SIMON ROWD
Drow
Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi,
personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto
dell’immaginazione dell’autore o sono usati in
maniera fittizia. Qualunque somiglianza con
fatti, luoghi o persone reali, viventi o
scomparse, è del tutto casuale.
simon.rowd@gmail.com
www.amazon.it
ISBN 978-14-92-93306-9
Copyright © 2014 Simon Rowd
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qualsiasi modalità attualmente nota od in
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Alla mia famiglia
Ognuno di noi è una luna:
ha un lato oscuro che non mostra mai a
nessun altro.
MARK TWAIN
Pensi che l'oscurità sia tua alleata,
ma tu hai solo adottato le tenebre.
Io ci sono nato.
BANE, The Dark Knight Rises
Indice
PROLOGO
«Non avresti dovuto farlo!» gridò Arline
stremata dalla corsa sotto la pioggia.
«Non così all’improvviso!»
Ripensò a quante volte aveva ripetuto
quelle stesse parole.
«Sai benissimo che non avevamo
altra scelta» ribatté Logan senza
nemmeno voltarsi. «Ho solo anticipato i
tempi, aspettare ancora non avrebbe
cambiato nulla. Ora dobbiamo solo
pensare a come far perdere le nostre
tracce.» Si abbassò ed evitò all’ultimo
un ramo spezzato. La cesta che reggeva
in mano per poco non si capovolse. «Al
diavolo questa dannata pioggia!»
Sentiva il fiato dei loro inseguitori
sul collo. In condizioni normali li
avrebbero seminati agevolmente, ma il
temporale scoppiato all'improvviso e il
terreno ridotto in fanghiglia stavano
rallentando la loro fuga. Coperto dalle
nuvole, il sole sembrava non volesse
saperne di tramontare e diffondeva
ancora nell’aria una debole luce. Quanto
bastava a infastidirli e frenare ancora di
più la loro corsa.
Arline incespicò tra le radici degli
alberi che spuntavano dall’erba come
trappole e cadde a terra. Ascoltò il
cuore batterle nel petto ed ebbe
l’impressione che da un momento
all’altro le avrebbe sfondato il torace.
Affondò le mani nel fango per
rialzarsi e riprese a correre. Tutto era
diventato più complicato del previsto.
Sentiva la speranza scivolarle dalle
mani. Tra le paure che avevano scandito
i giorni precedenti, aveva sottovalutato
quella che in fondo al cuore temeva di
più: la proverbiale impulsività di Logan,
che lo rendeva così affascinante e allo
stesso
tempo
terribilmente
incontrollabile.
Quel gesto improvviso che Logan
aveva compiuto, guidato solo da un
innato istinto di protezione, li aveva
esposti come mai era accaduto prima e
ora erano costretti a fuggire senza una
meta e con quel cesto che pesava come
un macigno.
Pochi minuti e quello stesso istinto
portò Logan a pronunciare ansimante la
frase che la raggelò: «Dobbiamo
lasciare il cesto.»
Arline arrestò la corsa e sgranò gli
occhi. Quelle parole risuonarono come
un urlo straziante e le si attorcigliarono
in pancia in una fitta pungente.
«Non lo farò mai!» strillò con
l'ultimo soffio di fiato che lo sforzo
della corsa le aveva lasciato in gola.
«Non mi priverò mai della cosa più
importante della nostra vita.»
Il respiro si fece affannoso e con una
mano si asciugò le lacrime di sudore che
le bagnavano il viso.
«Non lascerò mai che...»
E in quel preciso istante il tempo per
Arline non ebbe più alcun senso. Il
giorno, la notte, la vita, l'amore, in una
frazione di secondo tutto svanì per
lasciare spazio alla staticità di ciò che
sarebbe stato, poi, solo ricordo.
Logan udì lo sparo e si voltò di
scatto, incrociò gli occhi violacei di
Arline, quegli occhi che tante volte gli
avevano dato la forza di andare avanti.
Li vide spalancarsi in un lampo di
sorpresa, terrore e rassegnazione e
osservò la bocca contorcersi in una
smorfia di dolore. Non seppe mai se fu
per le parole che aveva pronunciato o
per il proiettile che le aveva appena
trafitto il cuore.
Il corpo di Arline cadde a terra privo
di vita, in silenzio. Logan si precipitò a
soccorrerla evitando, con quel cambio
di direzione repentino, il secondo
proiettile destinato alla sua nuca. Mentre
torceva il busto rallentando la corsa, udì
il sibilo della pallottola che si
conficcava nel tronco dell’albero alle
sue spalle. Fece appena in tempo a
guardare per l'ultima volta il viso di
Arline e a stupirsi come sempre della
sua oscura bellezza, che si ritrovò faccia
a faccia con l'uomo che aveva sparato.
Si guardarono per un istante dritto
negli occhi.
Poi, inaspettatamente, attorno a loro
tutto divenne buio.
L’uomo
si
trovò
avvolto
da
un’oscurità così intensa da non riuscire a
scorgere le sue stesse mani. Disorientato
dall’improvvisa e inspiegabile assenza
della luce del sole, si bloccò con l’arma
puntata in avanti. Logan, invece, riprese
la sua corsa senza esitare. Sul suo volto
teso e per la prima volta intriso di
lacrime, si leggevano solo odio e
vendetta.
Non c'era spazio per nient'altro, non
più ormai.
Odio e vendetta.
I suoi occhi erano spenti, la sua
mente offuscata.
Odio e vendetta.
Solo un barlume di lucidità gli
imponeva, contro la sua stessa natura, di
non affrontare quell'uomo in quel
momento. Doveva prima trovare un
posto sicuro per il cesto e doveva farlo
in fretta. I battiti accelerarono, i passi
aumentarono e la corsa si fece più
intensa.
Il violento temporale aveva lasciato
il posto ad una pioggia appena
percettibile e il sole stanco era stato
scalzato da una notte senza luna.
Logan proseguì da est a ovest per
confondere le proprie tracce e si ritrovò
di fronte ad una piccola costruzione in
legno circondata da uno steccato che
recintava un ampio giardino dal manto
verde privo di alberi. Di fronte al
portone d’ingresso una targa con i nomi
dei proprietari e un cartello eloquente.
CAN CHE ABBAIA, FIDATEVI, MORDE
Era quello che cercava. Agì guidato
solo dall'istinto, scavalcò il recinto e si
diresse verso l’entrata senza fare alcun
rumore. Un pastore maremmano dall'aria
bonacciona, a pochi metri di distanza,
alzò la testa e drizzò le orecchie.
Sembrò sul punto di reagire a
quell’inattesa intromissione, ma il
latrato violento che stava per esplodere
gli si soffocò in gola, mutando in un
singhiozzo sommesso. Logan lo fissava
gelido negli occhi. Non rappresentava
una minaccia, non per lui. Il pastore
abbassò le orecchie e si rintanò nella
cuccia, intimorito.
Logan si voltò verso l’ingresso, in
pochi passi raggiunse la porta e si
abbassò all’altezza della maniglia. Gli
bastarono una decina di secondi per far
scattare
la
serratura.
Dischiuse
lentamente la porta e diede un’occhiata
all’interno. Nel buio ogni cosa appariva
ordinata con cura. Fece un respiro
profondo, allungò il braccio oltre la
soglia e depositò il cesto all'interno
della casa.
Guardò un’ultima volta dietro di sé e
ripensò ad Arline. Le avrebbe fatto
piacere poter mantenere il nome che
avevano scelto insieme. Un ultimo gesto
per ricordare lei e la loro unione.
Abbassò lo sguardo sullo sgabello in
legno accostato alla porta: un cumulo di
giornali saliva a formare una piccola
pila su cui erano appoggiati un paio di
occhiali spessi e una penna senza
cappuccio. Senza pensarci troppo,
strappò un pezzo di carta da un angolo
del giornale in cima e, con la penna che
gli tremava tra le dita, affidò a quel
foglietto poche semplici parole.
Girò il pezzetto di carta e tratteggiò
due sottili iniziali. Adagiò il biglietto
nella cesta infilandolo tra le soffici
lenzuola che avvolgevano il piccolo
corpo addormentato. Con le dita sfiorò
la guancia leggermente arrossata per il
freddo.
«Addio, Eric» sussurrò con un tuffo
al cuore.
Fece un passo indietro e richiuse la
porta. Un brivido lo percorse al
pensiero che non lo avrebbe più rivisto.
Si riprese e diede una rapida
occhiata attorno. Nessuno si era ancora
avvicinato. Era riuscito ad accumulare
un po’ di vantaggio, ma non ci
avrebbero messo molto ad arrivare a
esplorare anche quella zona del bosco.
Non poteva rimanere fermo troppo a
lungo, se non voleva che i suoi
inseguitori iniziassero a sospettare che
si fosse fermato in quella casa. Doveva
riprendere la fuga e far perdere le
proprie tracce.
Si rimise a correre, pervaso da uno
strano senso di leggerezza misto ad
angoscia. Era sfinito, l'adrenalina e
l'istinto di protezione che lo avevano
guidato fin lì erano stati soppiantati
dalla stanchezza e dalla sensazione di
aver perso tutto. Eppure non voleva
fermarsi, più si allontanava più si
sentiva sicuro, per sé e per Eric.
E a un tratto lo udì, inconfondibile
per un orecchio come il suo, quel
rumore di passi a qualche centinaio di
metri da lui. Si arrampicò sull'albero
più vicino e scorse i tre uomini che gli
stavano dando la caccia intenti a
valutare le tracce e confabulare tra loro.
Indossavano un’uniforme nera su cui
spiccava, all’altezza del petto, uno
stemma con una freccia dorata rivolta
verso il basso. Riconobbe tra loro il
volto di chi gli aveva portato via Arline.
L'impulsività che era riuscito a tenere a
bada sino a quel momento, insieme
all'odio e al desiderio di vendetta, ebbe
il sopravvento. Si diresse verso di loro
balzando di albero in albero. Non
appena fu sopra le loro teste, estrasse le
due pistole che portava sempre con sé e
si lanciò su quelli che, fino a un attimo
prima, erano stati i suoi predatori. I due
proiettili,
sparati
con
precisione
assoluta durante la caduta, uccisero
all'istante due dei tre individui. Il terzo
fece appena in tempo a capire che
qualcosa dall'alto gli stava rovinando
pericolosamente addosso, che si ritrovò
a terra, disarmato e intontito. Logan,
adesso, aveva davanti a sé quel volto.
Ripensò ad Arline e senza esitare iniziò
a massacrarlo con ferocia inaudita. In
preda all'odio e alla sete di vendetta lo
colpì ripetutamente e, quando sentì il
cuore dell'uomo sotto di lui arrestarsi,
non fece altrettanto e continuò a
infierire.
