pieno di bancali disposti senza un
ordine preciso. Era chiaramente un
magazzino abbandonato.
Si diresse verso il fondo del
deposito,
dove
altre
due
porte
comparivano in mezzo alla parete,
distanziate di un paio di metri l’una
dall’altra. Scelse quella a sinistra, ma
stavolta non la aprì. Si avvicinò e bussò
lentamente. Attesero qualche secondo,
ma non accadde nulla. Kaine corrugò la
fronte e indugiò ancora, indeciso sul da
farsi. Poi ruotò la maniglia. Era chiusa.
«Non è il nostro giorno fortunato»
sospirò.
C'era
da
aspettarselo,
pensò.
Appoggiò la schiena alla porta e disse
«ci toccherà aspettare.»
L'attesa non durò a lungo. Dopo circa
mezz'ora la porta principale del
magazzino si aprì e una figura slanciata
varcò la soglia incamminandosi, con
passo deciso, verso il punto dove era
appoggiato Kaine.
Aveva
movenze
sinuose,
accompagnate da un aspetto giovane e
atletico. Una chioma biondo cenere le
incorniciava il viso dagli zigomi alti e
dai lineamenti delicati e regolari, che
richiamavano quelli delle donne dell'est
europeo. Le labbra carnose e il corpo
dalle forme prorompenti le conferivano
un'impronta decisamente sensuale. Il
tutto era messo ancora più in risalto dai
pantaloni attillati in pelle nera, indossati
con un paio di anfibi scuri che le davano
un tocco vagamente militare.
Passò accanto a Eric senza degnarlo
di uno sguardo e si fermò di fronte a
Kaine, fissandolo per qualche istante,
come rapita e confusa.
Eric poteva adesso ammirarle la
schiena. Il corpetto intrecciato le
cingeva il busto, lasciando scoperta la
pelle nuda attorno alla vita. Un tatuaggio
maori affiorava al di sotto delle fossette
di venere e raffigurava un tao stilizzato,
insieme ad altri simboli che Eric non
riusciva a decifrare.
Appena sopra, un fodero in diagonale
custodiva
quello
che
molto
probabilmente era un fucile a canne
mozze.
«Dana!» esclamò Kaine, mentre un
sorriso gli affiorava sulle labbra. «Mi
sei mancata.»
Si alzò e la abbracciò: era il primo
g e s t o umano che Eric gli vedeva
compiere da quando lo aveva incontrato.
Dana
rimase
immobile,
senza
ricambiare l'abbraccio. Era paralizzata.
Gli occhi chiusi, le mani tese. Sembrava
si stesse trattenendo dal compiere un
gesto che normalmente le sarebbe venuto
naturale.
Kaine la allontanò. «Non sei felice di
rivedermi?»
Dana rimase ancora in silenzio. Eric
poteva sentirle i battiti del cuore pulsare
a un ritmo incontrollato, mentre il petto
si gonfiava e sgonfiava seguendo il
respiro. Prese fiato e con voce rotta
disse: «Dopo il male che mi hai fatto...»
mentre parlava evitava di guardarlo
negli occhi. «Non permetterò che
succeda ancora.»
Quelle parole, dal suono stranamente
malinconico, non sortirono alcun effetto
su Kaine. Eric ebbe l’impressione che
l’uomo si aspettasse di udirle e, anzi, si
sentisse più lusingato che ferito da esse.
Kaine inclinò leggermente la testa,
avvicinandosi nuovamente a Dana e le
accarezzò il volto, in un gesto che rese
evidente la profonda complicità che una
volta doveva esistere tra i due.
«Sai che non vorrei mai vederti
soffrire e sai quanto tengo a te. Non
incolparmi per qualcosa che non posso
darti.»
Quelle frasi, appartenenti a un
lontano passato, non erano mai cambiate
dalla prima volta che Kaine le aveva
pronunciate di fronte a Dana, ferendola
nell’angolo più profondo dell’anima.
Avevano aperto quella discussione
un’infinità di volte, ma ognuno era
sempre rimasto sulle sue posizioni e,
alla fine, nessuno dei due era mai
riuscito a persuadere l’altro.
Eric rimase in silenzio ad ascoltare.
Non capiva quale legame esistesse tra i
due, pur intuendo che qualcosa di molto
profondo doveva aver lasciato segni e
cicatrici su entrambi.
Ka i ne cambiò discorso prima che
Dana fosse in grado di replicare.
«Non ti ho ancora presentato il mio
n u o v o amico» disse, rivolgendo il
palmo della mano alla sua destra «è uno
di noi. Si chiama Eric.»
D a na posò gli occhi sul ragazzo,
incuriosita, e lo osservò dall'alto in
basso.
Eric provò un brivido: quello
sguardo era talmente penetrante da farlo
sentire nudo. Il modo di scrutare di Dana
non era né moderato né casto, lo stava
esaminando come un cacciatore con la
sua preda, in silenzio, scandagliando
ogni dettaglio del corpo per individuare
un punto debole.
Dana spostò lo sguardo su Kaine ed
Eric si sentì sollevato.
«Perché sei qui, Kaine?» chiese
risoluta. «Come hai fatto a fuggire?»
Eric notò come il lato spiccatamente
femminile di qualche istante prima
avesse assunto un tono freddo, da
interrogatorio.
«Entriamo in casa» le rispose Kaine.
«So che qui siamo al sicuro, ma
preferisco dirti tutto dentro.»
Dana agì senza replicare. Infilò le
chiavi nella serratura e aprì la porta.
L'ambiente era composto da un’unica
stanza, abbastanza grande da contenere
una piccola cucina, un divano e qualche
mobile. Eric e Kaine si accomodarono
sul divano posto esattamente in mezzo
alla stanza.
Il loft era spoglio, privo di qualunque
elemento lo potesse rendere vagamente
personale. Non c'erano foto, né quadri o
libri. Tutto era razionale e funzionale:
nessun elemento d'arredo, solo lo stretto
necessario. E soprattutto nessuna fonte
di luce.
Dana richiuse la porta a chiave, prese
una sedia e si dispose cavalcioni, con lo
schienale rivolto in avanti.
«Bene, sei al sicuro adesso.»
Dana accompagnò le parole appena
pronunciate con un sorriso malizioso e,
da come Kaine rispose al sorriso, Eric
intuì che dovevano essere già state
pronunciate in un momento particolare
del loro passato.
Kaine sembrava un altro in presenza
di Dana. Aveva messo da parte la
maschera di ghiaccio, indossata fino a
quando lei non era apparsa oltre la porta
e, da lì in avanti, aveva mostrato più
volte di essere capace di provare
sentimenti. Eric ebbe l’impressione che
ciò accadesse solo nei confronti di
Dana.
Kaine
si
protese
in
avanti,
appoggiando
gli
avambracci
sulle
ginocchia e incrociando le dita delle
mani.
«Pochi giorni fa sono riuscito a
scappare dalla prigione.»
«Questo lo so già» lo interruppe
subito Dana. «Ho i miei contatti. La
voce si è già diffusa.»
«Erano anni che insieme a Logan ci
stavamo provando, ma ogni giorno che
passava sembrava diventare un’impresa
impossibile.»
Eric notò che Kaine aveva nominato
Logan senza dare ulteriori spiegazioni.
A quanto pareva anche Dana conosceva
suo padre.
«Finché, una notte di qualche giorno
fa, il sistema perfetto ha avuto una falla.
Una scossa di terremoto ha generato il
caos all'interno del carcere. Era il
diversivo che aspettavamo da tempo.
Logan ed io eravamo preparati a
sfruttare un’eventualità del genere, così,
quando ci hanno scortati fuori seguendo
la procedura, nella confusione ci siamo
divincolati fino all’imbocco di un
corridoio che non era presidiato. Un
percorso alternativo studiato da anni.
Ma nella fuga Logan si è ferito e non ha
potuto proseguire. Sono riuscito a
fuggire solo io.»
Una luce si accese nello sguardo di
Dana.
«Incredibile!» esclamò. «Sei il primo
drow che riesce a evadere da Prehensis.
A parte me naturalmente, ma in quel
caso non si è trattato proprio di
un’evasione... Immagino che il caro
vecchio Haufmann sia su tutte le furie
adesso.» Soffocò una risata compiaciuta.
«A quanto pare il suo giocattolino non è
così perfetto come ha voluto far credere
in questi anni.»
Si fermò per un attimo rapita da un
pensiero.
«E sono pronta a scommettere che,
più in alto, nessuno sappia ancora nulla,
starà gestendo il tutto in segreto tramite
l'H2.»
«Conoscendolo è probabile» disse
Kaine.
