SIMON ROWD

Drow

Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi,

personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto

dell’immaginazione dell’autore o sono usati in

maniera fittizia. Qualunque somiglianza con

fatti, luoghi o persone reali, viventi o

scomparse, è del tutto casuale.

simon.rowd@gmail.com

www.amazon.it

ISBN 978-14-92-93306-9

Copyright © 2014 Simon Rowd

L’opera, comprese tutte le sue parti, è

tutelata dalla legge sui diritti d’autore. Sono

vietate e sanzionate (se non espressamente

autorizzate) la riproduzione in ogni modo e

forma nei limiti di legge e la comunicazione

(ivi inclusi a titolo esemplificativo ma non

esaustivo: la distribuzione, l’adattamento, la

traduzione e la rielaborazione, anche a

mezzo di canali digitali interattivi e con

qualsiasi modalità attualmente nota od in

futuro sviluppata).

Alla mia famiglia

Ognuno di noi è una luna:

ha un lato oscuro che non mostra mai a

nessun altro.

MARK TWAIN

Pensi che l'oscurità sia tua alleata,

ma tu hai solo adottato le tenebre.

Io ci sono nato.

BANE, The Dark Knight Rises

Indice

PROLOGO

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7

Capitolo 8

Capitolo 9

Capitolo 10

Capitolo 11

Capitolo 12

Capitolo 13

Capitolo 14

Capitolo 15

Capitolo 16

Capitolo 17

Capitolo 18

Capitolo 19

Capitolo 20

Capitolo 21

Capitolo 22

Capitolo 23

Capitolo 24

Capitolo 25

Capitolo 26

Capitolo 27

Capitolo 28

Capitolo 29

Capitolo 30

Capitolo 31

Capitolo 32

Capitolo 33

Capitolo 34

Capitolo 35

Capitolo 36

Capitolo 37

Capitolo 38

Capitolo 39

Capitolo 40

Capitolo 41

Capitolo 42

Capitolo 43

Capitolo 44

Capitolo 45

Capitolo 46

Capitolo 47

Capitolo 48

Capitolo 49

Capitolo 50

Capitolo 51

Capitolo 52

Capitolo 53

Capitolo 54

Capitolo 55

EPILOGO

PROLOGO

«Non avresti dovuto farlo!» gridò Arline

stremata dalla corsa sotto la pioggia.

«Non così all’improvviso!»

Ripensò a quante volte aveva ripetuto

quelle stesse parole.

«Sai benissimo che non avevamo

altra scelta» ribatté Logan senza

nemmeno voltarsi. «Ho solo anticipato i

tempi, aspettare ancora non avrebbe

cambiato nulla. Ora dobbiamo solo

pensare a come far perdere le nostre

tracce.» Si abbassò ed evitò all’ultimo

un ramo spezzato. La cesta che reggeva

in mano per poco non si capovolse. «Al

diavolo questa dannata pioggia!»

Sentiva il fiato dei loro inseguitori

sul collo. In condizioni normali li

avrebbero seminati agevolmente, ma il

temporale scoppiato all'improvviso e il

terreno ridotto in fanghiglia stavano

rallentando la loro fuga. Coperto dalle

nuvole, il sole sembrava non volesse

saperne di tramontare e diffondeva

ancora nell’aria una debole luce. Quanto

bastava a infastidirli e frenare ancora di

più la loro corsa.

Arline incespicò tra le radici degli

alberi che spuntavano dall’erba come

trappole e cadde a terra. Ascoltò il

cuore batterle nel petto ed ebbe

l’impressione che da un momento

all’altro le avrebbe sfondato il torace.

Affondò le mani nel fango per

rialzarsi e riprese a correre. Tutto era

diventato più complicato del previsto.

Sentiva la speranza scivolarle dalle

mani. Tra le paure che avevano scandito

i giorni precedenti, aveva sottovalutato

quella che in fondo al cuore temeva di

più: la proverbiale impulsività di Logan,

che lo rendeva così affascinante e allo

stesso

tempo

terribilmente

incontrollabile.

Quel gesto improvviso che Logan

aveva compiuto, guidato solo da un

innato istinto di protezione, li aveva

esposti come mai era accaduto prima e

ora erano costretti a fuggire senza una

meta e con quel cesto che pesava come

un macigno.

Pochi minuti e quello stesso istinto

portò Logan a pronunciare ansimante la

frase che la raggelò: «Dobbiamo

lasciare il cesto.»

Arline arrestò la corsa e sgranò gli

occhi. Quelle parole risuonarono come

un urlo straziante e le si attorcigliarono

in pancia in una fitta pungente.

«Non lo farò mai!» strillò con

l'ultimo soffio di fiato che lo sforzo

della corsa le aveva lasciato in gola.