Se i suoi sensi non fossero stati
offuscati dalla rabbia cieca di quel
momento, lo avrebbe avvertito, ma in
quella sorta di trance, posseduto dal suo
solo lato oscuro, Logan non avrebbe mai
potuto accorgersi che dietro di lui una
figura filiforme si era avvicinata e gli
puntava un fucile alla testa.
La figura avanzò silenziosa finché
non si trovò ad un palmo da Logan,
strinse con forza il fucile e trattenne il
respiro.
Logan si voltò e in un attimo tutto fu
avvolto dal buio.
Capitolo 1
Il profumo amaro del caffè si diffuse
nell’aria cancellando ogni altro odore
nel locale. Sophie chiuse gli occhi e
assaporò l’aroma prima che svanisse.
«Ecco a voi» disse una voce
femminile.
Sophie trasalì. Si accorse di essere
sovrappensiero da qualche minuto. Sul
tavolino erano comparse due tazze
fumanti piene fino all’orlo. La cameriera
svuotò il vassoio e sistemò con cura sui
piattini qualche bustina di zucchero e
due cucchiaini di plastica.
Sophie fissò la mano della ragazza
ritrarsi velocemente col vassoio vuoto
tra le dita.
Afferrò la tazza e bevve un sorso.
Spostò di nuovo lo sguardo oltre la
grossa vetrata alla sua destra. A poche
decine di metri, il campus della Dorton
University stava lentamente riprendendo
vita, animandosi dei volti più o meno
sorridenti degli studenti.
Settembre era arrivato portando con
sé
un
residuo
di
spensieratezza
dell'estate appena trascorsa e in città si
respirava
ancora
la
piacevole
sensazione di calma che ben presto, con
il ritorno alla normalità, avrebbe ceduto
il passo al ritmo frenetico della
quotidianità.
Era strano pensare che Skittburg, di lì
a poco, si sarebbe riempita di traffico e
confusione, eppure, ormai da anni aveva
perso l’aspetto della cittadina tranquilla,
trasformandosi in una metropoli di
grattacieli e larghe vie traboccanti di
negozi. Gli unici tratti riconoscibili del
vecchio paese di mare erano il clima
mite e ventilato e l’aria salmastra
percepibile
ad
ogni
angolo.
La
combinazione tra grande città e piccolo
centro dava vita a un contrasto tanto
insolito quanto irresistibile.
Nel centro del cortile principale,
poco distante, l’orologio del campus
scandiva le 8:30.
Sophie sbadigliò e distese le gambe
sotto al tavolino. Prese un altro sorso di
caffè e si guardò attorno. Il via vai di
studenti era aumentato, ma le voci nel
locale si erano acquietate. Tutte tranne
una, che continuava imperterrita a tono
sostenuto.
Sophie si voltò. Seduto di fianco a
lei, Jimmy stava ancora parlando. Non si
era accorto di nulla, nemmeno della
cameriera che aveva appoggiato il suo
caffè a un centimetro dalla fotocamera
digitale. Aveva perso gli ultimi cinque
minuti di racconto, ma poco importava.
Si erano ritrovati presto, prima
dell’inizio delle lezioni, per fare
colazione
insieme e immergersi nei
racconti l'uno dell'altra.
Jimmy,
come al solito, aveva
cominciato per primo, mostrando le foto
delle città visitate nel sud della Spagna.
«E questa chi è?»
Sophie indicò con la punta del dito il
volto della ragazza comparsa sul display
della reflex che Jimmy stringeva tra le
mani.
«Una di passaggio.»
Sophie
strisciò
l’indice
sul
touchscreen della fotocamera scoprendo
la foto successiva. «Di passaggio, certo.
E qui immagino fosse di passaggio... nel
tuo letto.»
La foto ritraeva lo stesso volto dello
scatto precedente, adagiato su un
cuscino bianco, con gli occhi chiusi e il
viso rilassato.
Jimmy guardò Sophie tradendo un
sorriso. «È incredibile, al giorno d’oggi
non puoi distrarti un attimo che ti ritrovi
nella reflex foto compromettenti. Ti
giuro, non ho idea di chi abbia scattato
quella foto...»
Scoppiarono a ridere.
«Certo, come no...» Sophie gli
strappò di mano la macchina fotografica.
«Ho come il presentimento che sia solo
la prima di una lunga serie...»
«Ehi, ma per chi mi hai preso? Non
sono mica un gigolò!» Prese la tazza e
bevve il suo caffè tutto d’un sorso.
«Solo perché non ti fai pagare.»
Sophie fece scivolare di nuovo l’indice
sul display. «Ah, beccato di nuovo!»
Continuò a trascinare il dito da destra a
sinistra. «Eccone un’altra... e un’altra
ancora... e ancora... Oddio, Jimmy, ma
quante sono...?»
«Ok, basta, dammi qua.» Jimmy le
tolse la fotocamera dalle mani. «Non è
come credi, alcune sono solo amiche.»
«Ah sì...? Anch’io sono una tua
amica, la migliore mi verrebbe da dire,
ma non ricordo foto di me mezza nuda
nel tuo letto.» Sophie arricciò le labbra
e lo guardò divertita, con aria di sfida.
«Che c’entra? Tu sei diversa. Sei
quella che si definisce una... una...»
Jimmy posò di colpo la reflex e prese in
mano le due tazze ormai vuote. «Vado a
ordinare altri due caffè, non vorrei mai
che ti addormentassi il primo giorno di
lezione.» Cambiò tono di voce e
imitando il professor Gilbor aggiunse:
«Sarebbe a dir poco inammissibile.»
«Certo, professore.» Sophie sorrise e
si adagiò sullo schienale della sedia
mentre lo osservava allontanarsi.
Notò
con
soddisfazione
che
indossava dalla testa ai piedi vestiti
regalati da lei: i pantaloni kaki a vita
bassa, stretti alla caviglia e la t-shirt dal
sapore un po’ vintage tanto criticata
all’inizio e diventata poi una seconda
pelle. Sulle spalle, un cardigan grigio a
quadri scozzesi gli donava il tocco di
eleganza a cui non rinunciava mai. Non
era difficile regalargli qualcosa da
indossare, il fisico slanciato valorizzava
qualsiasi capo e l’atteggiamento fiero e
sicuro di sé faceva il resto.
Sophie lo seguì con lo sguardo fino in
fondo alla sala e lo vide sporgersi verso
la ragazza al bancone e dirle qualcosa.
La ragazza annuì e appuntò alcune
parole sul block-notes. Jimmy spinse le
spalle più avanti e le parlò ancora. Lei
sorrise e sistemò una ciocca di capelli
dietro l’orecchio. Jimmy rispose al
sorriso e tirò fuori dalla tasca il
cellulare.
Adesso anche con la cameriera?
pensò Sophie. Scosse la testa e riprese
in mano la macchina fotografica. Sfogliò
le foto appena viste e proseguì oltre.
Quando Jimmy tornò coi due caffè,
Sophie girò il display della reflex verso
di lui.
«Beh, devo ammettere che alle volte
hai buon gusto... e non mi riferisco alla
cameriera.» Gli mostrò la nuova foto
trovata.
«Ah, Helena» sospirò Jimmy e bevve
un sorso dalla tazza. «Conosciuta la
notte di San Lorenzo a Barcellona. Le
dissi che non poteva rifiutarsi di passare
la notte con me, visto che avevo appena
espresso quel desiderio guardando una
stella cadente. E lei accettò.»
Sophie scosse la testa. «Ma come fai
a conquistarle in questo modo? Non
riuscirei mai a rimanere seria mentre me
lo chiedi.»
«Lo dici solo perché siamo nel posto
sbagliato e nel momento sbagliato»
ribatté Jimmy. «Le parole sono come
lucertole per la loro capacità di
cambiare colore in base al luogo dove le
pronunci» sentenziò.
«Colto e divertente... un mix letale
per qualunque ragazza.»
Jimmy alzò le sopracciglia. «E questi
occhi lucenti come l’argento e i capelli
biondi come l’oro fanno il resto.»
Scoppiarono entrambi in una risata.
«In fondo voi ragazze siete sempre
state attratte dai metalli preziosi»
aggiunse.
«Parla per le tue amiche.» Sophie
posò sul tavolo la macchina fotografica
e incrociò le braccia. «E comunque non
hai ancora risposto alla mia domanda.»
«Quale domanda?»
«Cosa
sarei
io?
Dammi
una
definizione, dato che non rientro nel tuo
concetto
di
amica...»
lo
guardò
fingendosi indispettita.
«Sei sicura di volerlo sapere?»
Avvicinò il suo viso a quello di Sophie.
«Potrebbe cambiare tutto... tra noi.»
Sophie deglutì.
«Jimmy...» Si ritrasse leggermente e
corrugò la fronte.
Jimmy si avvicinò ancora. «Per me tu
sei... sei... il mio migliore amico.»
Sophie gli schiaffeggiò il braccio.
«Scemo!»
disse
e
si
adagiò
completamente sullo schienale.
«Davvero, solo che hai le sembianze
di una ragazza.» Le mise una mano
intorno alla spalla e la strinse a sé. «Sai
benissimo che non rientri in nessuna
categoria, per me sei un’amica, una
sorella e a volte anche una figlia.»
Sophie rise e gli appoggiò la testa
sulla
spalla.
Il
suo
profumo
inconfondibile possedeva un che di
magico e aveva il potere di rilassarla.
Quel profumo era una presenza costante
nei suoi ricordi. Jimmy, per lei, c’era
sempre stato: c’era la prima volta che
aveva saltato la scuola ed era stata
maldestramente scoperta; c’era a gioire
con lei della patente appena presa e a
consolarla dopo il primo incidente;
c’era tutte le volte che era stata costretta
a rimanere a casa in punizione.
Jimmy sapeva tutto di lei, così come
lei conosceva tutti i suoi segreti. Dalla
sua prima cotta all'età di tredici anni per
la supplente di matematica, alla sua
passione per la natura e per i viaggi,
fino a quel posto nel bosco dove amava
rifugiarsi per stare lontano da tutto e
tutti.
I suoi modi attenti e protettivi
l'avevano colpita sin dal loro primo
incontro.
Lo ricordava ancora quel mattino
grigio di novembre di dieci anni prima.
Aveva appena smesso di piovere e si
stava divertendo a saltellare tra le
pozzanghere del giardino. Poco distante,
Hope, lo statuario dobermann che da
anni accompagnava le sue giornate,
abbaiava con veemenza eccessiva.
All’inizio non ci aveva fatto caso,
abituata a quel suono divenuto col tempo
familiare. Tuttavia, poiché il latrare si
faceva sempre più insistente, aveva
smesso di saltellare per andare a vedere
cosa stesse succedendo.
Hope si dimenava avanti e indietro in
modo ripetitivo ed esibiva le zanne in un
ringhio nervoso. La catena a cui era
legato era tesa a tal punto da lacerargli
il collo.