Eric
rimase
interdetto.
Dana
conosceva il professor Haufmann, che, a
quanto pareva, si rivelava essere la testa
della prigione in cui erano confinati tutti
gli elfi oscuri. Come se non bastasse,
era anche a capo di qualcosa denominata
H2, di cui ignorava i propositi. La
situazione stava assumendo contorni
sempre più assurdi e indefinibili.
«Ma tutto questo non spiega perché
sei qui. A parte il fatto che morivi dalla
voglia di rivedermi...» ironizzò Dana.
Kaine sembrò lasciarsi andare per un
attimo e sorrise abbassando lo sguardo.
«Lo sai, guardarti negli occhi
risveglia in me emozioni fortissime, ma
hai ragione, non sono qui solo per
questo.» Sospirò e, quando riprese a
parlare, la sua voce aveva assunto il
solito tono serio e non tradiva più
alcuna emozione.
«Sono qui perché ho bisogno del tuo
aiuto» guardò Dana dritto negli occhi.
«Sei pronta a redimere i tuoi peccati di
cacciatrice?»
Dana inclinò la testa e aggrottò la
fronte, non capiva dove Kaine volesse
arrivare.
«Cos'hai in mente?»
«Voglio liberare Logan.»
Il silenzio che piombò nella stanza fu
quasi irreale.
«E con lui tutti i drow imprigionati a
Prehensis.»
Dana sgranò gli occhi.
«Ma è... una follia!» esclamò. «Sei
riuscito a evadere dimostrando a tutti
che quel fortino non è poi così
inespugnabile come si credeva, ma è
impensabile liberare tutti i drow...
andiamo Kaine, non basterebbe un
esercito!»
«Non ho bisogno di un esercito... se
ci sei tu.»
Kaine le prese la mano e Dana ebbe
un brivido. «Prehensis non ha segreti per
te. Con te al nostro fianco possiamo
farcela.»
Dana allontanò la mano di Kaine e si
alzò. Iniziò a camminare avanti e
indietro nella stanza, mordicchiandosi
l'unghia dell'indice della mano destra.
Il piano di Kaine era folle, come lo
stesso Kaine del resto, ma una parte di
lei desiderava farlo più di ogni altra
cosa. Ne aveva bisogno. Da anni viveva
segregata nei sotterranei di Estrielle alla
ricerca di redenzione per quello che,
ignara, aveva compiuto tempo addietro.
Non aveva più trovato pace, né un nuovo
equilibrio. Per un periodo era scesa
negli abissi dell'oblio, sperimentando la
droga, che a Estrielle si trovava più
facilmente di qualsiasi altro bene
necessario. Non aveva bisogno di cibo,
non aveva bisogno di amici. Voleva solo
dimenticare sé stessa e quello che aveva
fatto. Uscirne non era stato facile, ce
l’aveva fatta, ma non si era ancora
ritrovata completamente. Non sapeva
più chi fosse, né per cosa o per chi
continuasse a vivere e ora quella
proposta, per quanto incosciente e
avventata,
le
appariva
come
un’occasione per espiare, una volta per
tutte, le colpe che la affliggevano. Le
avrebbe ridato la forza per lottare di
nuovo. Kaine con poche parole aveva
saputo toccare le corde giuste, non c’era
dubbio che la conoscesse a fondo. Ma
non lo avrebbe fatto per lui. Non questa
volta. Lo avrebbe fatto per sé stessa e,
per la prima volta in vita sua, per i
drow.
«Ci sto!»
Quelle due parole, pronunciate con
voce naturale, rimbombarono nella
stanza come la nota prodotta dall’arco di
un contrabbasso e scossero la mente di
Eric e Kaine, scaricando l'adrenalina
per quello che, da lì in avanti, sarebbe
accaduto.
Lo sguardo di Kaine s’illuminò. Il
suo piano stava lentamente prendendo
forma. E adesso che tutti gli attori erano
stati coinvolti, non restava altro che
entrare in scena.
Sul volto di Dana era scomparsa
l’espressione malinconica di qualche
attimo prima. La reazione esultante di
Kaine le aveva fatto tornare il sorriso. Il
suo sguardo mutò ancora quando i suoi
occhi incrociarono quelli di Eric.
«C'è una cosa che mi sfugge in tutto
questo» disse rivolgendosi a Kaine. «A
cosa ci serve lui?»
Indicò
col
mento
Eric,
infischiandosene della brutalità del
gesto. Eric accigliò lo sguardo e
accennò un passo verso Dana, ma Kaine
intervenne a placare gli animi.
«Prima di tutto lui si chiama Eric, te
l’ho già detto.» Attese che i battiti di
Eric
rallentassero.
Conosceva
quell’atteggiamento di Dana, diretto e
senza filtro, ma questa volta non era
disposto
a
passarci
sopra,
era
necessario che non ci fossero attriti tra
loro.
«E secondo, è il figlio di Logan.»
Il silenzio che seguì fu interrotto solo
dai rumori in lontananza, provenienti
dalla galleria.
«Lui è il figlio di Logan?» chiese
mentre un sorriso le affiorava sulle
labbra.
Lì per lì Eric non ne comprese il
motivo, ma vide Dana particolarmente
colpita da quella rivelazione.
«Sì, è lui» rispose Kaine «ma non ha
mai conosciuto suo padre. Vuole
incontrarlo e liberarlo e ci aiuterà a far
evadere anche gli altri drow.»
Guardò prima Eric, poi di nuovo
Dana.
«Abbiamo bisogno di lui. È vero, non
è addestrato, ma in tre avremo più
possibilità di riuscita.»
Si alzò in piedi.
«E tu hai due giorni per dare a Eric la
preparazione necessaria per affrontare i
drowhunter.»
«Stai scherzando, vero?» esclamò
Dana sbigottita.
«Non dimenticare che Eric è un
drow.»
«Non
dimenticare
chi
sono
i
drowhunter.»
«È per questo che ti aiuterò anch'io.»
«Non serve il tuo aiuto, serve
tempo.»
«Purtroppo non lo abbiamo e io
confido in Eric, è sveglio e imparerà in
fretta.»
«Se persino per me c'è voluta più di
una settimana...»
«Non serve che lui diventi come te.
Ha solo bisogno delle basi. Il resto lo
imparerà sul campo . »
«Sei un illuso.»
«Diciamo che so riconoscere chi ha
il talento e, soprattutto, le motivazioni
giuste per riuscire in un’impresa.»
Dana sospirò.
«Se lo dici tu... ma non credo che
Logan vorrebbe questo per suo figlio...
sempre che sia ancora vivo.»
Quelle
parole
scossero
Eric,
toccandolo nel profondo.
Agì guidato solo dall'istinto e dalla
rabbia. Si mosse rapidamente e con un
balzo raggiunse Dana alle spalle. Le
sfilò il fucile dal fodero sulla schiena e
con la mano sinistra le immobilizzò le
braccia dietro al corpo. Con l’altra
mano impugnò l’arma e la puntò dritto
verso Kaine facendosi scudo col corpo
della ragazza.
«Ora basta!» Serrò la mascella. «Mi
avete stufato con i vostri discorsi. Mio
padre è vivo ed io lo libererò... con o
senza di voi.»
Kaine scoppiò a ridere e la sua voce
echeggiò tra le pareti della stanza.
«Te l'ho detto che il ragazzo ha
talento...» disse incurante del fucile
puntato contro.
Eric sentiva il corpo di Dana
premere sul suo, mentre lei cercava di
divincolarsi. L'odore della sua pelle e il
contatto col suo corpo lo distraevano. Il
suo respiro era lento e controllato,
sembrava
non
essere
per
nulla
spaventata dalla situazione.
«Notevole...» disse Dana sorridendo.
Guardò Kaine di fronte a lei, che li
fissava divertito. Con un movimento
fulmineo della testa, colpì Eric tra la
fronte e il naso e si liberò dalla sua
presa.
«Ma
insufficiente»
aggiunse
voltandosi e sistemandosi il corpetto.
Eric crollò a terra. Dana gli si
avvicinò a due centimetri dal viso e gli
sfilò il fucile dalla mano.
«Non si ruba l'arma a una signora, è
da maleducati, non te l'ha insegnato la
mamma?»
Eric tossì e strinse gli occhi
dolorante.
«A quanto pare non sono stato così
fortunato da conoscerla...» Si tastò in
mezzo agli occhi, dove una macchia
bluastra iniziava a colorare la pelle.