«Non mi priverò mai della cosa più

importante della nostra vita.»

Il respiro si fece affannoso e con una

mano si asciugò le lacrime di sudore che

le bagnavano il viso.

«Non lascerò mai che...»

E in quel preciso istante il tempo per

Arline non ebbe più alcun senso. Il

giorno, la notte, la vita, l'amore, in una

frazione di secondo tutto svanì per

lasciare spazio alla staticità di ciò che

sarebbe stato, poi, solo ricordo.

Logan udì lo sparo e si voltò di

scatto, incrociò gli occhi violacei di

Arline, quegli occhi che tante volte gli

avevano dato la forza di andare avanti.

Li vide spalancarsi in un lampo di

sorpresa, terrore e rassegnazione e

osservò la bocca contorcersi in una

smorfia di dolore. Non seppe mai se fu

per le parole che aveva pronunciato o

per il proiettile che le aveva appena

trafitto il cuore.

Il corpo di Arline cadde a terra privo

di vita, in silenzio. Logan si precipitò a

soccorrerla evitando, con quel cambio

di direzione repentino, il secondo

proiettile destinato alla sua nuca. Mentre

torceva il busto rallentando la corsa, udì

il sibilo della pallottola che si

conficcava nel tronco dell’albero alle

sue spalle. Fece appena in tempo a

guardare per l'ultima volta il viso di

Arline e a stupirsi come sempre della

sua oscura bellezza, che si ritrovò faccia

a faccia con l'uomo che aveva sparato.

Si guardarono per un istante dritto

negli occhi.

Poi, inaspettatamente, attorno a loro

tutto divenne buio.

L’uomo

si

trovò

avvolto

da

un’oscurità così intensa da non riuscire a

scorgere le sue stesse mani. Disorientato

dall’improvvisa e inspiegabile assenza

della luce del sole, si bloccò con l’arma

puntata in avanti. Logan, invece, riprese

la sua corsa senza esitare. Sul suo volto

teso e per la prima volta intriso di

lacrime, si leggevano solo odio e

vendetta.

Non c'era spazio per nient'altro, non

più ormai.

Odio e vendetta.

I suoi occhi erano spenti, la sua

mente offuscata.

Odio e vendetta.

Solo un barlume di lucidità gli

imponeva, contro la sua stessa natura, di

non affrontare quell'uomo in quel

momento. Doveva prima trovare un

posto sicuro per il cesto e doveva farlo

in fretta. I battiti accelerarono, i passi

aumentarono e la corsa si fece più

intensa.

Il violento temporale aveva lasciato

il posto ad una pioggia appena

percettibile e il sole stanco era stato

scalzato da una notte senza luna.

Logan proseguì da est a ovest per

confondere le proprie tracce e si ritrovò

di fronte ad una piccola costruzione in

legno circondata da uno steccato che

recintava un ampio giardino dal manto

verde privo di alberi. Di fronte al

portone d’ingresso una targa con i nomi

dei proprietari e un cartello eloquente.

CAN CHE ABBAIA, FIDATEVI, MORDE

Era quello che cercava. Agì guidato

solo dall'istinto, scavalcò il recinto e si

diresse verso l’entrata senza fare alcun

rumore. Un pastore maremmano dall'aria

bonacciona, a pochi metri di distanza,

alzò la testa e drizzò le orecchie.

Sembrò sul punto di reagire a

quell’inattesa intromissione, ma il

latrato violento che stava per esplodere

gli si soffocò in gola, mutando in un

singhiozzo sommesso. Logan lo fissava

gelido negli occhi. Non rappresentava

una minaccia, non per lui. Il pastore

abbassò le orecchie e si rintanò nella

cuccia, intimorito.

Logan si voltò verso l’ingresso, in

pochi passi raggiunse la porta e si

abbassò all’altezza della maniglia. Gli

bastarono una decina di secondi per far

scattare

la

serratura.

Dischiuse

lentamente la porta e diede un’occhiata

all’interno. Nel buio ogni cosa appariva

ordinata con cura. Fece un respiro

profondo, allungò il braccio oltre la

soglia e depositò il cesto all'interno

della casa.

Guardò un’ultima volta dietro di sé e

ripensò ad Arline. Le avrebbe fatto

piacere poter mantenere il nome che

avevano scelto insieme. Un ultimo gesto

per ricordare lei e la loro unione.

Abbassò lo sguardo sullo sgabello in

legno accostato alla porta: un cumulo di

giornali saliva a formare una piccola

pila su cui erano appoggiati un paio di

occhiali spessi e una penna senza

cappuccio. Senza pensarci troppo,

strappò un pezzo di carta da un angolo

del giornale in cima e, con la penna che

gli tremava tra le dita, affidò a quel

foglietto poche semplici parole.