Gli si avvicinò perplessa e allungò la
mano verso il muso per accarezzarlo, un
gesto innocente con cui tante volte lo
aveva tranquillizzato.
Hope continuò a ringhiare senza
chinare il capo. Con i denti affilati ben
in vista strattonò la catena e spalancò le
fauci.
Tutto avvenne in una frazione di
secondo.
Vide una macchia verde lanciarsi
verso di lei e interporre il proprio corpo
tra la sua mano e il muso dell’animale.
Quel corpo la spinse all’indietro
trascinandola a terra. Si ritrovò distesa
sul prato a pancia in su, mentre il peso
che un istante prima la schiacciava era
già rotolato via.
“Stai bene?” furono le prime parole
che udì mentre tentava di rialzarsi. Rizzò
la testa. Il bambino davanti a lei aveva
la maglietta lacerata all’altezza del petto
e le tendeva una mano. Si rese conto in
quell’istante di ciò che le sarebbe potuto
accadere.
A distanza di anni, non ricordava di
aver provato paura, ma solo un interesse
particolare per quel bambino che
l’aveva salvata.
Il legame con Jimmy, nato in quegli
attimi concitati, non si era mai più
dissolto.
Jimmy abbassò lo sguardo verso
Sophie, assorta nei suoi pensieri. Erano
rari i momenti in cui poteva osservarla
in tutta la sua bellezza senza che
iniziasse a fare smorfie per l’imbarazzo.
I lunghi capelli castani, dal taglio
irregolare, le ricadevano sulle spalle
incorniciando il viso dalla pelle
perfetta. Gli occhi verde smeraldo
brillavano avvolti in un velo di mascara
e le labbra morbide e definite
apparivano ancor più lucenti accarezzate
dai riflessi della luce del sole. La linea
elegante del corpo era messa in risalto
dalla camicetta di seta aderente e dagli
shorts di jeans che scoprivano le gambe
dorate dall’abbronzatura.
La sensualità che sprigionava a un
semplice sguardo era così forte da
intimorire chiunque. Se non avesse
conosciuto i suoi modi semplici e
gentili, era certo che avrebbe subito la
stessa sorte.
Più volte si era chiesto come mai due
persone con un'affinità e un legame così
intensi non fossero mai andati oltre la
loro straordinaria amicizia. Eppure, per
quanto la trovasse sensuale, tra loro era
nato dall’inizio un rapporto privo di
qualunque attrazione.
Da bambini era stato facile, ma col
passare degli anni tutto era diventato più
complicato. Aveva dovuto ammettere a
sé stesso che la bimba un po'
maschiaccio cui era abituato, si era
trasformata in una ragazza attraente, e si
era dovuto sforzare di familiarizzare
ogni giorno con il suo lato femminile.
«Ehi, signorina Sanfront» esordì dal
nulla, divertendosi come sempre a
chiamarla col suo cognome. «È ancora
qui con noi o vaga come al solito nel
fantastico mondo di “Sofì”?»
Sophie
riportò
l’attenzione
al
presente.
«Mi
perdoni, signor Carter. Ero
sovrappensiero.»
«Un pensiero di nome Steve?»
Sophie sollevò la testa e accigliò lo
sguardo.
«Proprio no!»
«Come farai adesso con lui?»
«Bah, non m’interessa» borbottò.
«Gli hai parlato?»
«Perché avrei dovuto? Ci siamo già
detti tutto quello che era necessario. È
uno stronzo e come tale si è comportato.
Non merita che spenda un minuto in più
pensando a lui. È finita, sempre che sia
mai davvero iniziata. Ora voglio
guardare oltre.»
Jimmy fece con la testa un cenno di
approvazione. Se lei era così convinta,
non aveva intenzione di farle cambiare
idea. Specialmente se si trattava di
quell’idiota di Steve Curtell. Alto un
metro e novanta, fisico palestrato e
capello curato, cambiava ragazza con la
stessa facilità con cui sostituiva un paio
di jeans. Sophie era stata una sorta di
sfida, vinta alla grande. L’ennesima
bandierina aggiunta alle sue conquiste.
Di sicuro la più prestigiosa, perché la
più difficile e la meno scontata.
Sophie all’inizio sembrava presa,
poi, prima dell’estate, lui si era fatto
cogliere
in
un
abbraccio
troppo
appassionato con un’altra e lei era
rinsavita.
Jimmy guardò l’ora sullo smartphone
e balzò dalla sedia: le lancette
dell'orologio erano a un passo dalle
8:55. Solo cinque minuti li separavano
dall’inizio della prima lezione del
nuovo anno.
«Dobbiamo sbrigarci.»
«È tutta colpa tua» ribatté Sophie.
«Come al solito mi fai fare tardi coi tuoi
racconti.»
Uscirono di corsa dal bar e si
precipitarono verso l'aula. Al loro
arrivo era già gremita di studenti.
Presero posto nell'ultima fila, l'unica
ancora libera. Appena il docente di
psicologia fece il suo ingresso, il
vociare si attenuò. Il professore chiuse
la porta e si presentò.
Era un uomo alto e dall’aspetto
anonimo. Jimmy lo studiò per qualche
minuto, poi virò la sua attenzione sul
resto dell’aula.
Picchiettò col gomito sul braccio di
Sophie.
«Ehi, guarda un po’ quella lì .» Indicò
col dito una ragazza nelle prime file.
«Sembra uscita da un cartone animato.»
Sophie puntò lo sguardo tra i primi
banchi . Una ragazza dai capelli rossi
raccolti in due treccine spuntava tra i
tagli più alla moda dei suoi vicini di
posto. Indossava un paio di jeans a
pinocchietto e calzini che arrivavano
alle caviglie.
Sophie ridacchiò coprendosi la
bocca con la mano. «Aggiungerai anche
Pippi Calzecorte alla tua collezione
fotografica di amiche?»
Entrambi risero e il professore parve
udirli nel vociare generale, alzò il tono
della voce e rallentò la spiegazione.
«E quei due li hai visti?» aggiunse
Sophie puntando col mento in avanti.
Seduti in prima fila, perfettamente
composti, due studenti magrolini coi
capelli neri a caschetto e gli occhiali
dalla montatura rotonda ascoltavano la
lezione muovendo all’unisono la testa
mano a mano che il professore si
spostava attorno alla cattedra.
«Chi ? Harry e Potter?» ridacchiò
Jimmy. «Avvisami quando tirano fuori
le scope magiche, che non voglio
perdermi la partita di quidditch.»
Risero ancora, rannicchiandosi dietro
le schiene degli studenti davanti a loro.
Prima che il professore potesse
richiamarli, la porta dell’aula si aprì.
Tutte le facce si voltarono in un flash
mob involontario e il brusio svanì di
colpo.
Il
ragazzo che comparve attirò
l'attenzione
di
tutti.
Aveva
la
corporatura di un’atleta: longilineo e
muscoloso e indossava jeans neri slavati
e una felpa scura. Il cappuccio gli
avvolgeva la testa fino a coprire la
fronte e un paio di Ray-Ban gli celava
gli occhi. Sophie avvertì a pelle uno
strano senso di inquietudine e, dai volti
attorno a lei, si rese conto che non era la
sola.
Il ragazzo, immobile sulla soglia,
passò in rassegna i volti attoniti che lo
fissavano, poi si mosse verso i banchi. Il
suo incedere, calmo e deciso, e il volto
disteso lo facevano apparire incurante di
ciò che gli accadeva intorno.
L'assenza di emozioni sul viso che si
lasciava soltanto intravedere, aumentava
la strana sensazione di ansia nei
presenti.
Il professore ruppe il silenzio.
«Molto
bene,
ottimo
inizio
presentarsi in ritardo il primo giorno di
lezione.» Fece una pausa in attesa di una
reazione che non arrivò. «Denota senza
ombra di dubbio grande attaccamento...
al letto, piuttosto che allo studio.»
Una fragorosa risata generale spezzò
il clima di attesa, poi il professore, con
fare compiaciuto, aggiunse: «Si tolga
occhiali e cappuccio e vada a sedersi
laggiù.» Con il dito indicò un posto
libero non molto distante da Jimmy e
Sophie.
Senza scomporsi, il ragazzo si
diresse a passo lento verso il fondo
dell’aula.
«Intende metterci tutto il giorno?» lo
interrogò ironico il professore.
Il ragazzo arrestò la camminata e si
voltò verso l’insegnante. Parve sul punto
di reagire, poi accelerò il passo verso
l’ultima fila, tradendo un velato disagio
nel
trovarsi
ancora
al
centro
dell'attenzione. Quando le passò a
fianco, Sophie lo scrutò incuriosita.
Lo seguì con lo sguardo fino al posto,
senza distogliere gli occhi un solo
istante. Nonostante l’aspetto cupo,
qualcosa in quel ragazzo l’attirava. Tutto
attorno a lei era diventato invisibile:
desiderava solo scoprire il volto dietro
gli occhiali scuri.
«Sophie» bisbigliò Jimmy «che ti
prende? Mi sembri in un altro mondo,
torna tra noi.» Le diede un pizzicotto per
risvegliarla.
Sophie trasalì e girò la testa verso
Jimmy.
«Tutto okay» mormorò «ero solo
incuriosita dal ragazzo incappucciato,
sai chi è?»
«Boh, non l’ho mai visto prima. Sarà
un altro degli studenti nuovi. Perché?»
«Non trovi abbia qualcosa di
strano?»
«Considerato che a malapena gli si
vede la faccia» sussurrò Jimmy «e che
cammina come un automa, direi che è
certamente un cyborg.» Scandì l'ultima
parola col tono marcato di chi ha appena
rivelato un terribile segreto.
Questa volta Sophie non gli diede
corda e si girò di nuovo verso il ragazzo
incappucciato.
Quasi le mancò il fiato quando si
ritrovò due occhi azzurro ghiaccio che la
fissavano.
Sussultò,
incapace
di
distogliere lo sguardo.
Quegli occhi spiccavano in un
contrasto quasi innaturale con la
carnagione scura e i capelli nero
corvino. La guardavano come a scavare
in profondità nella sua mente per
afferrare il più intimo dei suoi pensieri.
Fu tentata di ritrarre ancora lo sguardo,
ma non ci riuscì. Si sentiva in preda a
un’ipnosi. Rimasero a fissarsi per alcuni
secondi che le parvero interminabili.
Doveva a tutti i costi conoscerlo.
Capitolo 2
«Sanfront!» le sussurrò nell'orecchio
Jimmy. «Sbaglio o siamo di fronte al più
classico dei colpi di fulmine?»
Sophie si riscosse. «Come?»
«Oddio, è più grave di quello che
pensassi» mormorò Jimmy portandosi
una mano alla fronte.