Dana rimase in silenzio, le sembrò di
scorgere una lacrima rigare il viso di
Eric. C’era qualcosa in quel ragazzo che
lo accomunava a lei più di quanto
pensasse. Quel gesto istintivo l’aveva
impressionata. Col suo comportamento,
Eric aveva dimostrato in una volta sola
coraggio,
agilità,
astuzia,
imprevedibilità e una buona dose di
sfrontatezza. Aveva solo bisogno di
imparare a controllarsi, a non farsi
dominare dalle emozioni e dalla rabbia.
Sapeva di essere riuscita a coglierlo di
sorpresa e a metterlo al tappeto, solo
perché non la considerava realmente un
pericolo. Di fronte a un vero nemico,
avrebbe avuto i riflessi pronti per
schivare il colpo, ne era sicura.
Gli porse la mano per aiutarlo ad
alzarsi. Eric si era appena guadagnato la
sua stima e il suo rispetto.
Kaine li osservò. «Bene, adesso che
avete fatto amicizia, potete iniziare
l'addestramento.»
Si
voltò
e
si
incamminò verso la porta.
«Dove stai andando?» domandarono
all'unisono Dana ed Eric.
«Ho un paio di acquisti da fare qui
fuori, sarò di ritorno tra qualche ora. Al
mio rientro, metteremo a punto il piano
per entrare a Prehensis. Datevi da fare.»
Lo guardarono uscire dalla porta.
Erano rimasti soli. Ci fu qualche
secondo di silenzio, poi Dana spezzò
l'imbarazzo dicendo: «Mettiamoci al
lavoro. Sei in gamba, ma hai ancora
molte cose da imparare e pochissimo
tempo a disposizione.»
Quel complimento inatteso sorprese
Eric e lo riempì d’orgoglio. Si sentì
pronto per iniziare l’addestramento,
qualsiasi cosa avesse in serbo per lui.
«Da dove cominciamo?» chiese.
Quella domanda riportò di colpo
Dana ai tempi dell'addestramento. I
campi tendati, le armi, la squadra, le
marce, sembrava fosse ieri. Erano,
invece, passati venticinque anni da
quando aveva abbandonato tutto. Dopo
che le avevano rivelato la verità,
ammettendo
che
l'esperimento
era
fallito.
Capitolo 31
«Che ti prende?» gli chiese Dana.
Eric scosse il capo, mentre il rumore
dei rulli che si muovevano sotto di lui
gli rimbombava nella testa.
«Non ce la farò mai, è impossibile»
gridò per farsi sentire.
«Sforzati. Lanciati convinto. Devi
concentrarti.»
All’interno
dell’immenso
hangar
sotterraneo dove si trovavano, Eric
inspirò e sollevò lo sguardo verso le tre
file
di
tubi
di
metallo
poste
orizzontalmente di fronte a lui a venti
metri da terra. Erano tutte distanziate
almeno cinque metri le une dalle altre e
sorrette da solide impalcature. Guardò
in basso. La pedana su cui era salito era
alta una decina di metri.
Dana gli aveva mostrato cosa voleva
che facesse. Era salita sulla pedana e
senza prendere la rincorsa era saltata sul
primo tubo. Si era appesa con una sola
mano ed aveva dondolato sul braccio
fino a che non si era spinta in avanti
verso la seconda sbarra. Da lì aveva
ciondolato con entrambe le mani ed era
saltata sulla terza trave dove era
atterrata coi piedi. Aveva poi raggiunto
l’altra pedana situata esattamente dal
lato opposto rispetto a lui.
“Tutto qui?” aveva chiesto Eric con
un
ghigno
di
superiorità.
“L’addestramento consiste in questo?
Non mi sembra particolarmente difficile.
Lo so già fare.”
“Infatti, non è questo che dovrai fare”
aveva replicato Dana abbozzando un
sorriso compiaciuto. Senza badare
all’espressione confusa di Eric, Dana si
era avvicinata a quello che aveva tutta
l’aria di essere un pannello di controllo.
Una serie di spie luminose riempivano
la parte alta del pannello, mentre
esattamente nel centro spiccava un
pulsante rosso grande almeno come il
palmo di una mano, che Dana aveva
premuto senza esitazione. Le tre
impalcature
avevano
iniziato
ad
ondeggiare di quasi un metro a sinistra e
a destra e avanti e indietro in moto
continuo senza uno schema fisso,
azionate dai piccoli rulli sul pavimento
su cui erano appoggiate. Dana aveva
sfilato dalla tasca una benda nera e
l’aveva
legata
attorno
alla
testa
coprendosi gli occhi. Per quanto Eric
fosse capace di gesti atletici al di sopra
delle capacità umane, aveva lo stesso
strabuzzato gli occhi vedendo Dana,
bendata, ripetere il percorso all’inverso.
Aggrappandosi alle sbarre con la stessa
facilità di quando le impalcature erano
immobili, aveva raggiunto nuovamente
la pedana su cui era in piedi Eric e si
era fermata di fronte a lui. Sfilatasi la
benda dal volto, l’aveva porta a Eric,
lasciandola penzolare dalla mano. Con
un passo si era avvicinata a un
centimetro dal suo volto e arricciando le
labbra carnose gli aveva sussurrato:
“Ora vediamo se questo lo sai fare.”
Eric, adesso, sentiva ancora più
intensamente il profumo dei capelli di
Dana. Il cuore aveva accelerato e il
respiro si era fatto più affannoso.
«E se cado?» chiese ironico mentre
si copriva gli occhi con la benda.
«Tu cerca di non cadere. Vorrei
evitare di ripulire il pavimento...»
Eric sbuffò.
«Saranno cinque metri di salto» disse
mentre Dana scendeva dalla pedana e si
posizionava ai suoi piedi.
«Carl Lewis ne salta quasi il
doppio.»
«Sì, ma lui lo fa prendendo la
rincorsa.»
«E tu sei un elfo» sentenziò lei.
«Vedi di muoverti, non abbiamo tutto il
giorno.»
Eric si concentrò. Senza la vista, tutti
i suoi sensi si amplificarono. Sentiva i
rumori della città in superficie e ogni
soffio d’aria che gli accarezzava la
pelle. Poteva distinguere chiaramente
l’odore di gomma e vernice di quel
luogo. L’aria scarseggiava, nonostante
gli impianti di areazione funzionassero
al massimo. Tutti quegli impulsi lo
disturbavano, faticava a percepire il
movimento delle sbarre di fronte a lui.
Doveva attendere il momento giusto per
saltare, altrimenti sarebbe caduto senza
s c a m p o . Concentrati,
ripeté
mentalmente.
Annusò
l’aria,
cercando
di
individuare il metallo del primo tubo.
Aguzzò l’udito per percepirne il
movimento oscillatorio. Senza attendere
oltre piegò le gambe, avvicinando i
glutei alla pedana e balzò in avanti nel
vuoto. Attivò tutti i sensi per percepire
la presenza della prima sbarra sul
percorso. Allungò le mani spalancate e
le richiuse nell’esatto momento in cui
avvertì il freddo metallo a contatto col
suo palmo. Il contraccolpo fu violento,
ma lo controllò senza particolare sforzo.
Ciondolò per qualche secondo avanti e
indietro e, quando si sentì pronto, liberò
la presa e volò in avanti verso il
secondo appiglio. Questa volta il lancio
non fu perfetto ed Eric sbatté con
l’avambraccio
contro
la
sbarra,
mancando la presa. Solo all’ultimo
recuperò il controllo, afferrando la trave
con la mano destra.
Eric strinse gli occhi e irrigidì i
muscol i . A penzoloni sulla seconda
sbarra, il respiro si fece affannoso. Il
pericolo
della
caduta
lo
aveva
spaventato e il movimento basculante
dell’asse
gli
rendeva
difficoltoso
mantenere la presa. I rumori e gli odori,
che arrivavano da tutte le parti,
continuavano a distrarlo. Sentì Dana
urlargli qualcosa dal basso, ma non
riuscì a distinguere le sue parole dal
resto. Avvertì le gocce di sudore che gli
lambivano la fronte e bagnavano la
benda sugli occhi. La testa gli
martellava.
«Eric! Non fermarti! Continua!» Dana
gridava a squarciagola diversi metri
sotto di lui. «Puoi farcela! Controlla i
sensi!»
Eric trasse un profondo respiro. Il
peso del suo corpo appeso alla sbarra
iniziava a farsi sentire. Se avesse atteso
ancora qualche istante, non avrebbe
avuto più la forza di reggersi. Individuò
la terza trave che si muoveva a qualche
metro da lui. Con tutta l’energia che
aveva in corpo, si diede una spinta in
avanti e, facendo leva sui polsi,
ricominciò a dondolarsi avanti e
indietro. Sentiva il sangue nelle vene
degli avambracci che pulsava con forza.