Girò il pezzetto di carta e tratteggiò

due sottili iniziali. Adagiò il biglietto

nella cesta infilandolo tra le soffici

lenzuola che avvolgevano il piccolo

corpo addormentato. Con le dita sfiorò

la guancia leggermente arrossata per il

freddo.

«Addio, Eric» sussurrò con un tuffo

al cuore.

Fece un passo indietro e richiuse la

porta. Un brivido lo percorse al

pensiero che non lo avrebbe più rivisto.

Si riprese e diede una rapida

occhiata attorno. Nessuno si era ancora

avvicinato. Era riuscito ad accumulare

un po’ di vantaggio, ma non ci

avrebbero messo molto ad arrivare a

esplorare anche quella zona del bosco.

Non poteva rimanere fermo troppo a

lungo, se non voleva che i suoi

inseguitori iniziassero a sospettare che

si fosse fermato in quella casa. Doveva

riprendere la fuga e far perdere le

proprie tracce.

Si rimise a correre, pervaso da uno

strano senso di leggerezza misto ad

angoscia. Era sfinito, l'adrenalina e

l'istinto di protezione che lo avevano

guidato fin lì erano stati soppiantati

dalla stanchezza e dalla sensazione di

aver perso tutto. Eppure non voleva

fermarsi, più si allontanava più si

sentiva sicuro, per sé e per Eric.

E a un tratto lo udì, inconfondibile

per un orecchio come il suo, quel

rumore di passi a qualche centinaio di

metri da lui. Si arrampicò sull'albero

più vicino e scorse i tre uomini che gli

stavano dando la caccia intenti a

valutare le tracce e confabulare tra loro.

Indossavano un’uniforme nera su cui

spiccava, all’altezza del petto, uno

stemma con una freccia dorata rivolta

verso il basso. Riconobbe tra loro il

volto di chi gli aveva portato via Arline.

L'impulsività che era riuscito a tenere a

bada sino a quel momento, insieme

all'odio e al desiderio di vendetta, ebbe

il sopravvento. Si diresse verso di loro

balzando di albero in albero. Non

appena fu sopra le loro teste, estrasse le

due pistole che portava sempre con sé e

si lanciò su quelli che, fino a un attimo

prima, erano stati i suoi predatori. I due

proiettili,

sparati

con

precisione

assoluta durante la caduta, uccisero

all'istante due dei tre individui. Il terzo

fece appena in tempo a capire che

qualcosa dall'alto gli stava rovinando

pericolosamente addosso, che si ritrovò

a terra, disarmato e intontito. Logan,

adesso, aveva davanti a sé quel volto.

Ripensò ad Arline e senza esitare iniziò

a massacrarlo con ferocia inaudita. In

preda all'odio e alla sete di vendetta lo

colpì ripetutamente e, quando sentì il

cuore dell'uomo sotto di lui arrestarsi,

non fece altrettanto e continuò a

infierire.

Se i suoi sensi non fossero stati

offuscati dalla rabbia cieca di quel

momento, lo avrebbe avvertito, ma in

quella sorta di trance, posseduto dal suo

solo lato oscuro, Logan non avrebbe mai

potuto accorgersi che dietro di lui una

figura filiforme si era avvicinata e gli

puntava un fucile alla testa.

La figura avanzò silenziosa finché

non si trovò ad un palmo da Logan,

strinse con forza il fucile e trattenne il

respiro.

Logan si voltò e in un attimo tutto fu

avvolto dal buio.

Capitolo 1

Il profumo amaro del caffè si diffuse

nell’aria cancellando ogni altro odore

nel locale. Sophie chiuse gli occhi e

assaporò l’aroma prima che svanisse.

«Ecco a voi» disse una voce

femminile.

Sophie trasalì. Si accorse di essere

sovrappensiero da qualche minuto. Sul

tavolino erano comparse due tazze

fumanti piene fino all’orlo. La cameriera

svuotò il vassoio e sistemò con cura sui

piattini qualche bustina di zucchero e

due cucchiaini di plastica.

Sophie fissò la mano della ragazza

ritrarsi velocemente col vassoio vuoto

tra le dita.

Afferrò la tazza e bevve un sorso.

Spostò di nuovo lo sguardo oltre la

grossa vetrata alla sua destra. A poche

decine di metri, il campus della Dorton

University stava lentamente riprendendo

vita, animandosi dei volti più o meno

sorridenti degli studenti.

Settembre era arrivato portando con

un

residuo

di

spensieratezza

dell'estate appena trascorsa e in città si

respirava

ancora

la

piacevole

sensazione di calma che ben presto, con

il ritorno alla normalità, avrebbe ceduto

il passo al ritmo frenetico della

quotidianità.