Sophie lo guardò confusa.
«Tu e il cyborg, Sanfront. Vi state
guardando come se foste l’ultimo uomo
e l’ultima donna sulla terra.»
Come ultimo uomo sulla terra non è
proprio niente male, pensò Sophie, ma
in quel momento non se la sentì di
rispondere a tono alla provocazione di
Jimmy,
era
ancora
presa
dalle
sensazioni che le trasmetteva quello
sconosciuto.
«Non dire stupidaggini, ero solo
curiosa di scoprire che faccia avesse.»
«Qualunque cosa sia, smettila di
andare in stand-by. Non stai facendo
altro da stamattina. Vuoi che ti riavvii?»
Sophie non badò alle parole di
Jimmy e si concentrò sulla lezione,
sforzandosi di guardare dritto davanti a
sé. Attese qualche secondo e si voltò di
nuovo. Lo sconosciuto continuava a
fissarla. Sophie girò la testa, ma con la
coda dell’occhio avvertì il suo sguardo
avvolgerle il collo e le spalle.
Si trattenne dal voltarsi di nuovo, ma
non resistette a lungo. Durante la lezione
i suoi occhi incrociarono più volte
quelli dello sconosciuto.
«È tutto per oggi» disse il professore
ridestando l’attenzione della platea.
Ricordò a tutti il giorno e l’ora del
successivo incontro e uscì. La marea di
studenti scivolò fuori dai banchi e si
diresse verso la porta.
«Dai, Sophie, andiamo» disse Jimmy
e si alzò in piedi. «Sociologia inizia tra
cinque minuti e l'aula è dall'altra parte
del campus.»
Prese per mano Sophie e a gran voce
si fece largo tra la folla di studenti.
«Permesso, lasciate passare, la
ragazza non si sente bene, sta per
svenire, ha bisogno di aria.»
In un attimo furono fuori dall'aula.
«Era proprio necessaria quella messa
in scena?» chiese Sophie con le mani sui
fianchi.
«Non è colpa mia, era scritto sul
copione: “Jimmy sveglia la Sophie
Addormentata e la porta in salvo”.»
Sophie scosse la testa. Presero a
camminare a passo svelto. Mentre
superavano
la
folla
di
studenti
all’esterno, Sophie si voltò da una parte
all’altra. Aveva completamente perso di
vista il ragazzo dagli occhi di ghiaccio.
Percorsero un tratto sufficiente a far
scomparire dietro di loro l’edificio da
cui erano usciti, quando il cellulare di
Jimmy squillò.
Per Sophie l'associazione di idee fu
immediata.
«No!» esclamò. «Ho lasciato il mio
iPhone sul banco!»
Jimmy sbuffò. «Corri a prenderlo, io
rimango qui e rispondo a Ted.» Mostrò
a Sophie il cellulare che squillava. «E
fai in fretta o faremo tardi anche a questa
lezione.»
Urlò le ultime parole per raggiungere
Sophie che stava già ripercorrendo di
corsa il tragitto appena fatto. La massa
di studenti si era ridotta e stava
liberando il passaggio. Sophie pregò che
il suo cellulare fosse ancora al suo
posto.
Infilò la porta dell'aula senza
guardare.
Appena oltre, sbatté col corpo contro
qualcosa sulla sua traiettoria. Inarcò la
schiena, respinta all'indietro, ma subito
si sentì cingere la vita e tirare in avanti.
Si ritrovò a contatto con un corpo
magro e definito, in un abbraccio
involontario che le trasmetteva un
inaspettato senso di piacere.
Si ritrasse per osservare chi la stesse
reggendo. Il rossore che la colse tradì la
felicità nello scoprire i due occhi
azzurro ghiaccio che la fissavano a
pochi centimetri dal suo volto.
Il ragazzo allentò la presa, facendole
scivolare la mano attorno alla vita.
«Perdonami»
balbettò
Sophie
riprendendo l’equilibrio. Il rossore sulle
guance aumentò. «Non ti avevo visto.»
Osservò il viso del ragazzo. Da
vicino era ancora più affascinante: i
lineamenti delicati, le labbra carnose e
gli occhi che sembravano brillare. Tutto
in quel volto la confondeva.
Si sistemò la camicetta e si passò una
mano tra i capelli folti.
«Ero sovrappensiero, ho un'altra
lezione che è già iniziata. Stavo
correndo e non sono riuscita a
fermarmi.»
Il ragazzo la fissava in silenzio.
«Ho dimenticato il mio iPhone in
classe e sono tornata indietro di corsa.
Non so nemmeno se lo ritroverò.» Si
morse il labbro inferiore e sbuffò
scostando lo sguardo di lato.
Il ragazzo allungò la mano con un
movimento lento e le porse l'oggetto che
stringeva nel palmo.
Sophie riconobbe al volo il suo
cellulare e un sorriso le illuminò il
volto.
«Lo hai trovato! Grazie, non so
davvero...» Raccolse l’iPhone dalla
mano del ragazzo. Le loro dita si
sfiorarono ed entrambi esitarono, gli
occhi posati sulle mani a contatto.
Lo smartphone si illuminò e la faccia
di Jimmy iniziò a lampeggiare sul
display. Sophie si riscosse, ma indugiò
ancora prima di rispondere. Fece
scorrere la freccia del touchscreen e
avvicinò l’altoparlante all’orecchio.
«Muoviti
Sanfront,
come
devo
dirtelo? Siamo in r-i-t-a-r-d-o.»
«Arrivo» disse Sophie frastornata.
Chiuse la conversazione e tornò a
fissare gli occhi di ghiaccio. «Devo
scappare, grazie ancora.»
Il volto del ragazzo non cambiò
espressione. Sophie rimase ancora per
un attimo immobile, poi si girò e andò
via a passo svelto. Si voltò un’ultima
volta a guardarlo e svoltò l'angolo del
corridoio.
Jimmy la vide arrivare di corsa e,
non appena Sophie lo raggiunse, si mise
a correre con lei indicandole la strada.
Le lanciò un’occhiata e scorse il suo
sguardo perso sulla strada.
«Sanfront, che ti è successo?»
Sophie non rispose.
«Terra chiama Sophie, terra chiama
Sophie. Houston abbiamo un problema,
l’abbiamo persa.»
Sophie continuò a correre a testa
bassa, osservando la strada scorrere
sotto ai suoi piedi.
Ma come ho fatto ad essere così
stupida? pensò.
Dopo aver farfugliato qualche parola,
era
corsa
via
senza
nemmeno
presentarsi. Avrebbe potuto almeno
domandargli come si chiamava. Da
quando si lasciava sopraffare dalla
timidezza? Si promise che la volta
successiva sarebbe rimasta lucida.
Sentiva che l'avrebbe rivisto o, quanto
meno, sperava che il destino fosse così
clemente da concederle una seconda
possibilità.
La corsa terminò di fronte all'aula di
sociologia, la porta era ancora aperta.
Sgattaiolarono all’interno senza dare
troppo nell'occhio e si sedettero in uno
dei posti liberi in prima fila.
Sophie posò i gomiti sul banco e
appoggiò la testa tra le mani. Fece un
respiro profondo per riprendersi. Quel
ragazzo, di cui non conosceva né il
nome,
né
la
voce,
la
turbava
profondamente.
Capitolo 3
Le lezioni proseguirono per tutta la
mattinata e, quando l'orologio segnò le
due, Jimmy e Sophie si avviarono verso
l’uscita del campus, avvolti dall’onda di
studenti che abbandonava le aule e si
riversava lungo i corridoi dell’edificio.
Sophi e armeggiò con aria distratta
col cellulare e lo ripose nella borsa.
«Qualcosa non va?» domandò Jimmy,
la testa piegata in una posa interrogativa.
Sophie
riportò
l’attenzione
al
presente ed elargì un sorriso poco
convinto. «Tu invece? Non sembri
entusiasta del primo giorno di lezione.»
Jimmy scrollò le spalle.
«Mi
aspettavo
lezioni più
interessanti, invece nell’ultima ora mi
stavo quasi addormentando.»
«Siamo solo al primo giorno, è
normale. In fondo i professori si sono
solo
presentati.
Nessun
effetto
speciale...»
«A parte il professor Haufmann»
affermò Jimmy. «Lui sì che mi è
piaciuto. Quell'uomo è...» guardò verso
l’alto in cerca della parola che meglio
esprimesse ciò che stava pensando.
«Geniale! Intendo, è totalmente fuori
dagli schemi. I ragazzi del terzo anno
raccontano che ha scardinato la porta
del suo ufficio solo per poter dire: “Per
voi la mia porta sarà sempre aperta.”
Assurdo!»
Sophie annuì divertita. Anche a lei il
professor
Haufmann
aveva
fatto
un’impressione diversa da tutti gli altri.
Con quei modi garbati ma autorevoli,
aveva subito catturato l’aula. La sua
voce calma li aveva come ipnotizzati.
Era entrato nel vivo del corso,
tralasciando tediose presentazioni, e li
aveva sfidati tutto il tempo con piccoli
giochi mentali.
L’aula a veva ceduto definitivamente
al carisma del professore, quando aveva
spiegato
il
concetto
di pensiero
laterale: “Se vi dico che davanti a voi
ci sono John e Jack, morti, ai piedi di un
tavolo, e sulla scena vi è dell'acqua a
terra, dei cocci di vetro e una finestra
aperta, cosa pensate che sia successo?”
Tutti avevano risposto all'unisono:
“Un omicidio.”
“Plausibile”
aveva
risposto
il
professore “ma state tralasciando alcuni
dettagli importanti come l'acqua e i
cocci. Come ve li spiegate? Cosa vi
fanno venire in mente?”
Il più veloce a rispondere era stato
Jimmy, lasciando un po' tutti a bocca
aperta: “Jack e John sono due pesci.” Il
professor Haufmann aveva sorriso e
Jimmy aveva spiegato: “Una folata di
vento ha spinto la finestra contro
l'acquario, facendolo cadere dal tavolo
e lasciando per terra l’acqua, i pezzi di
vetro e... i due poveri pesci morti.”
“Molto bene”
aveva
esclamato
Haufmann e si era poi rivolto a tutti:
“Abbiamo appena assistito a un esempio
d i pensiero laterale, un percorso
alternativo della mente per risolvere un
problema non attraverso un percorso
logico di deduzioni sequenziali, ma
tramite l'intuito, che ci porta a fare
collegamenti non lineari. Tutto ciò non è
spiegabile razionalmente e vi fa
comprendere le potenzialità nascoste
della mente umana.”
Sophie
sospirò. Quello era stato
l'unico momento in cui i suoi pensieri
erano stati distolti dai due occhi azzurro
ghiaccio.
Lei e Jimmy raggiunsero la scalinata
che dal campus portava fuori al bar
dell'università.