Le ossa e i muscoli dei polsi che
dolevano per la torsione. Quando il
dondolio raggiunse il limite, trattenne il
respiro e si lasciò librare in avanti
verso l’alto. Disegnò una curva a
campana e piombò, con i piedi,
direttamente sopra la terza trave.
Assestò l’equilibrio aggiustando la
posizione delle gambe e allargando le
braccia. Quando fu stabile, distese le
gambe e si issò in piedi. Saltò sulla
pedana e si tolse la benda. Guardò verso
il basso, Dana lo fissava e sorrideva.
«Visto? Ce l’hai fatta. Te l’avevo
detto che non era poi così difficile»
disse Dana seguendo con gli occhi Eric
che scendeva dalla pedana.
«È stata una passeggiata» rispose lui
ridacchiando. «La prossima volta,
fammi fare qualcosa di più difficile, se
no mi annoio.»
«Come ti senti?»
«Bene. Ho ancora qualche difficoltà
ad isolarmi da tutto. Specialmente
quando sono sotto tensione. La testa mi
rimbomba, tutti quei rumori, gli odori,
mi sembra di impazzire.»
«È normale. Devi farci l’abitudine.»
Eric si sedette su una grossa cassa
polverosa, buttata sul pavimento. Si
passò un braccio sulla fronte, per
togliersi il sudore e chinò la testa tra le
ginocchia, respirando profondamente.
Trascorse diversi minuti così.
«A cosa pensi?» gli chiese Dana.
Eric risollevò il busto e inspirò
profondamente.
«A una ragazza.»
«Che ragazza?»
«Una ragazza che ho conosciuto. E
che, in questo momento, si starà
chiedendo dove sono.»
«Sa di te?»
«No, non ho fatto in tempo a
dirglielo. Quando ho scoperto... questa
cosa, tutto è successo rapidamente. Non
l’ho neanche rivista. Non credo l’avrà
presa bene.»
Sorrise, ma il sorriso non toccò gli
angoli degli occhi. Dana lo fissò per
qualche secondo, poi abbassò lo
sguardo e rimase in silenzio, rivivendo
un lontano ricordo. Di tanto in tanto si
mordicchiava il labbro inferiore e
sospirava.
«Come lo conosci?» le chiese lui.
«Kaine?»
Eric annuì.
«È una storia molto lunga. Non
abbiamo tempo adesso.» L’argomento
sembrò infastidirla.
«Sì
che
ce
l’abbiamo,
devo
riposarmi. Non vorrai farmi far un
altro...»
Un dolore acuto e improvviso lo
colse alla fronte. Eric si piegò in avanti
e strizzò gli occhi.
«Eric!»
gridò
Dana.
«Che
ti
succede?»
Eric si contorceva, tenendosi la testa
con le mani e mostrando i denti per il
dolore.
«Eric, calmati, respira!»
«Mi sta esplodendo!»
«Stai calmo e rilassati. È tutto
okay...»
Con una mano gli accarezzò la fronte,
passando le dita tra i capelli. Il respiro
stava tornando regolare.
«Non
hai
ancora
imparato
a
controllarlo, vero?»
Con gli occhi semichiusi Eric la
guardò ancora stordito.
«Imparato a controllare cosa?»
chiese con un filo di voce.
«Il tuo potere.»
Eric non capì. Strizzò gli occhi e li
riaprì. La luce dei neon gli invase le
pupille e lo accecò. Con l’aiuto di Dana
si tirò su e si rimise seduto. Tutto
l’ambiente
attorno
girava
vorticosamente.
«Di cosa stai parlando?»
« G l i elfi oscuri lo chiamano... il
buio. È un istinto, un meccanismo di
protezione scritto nei nostri geni.
Quando un elfo oscuro si sente
minacciato o in pericolo, sviluppa una
forma di autodifesa molto efficace.»
«Ma io non ero in pericolo adesso.»
«Ma eri in tensione per quello che
avevi appena fatto. Le prime volte si
manifesta sotto qualsiasi tipo di
pressione esterna.»
Eric scrollò la testa e le spalle per
riprendersi.
«È da poco che mi accade in verità»
disse «da alcuni mesi... Come mai non
mi è mai successo in tutti questi anni?»
«Questa dote, come altre, è innata
negli elfi oscuri ed è in te da sempre.
Probabilmente la tua vicinanza con gli
umani l’ha inibita per un certo periodo.
Gli esseri umani hanno un’abilità
particolare nel mettere un freno ai propri
istinti, pensano di essere liberi, ma non
hanno neanche idea di quanto si limitano
da soli. Vivendo in mezzo a loro hai
acquisito questa pessima abilità. Il
potere si è sviluppato dentro di te, ma è
rimasto latente fino a quando non ti sei
sentito in pericolo per davvero, a quel
punto si è manifestato in tutta la sua
violenza.»
Eric
ripensò
alla
notte
dell’aggressione dei tre ragazzi dopo la
cena con Sophie e alle vertigini che lo
avevano colto dopo pochi minuti.
«Perché mi sento così? Mi fa male
tutta la testa. Se è una forma di
autodifesa, perché mi fa così male?»
«È un effetto collaterale secondario.
A gl i elfi oscuri accade quando sono
ancora piccoli e il dolore si mischia ai
vari pianti dei neonati. Crescendo, i
genitori insegnano a controllarlo. A te
invece nessuno ha insegnato niente. Sei
cresciuto sotto una campana di vetro, il
potere ha smesso di manifestarsi e tu non
hai fatto in tempo ad abituarti. Fino ad
oggi.»
«Fino a che distanza ha effetto
questo... potere?»
«Qualche metro. Il raggio d’azione è
limitato, serve a salvarti il culo da chi
hai attorno.»
Eric notò l’indubbia capacità di Dana
di esprimersi con chiarezza.
«Ma
se
hai
una
mente
sufficientemente ferma e forte» continuò
«puoi riuscire a svilupparlo per diverse
decine di metri. Serve una rigida
disciplina mentale. Finora ho conosciuto
una sola persona in grado di farlo.»
Parve allontanarsi un attimo nei suoi
pensieri.
«Il tempo di manifestazione è
istantaneo»
riprese.
«Appena
ti
concentri, chi è attorno a te non vede più
nulla.»
«Come se li stessi abbagliando?»
«No, è più come se fossero
all’istante proiettati in una enorme
stanza nera. Se gli umani fossero
minimamente intelligenti, ascolterebbero
gli altri loro sensi per orientarsi, ma
fortunatamente hanno perso questa
capacità. Sono facili da distrarre e, non
appena si spaventano, perdono il
controllo
della
situazione
e
si
disorientano. Sono una preda troppo
facile, più di qualsiasi altro animale.»
«Quindi non devo concentrarmi solo
su un bersaglio singolo?»
«No,
l’effetto
si
manifesta
indifferentemente su chiunque si trovi
nel raggio d’azione. Elfi oscuri esclusi.»
«Quanto dura?»
«Però, ne fai di domande ragazzo...»
disse ridendo.
«Voglio solo capire... e imparare.»
«Non te la prendere, sto solo
scherzando.» Fece qualche passo avanti
e riprese.
«L’effetto dura finché la tua mente è
in grado di rimanere concentrata. Più ti
alleni, più sarai in grado di controllarlo
anche mentre fai altro. Qui non si tratta
di magia. Non ci sono formule o parole
magiche da pronunciare. Devi solo
concentrarti. Ma stai attento, utilizzarlo
può indebolirti a tal punto da farti
svenire, se non lo fermi in tempo. Le
capacità psioniche non sono semplici da
dominare.»
« C a p a c i t à psioniche?»
chiese
corrugando la fronte. Si accorse che il
dolore si era attenuato. «E ne esistono
altre?»
«Con quante ragazze sei stato?»
Eric strabuzzò gli occhi. La domanda
arrivò inaspettata.
«Come, scusa?»
«Non fare il finto modesto. Immagino
tu sia stato con più ragazze di qualsiasi
altro tuo coetaneo. Credi davvero sia
dovuto solo a quel tuo bel visino?»
Era buffo come Dana avesse appena
utilizzato la stessa espressione di Jimmy
per giustificare le sue conquiste.
Sembrava divertita, mentre lo diceva
con quel risolino beffardo che Eric stava
imparando a conoscere.
«E a che cosa è dovuto allora?»
ribatté seccato.
«Alla tua mente. E al potere che è in
grado di generare. Tu sei in grado di
ammaliare, Eric, come tutti gli elfi, un
tuo semplice sguardo può essere più
convincente di qualsiasi frase umana. Si
tratta di una variazione genetica che
contribuisce al livello di capacità
empatiche delle persone.»