Era strano pensare che Skittburg, di lì

a poco, si sarebbe riempita di traffico e

confusione, eppure, ormai da anni aveva

perso l’aspetto della cittadina tranquilla,

trasformandosi in una metropoli di

grattacieli e larghe vie traboccanti di

negozi. Gli unici tratti riconoscibili del

vecchio paese di mare erano il clima

mite e ventilato e l’aria salmastra

percepibile

ad

ogni

angolo.

La

combinazione tra grande città e piccolo

centro dava vita a un contrasto tanto

insolito quanto irresistibile.

Nel centro del cortile principale,

poco distante, l’orologio del campus

scandiva le 8:30.

Sophie sbadigliò e distese le gambe

sotto al tavolino. Prese un altro sorso di

caffè e si guardò attorno. Il via vai di

studenti era aumentato, ma le voci nel

locale si erano acquietate. Tutte tranne

una, che continuava imperterrita a tono

sostenuto.

Sophie si voltò. Seduto di fianco a

lei, Jimmy stava ancora parlando. Non si

era accorto di nulla, nemmeno della

cameriera che aveva appoggiato il suo

caffè a un centimetro dalla fotocamera

digitale. Aveva perso gli ultimi cinque

minuti di racconto, ma poco importava.

Si erano ritrovati presto, prima

dell’inizio delle lezioni, per fare

colazione

insieme e immergersi nei

racconti l'uno dell'altra.

Jimmy,

come al solito, aveva

cominciato per primo, mostrando le foto

delle città visitate nel sud della Spagna.

«E questa chi è?»

Sophie indicò con la punta del dito il

volto della ragazza comparsa sul display

della reflex che Jimmy stringeva tra le

mani.

«Una di passaggio.»

Sophie

strisciò

l’indice

sul

touchscreen della fotocamera scoprendo

la foto successiva. «Di passaggio, certo.

E qui immagino fosse di passaggio... nel

tuo letto.»

La foto ritraeva lo stesso volto dello

scatto precedente, adagiato su un

cuscino bianco, con gli occhi chiusi e il

viso rilassato.

Jimmy guardò Sophie tradendo un

sorriso. «È incredibile, al giorno d’oggi

non puoi distrarti un attimo che ti ritrovi

nella reflex foto compromettenti. Ti

giuro, non ho idea di chi abbia scattato

quella foto...»

Scoppiarono a ridere.

«Certo, come no...» Sophie gli

strappò di mano la macchina fotografica.

«Ho come il presentimento che sia solo

la prima di una lunga serie...»

«Ehi, ma per chi mi hai preso? Non

sono mica un gigolò!» Prese la tazza e

bevve il suo caffè tutto d’un sorso.

«Solo perché non ti fai pagare.»

Sophie fece scivolare di nuovo l’indice

sul display. «Ah, beccato di nuovo!»

Continuò a trascinare il dito da destra a

sinistra. «Eccone un’altra... e un’altra

ancora... e ancora... Oddio, Jimmy, ma

quante sono...?»

«Ok, basta, dammi qua.» Jimmy le

tolse la fotocamera dalle mani. «Non è

come credi, alcune sono solo amiche.»

«Ah sì...? Anch’io sono una tua

amica, la migliore mi verrebbe da dire,

ma non ricordo foto di me mezza nuda

nel tuo letto.» Sophie arricciò le labbra

e lo guardò divertita, con aria di sfida.

«Che c’entra? Tu sei diversa. Sei

quella che si definisce una... una...»

Jimmy posò di colpo la reflex e prese in

mano le due tazze ormai vuote. «Vado a

ordinare altri due caffè, non vorrei mai

che ti addormentassi il primo giorno di

lezione.» Cambiò tono di voce e

imitando il professor Gilbor aggiunse:

«Sarebbe a dir poco inammissibile.»

«Certo, professore.» Sophie sorrise e

si adagiò sullo schienale della sedia

mentre lo osservava allontanarsi.

Notò

con

soddisfazione

che

indossava dalla testa ai piedi vestiti

regalati da lei: i pantaloni kaki a vita

bassa, stretti alla caviglia e la t-shirt dal

sapore un po’ vintage tanto criticata

all’inizio e diventata poi una seconda

pelle. Sulle spalle, un cardigan grigio a

quadri scozzesi gli donava il tocco di

eleganza a cui non rinunciava mai. Non

era difficile regalargli qualcosa da

indossare, il fisico slanciato valorizzava

qualsiasi capo e l’atteggiamento fiero e

sicuro di sé faceva il resto.

Sophie lo seguì con lo sguardo fino in

fondo alla sala e lo vide sporgersi verso

la ragazza al bancone e dirle qualcosa.