Appena varcato il grande arco che
dava sulla rampa di scale, Jimmy con la
coda dell'occhio vide lo sconosciuto che
aveva attirato le attenzioni di Sophie,
appoggiato alla parete alla sua sinistra.
Si posizionò di fianco a Sophie in
modo da coprirne quanto più possibile
la visuale. Non voleva che Sophie
entrasse di nuovo in quello stato
catatonico
lasciandolo
privo
di
qualunque attenzione. Quel tizio non gli
era piaciuto per niente dal primo istante
che l'aveva visto.
Accelerò il passo in modo che
Sophie fosse costretta a scendere gli
scalini il più in fretta possibile per
rimanergli a fianco, allontanandola dal
ragazzo dietro di loro che adesso
indossava di nuovo occhiali da sole e
cappuccio.
Nel bel mezzo della scalinata, Sophie
inciampò.
Jimmy d'istinto le afferrò il braccio.
Sbarrò gli occhi quando vide lo
sconosciuto, che solo un istante prima
era a una decina di metri di distanza,
afferrarle il polso dell’altro braccio e
aiutarlo a tirare indietro Sophie.
Incrociò il suo sguardo per un attimo,
poi lo vide lasciare la presa e scivolare
giù per le scale, senza farsi notare.
Sophie si girò di scatto verso Jimmy.
«Grazie» disse e lo strinse forte in un
abbraccio. «Se non ci fossi tu, Carter...»
Un sorriso radioso le comparve sul viso.
Jimmy si rese conto che Sophie non
si era accorta di quanto realmente
successo. Decise di non dire nulla.
Adesso, però, era lui a essere turbato a
causa di quel ragazzo e c'era una sola
spiegazione che potesse giustificare
l'accaduto.
Capitolo 4
Il sottotenente Stevens affrettò il passo e
percorse rapidamente il lungo corridoio
che conduceva dalla sala di controllo
agli uffici amministrativi. Oltrepassò
l’arco
in
fondo
al
corridoio
e
s’introdusse nell’ala direzionale del
palazzo che si contraddistingueva dal
resto dell’edificio per il pavimento in
parquet.
Strinse il pugno e verificò che il
piccolo oggetto custodito nel palmo
della mano fosse ancora saldamente al
suo posto. Di tanto in tanto abbassava lo
sguardo per fissarlo, lo rigirava
nervosamente tra le dita e tornava a
impugnarlo con decisione. Mentre
avanzava, sentiva i propri passi
echeggiare
nel
vuoto
dell’ampio
corridoio. Una goccia di sudore gli
scivolò lungo la schiena. Ogni passo
diventava più difficile e pareva scavare
la terra davanti a sé mano a mano che si
avvicinava
alla
sua
destinazione.
Raggiunse la porta a vetri che separava
il corridoio dal piccolo androne
quadrato antistante gli uffici. Osservò le
tre porte disposte una per lato e si
diresse verso quella centrale.
Indugiò per alcuni secondi fuori e
trasse un profondo respiro.
Ciò che stava per riferire lo turbava e
ancor di più lo preoccupava la reazione
che avrebbe avuto la persona all’interno
della stanza.
La situazione era precipitata molto
velocemente ed era consapevole di quali
fossero le implicazioni.
Bussò alla porta.
Una voce dall’interno lo invitò ad
entrare.
Stevens aprì la porta. «Capitano»
disse e si fermò appena varcata la
soglia. «Sono il sottotenente Stevens.»
Il capitano sostava in piedi in fondo
alla stanza, rivolto spalle alla porta. Il
suo
sguardo
oltrepassava
l’ampia
vetrata di fronte a lui e si perdeva nella
luce rossastra del tramonto. Teneva una
mano in tasca e con l’altra tamburellava
con le dita sul vetro.
«Capitano, mi scusi per averla
disturbata. Ero stato avvertito di
avvisarla solo in caso di estrema
urgenza. Credo che questo sia il caso.»
Il
capitano
rimase
immobile,
sembrava non aver fatto caso alle parole
di Stevens.
«Abbiamo perso il contatto con il
soggetto.» Stevens esitò prima di
proseguire, temendo la reazione del
capitano, che rimase impassibile. «Gli
uomini del servizio di sicurezza esterno
lo hanno inseguito per tutta la notte fino
alle prime luci dell’alba. Si è spinto ai
margini del bosco e si è rifugiato in uno
dei capannoni di stoccaggio del legno.
Lo hanno raggiunto e circondato. Gli
hanno intimato di uscire, ma non hanno
ricevuto risposta. Così, hanno deciso di
fare irruzione nel deposito, ma...» si
fermò, a lui per primo parve assurdo
quanto stava per dire. Essendo lì da
poco non vi aveva ancora fatto
l’abitudine.
«Dicono che all’improvviso tutto sia
diventato buio. Nemmeno la luce del
sole illuminava più nulla. Quando hanno
ripreso a vedere, sono entrati nel
capannone, ma non hanno trovato
nessuno all’interno» abbassò lo sguardo.
«È come scomparso nel buio.»
Il silenzio riempì la stanza.
«Non
mi
sorprende»
disse
il
capitano. Continuava a fissare fuori dal
vetro, ma la sua mente era rivolta alle
parole del sottotenente.
Stevens indagò con lo sguardo il
capitano, sorpreso dalla calma con cui
aveva accolto la notizia. Considerata la
delicatezza della questione si sarebbe
aspettato una reazione molto più
veemente. Il capitano, invece, sembrava
essere già a conoscenza degli eventi e
per nulla sorpreso da come il quadro si
stava evolvendo.
«Abbiamo
atteso
finora
per
informarla» proseguì Stevens «poiché
ritenevamo ancora possibile ristabilire
il contatto. Abbiamo utilizzato tutte le
risorse in nostro possesso. Purtroppo è
stato inutile. Ha fatto perdere le sue
tracce. In questo momento, due squadre
di ricerca stanno ispezionando l’area
della
fuga.
Sono
in
costante
comunicazione
con
il
centro
di
controllo. In caso di contatto, siamo
pronti ad agire secondo il protocollo.»
Attese ancora qualche istante, poi
aggiunse: «I cacciatori sono già entrati
in azione.»
«Grazie, Stevens» il capitano scandì
le parole. Si voltò verso il sottotenente e
abbozzò un sorriso di riconoscenza.
«Se ci dovessero essere novità, mi
avvisi. Ora torni pure al lavoro.» Tornò
a fissare oltre la finestra.
«Non è tutto» proseguì Stevens,
incurante del fatto di essere già stato
congedato.
Il capitano aggrottò la fronte e rimase
in silenzio in attesa che Stevens
continuasse.
«C’è una cosa che dovrebbe vedere.»
Tese una mano verso il superiore. Il
capitano si voltò lentamente e osservò il
piccolo oggetto scuro tra le dita del
sottotenente. Scrutò dubbioso Stevens e
si avvicinò. Afferrò dalle mani del
sottotenente l’oggetto nero: una piccola
scheda di memoria digitale.
«Lo hanno scoperto i ragazzi del
centro di controllo, analizzando i filmati
registrati dalle telecamere a circuito
chiuso. È una registrazione di questa
notte.»
Il capitano girò attorno alla scrivania
e si sedette sulla poltrona in pelle. Inserì
la scheda nell’apposita porta del
computer
portatile
e
attese
che
l’immagine apparisse sullo schermo.
Il video si avviò in automatico.
Osservò sullo schermo le immagini in
bianco e nero che ritraevano due uomini,
uno di fronte all’altro, in uno stretto
corridoio debolmente illuminato. Uno
dei due uomini premeva una mano sulla
gamba sinistra sporca di sangue: una
ferita gli percorreva tutta la coscia fino
al ginocchio. Si reggeva in piedi
appoggiato col corpo al muro in pietra e
agitava
l’altro
braccio
in
modo
concitato. Sembrava indicare all’altro
uomo di correre via senza attenderlo.
Un particolare catturò l’attenzione
del capitano. Socchiuse le palpebre e
avvicinò il volto allo schermo per
mettere meglio a fuoco l’immagine.
Spostò indietro la barra temporale del
lettore video e riesaminò gli ultimi
secondi.
«È quello che penso io?» domandò.
«Riteniamo di sì.»
«Dopo tutti questi anni... quante
possibilità ci sono?»
«Abbiamo già avviato una ricerca»
disse Stevens «ma non sarà facile.
Potrebbe non trovarsi più qui.»
«In ogni caso, dobbiamo fare un
tentativo. Non possiamo permetterci di
lasciare nulla d’intentato. Se è ancora
qui, non lascerà la città finché non avrà
ottenuto ciò che vuole. Questo ci dà più
tempo e libertà di azione.»
Il capitano si alzò in piedi.
«Le raccomando di mantenere la
massima riservatezza. Nessuno, oltre al
sottoscritto e alla ristretta unità di cui
già conosce i nomi, è al corrente della
reale natura della questione. Nessuna
informazione deve trapelare in alcun
modo, nemmeno coi colleghi che
collaborano operativamente. Si attenga
alla procedura stabilita.»
«Senz’altro» disse Stevens.
«Ora
vada
pure
e
mi
tenga
informato.»
Stevens porse il saluto militare al
superiore e uscì dalla stanza. Il capitano
tornò a osservare il computer portatile.
L’immagine sullo schermo riproduceva
a flusso continuo il breve filmato.
Tornò a esaminare i secondi che
avevano inaspettatamente cambiato il
corso degli eventi.
Fissò il volto dell’uomo ferito nel
filmato. Nonostante la qualità imperfetta
della ripresa, si potevano chiaramente
vedere le labbra dell’uomo muoversi e
unirsi per pronunciare tre parole.
Tre parole in grado di riaprire da
sole una storia sepolta negli anni e
capaci di far mutare rapidamente la
situazione di quelle ore.
Un
sorriso
di
soddisfazione
comparve sul viso del capitano. Per la
prima volta da quella notte, ebbe la
sensazione che la fortuna stesse girando
dalla sua parte.
Capitolo 5
Eric Arden chiuse gli occhi e fece due
respiri profondi. Avvertì i suoi sensi
presi d’assalto da ogni direzione. Odori,
suoni, poteva percepire chiaramente
tutto ciò che di vivo e non vivo c’era
attorno a lui, anche se distante. Lassù, in
cima a uno dei grattacieli più alti della
città, il vento gli sfiorava i capelli e
rinfrescava la pelle del viso.
Aveva appena terminato il suo primo
giorno nella nuova università e gli eventi
gli stavano già scivolando di mano.
Avrebbe dovuto solo rimanere fermo,
invece d’istinto si era lanciato verso
quella ragazza e l’aveva afferrata per
non farla scivolare. Proprio lì, nel bel
mezzo della scalinata, davanti a tutti. Per
fortuna il suo amico era stato altrettanto
rapido, altrimenti non avrebbe saputo
come giustificarsi.