Eric rimase in silenzio, con lo
sguardo inebetito. Non era del tutto
convinto di avere afferrato l’ultima frase
e, ancor di più, non si aspettava che
Dana si esprimesse con un linguaggio
tanto tecnico.
«E tradotto significa?»
«Che sei talmente bravo a entrare in
sintonia con le persone, che chiunque hai
davanti non è in grado di resisterti.»
«Ora è più chiaro...» mormorò Eric.
«Nel nostro corpo esiste un ormone
neurotrasmettitore,
l’ossitocina,
che
influisce sulla capacità di interpretare lo
stato mentale di un'altra persona. In
sostanza ci aiuta a capire le emozioni di
chi
abbiamo
davanti.
Livelli
di
ossitocina elevati sono comuni anche
negli esseri umani che nascono con una
tendenza a una maggiore empatia. Negli
elfi questo ormone è geneticamente
presente in quantità di gran lunga
maggiore che in un umano.»
«Quanto maggiore?»
Dana abbozzò un sorriso.
«Incalcolabile» disse. «Grazie a
questa
alterazione,
negli elfi sono
potenziate le capacità empatiche e di
comprensione dello stato d'animo altrui
e questo suscita, negli altri, un
atteggiamento di maggior disponibilità e
cordialità. È inoltre un agente biologico
dell'innamoramento, per questo nei
rapporti con l’altro sesso, siamo
avvantaggiati.»
Strizzò
l’occhio,
l’allusione alle conquiste facili di Eric
era evidente.
«In certe circostanze, elevati livelli
di ossitocina possono però stimolare
l'insorgenza di sentimenti negativi, come
l'invidia, la perfidia o la crudeltà»
sospirò. «Nei drow questa variazione
genetica è fuori controllo. I sentimenti
negativi prendono il sopravvento, la
reattività allo stress non è incanalata
come dovrebbe e il risultato è quello
che ormai conosci.»
«Come sai tutte queste cose? Voglio
dire, capacità psioniche, variazioni
genetiche, sembri quasi uno scienziato
quando parli...»
«Lo ero. Molto tempo fa.»
Eric piegò la testa e la guardò
perplesso.
«Sono stata con gli elfi per parecchi
anni» disse lei. «Mi hanno studiata, e io
ho studiato con loro.»
Rimase in silenzio qualche secondo.
Poi con tono malinconico, mentre un
ricordo sepolto nel tempo riaffiorava
nella sua mente, disse: «Io sono un
esperimento, Eric.»
Dana si sedette accanto a lui. I suoi folti
capelli biondi gli sfiorarono le spalle ed
Eric avvertì un brivido. Da vicino era
irresistibile.
«Io sono come te» disse Dana e
chiuse gli occhi, immergendosi nei
ricordi.
«Non ho mai conosciuto i miei
genitori. Furono uccisi che avevo
appena un anno, non ho ricordi di quei
giorni. I due drowhunter che ci stavano
dando la caccia avevano il compito di
eliminare
qualunque
elfo
oscuro
avessero trovato, indipendentemente
dall’età. Ma quando mi videro, non
ebbero la forza di compiere una tale
atrocità. Così mi portarono a Prehensis.
Fu deciso che sarei stata un esperimento.
Il progetto era di crescermi come un
elfo. Volevano studiare se fosse
possibile reprimere gli istinti di un
drow, facendolo crescere in un contesto
privo di quegli stimoli. Tenendomi
all’oscuro di tutto, io crescevo e intanto
imparavo. Chimica, biologia, scienze
mediche. Mi addestrarono per essere un
drowhunter. Vivevo tutto il tempo in
quella struttura, di giorno mi allenavo,
di notte giravo furtiva tra i corridoi,
scovandone i cunicoli nascosti e
imparando a eludere la sorveglianza. I
giorni passavano. Forza, agilità, velocità
si sviluppavano come in qualunque altro
elfo, insieme però a qualcos’altro, di cui
non parlavo con nessuno e che sembravo
essere l’unica a possedere. Un giorno mi
svegliarono nel cuore della notte, mi
fecero vestire in fretta e furia e mi
portarono fuori. Non mi dissero quasi
nulla, se non che era arrivato il momento
di partecipare alla mia prima missione.
Non sapevo ancora cosa avrei dovuto
fare, né in cosa consistesse la missione.
Percorremmo molti chilometri nelle
Jeep, ricordo il buio che ci avvolgeva e
la strana sensazione di ebbrezza e
agitazione che mi riempiva le vene. Gli
elfi erano con noi, alcuni ci precedevano
di corsa per battere la strada e non
perdere le tracce delle nostre prede,
altri erano con noi nelle auto. Ricordo i
loro sguardi: ora so che mi guardavano
così perché per loro ero diversa.
Quando scendemmo, eravamo arrivati ai
margini del bosco. Ci separammo in due
gruppi e io andai col mio addestratore.
Era un uomo enorme, di poche parole,
ma teneva a me più di ogni altra cosa lì
dentro. Dopo pochi minuti, un elfo
indicò la presenza di un drow a poche
decine di metri. Era ferito, ma,
nonostante
questo,
continuava
a
scappare. Nell’aria potevo sentire il suo
sangue e i suoi passi sulle foglie secche
risuonavano nella mia mente come un
tamburo. L’addestratore mi spinse e mi
fece scattare in prima fila. Era il mio
momento, dovevo dimostrare di essermi
guadagnata la fiducia e la stima dei
compagni.
Raggiungere
quell’elfo
oscuro fu un gioco da ragazzi, lo presi
alle spalle saltandogli addosso da
lontano. Quando lo afferrai, lui non
provò subito a divincolarsi. Chiuse gli
occhi per concentrarsi e li riaprì.
Quando vide che lo stavo ancora
fissando, che lo vedevo perfettamente
nonostante i suoi sforzi di avvolgermi
nel buio, il suo sguardo mutò in
un’espressione di incredulità. Da quello
sguardo avrei dovuto capire molte cose,
che c’era qualcosa di strano, di diverso
in me. Gli occhi di quel drow valevano
più di mille spiegazioni. Erano gli occhi
di chi si vede tradito dal suo stesso
sangue. Erano un segnale, mi stavano
indicando la verità, ma io non ero
ancora pronta per vederla. Lo catturai e
lo consegnai agli altri. La mia prova di
iniziazione era superata.»
Inspirò e abbassò lo sguardo.
«L’esperimento
sembrava
avere
successo. Fino a quando non iniziai ad
assumere dei comportamenti strani.
Tendevo ad isolarmi, a passare lunghi
momenti da sola a pensare, a riflettere.
Fino a che, avevo ventuno anni, aggredii
per un futile motivo uno degli uomini
che mi stavano addestrando. Non so
perché lo feci, fu un istinto. Scappai, non
riuscivo a perdonarmelo. Non capivo
perché mi ero comportata così, ma
sentivo che, ogni giorno, cresceva in me
una sensazione di inquietudine che non
avevo mai provato prima. Quando
tornai, la notte, sentii una conversazione
tra due uomini. Uno era il drowhunter
che mi aveva trovata e portata al centro,
l’altro era l’uomo che tutti chiamavano
comandante:
Haufmann.
Stavano
parlando di me.
Il drowhunter insisteva nel dire che si
era trattato di un episodio e che non
poteva
inficiare
il
risultato
dell’esperimento. Il comandante invece
sosteneva
che
ormai
i
miei
comportamenti stavano rivelando quello
che ero veramente, un drow. Diceva di
avere sempre sostenuto che la vera
natura di un individuo non si può
reprimere,
si
può
solo
arginare,
sperando che rimanga nascosta il più a
lungo
possibile.
Secondo
lui
l’esperimento era fallito e io stavo
diventando un pericolo per tutti. Non
potevo più stare lì dentro.
Volevo entrare nella stanza e urlare
tutto il mio disprezzo, ero sconvolta. Ma
capii che avrei messo in pericolo me
stessa. Così presi di corsa le mie cose
dalla mia camera e fuggii. Corsi più
veloce che potevo, vagai per settimane
come una vagabonda. Il mio rifugio
divenne Estrielle. Nessuno mi sarebbe
venuto a cercare in questa fogna.
Passavo le mie giornate a trovare il
modo di sfamarmi e sopravvivere. Fino
a che non incontrai lui.»
Dana riprese fiato. Eric ebbe
l’impressione che di tutto ciò che gli
aveva raccontato, quell’ultimo fosse il
ricordo che le causava più sofferenza.