La ragazza annuì e appuntò alcune

parole sul block-notes. Jimmy spinse le

spalle più avanti e le parlò ancora. Lei

sorrise e sistemò una ciocca di capelli

dietro l’orecchio. Jimmy rispose al

sorriso e tirò fuori dalla tasca il

cellulare.

Adesso anche con la cameriera?

pensò Sophie. Scosse la testa e riprese

in mano la macchina fotografica. Sfogliò

le foto appena viste e proseguì oltre.

Quando Jimmy tornò coi due caffè,

Sophie girò il display della reflex verso

di lui.

«Beh, devo ammettere che alle volte

hai buon gusto... e non mi riferisco alla

cameriera.» Gli mostrò la nuova foto

trovata.

«Ah, Helena» sospirò Jimmy e bevve

un sorso dalla tazza. «Conosciuta la

notte di San Lorenzo a Barcellona. Le

dissi che non poteva rifiutarsi di passare

la notte con me, visto che avevo appena

espresso quel desiderio guardando una

stella cadente. E lei accettò.»

Sophie scosse la testa. «Ma come fai

a conquistarle in questo modo? Non

riuscirei mai a rimanere seria mentre me

lo chiedi.»

«Lo dici solo perché siamo nel posto

sbagliato e nel momento sbagliato»

ribatté Jimmy. «Le parole sono come

lucertole per la loro capacità di

cambiare colore in base al luogo dove le

pronunci» sentenziò.

«Colto e divertente... un mix letale

per qualunque ragazza.»

Jimmy alzò le sopracciglia. «E questi

occhi lucenti come l’argento e i capelli

biondi come l’oro fanno il resto.»

Scoppiarono entrambi in una risata.

«In fondo voi ragazze siete sempre

state attratte dai metalli preziosi»

aggiunse.

«Parla per le tue amiche.» Sophie

posò sul tavolo la macchina fotografica

e incrociò le braccia. «E comunque non

hai ancora risposto alla mia domanda.»

«Quale domanda?»

«Cosa

sarei

io?

Dammi

una

definizione, dato che non rientro nel tuo

concetto

di

amica...»

lo

guardò

fingendosi indispettita.

«Sei sicura di volerlo sapere?»

Avvicinò il suo viso a quello di Sophie.

«Potrebbe cambiare tutto... tra noi.»

Sophie deglutì.

«Jimmy...» Si ritrasse leggermente e

corrugò la fronte.

Jimmy si avvicinò ancora. «Per me tu

sei... sei... il mio migliore amico

Sophie gli schiaffeggiò il braccio.

«Scemo!»

disse

e

si

adagiò

completamente sullo schienale.

«Davvero, solo che hai le sembianze

di una ragazza.» Le mise una mano

intorno alla spalla e la strinse a sé. «Sai

benissimo che non rientri in nessuna

categoria, per me sei un’amica, una

sorella e a volte anche una figlia.»

Sophie rise e gli appoggiò la testa

sulla

spalla.

Il

suo

profumo

inconfondibile possedeva un che di

magico e aveva il potere di rilassarla.

Quel profumo era una presenza costante

nei suoi ricordi. Jimmy, per lei, c’era

sempre stato: c’era la prima volta che

aveva saltato la scuola ed era stata

maldestramente scoperta; c’era a gioire

con lei della patente appena presa e a

consolarla dopo il primo incidente;

c’era tutte le volte che era stata costretta

a rimanere a casa in punizione.

Jimmy sapeva tutto di lei, così come

lei conosceva tutti i suoi segreti. Dalla

sua prima cotta all'età di tredici anni per

la supplente di matematica, alla sua

passione per la natura e per i viaggi,

fino a quel posto nel bosco dove amava

rifugiarsi per stare lontano da tutto e

tutti.

I suoi modi attenti e protettivi

l'avevano colpita sin dal loro primo

incontro.

Lo ricordava ancora quel mattino

grigio di novembre di dieci anni prima.

Aveva appena smesso di piovere e si

stava divertendo a saltellare tra le

pozzanghere del giardino. Poco distante,

Hope, lo statuario dobermann che da

anni accompagnava le sue giornate,

abbaiava con veemenza eccessiva.

All’inizio non ci aveva fatto caso,

abituata a quel suono divenuto col tempo

familiare. Tuttavia, poiché il latrare si

faceva sempre più insistente, aveva

smesso di saltellare per andare a vedere

cosa stesse succedendo.

Hope si dimenava avanti e indietro in

modo ripetitivo ed esibiva le zanne in un

ringhio nervoso. La catena a cui era

legato era tesa a tal punto da lacerargli

il collo.

Gli si avvicinò perplessa e allungò la

mano verso il muso per accarezzarlo, un

gesto innocente con cui tante volte lo

aveva tranquillizzato.

Hope continuò a ringhiare senza

chinare il capo. Con i denti affilati ben

in vista strattonò la catena e spalancò le

fauci.