Sei
stato
uno
stupido! pensò.
Avrebbero potuto accorgersene... Il suo
amico, l’espressione del suo volto. Ha
visto, ne sono certo. Avevi promesso di
non esporti... e invece...
Era successo di nuovo. Il suo gesto
era stato spontaneo, ma aveva rischiato
di metterlo in pericolo. Ogni volta che le
s u e doti speciali venivano fuori in
maniera istintiva, aveva paura che
qualcuno lo notasse. Per questo aveva
imparato a controllarsi, a fingere, a non
dare nell’occhio. Ma questa volta era
stato diverso. Quella ragazza aveva
qualcosa di speciale, non capiva cosa.
Sapeva solo che era lei il motivo per cui
non era riuscito a trattenersi.
Non puoi perdere il controllo .
Scopriranno cosa sei in grado di fare e
ti allontaneranno, lo sai. Devi fingere,
far credere di essere come gli altri.
Sempre.
Il buio avvolgeva la terrazza in cima
al grattacielo e la luce della luna filtrava
fioca dalle fitte nuvole sopra la sua
testa. Lo skyline dei palazzi si
materializzava in mezzo ai bagliori della
città, disegnando un quadro fatto di
ombre e luci di fronte a lui. Lo
spettacolo era mozzafiato, ma a Eric non
importava quel panorama straordinario;
l’unico motivo per cui si trovava così in
alto, era che lì riusciva a isolare i propri
sensi. Tutte le luci e i rumori della città
arrivavano tenui e sfumati e lo
lasciavano per qualche minuto in pace
con sé stesso.
Ripensò al bosco, alla casa dei suoi
genitori a due passi dai vecchi cipressi e
dallo scorrere lento della natura. Gli
mancava. Da quando si era trasferito in
città, l’anno prima, per frequentare
l’università, non passava giorno che non
ci pensasse. Fin da piccolo, adorava
starsene seduto sospeso sul ramo di un
albero, con le gambe penzoloni, ad
annusare l’odore della corteccia e il
profumo di ogni filo d’erba. Soprattutto
di notte, quando l’oscurità era così
intensa da avvolgere ogni cosa. Era solo
un bambino, ma il buio non gli faceva
paura. Per lui era come se non esistesse.
Sentì il dolore alle tempie attenuarsi
e il cerchio alla testa iniziare a svanire.
Aprì la bocca e inspirò l’aria fresca
della notte. Ogni fragranza che fluttuava
nell’aria veniva catturata dalle sue
narici.
Spesso si limitava a percepire tutti
quegli
stimoli
senza
focalizzare
l’attenzione su nulla, ignorandoli più che
poteva.
Lasciava
fluire
tutto,
permettendo
che
le
sensazioni
attraversassero la sua pelle, i muscoli e
le ossa e uscissero senza conservare
traccia. Non poteva fare diversamente,
se non voleva esserne travolto. Da
quando aveva ricordi, era sempre stato
così. Sovrastato dai sensi e martellato
da ogni più piccolo impulso.
Da bambino, la cosa peggiore erano i
rumori. Sentiva tutto. Ogni suono, anche
il più flebile e lontano, rimbombava
nella sua testa come un gong. Piangeva
tutte le volte che avvertiva il vento
ululare in lontananza fuori dalla finestra
e si spaventava per i tuoni, quando
ancora le nuvole non avevano fatto la
propria comparsa all’orizzonte. Ogni
minimo sussurro arrivava alle sue
orecchie.
A scuola spesso si fermava ad
ascoltare quello che accadeva nella aule
accanto alla sua. Ricordava la volta che
era rimasto per un’ora ad ascoltare la
conversazione tra Maggie Crawford e
Josephine Gyllenal, al liceo durante
l’ora di matematica. L’argomento della
conversazione era lui. Maggie si
lamentava del fatto che, nonostante
sembrasse attratto da lei, ancora non si
era fatto avanti. Si divertiva ad ascoltare
quelle confessioni private. Ma era
sempre difficile concentrarsi su un
punto, quando tutto attorno a lui
sembrava chiamarlo e distrarlo, ogni
secondo. Una vertigine di sensazioni che
lo travolgeva e lo disorientava.
Col
tempo
aveva
imparato
a
conviverci e si era reso conto che gli
altri accanto a lui non avvertivano tutto
ciò che percepiva lui. I suoi genitori, i
suoi amici, tutti sembravano insensibili
a quella tempesta di stimoli provenienti
da ogni parte, ogni momento. Erano
diversi, loro. O era lui ad esserlo?
Ogni volta che faceva qualcosa di
non ordinario, notava l’espressione
incredula e meravigliata di chi gli stava
di fronte. Non erano sguardi di
ammirazione, erano sguardi dubbiosi,
pieni di paura e diffidenza.
Nei match di basket al liceo, a chi gli
domandava come facesse a saltare così
in alto non sapeva come rispondere e si
ritrovava sempre a dover sminuire.
Spesso si limitava a dire che si erano
sbagliati, che non aveva fatto nulla di
particolare, ma ogni volta negare
diventava più difficile. Ciò che per lui
era estremamente naturale, per gli altri
risultava straordinario, lo faceva sentire
diverso. E forse lo era realmente...
diverso. In fondo, lui stesso aveva
difficoltà a capire cosa gli stava
succedendo. Il suo corpo e i suoi sensi
erano più sviluppati rispetto a quelli
degli altri e si acuivano ogni giorno che
passava.
“Non sei diverso Eric, sei speciale”
gli ripeteva sua madre. “Le cose che
puoi fare sono un dono.”
Nemmeno ai suoi genitori aveva mai
raccontato tutto ciò che era in grado di
fare. Temeva che anche loro, nonostante
tutto, lo ritenessero diverso.
Soprattutto a loro aveva sempre
cercato di tenere nascosto il lato di sé
che più di ogni altro lo turbava. Quel
lato che gli causava scatti di rabbia
inaspettati ogni volta che si sentiva in
pericolo,
momenti
di
aggressività
incontrollabili. Negli ultimi anni era
accaduto sempre più spesso. Stava pian
piano cercando di imparare a contenerli,
a volte senza successo.
Tornò di nuovo con la mente agli
eventi della giornata.
Perché diavolo lo hai fatto? Cosa ti
è preso?
Esporsi così per una ragazza, appena
vista. Da quando si preoccupava di fare
l’eroe?
È vero, lei era in pericolo perché
stava cadendo e rischiava di farsi male,
ma c’era il suo amico, ci avrebbe
pensato lui.
Uscire allo scoperto in quel modo,
perché?
Gli era sempre interessato solo un
lato delle ragazze, quello fisico.
A volte aveva provato a costringersi
ad innamorarsi, per essere come gli
altri, ma passati pochi giorni aveva
sempre dovuto ammettere che non era
nelle sue corde. Iniziava a pensare di
non essere capace di provare un
sentimento così forte.
Ripensò al volto della ragazza, così
delicato e al tempo stesso così attraente.
Dal momento in cui l’aveva vista non
era più riuscito a pensare ad altro.
Immaginava le sue labbra e il suo corpo
sinuoso. Avrebbe voluto accarezzarle
delicatamente il viso e sentire la sua
pelle liscia sotto le dita.
C'era poi il suo odore, riusciva a
percepirlo pur rimanendo distante. Lo
disorientava.
Era
particolarmente
sensibile agli odori, lo era sempre stato,
ma
ritrovarsi
scombussolato
alla
percezione del profumo di una ragazza
era una sensazione nuova e del tutto
inaspettata.
Eppure non era solo il lato estetico
ad affascinarlo. Sentiva che in lei c’era
dell’altro, qualcosa che non riusciva
ancora a cogliere in pieno e che non
vedeva l’ora di scoprire. Forse era
quello il motivo per cui l’aveva salvata:
voleva capire come faceva ad attrarlo in
quel modo.
Quando era stata l’ultima volta che si
era sentito così? Non c’era mai stata.
Era quello il punto. Si trovava ad
affrontare per la prima volta una
sensazione mai provata e tutto ciò lo
disarmava.
Se ne era reso conto mentre la
osservava tra i banchi dell’aula gremita
di studenti. Il suo sguardo, i suoi occhi
dolci e determinati al tempo stesso, gli
ispiravano fiducia. Una fiducia innata e
insensata. In fondo non la conosceva
affatto.
Eppure
avrebbe
voluto
confidarsi con lei. Dirle tutto. In fondo
al cuore, si chiese se fosse davvero
possibile fidarsi di una sconosciuta. Non
poteva rivelarle tutto, era semplicemente
assurdo. Avevano scambiato solo poche
parole. Anzi, l’unica a parlare era stata
lei. Non poteva permettersi una simile
leggerezza. Non era né il momento, né il
posto giusto.
Doveva dimenticarla. E in fretta.
Inspirò ancora una boccata d’aria
fredda. Sentì l’ossigeno attraversargli la
trachea e riempire i polmoni fino a
inondarli. Era una sensazione così
piacevole lassù. Aprì gli occhi e guardò
l’ora sullo smartphone. Doveva andare.
Attraversò di corsa il tetto e si spinse
fin sull’orlo del cornicione posteriore. Il
vicolo sotto di lui era vuoto. Attese
qualche secondo in bilico godendosi
quel senso di libertà assoluta, poi balzò
in avanti. Allargò le braccia per
controllare la caduta e arrivò quasi
cinque metri più in basso sul muro del
palazzo di fronte. Prima ancora di
toccarlo stava già contraendo le gambe
per saltare nuovamente verso il muro
opposto. Si diede una spinta col piede
sulla parete in mattoni rossi e si ritrovò
sulla parete di fronte evitando la scala
antincendio. Saltò ancora quattro o
cinque volte da una parete all’altra
prima
di
toccare
il
suolo,
accovacciandosi senza far rumore.
Sistemò il cappuccio sulla testa e
s’incamminò per le vie trafficate del
centro. Tutte le luci, che poco prima
aveva potuto ammirare dall’alto, ora lo
accecavano. Sapeva dove dirigersi: un
luogo molto più appartato, dove i
bagliori lasciavano posto alle ombre.
Girò in una viuzza laterale semibuia.
L’unica fonte di luce erano le insegne
dei pub che rischiaravano il pavimento
in pietra. L’atmosfera di quiete gli
rilassò gli occhi e la mente.
Si fermò di fronte all’ingresso di un
locale.
THAT’S ALL JAZZ
L’insegna dorata lampeggiava appena
sopra la porta in vetro opaco, che
lasciava
intravedere
l’interno
e
permetteva a una musica dolce e lenta di
raggiungerlo all’esterno.
Entrò. Un mix di odori e suoni lo
avvolse. Una luce soffusa illuminava
dolcemente l’interno del locale, rivestito
alle pareti con un sottile tessuto grigio.