«Kaine stava scappando» riprese
Dana. «Era in fuga da dai drowhunter
che lo stavano braccando da giorni. Era
stanco, stremato, sembrava stordito e
confuso. Non mangiava da giorni, le
forze lo stavano abbandonando. Lo
trovai riverso dietro un cespuglio, nel
bosco, svenuto. Lo aiutai a mettere in
fuga i cacciatori. Per un periodo
vagammo insieme. Gli raccontai la mia
storia, gli dissi tutto quello che sapevo.
Mi insegnò a cavarmela da sola, mi fece
ritrovare la forza per andare avanti, il
nostro legame si strinse. Ero felice.
Stavo ritrovando una ragione per vivere.
Il mio passato si allontanava ogni giorno
di più, iniziavo ad essere me stessa. Poi,
un giorno, lui mi disse che non poteva
più stare lì. Che stava diventando
pericoloso e doveva andarsene. Ma
voleva partire da solo. Da quel momento
io non avrei più fatto parte della sua
vita.»
Dana si alzò e fece qualche passo
avanti.
«Così tornai a Estrielle. Quella ormai
era la mia casa. Gli elfi e gli umani mi
avevano tradito, gli elfi oscuri mi
avevano abbandonato. Non mi sentivo
più parte di nessuna razza. Sarei
appartenuta solo a me stessa.»
Abbassò lo sguardo.
«Tempo dopo, tra i pochi elfi oscuri
ancora liberi qui a Estrielle, si sparse la
voce che Kaine era stato imprigionato.
Non lo rividi più.»
«Perché lo stai aiutando adesso?»
chiese Eric.
«Kaine mi ha salvata, ha impedito
che mi annientassi con le mie stesse
mani, gli sarò sempre debitrice per
questo. Avrei voluto di più per noi... ma
non ero la donna per lui. Ciò nonostante,
Kaine sarà per sempre parte di me. E io
sarò per sempre legata a lui.»
Dana gli diede le spalle e si
allontanò di qualche passo. Si fermò e
ruotando sul tallone si voltò di nuovo
verso Eric.
«E tu perché lo stai aiutando?» gli
chiese con un sorriso di sfida.
«Perché se esiste anche solo una
possibilità di ritrovare mio padre,
voglio provarci.»
«Sei sicuro che sia quello il vero
motivo? O è piuttosto perché speri che
ritrovando lui, troverai anche te stesso?»
Eric
la
ascoltava
in
silenzio
mantenendo gli occhi fissi sul suo viso.
«Sappi che non ti basterà trovare
qualcuno che ti dica chi sei veramente
per sentirti davvero quel qualcuno.
Devi capirlo da solo. Guardati dentro,
non guardare cosa gli altri dicono di te.
Io non so cosa sono ora. Un drow,
un’umana, un elfo. Ho abbandonato la
mia identità nel giorno esatto in cui l’ho
scoperta. Tu sei ancora in tempo per non
rinunciarci. Devi solo ascoltare il tuo
cuore. Senti chi sei veramente e
comportati di conseguenza. Se non farai
così, ti ritroverai a cercare te stesso per
il resto della tua vita e a rimproverarti
per ogni tua azione.»
Eric deglutì, cupo in volto.
«E se non riesco a guardare dentro di
me, perché mi spaventa quello che
potrei trovare?»
Dana trasse un respiro profondo.
«La ragazza di cui mi hai parlato,
vale molto per te?»
Eric annuì, sul suo volto appariva un
velo di preoccupazione.
«Allora chiediti cosa sei disposto a
fare per lei, a cosa sei disposto a
rinunciare per averla. Solo così capirai
quale parte di te è padrona del tuo corpo
e troverai la risposta alla tua domanda.»
Capitolo 32
Distesa sul letto, col viso affondato tra
le pieghe del cuscino, Sophie si asciugò
le lacrime e si voltò a pancia in su,
ascoltando il suo cuore che aveva
smesso di battere furiosamente nel petto
e il respiro che, poco a poco, era tornato
regolare.
Si domandò da quanto tempo fosse
nella stanza. Ore? Il cielo si era scurito,
ma lasciava ancora filtrare dalla finestra
socchiusa qualche debole raggio di sole.
Non sapeva quanto fosse rimasta
sdraiata, né quante lacrime avesse
versato. Ricordava il momento in cui era
tornata a casa, in preda al panico e il
senso di vuoto che l’aveva assalita. Era
entrata in stanza correndo e aveva
sbattuto la porta alle sue spalle, si era
buttata sul letto e aveva iniziato a
piangere. A un certo punto, i suoi occhi
dovevano aver ceduto per la stanchezza
ed era crollata nel sonno, mentre ancora
le lacrime le bagnavano il viso.
Per tutto il tempo che era rimasta
sveglia, non era riuscita a smettere di
pensare agli eventi della giornata. Era
corsa via da quel luogo chiamato H2
senza dar retta a chi, dall’interno della
sala, gridava il suo nome per trattenerla.
Era stato Jimmy o suo padre? Non lo
ricordava e non aveva importanza. Era
sconvolta ed esasperata da tutte le folli
rivelazioni che aveva ascoltato. La
confusione regnava nella sua testa e la
tormentava, senza darle un attimo di
tregua. Non voleva accettare quello che
stava succedendo. Accadeva tutto troppo
in fretta e senza alcuna logica.
“Eric è un drow, non è umano” le
avevano detto. Come Jimmy. Eppure
diverso. E poi gli elfi, i drowhunter e
infine lei. Le sembrava di impazzire, non
capiva.
Jimmy l'aveva tradita tenendole
nascosto chi era. Cos’era. Aveva perso
la fiducia in lui e questo la faceva star
male.
Una
parte
di
lei
voleva
perdonarlo. Non immaginava la sua vita
senza Jimmy. Eppure non poteva.
Significava andare contro quello in cui
credeva. L'amicizia vera. Così rara da
trovare, a questo punto forse impossibile
da avere. La menzogna non poteva
appartenere all'amicizia e l'amicizia non
poteva trovare le sue origini nella
menzogna. E Jimmy le aveva mentito.
Dal primo giorno. Ogni giorno della
loro vita.
Socchiuse e riaprì gli occhi gonfi
dalle lacrime e si rigirò nel letto,
poggiandosi su un fianco.
Jimmy non era l'unico problema
senza soluzione. Dov’era Eric? E
soprattutto chi era realmente? Era il
ragazzo dolce e sensuale che le aveva
fatto perdere la testa in pochi giorni o
era il mostro che descrivevano con
freddezza suo padre e Haufmann? Non
l'aveva coinvolta dopo aver scoperto la
sua verità, eppure non riusciva ad
avercela con lui. Anzi, lo sentiva vicino,
più vicino di chiunque altro. Come lei,
aveva
scoperto
qualcosa
di
sconvolgente su di sé di cui era ignaro e
adesso stava, probabilmente, scavando
dentro sé per cercare di capire. Anche il
mondo di Eric era stato scosso da una
serie di terribili rivelazioni. A cui ne
mancava ancora una.
La sua.
Volevano che gli desse la caccia, e
forse non solo a lui.
Doveva parlargli, subito. Non poteva
aspettare. Voleva dirgli che lo capiva.
Dirgli che poteva fidarsi di lei.
D'istinto
afferrò
il
cellulare
appoggiato sul comodino e ricompose il
numero.
Era spento.
Avvertì l’ansia crescere.
Dove sei, Eric?
Era in pericolo? Non voleva sentirla?
Schiacciò con forza la fronte sul
cuscino. Le tempie pulsavano. Era
agitata. Inquieta. La testa le faceva male,
sembrava
volesse
esplodere
per
liberarsi di tutti quei pensieri. Una parte
di
lei voleva che esplodesse per
ritrovare un po’ di pace.
Sbuffò e sbatté i pugni sul letto.
Il suo viso d’un tratto si illuminò. Si
alzò di scatto dal letto e si sedette alla
scrivania. Mentre alzava lo schermo del
netbook si sentì stupida per quello che
stava per fare, ma forse l'avrebbe aiutata
a capire. Almeno l'avrebbe distratta da
tutti i pensieri che le si intrecciavano
nella mente.
Digitò su Google la parola “drow” e
premette invio.
Cliccò col mouse sul primo link
dell’elenco che le apparve sullo
schermo.
Abbassò di colpo lo schermo del
portatile.
Oddio.
Le mani le tremavano mentre i ricordi
si materializzavano uno dopo l’altro
nella mente, componendo un disegno che
prima di allora non era stata in grado di
cogliere.
La fuga dal rifugio la prima notte, la
cena al buio, il fastidio al sole, e infine
le sue parole nel bosco.
Tutto quello che gli aveva visto fare,
ora aveva un senso.
Ma tutto il resto?