Tutto avvenne in una frazione di

secondo.

Vide una macchia verde lanciarsi

verso di lei e interporre il proprio corpo

tra la sua mano e il muso dell’animale.

Quel corpo la spinse all’indietro

trascinandola a terra. Si ritrovò distesa

sul prato a pancia in su, mentre il peso

che un istante prima la schiacciava era

già rotolato via.

“Stai bene?” furono le prime parole

che udì mentre tentava di rialzarsi. Rizzò

la testa. Il bambino davanti a lei aveva

la maglietta lacerata all’altezza del petto

e le tendeva una mano. Si rese conto in

quell’istante di ciò che le sarebbe potuto

accadere.

A distanza di anni, non ricordava di

aver provato paura, ma solo un interesse

particolare per quel bambino che

l’aveva salvata.

Il legame con Jimmy, nato in quegli

attimi concitati, non si era mai più

dissolto.

Jimmy abbassò lo sguardo verso

Sophie, assorta nei suoi pensieri. Erano

rari i momenti in cui poteva osservarla

in tutta la sua bellezza senza che

iniziasse a fare smorfie per l’imbarazzo.

I lunghi capelli castani, dal taglio

irregolare, le ricadevano sulle spalle

incorniciando il viso dalla pelle

perfetta. Gli occhi verde smeraldo

brillavano avvolti in un velo di mascara

e le labbra morbide e definite

apparivano ancor più lucenti accarezzate

dai riflessi della luce del sole. La linea

elegante del corpo era messa in risalto

dalla camicetta di seta aderente e dagli

shorts di jeans che scoprivano le gambe

dorate dall’abbronzatura.

La sensualità che sprigionava a un

semplice sguardo era così forte da

intimorire chiunque. Se non avesse

conosciuto i suoi modi semplici e

gentili, era certo che avrebbe subito la

stessa sorte.

Più volte si era chiesto come mai due

persone con un'affinità e un legame così

intensi non fossero mai andati oltre la

loro straordinaria amicizia. Eppure, per

quanto la trovasse sensuale, tra loro era

nato dall’inizio un rapporto privo di

qualunque attrazione.

Da bambini era stato facile, ma col

passare degli anni tutto era diventato più

complicato. Aveva dovuto ammettere a

sé stesso che la bimba un po'

maschiaccio cui era abituato, si era

trasformata in una ragazza attraente, e si

era dovuto sforzare di familiarizzare

ogni giorno con il suo lato femminile.

«Ehi, signorina Sanfront» esordì dal

nulla, divertendosi come sempre a

chiamarla col suo cognome. «È ancora

qui con noi o vaga come al solito nel

fantastico mondo di “Sofì”?»

Sophie

riportò

l’attenzione

al

presente.

«Mi

perdoni, signor Carter. Ero

sovrappensiero.»

«Un pensiero di nome Steve?»

Sophie sollevò la testa e accigliò lo

sguardo.

«Proprio no!»

«Come farai adesso con lui?»

«Bah, non m’interessa» borbottò.

«Gli hai parlato?»

«Perché avrei dovuto? Ci siamo già

detti tutto quello che era necessario. È

uno stronzo e come tale si è comportato.

Non merita che spenda un minuto in più

pensando a lui. È finita, sempre che sia

mai davvero iniziata. Ora voglio

guardare oltre.»

Jimmy fece con la testa un cenno di

approvazione. Se lei era così convinta,

non aveva intenzione di farle cambiare

idea. Specialmente se si trattava di

quell’idiota di Steve Curtell. Alto un

metro e novanta, fisico palestrato e

capello curato, cambiava ragazza con la

stessa facilità con cui sostituiva un paio

di jeans. Sophie era stata una sorta di

sfida, vinta alla grande. L’ennesima

bandierina aggiunta alle sue conquiste.

Di sicuro la più prestigiosa, perché la

più difficile e la meno scontata.

Sophie all’inizio sembrava presa,

poi, prima dell’estate, lui si era fatto

cogliere

in

un

abbraccio

troppo

appassionato con un’altra e lei era

rinsavita.

Jimmy guardò l’ora sullo smartphone

e balzò dalla sedia: le lancette

dell'orologio erano a un passo dalle

8:55. Solo cinque minuti li separavano

dall’inizio della prima lezione del

nuovo anno.

«Dobbiamo sbrigarci.»

«È tutta colpa tua» ribatté Sophie.

«Come al solito mi fai fare tardi coi tuoi

racconti.»

Uscirono di corsa dal bar e si

precipitarono verso l'aula. Al loro

arrivo era già gremita di studenti.

Presero posto nell'ultima fila, l'unica

ancora libera. Appena il docente di

psicologia fece il suo ingresso, il

vociare si attenuò. Il professore chiuse

la porta e si presentò.