Lo spazio centrale era occupato da
alcune file di tavolini. Alcuni clienti
erano ancora intenti a completare la loro
cena, altri sostavano sugli sgabelli posti
di fronte al lungo bancone bianco e
sorseggiavano cocktail, distratti dalle
evoluzioni dei bartender. In fondo al
salone, su un piccolo palco rialzato, una
band stava suonando musica jazz. Il
caldo suono del contrabbasso pizzicato
arrivò alle sue orecchie, seguito dalle
note profonde di un sax baritono.
Eric fece qualche passo e ispezionò
meglio il locale.
Due voci femminili arrivarono alle
sue orecchie. Provenivano dal bancone,
sussurravano, ignare di essere sentite.
«Lo hai visto il tizio che è appena
entrato?» disse la più alta delle due.
«E quello da dove arriva? È anche da
solo.»
Un sorriso malizioso trapelò dal
volto di Eric. Troppo facile , pensò e
proseguì avventurandosi verso un altro
angolo. D’improvviso avvertì qualcosa
di
diverso,
un
profumo
intenso,
inebriante. Voltò lentamente lo sguardo.
A un tavolino più defilato rispetto al
centro del locale, sedeva una ragazza.
Se ne stava seduta con la fronte
appoggiata su una mano e il volto
coperto dai lunghi capelli lisci che le
cadevano sul tavolino. Era intenta a
scrivere qualcosa sul suo smartphone.
Eric la osservò. Le gambe snelle e
accavallate scivolavano fuori dallo
spacco del lungo abito in lino bianco,
stretto in vita da una cintura in pelle.
La ragazza smise di digitare sulla
tastiera e si guardò intorno. Il suo
sguardo si alzò e incrociò quello di
Eric. Due occhi azzurri le illuminavano
il volto dai lineamenti delicati. Rimase a
fissarlo per qualche istante, con
un’espressione stupita. Sorrise e scostò
la lunga ciocca di capelli dal viso,
dietro l’orecchio.
A giudicare dall’unico calice sul
tavolo, doveva essere sola. Eric si
mosse verso di lei. Mentre si avvicinava
avvertì chiaramente l’odore della pelle
della ragazza che cambiava per la
scarica di feromoni rilasciati.
Si fermò di fronte e le sorrise. Lei
parve arrossire. Eric osservò le sue
pupille dilatarsi, fino a coprire quasi
interamente la superficie dell’iride. Era
l’ultimo segnale che aspettava.
Allungò una mano e la guardò dritto
negli occhi.
«Mi chiamo Eric.»
Capitolo 6
La luce del sole filtrava dalla persiana
leggermente
aperta
e
inondava
prepotentemente la stanza da letto. Eric
aprì gli occhi e si ritrovò col volto
schiacciato tra due cuscini. Ruotò su se
stesso, si sgranchì la mascella e
stropicciò gli occhi. Quella luce così
bianca e diffusa gli dava un tremendo
fastidio e gli toglieva le forze. Girò la
testa lentamente verso sinistra. Un corpo
dalle curve morbide giaceva nel letto
accanto a lui, nudo. Un lenzuolo
trasparente ricopriva le gambe sottili
fino al centro della schiena. Eric
contemplò per qualche istante il fisico
perfetto della ragazza, ma senza alcun
compiacimento. La notte era trascorsa
esattamente come voleva. Lei era
decisamente bella, ma ora doveva
andare. «Ci vediamo presto» gli disse
lei e lo baciò. Eric finì di vestirsi e uscì.
L’alba aveva regalato un piacevole
risveglio agli abitanti di Skittburg.
L’aria fresca della notte aveva spazzato
via il caldo afoso del giorno precedente.
Eric viaggiava veloce in sella alla sua
moto. Il campus dell’università era già
popolato da un mare di studenti pronti a
riversarsi nelle aule per il secondo
giorno di lezioni.
Eric
rallentò
nei
pressi
del
parcheggio e spense il motore accanto
ad altri veicoli posteggiati. Scese dalla
sella e in due passi fu accanto al
marciapiede. Si chinò per agganciare il
blocca-disco alla ruota anteriore.
«Davvero un bel giocattolino.»
La voce lievemente rauca arrivò alle
sue spalle «È tua?»
Eric alzò gli occhi e concluse quello
che stava facendo. Il ragazzo di bassa
statura che si stava avvicinando
mostrava un largo sorriso stampato sul
volto. Aveva la carnagione scurissima e
gli occhi color nocciola. Eric rimase
chinato in silenzio e finì di assicurare
anche la catena alla ruota.
«Piacere, mi chiamo Vincent» disse
il ragazzo e allungò la mano.
Eric lo scrutò impassibile per
qualche secondo, si alzò e ricambiò il
gesto.
«Eric.»
«Sei nuovo?»
«Si vede così tanto?»
«Non passi inosservato. Specie
finché continuerai a fare questi ingressi
in scena» disse indicando la moto.
«Direi che se il tuo intento era attirare la
popolazione femminile universitaria ci
sei riuscito. Mentre parliamo c’è giusto
un gruppetto lì in fondo che ti sta
letteralmente spolpando con gli occhi.
Non dirmi che non te ne sei accorto.»
«Può darsi» disse Eric accennando
un pigro sorriso, come se la cosa non lo
stupisse più di tanto.
«Stai
bene?»
chiese
Vincent
scrutando con attenzione il suo viso.
«Sì, perché?»
«Hai gli occhi lucidi e, beh, le tue
pupille sono... enormi.»
«È normale.»
«Se lo dici tu... come ti trovi alla
Dorton?»
«Sono appena arrivato. Te lo dirò tra
un mese.»
«Beh, per ogni cosa conta pure su di
me. Conosco praticamente tutti e se ti
serve sapere qualcosa chiedi pure.»
«Conosci anche loro?»
«Chi?»
Vincent non fece in tempo a guardarsi
intorno: dalla sua sinistra due ragazze si
avvicinarono.
Lo
ignorarono
completamente e posarono i loro sguardi
su Eric. La più alta si fermò esattamente
davanti a lui. Indossava dei jeans corti e
aderenti e una maglietta che metteva in
risalto le forme abbondanti. Dalla
postura che manteneva, si capiva
chiaramente che voleva mettersi in
mostra. Eric la scrutò con un sorriso
velato.
«Ciao, io mi chiamo Stacey» disse
allungando la mano.
«Eric» il suo tono di voce incantò le
ragazze. Sembrava stessero ammirando
una statua di marmo dai muscoli
scolpiti.
«Tu sei nuovo alla Dorton, vero?»
chiese lei.
Eric annuì, ma non aggiunse nulla.
La ragazza continuò a parlare,
rivelandogli di essere la rappresentante
femminile degli studenti nonché la prima
cheerleader. Chiese a Eric se fosse già
iscritto
alla
squadra
di
football
dell’università. Le rispose che non
aveva ancora avuto il tempo di pensarci.
«Beh, dovresti farlo, hai un bel
fisico, di sicuro saresti bravo» disse lei.
Di tanto in tanto inarcava la schiena in
modo che lui potesse apprezzare le sue
curve. Eric parve gradire lo spettacolo,
ma i suoi occhi rimasero puntati sul
volto della ragazza.
«Questa sera c’è una festa speciale.
Ti va di venire?»
«Dove?»
«Oh, non troppo lontano» disse
sorridendo.
«Aspetta,
dammi
il
cellulare, ti lascio il mio numero.»
Eric le porse l’iPhone e lei picchettò
velocemente sui tasti.
«Ecco fatto» disse restituendogli lo
smartphone. «Chiamami dopo lezione, ci
conto.» Andando via si voltò e lo salutò
con la mano.
Eric la osservò allontanarsi.
«Me lo insegni?» chiese Vincent.
«Cosa?»
«Ad attirarle così! Come accidenti
fai? Sai chi era quella? Stacey Becker,
cheerleader, non c’è un ragazzo al
mondo che non le sbaverebbe dietro. Tu
invece...» scosse la testa incredulo. «È
dal primo giorno dell’anno scorso che
provo a parlarle, credo non si sia
nemmeno ancora accorta che esisto. Tu
sei qui da nemmeno due giorni e hai
attirato
la
più
bella
ragazza
dell’università. Hai visto come ti
mangiava con gli occhi?! Ti prego,
rivelami il tuo segreto.»
«Non c’è nessun segreto. Nemmeno
l’avevo vista.»
«Beh, comunque sappi che in questo
preciso momento sei osservato da
almeno una decina di occhi femminili
che
ti
straccerebbero
volentieri
quell’orribile t-shirt che indossi.»
Eric si guardò la maglietta, poi
riprese a fissare ancora lo stesso punto
in lontananza.
Vincent corrugò la fronte e seguì con
gli occhi la traiettoria dello sguardo di
Eric.
«Uh, amico mio» esclamò appena si
accorse chi stava fissando «ti sei scelto
una preda difficile. Beh scordatela!»
«Sai chi è?»
«Chi non lo sa? E, tanto per inciso,
non te la darà mai.»
Eric arricciò un sopracciglio e
guardò Vincent. Doveva ammettere che
sapeva essere chiaro nelle spiegazioni.
«Si chiama Sophie» continuò «è al
secondo
anno.
L’anno
scorso
si
frequentava con Steve Curtell, il
quarterback della squadra dell’istituto,
ma credo si siano lasciati prima
dell’estate. Almeno questa è la voce che
gira. Ha fatto bene, lui è veramente
un’idiota. Tanti muscoli e poco cervello.
Non merita una così.»
«E lui chi è?»
«Il ragazzo a fianco a lei?»
Eric annuì.
«È Jimmy Carter. Anche lui è
piuttosto
conosciuto
qua
dentro,
specialmente tra le ragazze. È il suo
migliore amico, sono praticamente
inseparabili.»
«Ma tu come fai a sapere tutte queste
cose?»
«Diciamo che mi tengo informato.»
Per
qualche
secondo
rimasero
entrambi in silenzio. Vincent allungò il
collo oltre Eric.
«Guarda chi sta arrivando.» Alzò una
mano per farsi notare. «Professor
Haufmann!» chiamò a voce alta.
Un uomo alto e longilineo passò in
quel momento di fianco a loro. Stringeva
nella mano destra una valigetta in pelle
scura e camminava a passo deciso
tenendo lo sguardo basso. Quando sentì
la voce di Vincent, interruppe la sua
camminata e si voltò verso i due ragazzi.
«Buongiorno, Signor Hodds» disse
con un sorriso rivolto a Vincent. La sua
voce era calma e dimostrava un
equilibrio singolare.
«Salve,
professore.
Ha
già
conosciuto Eric?»
Haufmann rivolse i suoi occhi sottili
verso Eric ed ebbe un sussulto.
Qualcosa nel volto del ragazzo catturava
la sua attenzione.