No. Quello che aveva appena letto
non poteva rappresentare Eric. Non il
suo Eric. Non il ragazzo che amava, per
il quale avrebbe sacrificato ogni cosa.
Le tornarono in mente le parole del
professor Haufmann: “Anche se Eric non
mostra adesso i tratti della sua razza,
prima o poi li svilupperà. È solo
questione di tempo”.
Il suo corpo fu pervaso da un tremito
al ricordo di quella frase. Non poteva
crederci. Non voleva credere che Eric,
prima o poi, sarebbe diventato così.
È solo questione di tempo.
Drow,
adesso
conosceva
il
significato di quella parola. Proprio per
questo non si sarebbe rassegnata fino a
quando non l'avesse visto con i suoi
occhi mostrare la crudeltà che gli
attribuivano. Fino ad allora per lei Eric
sarebbe rimasto lo stesso. Tutto il resto
non gli apparteneva.
È solo questione di tempo.
Doveva vederlo. Prese il cellulare e
lo chiamò di nuovo. Ancora niente.
Ruotò il cellulare di novanta gradi e
scrisse senza pensare.
Ho bisogno di te
ti prego chiamami
Ripose il cellulare sul comodino di
fianco al letto.
Pochi secondi e lo riprese.
Controllò. Nessuna risposta.
Lo posò di nuovo.
Lo riprese. Lo schermo era ancora
nero.
Non sapeva cosa fare.
Perché Eric? Perché mi fai questo?
Aveva ancora il cellulare tra le mani.
In un gesto istintivo schiacciò di nuovo
l'icona dell'ultima chiamata effettuata.
Questa volta il cellulare squillò. Due,
tre, quattro volte.
Finalmente qualcuno rispose. In
silenzio.
«Eric» disse Sophie a bassa voce.
Silenzio.
«Eric... sei tu?»
Silenzio.
Capitolo 33
La voce di Sophie giungeva dall’altro
capo
del
telefono
impercettibile,
spezzata da profondi respiri. Eric tremò.
Sentirla era come ritrovare in un lampo
un mondo che credeva perduto. Appena
risalito in superficie, il cellulare aveva
iniziato a vibrare nella tasca a intervalli
regolari. Sottoterra la linea era assente
e, solo una volta all’esterno, si era
accorto dei messaggi ricevuti che
mostravano che qualcuno lo aveva
cercato.
Dana gli aveva intimato di non
tornare in superficie, era pericoloso e
Kaine non avrebbe approvato, ma a lui
non importava. Aveva bisogno di
risalire. Tutte quelle ore lì sotto avvolto
dal tanfo dell’aria sporca e provato
dall’addestramento
che
stava
affrontando,
lo
stavano
sfinendo.
Doveva riprendere aria, sentire di nuovo
il vento freddo della sera sul viso.
Aveva attraversato di corsa la piazza di
spaccio delle armi e poi il tunnel che
portava alla fermata mai utilizzata della
metropolitana. Ripercorrendo l’esatto
percorso dell’andata, era riuscito ad
orientarsi nel dedalo di gallerie che
componevano il sottosuolo di Estrielle.
Una volta riemerso in superficie aveva
imboccato
le
scale
della
metro,
guardandosi attorno con circospezione e
finalmente era uscito all’aria aperta.
Aveva cercato un posto riparato, dietro
uno dei palazzi circostanti, che gli desse
una buona visuale sulla zona attorno.
Nel caso qualcuno si fosse avvicinato,
se ne sarebbe accorto con largo anticipo
e avrebbe avuto il tempo di decidere se
nascondersi o tornare nei sotterranei.
Sul
display
lampeggiavano
insistentemente
tre
messaggi,
tutti
provenienti da un solo numero, quello di
Sophie. Li aveva letti ed era rimasto,
per qualche secondo, a fissare il
cellulare, indeciso sul da farsi. Doveva
chiamarla come lei lo implorava di fare
o sforzarsi di tenerla ancora fuori da
tutto ciò che gli stava succedendo?
Stava ancora indugiando, quando il
cellulare aveva ripreso a vibrargli tra le
mani. Avrebbe voluto resistere alla
tentazione di rispondere, ma la sua forza
di volontà non era stata sufficiente a
ostacolare la voglia di riascoltare la
voce di Sophie. A quel punto, gli era
bastato sentirle pronunciare il suo nome
per capire quanto gli fosse mancata.
Nonostante la rocambolesca fuga
dalla città e tutti gli eventi successivi
che non gli avevano dato tregua, non
aveva smesso mai, nemmeno per un
attimo, di pensare a lei. Avrebbe voluto
parlarle, vederla, stringerla a sé,
raccontarle ogni minimo dettaglio di
quello che gli stava succedendo.
Ma non poteva. Non poteva perché la
amava. L’amava a tal punto da
rinunciare a lei e al loro amore pur di
non rischiare di metterla in pericolo.
Lei era l’unica con cui si era aperto,
a cui aveva rivelato ciò che nemmeno
lui capiva fino in fondo: quei lati oscuri
che portava da sempre dentro di sé e che
non aveva mai condiviso con nessuno.
Ora che sapeva, avrebbe desiderato
dirle tutto. Si fidava di lei, ma preferiva
allontanarsi se questo fosse servito a
farla stare al sicuro. Non avrebbe mai
potuto coinvolgerla, col rischio che
potesse accaderle qualcosa. Se fosse
rimasta ferita o uccisa non avrebbe
avuto pace per l’eternità.
No, sarebbe morto per lei, ma non
avrebbe mai potuto sopportare il
contrario. Vederla morire sarebbe stato
come morire due volte.
Capitolo 34
Sophie sentiva che era lui dall'altra
parte. Inspirò profondamente per darsi
coraggio.
«Eric... sono io» la voce le tremava.
«Ti prego, parlami. Dimmi dove sei.»
Silenzio.
Una lacrima le rigò la guancia,
scendendo fino al mento. «Non fuggire
da me, ti supplico. Non tenermi fuori da
quello che ti sta succedendo. Lasciami
entrare. Insieme possiamo farcela,
possiamo affrontare qualsiasi cosa. Non
tenerti tutto dentro, non puoi sopportare
tutto da solo. Hai bisogno di me. Io ho
bisogno di te.»
L'unica risposta che udì fu ancora un
interminabile silenzio che si diffuse dal
cellulare e si espanse nella stanza. Un
altro rivolo di lacrime le scivolò sul
viso, perdendosi sul letto. Senza farsi
vincere dallo sconforto, Sophie continuò
a parlare sperando di poter sentire la
sua voce.
«So tutto, Eric» deglutì ansiosamente.
Le parole faticavano a uscire, forse per
l’assurda realtà che contenevano. «Mi
hanno detto tutto. Jimmy, Haufmann... gli
elfi e...» prese fiato. «So cosa sei... so
che sei... un drow. Ma so anche che
quella parola non vuol dire nulla per me.
Non ha alcun significato... Quello che gli
altri dicono di te non mi interessa. So
che tu non mi faresti mai del male.»
Anche se c'è chi giurerebbe il
contrario.
«Perché io so chi sei veramente. Sei
Eric. Il mio Eric. Sei quanto di più bello
mi sia mai capitato e non c'è niente al
mondo che potrà mai cambiare quello
che provo per te.»
Singhiozzò,
mentre
ebbe
l’impressione di udire un sospiro
provenire dall'altro capo del telefono.
«Perché io...»
«Io...»
«Ti amo.»
Ci fu ancora silenzio.
Nessun sospiro.
Nessun rumore.
Solo un lungo silenzio.
Sophie piegò le labbra in una
smorfia. Un dolore sordo le pervase il
corpo fin dentro alle viscere. Strofinò i
palmi delle mani sugli occhi, per
asciugare le lacrime.
Non voleva crederci.
Perché, Eric? Perché?
Non poteva finire così. Non al
telefono, non senza rivederlo almeno
un’ultima volta. «Se non vuoi parlarmi
non farlo, ma almeno guardami per
l'ultima volta negli occhi e dimmi che
non t’importa niente di me.»
La voce di Sophie era straziante,
riusciva a malapena a parlare tra i
singhiozzi e le lacrime.
«Incontriamoci. Almeno questo me lo
devi.»
Dove? pensò.
Le tornò in mente il bosco dove Eric
l'aveva portata il giorno in cui si era
presentato a casa sua sconvolto e dove
poi l’aveva baciata.
Sì, lo avrebbe incontrato lì.
Fece per dirglielo, ma un pensiero
improvviso le bloccò la mente. E se il
suo cellulare fosse stato sotto controllo?
Non diventare paranoica, Sophie.
Il panico la assalì ugualmente.