Era un uomo alto e dall’aspetto

anonimo. Jimmy lo studiò per qualche

minuto, poi virò la sua attenzione sul

resto dell’aula.

Picchiettò col gomito sul braccio di

Sophie.

«Ehi, guarda un po’ quella lì .» Indicò

col dito una ragazza nelle prime file.

«Sembra uscita da un cartone animato.»

Sophie puntò lo sguardo tra i primi

banchi . Una ragazza dai capelli rossi

raccolti in due treccine spuntava tra i

tagli più alla moda dei suoi vicini di

posto. Indossava un paio di jeans a

pinocchietto e calzini che arrivavano

alle caviglie.

Sophie ridacchiò coprendosi la

bocca con la mano. «Aggiungerai anche

Pippi Calzecorte alla tua collezione

fotografica di amiche?»

Entrambi risero e il professore parve

udirli nel vociare generale, alzò il tono

della voce e rallentò la spiegazione.

«E quei due li hai visti?» aggiunse

Sophie puntando col mento in avanti.

Seduti in prima fila, perfettamente

composti, due studenti magrolini coi

capelli neri a caschetto e gli occhiali

dalla montatura rotonda ascoltavano la

lezione muovendo all’unisono la testa

mano a mano che il professore si

spostava attorno alla cattedra.

«Chi ? Harry e Potter?» ridacchiò

Jimmy. «Avvisami quando tirano fuori

le scope magiche, che non voglio

perdermi la partita di quidditch.»

Risero ancora, rannicchiandosi dietro

le schiene degli studenti davanti a loro.

Prima che il professore potesse

richiamarli, la porta dell’aula si aprì.

Tutte le facce si voltarono in un flash

mob involontario e il brusio svanì di

colpo.

Il

ragazzo che comparve attirò

l'attenzione

di

tutti.

Aveva

la

corporatura di un’atleta: longilineo e

muscoloso e indossava jeans neri slavati

e una felpa scura. Il cappuccio gli

avvolgeva la testa fino a coprire la

fronte e un paio di Ray-Ban gli celava

gli occhi. Sophie avvertì a pelle uno

strano senso di inquietudine e, dai volti

attorno a lei, si rese conto che non era la

sola.

Il ragazzo, immobile sulla soglia,

passò in rassegna i volti attoniti che lo

fissavano, poi si mosse verso i banchi. Il

suo incedere, calmo e deciso, e il volto

disteso lo facevano apparire incurante di

ciò che gli accadeva intorno.

L'assenza di emozioni sul viso che si

lasciava soltanto intravedere, aumentava

la strana sensazione di ansia nei

presenti.

Il professore ruppe il silenzio.

«Molto

bene,

ottimo

inizio

presentarsi in ritardo il primo giorno di

lezione.» Fece una pausa in attesa di una

reazione che non arrivò. «Denota senza

ombra di dubbio grande attaccamento...

al letto, piuttosto che allo studio.»

Una fragorosa risata generale spezzò

il clima di attesa, poi il professore, con

fare compiaciuto, aggiunse: «Si tolga

occhiali e cappuccio e vada a sedersi

laggiù.» Con il dito indicò un posto

libero non molto distante da Jimmy e

Sophie.

Senza scomporsi, il ragazzo si

diresse a passo lento verso il fondo

dell’aula.

«Intende metterci tutto il giorno?» lo

interrogò ironico il professore.

Il ragazzo arrestò la camminata e si

voltò verso l’insegnante. Parve sul punto

di reagire, poi accelerò il passo verso

l’ultima fila, tradendo un velato disagio

nel

trovarsi

ancora

al

centro

dell'attenzione. Quando le passò a

fianco, Sophie lo scrutò incuriosita.

Lo seguì con lo sguardo fino al posto,

senza distogliere gli occhi un solo

istante. Nonostante l’aspetto cupo,

qualcosa in quel ragazzo l’attirava. Tutto

attorno a lei era diventato invisibile:

desiderava solo scoprire il volto dietro

gli occhiali scuri.

«Sophie» bisbigliò Jimmy «che ti

prende? Mi sembri in un altro mondo,

torna tra noi.» Le diede un pizzicotto per

risvegliarla.

Sophie trasalì e girò la testa verso

Jimmy.

«Tutto okay» mormorò «ero solo

incuriosita dal ragazzo incappucciato,

sai chi è?»

«Boh, non l’ho mai visto prima. Sarà

un altro degli studenti nuovi. Perché?»

«Non trovi abbia qualcosa di

strano?»

«Considerato che a malapena gli si

vede la faccia» sussurrò Jimmy «e che

cammina come un automa, direi che è

certamente un cyborg.» Scandì l'ultima

parola col tono marcato di chi ha appena

rivelato un terribile segreto.