«No, non ho ancora avuto il piacere»
disse e allungò la mano verso Eric.
«Eric Arden» disse stringendo la
mano di Haufmann.
Haufmann inclinò la testa ed Eric
notò una strana espressione sul suo
volto, come se stesse cercando di
ricordare qualcosa o qualcuno.
«Non ci siamo già visti?» disse
Haufmann.
«Non credo. Sono qui da poco.» La
voce di Eric appariva infastidita.
«Giusto. Lei deve essere il nuovo
studente,
quello che si è appena
trasferito. La direttrice Moore mi ha
parlato di lei...» Il tono colloquiale del
professor Haufmann era d’un tratto
mutato.
Entrambi rimasero in silenzio e si
esaminarono guardinghi come fossero
nel bel mezzo di un duello.
«Non vogliamo problemi in questo
istituto. Lo tenga a mente.»
«Se sono qui, ho già pagato per
quello che ho fatto» rispose piccato
Eric. «Le assicuro che non ne avrete.»
«Molto bene, meglio così» tagliò
corto Haufmann. «La terrò d’occhio
Arden.»
Lo sguardo di Eric diventò ancora
più rabbioso.
Il
professor
Haufmann
salutò
entrambi
e
si
incamminò
verso
l’ingresso dell’istituto. Eric lo seguì con
lo sguardo e sbuffò cupo.
Vincent corrugò la fronte. «Ma di che
diavolo stavate parlando? Sicuro che
non vi conoscevate già? Sembravate due
con un conto in sospeso... E poi che cosa
voleva dire Haufmann?»
Eric raddrizzò la schiena e gli si
piazzò di fronte fissandolo negli occhi.
Vincent indietreggiò di qualche passo. Il
suo sguardo gli stava incutendo timore.
«Ehi, tranquillo» disse allungando
leggermente le mani davanti a sé «se non
ti va di parlarne basta dirlo.»
Eric si bloccò e a Vincent parve di
vederlo uscire da un piccolo stato di
trance.
«Scusami, non volevo spaventarti»
gli disse «ma è meglio se non fai troppe
domande.»
Sospirò e si voltò nuovamente.
Quando allungò lo sguardo nel punto in
cui prima c’era Sophie, non la trovò più.
A guardar bene non c’era quasi più
nessuno.
«Dove sono andati tutti?» chiese.
«Dove è ora che andiamo anche noi.
Stanno per iniziare le lezioni, faremo
meglio a sbrigarci.»
Eric e Vincent si diressero in fretta
verso l’aula. La stanza era già piena e
quasi tutti i posti erano occupati.
Salendo i gradoni che conducevano
all’ultima fila, l’unica con qualche posto
libero, si sforzò di non cercare in quel
mare di facce il volto che lo assillava
dal giorno prima. Passò di fianco a una
decina
di
studenti
quando
all’improvviso lo riconobbe: era il suo
odore. Lei era lì, a pochi passi da lui.
Inspirò profondamente e tirò dritto. Non
guardò, ma fu certo di sentire il suo
sguardo su di sé. Si sforzò di non
ascoltare, non voleva sentire la sua voce
mentre parlava col suo amico che quasi
certamente era di fianco a lei. Forse
aveva più paura di lui. Paura di dover
rispondere
alle
solite
domande
scomode. Meglio evitare qualsiasi
contatto. Si accomodò nel primo posto
libero ed estrasse dallo zaino un blocco
di fogli bianchi.
«Ehi, mi fai un po’ di posto?» gli
sussurrò Vincent per non farsi sentire
dal professor Gilbor che era appena
entrato in aula. Eric si scostò sulla lunga
panca e gli fece spazio.
Non ascoltò quasi nulla della lezione.
Era troppo impegnato a cercare di
ignorare la ragazza dai capelli castani
pochi metri davanti a lui. Aveva il
timore che lei si girasse e lui non fosse
più in grado di staccare lo sguardo.
Durante il cambio di professore per la
lezione
successiva,
si
sforzò
di
intrattenere una breve conversazione con
Vincent. Gli chiese chi fosse e cosa gli
piacesse fare. Non che gli interessasse
particolarmente,
ma
almeno
era
sufficiente
per
avere
una
voce
abbastanza potente che coprisse tutte le
altre nell’aula. Quando il professore
iniziò la lezione Eric tornò ad abbassare
lo sguardo sul blocco di appunti. Sentì
una strana sensazione attraversargli tutto
il corpo. Se avesse alzato lo sguardo,
avrebbe incrociato gli occhi di Sophie
che lo fissavano poco più avanti.
Capitolo 7
Le serate nei locali sono tutte uguali,
pensò Sophie e sollevò i libri appoggiati
sul tavolino del bar.
«È
la
nostra
prima
serata
universitaria dell’anno nuovo» disse
Jimmy «è il modo migliore per
inaugurare quest’evento.»
Evento? La prima uscita del nuovo
anno era degna di essere definita
evento? A volte Jimmy si lasciava
prendere un po’ troppo facilmente
dall’entusiasmo. Sophie notò la sua
espressione compiaciuta mentre le
comunicava il programma della serata.
La giornata era volata via, tra i suoi
tentativi di non farsi distrarre dal
ragazzo dagli occhi di ghiaccio e la
curiosità di incrociarlo ancora, anche
solo casualmente.
Aprì la porta e uscì seguita da Jimmy.
Si sforzò di assecondare con un sorriso
l’eccitazione dell’amico; aveva vissuto
quella scena mille volte: serate senza
fine trascorse a sorseggiare drink,
ballare ed evitare gli approcci dei
ragazzi, fino a che puntualmente la
stanchezza e il torpore non la assalivano
e decideva di tornare a casa. Immaginò
che sarebbe andata ancora così, ma
dentro di sé avvertì la sensazione che
non sarebbe stata in grado di rifiutare
nemmeno quella volta.
«Vedrai,
sarà
fantastico.
Ci
divertiremo» disse Jimmy. «La festa
delle
matricole
è
l’evento
clou
dell’inizio dell’anno, non possiamo
perderlo.»
Sophie lo avrebbe perso volentieri.
Scrutò Jimmy da sotto gli occhiali da
sole, non convinta della motivazione che
lo spingeva a scegliere l’evento della
loro serata.
«E poi sarà pieno di ragazze del
primo anno!»
Appunto, pensò Sophie con amara
soddisfazione per il suo intuito. Tenne
quel pensiero per sé e fissò Jimmy che
attendeva impaziente la sua conferma.
«Okay, mi hai convinta» disse mal
celando un pizzico di rammarico.
Jimmy strinse i pugni in segno di
vittoria.
«Grande!»
«Ma come fai ogni volta? Dovrei
imparare a controllare il tuo ascendente
su di me. Inizia ad essere pericoloso.»
Rivolse un sorriso malizioso a Jimmy e
lo spinse leggermente.
«Non ci riuscirai mai, Sanfront. Lo
sai.»
Procedettero lungo il viale alberato
di fronte a loro. Il rumore delle auto a
quell’ora del pomeriggio copriva ogni
altro suono.
«E chissà» disse Jimmy «anno nuovo,
nuovi ragazzi...»
«Jimmy!» lo interruppe Sophie. «Non
iniziare, so già dove vuoi arrivare. Ti ho
detto che vengo, non farmi cambiare
idea.» Si voltò e Jimmy sogghignò
divertito.
«Dai Sophie, non te la prendere. Non
c’è niente di male a conoscere nuove
persone.»
«Ne ho già conosciute. Non è questo
il punto.» Scostò una ciocca di capelli
che le era caduta sul viso.
«Il punto è che tu non hai fiducia in
nessuno, Sophie. Parti già convinta che
chiunque incontrerai ti deluderà. Ti ho
vista sempre passare da un ragazzo a un
altro...»
Sophie lo fulminò con lo sguardo.
«Okay, mi sono espresso male» disse
Jimmy allungando le mani in segno di
difesa. «Voglio solo dire che non hai
mai provato ad andare più a fondo nella
conoscenza.»
«Non è colpa mia se attiro solo
ragazzi che non c’entrano nulla con me.
Saranno anche belli e ricchi, del tipo
“cosa vuoi chiedere di più?”, come dice
mio padre. Io so solo che sono tutti
terribilmente noiosi. Cosa dovrei fare?
Che rapporto dovrei instaurare?»
«Forse un rapporto che preveda più
di sesso e divertimento.»
Sophie sgranò gli occhi, le guance
avvampate dalla rabbia.
«È il colmo che sia proprio tu a dirmi
queste
cose»
disse
voltandosi
e
affrettando il passo.
Jimmy trasse un profondo respiro,
raggiunse
Sophie
e
la
prese
sottobraccio. Quando riprese a parlare
la concitazione era scomparsa dal suo
tono di voce.
«Ascolta, so di non essere la persona
più appropriata per dare certi consigli»
la fissò negli occhi «ma la differenza tra
me e te è che io sono fatto così, è questo
ciò che voglio. Tu no. E lo sai.»
Sophie abbassò lo sguardo.
Jimmy osservò i voluminosi capelli
sciolti che le circondavano il viso.
«Guardati allo specchio Sophie. Sei
affascinante,
sensuale,
intelligente,
sensibile. Sei tutto ciò che un ragazzo
può desiderare. I ragazzi ti muoiono
dietro, ma tu non hai fiducia nelle
persone.
Ti
avvicini
carica
di
aspettative, ma sei già convinta che
verranno disattese. Non puoi restare
all’infinito in attesa di veder apparire
dal nulla il ragazzo dei tuoi sogni. Il
principe azzurro è andato in pensione da
secoli. Se un ragazzo ti piace, buttati!
Dagli la possibilità di conoscerti
davvero. Prova a fidarti di lui. E se poi
non è quello giusto, pazienza, almeno
non avrai rimpianti. Il ragazzo dei tuoi
sogni, se non ti apri, non potrà mai
esistere. È questa la realtà.»
Nonostante la parte razionale di
Sophie condividesse le parole di Jimmy,
dentro di sé sentiva che per lei non
sarebbe stato così semplice riuscire a
fidarsi completamente di qualcuno.
Sorrise all’immagine evocata da Jimmy
e lo guardò negli occhi.
«Beh...chi può dirlo? Forse un giorno
comparirà proprio qui di fianco a me.»
Jimmy sorrise a sua volta.
«Vedremo. Intanto cosa ne dici di
accontentarti di questo modesto principe
di riserva come accompagnatore per la
serata?»
Le tese la mano come un antico
cavaliere con la propria dama.
Sophie scoppiò in una risata e porse
la mano a Jimmy.
«Credo che accetterò.»
«Bene. Passo a prenderti stasera alle
nove.»
Si strinsero in un abbraccio e si
salutarono. Sophie si incamminò verso
casa,
le
parole
di