Chiamarlo era stato un errore, lo aveva
appena messo in pericolo? Rabbrividì al
solo al pensiero. Come aveva fatto ad
essere così ingenua. Ormai era troppo
tardi per tirarsi indietro, doveva trovare
il modo di indicargli quel luogo senza
che qualcuno all’ascolto potesse capire.
Ad un tratto seppe come comunicargli
il punto preciso.
«Domani, al tramonto. Ti aspetterò...
dove mi hai fatto toccare con mano i tuoi
incubi.»
Si schiarì la voce.
«Spero ci sarai.» Rimase in silenzio
per qualche secondo, poi aggiunse:
«anche perché c'è una cosa che devi
sapere... e riguarda me.»
Capitolo 35
Jimmy aveva dato tutte le indicazioni
c he era riuscito a ricordare sul luogo
dove aveva visto Eric e Kaine per
l'ultima volta. Da quello spiazzo in cui
era stato lasciato privo di sensi erano
cominciate le ricerche.
I cacciatori avevano perlustrato tutta
la zona, muovendosi in un raggio di due
chilometri.
Senza
dare
troppo
nell’occhio avevano fatto domande su
due individui sospetti, spacciandoli per
detenuti in fuga, ma non avevano
ottenuto risposte soddisfacenti. Avevano
provato a seguire le poche tracce che
avevano, ma niente: Eric e Kaine
sembravano
scomparsi
nel
nulla.
Nessuno li aveva visti. Kaine si stava
muovendo con astuzia e i drowhunter
brancolavano nel buio.
Luther
non
voleva
arrendersi.
«Continuate a cercare» ripeteva, in
risposta alle innumerevoli chiamate
ricevute dai cacciatori per fare rapporto,
tutte riportanti lo stesso identico
contenuto:
“Negativo,
capitano.
Attendiamo nuove istruzioni.”
Chiuse il telefono per l’ennesima
volta, sempre più in pensiero. Iniziava a
scoraggiarsi. Haufmann gli aveva messo
pressione per completare le ricerche e il
tempo che gli aveva dato stava
rapidamente giungendo agli sgoccioli.
Dichiarare
il
fallimento
della
missione non era un’opzione valida.
Aveva un incarico e doveva trovare il
modo di portarlo a termine. Ma come?
Nella sua carriera di drowhunter aveva
dato la caccia a decine di elfi oscuri.
Ma nessuno aveva le caratteristiche di
Kaine. Spietato come pochi, dotato di
un’arguzia inimmaginabile e di una
capacità di pensiero velocissima, era
sempre in grado di raggiungere il suo
scopo, anche nelle situazioni più
impensabili. Prova ne era la fuga dal
carcere, unica nella storia di Prehensis.
Nella
sua
scheda,
nell’archivio
informatico dell’H2, veniva sottolineata
più volte la sua “totale assenza di
emozioni, mai riscontrata in un drow”,
che
ne
faceva
un
soggetto
incontrollabile.
Questa caccia era diversa da tutte le
altre. Come poteva trovare due drow di
cui non si conoscevano le intenzioni e
che non avevano nessun legame tra loro?
O meglio un legame esisteva: Logan.
Avrebbero provato a liberarlo? Era
un’ipotesi troppo azzardata per il
momento. Meglio concentrarsi sulle
ricerche. Ma le informazioni in loro
possesso non conducevano a nulla. Dove
potevano essere? Dove si stavano
nascondendo?
Il trasmettitore gracchiò.
«Qui Stevens, capitano.»
Luther accostò le labbra al ricevitore.
«Rapporto, Stevens» la voce di
Luther era stanca.
«Abbiamo
una
pista,
capitano
Evans.»
Luther spalancò gli occhi e si sistemò
sulla sedia. Non riusciva a credere alle
parole che aveva appena sentito.
Finalmente una buona notizia?
«Specificare» disse seguendo lo
standard di comunicazione.
«Abbiamo identificato due tracce che
sembrano combaciare al novanta per
cento con i fuggitivi. Le abbiamo
seguite. S’interrompono dinanzi a una
portella orizzontale nascosta nel terreno.
Richiediamo autorizzazione a entrare.»
Sei il migliore Stevens.
«Autorizzazione concessa.»
Trattenne a stento l'euforia, se
Stevens fosse stato lì, gli avrebbe dato
all'istante una promozione. Era un ranger
esperto nel seguire impronte e la pioggia
lo aveva di sicuro aiutato.
Luther avvertì, per la prima volta, la
tensione fluire dai muscoli. A quanto
pare ce l'avevano fatta.
Passarono
alcuni
minuti
interminabili. Luther sedeva con le
gambe accavallate, scuotendo senza
sosta il piede destro.
Quando la trasmittente gracchiò di
nuovo, rispose immediatamente.
«Allora?»
«Negativo, capitano» la voce di
Stevens era molto meno euforica questa
volta. «Il sotterraneo è vuoto.»
Quelle parole lo gelarono. Stevens
proseguì nel rapporto: «Probabilmente
lo hanno utilizzato temporaneamente
come nascondiglio. Ci sono tracce
recenti.»
Luther
imprecò.
«Mettete
a
soqquadro quel posto e trovatemi
qualcosa!» gridò, questa volta senza
curarsi di seguire lo standard.
Dannazione. Non aveva più scuse.
Doveva chiamare Haufmann ed esporgli
la situazione: non aveva nulla. Aveva
fallito.
Prese il telefono e compose il
numero.
Quando Haufmann rispose al secondo
squillo, le parole gli si soffocarono in
gola.
«Comandante... le ricerche non
stanno dando i frutti sperati.» Ci fu un
attimo di silenzio. «Non abbiamo niente.
Andiamo
avanti
nelle
ricerche.»
Riagganciò e si lasciò andare sulla
poltrona, appoggiando il collo sullo
schienale. Sbuffò e guardò verso il
soffitto. Per la prima volta stava
perdendo il controllo di una missione.
Nel silenzio del suo studio, Haufmann
non disse nulla e chiuse a sua volta la
comunicazione. Fece qualche passo
verso il centro della stanza, con lo
sguardo solo apparentemente perso nel
vuoto. Aveva un'idea, ma non poteva
condividerla con Luther. Non questa
volta.
Capitolo 36
Quando Kaine tornò da Eric e Dana era
ormai notte fonda. Entrò rumorosamente
nell’appartamento, tenendo tra le mani
un televisore a tubo catodico di almeno
trenta pollici. Era forte abbastanza da
reggerlo da solo.
Eric e Dana gli rivolsero un’occhiata
storta, ma a nessuno dei due sfiorò l'idea
che Kaine avesse sviluppato un senso
e s te ti c o vintage per l'arredamento.
Sapevano entrambi come avvenivano gli
scambi
a
Estrielle
e
non
si
meravigliarono quando Kaine mostrò il
contenuto rimuovendo il sottile pannello
in plastica dal retro dello schermo.
All’interno
dell’improvvisato
contenitore le armi erano di ogni tipo:
fucili a canne mozze, pistole, granate,
munizioni e altro che Eric non sapeva
identificare.
In più, lo zaino che Kaine portava
sulle spalle, una volta poggiato a terra e
aperto, mostrava abiti neri, corde,
walkie-talkie e attrezzi di varia natura.
Insomma, c’era tutto l'occorrente per una
missione militare in piena regola.
«Allora, che ve ne pare?» esordì
Kaine. Ci aveva messo un bel po' di ore
a racimolare tutto, ma era soddisfatto.
C'era quello che serviva.
«Potevi fare di meglio» lo stuzzicò
Dana estraendo uno a uno gli oggetti ed
esaminandoli con cura. «Mancano i
mitra e i giubbotti antiproiettile»
aggiunse
per
avvalorare
la
sua
affermazione.
Kaine lo sapeva. Purtroppo il
mercato dell'illecito non funzionava
come un negozio d'armi. Bisognava
accontentarsi di quello che c’era.
Magari, con un po' di tempo in più,
avrebbe
potuto
completare
l'equipaggiamento con i pezzi mancanti,
ma, come mitra e giubbotti, anche il
tempo scarseggiava. Dana non aspettò
che
Kaine
rispondesse,
sapeva
benissimo come funzionava lo smercio
delle armi a Estrielle. La frase
pronunciata
era
stata
solo
una
provocazione. Non aggiunse altro, era
arrivato il momento di dare a Kaine
quello che voleva.
Si diresse verso l’angolo della stanza
adibito a cucina, prese il notebook e lo
adagiò sul tavolo vicino a loro, dove
erano state disposte le armi. Collegò il
portatile allo schermo 42 pollici che
faceva bella mostra di sé sul tavolo e lo