Questa volta Sophie non gli diede

corda e si girò di nuovo verso il ragazzo

incappucciato.

Quasi le mancò il fiato quando si

ritrovò due occhi azzurro ghiaccio che la

fissavano.

Sussultò,

incapace

di

distogliere lo sguardo.

Quegli occhi spiccavano in un

contrasto quasi innaturale con la

carnagione scura e i capelli nero

corvino. La guardavano come a scavare

in profondità nella sua mente per

afferrare il più intimo dei suoi pensieri.

Fu tentata di ritrarre ancora lo sguardo,

ma non ci riuscì. Si sentiva in preda a

un’ipnosi. Rimasero a fissarsi per alcuni

secondi che le parvero interminabili.

Doveva a tutti i costi conoscerlo.

Capitolo 2

«Sanfront!» le sussurrò nell'orecchio

Jimmy. «Sbaglio o siamo di fronte al più

classico dei colpi di fulmine?»

Sophie si riscosse. «Come?»

«Oddio, è più grave di quello che

pensassi» mormorò Jimmy portandosi

una mano alla fronte.

Sophie lo guardò confusa.

«Tu e il cyborg, Sanfront. Vi state

guardando come se foste l’ultimo uomo

e l’ultima donna sulla terra.»

Come ultimo uomo sulla terra non è

proprio niente male, pensò Sophie, ma

in quel momento non se la sentì di

rispondere a tono alla provocazione di

Jimmy,

era

ancora

presa

dalle

sensazioni che le trasmetteva quello

sconosciuto.

«Non dire stupidaggini, ero solo

curiosa di scoprire che faccia avesse.»

«Qualunque cosa sia, smettila di

andare in stand-by. Non stai facendo

altro da stamattina. Vuoi che ti riavvii?»

Sophie non badò alle parole di

Jimmy e si concentrò sulla lezione,

sforzandosi di guardare dritto davanti a

sé. Attese qualche secondo e si voltò di

nuovo. Lo sconosciuto continuava a

fissarla. Sophie girò la testa, ma con la

coda dell’occhio avvertì il suo sguardo

avvolgerle il collo e le spalle.

Si trattenne dal voltarsi di nuovo, ma

non resistette a lungo. Durante la lezione

i suoi occhi incrociarono più volte

quelli dello sconosciuto.

«È tutto per oggi» disse il professore

ridestando l’attenzione della platea.

Ricordò a tutti il giorno e l’ora del

successivo incontro e uscì. La marea di

studenti scivolò fuori dai banchi e si

diresse verso la porta.

«Dai, Sophie, andiamo» disse Jimmy

e si alzò in piedi. «Sociologia inizia tra

cinque minuti e l'aula è dall'altra parte

del campus.»

Prese per mano Sophie e a gran voce

si fece largo tra la folla di studenti.

«Permesso, lasciate passare, la

ragazza non si sente bene, sta per

svenire, ha bisogno di aria.»

In un attimo furono fuori dall'aula.

«Era proprio necessaria quella messa

in scena?» chiese Sophie con le mani sui

fianchi.

«Non è colpa mia, era scritto sul

copione: “Jimmy sveglia la Sophie

Addormentata e la porta in salvo”.»

Sophie scosse la testa. Presero a

camminare a passo svelto. Mentre

superavano

la

folla

di

studenti

all’esterno, Sophie si voltò da una parte

all’altra. Aveva completamente perso di

vista il ragazzo dagli occhi di ghiaccio.

Percorsero un tratto sufficiente a far

scomparire dietro di loro l’edificio da

cui erano usciti, quando il cellulare di

Jimmy squillò.

Per Sophie l'associazione di idee fu

immediata.

«No!» esclamò. «Ho lasciato il mio

iPhone sul banco!»

Jimmy sbuffò. «Corri a prenderlo, io

rimango qui e rispondo a Ted.» Mostrò

a Sophie il cellulare che squillava. «E

fai in fretta o faremo tardi anche a questa

lezione.»

Urlò le ultime parole per raggiungere

Sophie che stava già ripercorrendo di

corsa il tragitto appena fatto. La massa

di studenti si era ridotta e stava

liberando il passaggio. Sophie pregò che

il suo cellulare fosse ancora al suo

posto.

Infilò la porta dell'aula senza

guardare.

Appena oltre, sbatté col corpo contro

qualcosa sulla sua traiettoria. Inarcò la

schiena, respinta all'indietro, ma subito

si sentì cingere la vita e tirare in avanti.

Si ritrovò a contatto con un corpo

magro e definito, in un abbraccio

involontario che le trasmetteva un

inaspettato senso di piacere.

Si ritrasse per osservare chi la stesse

reggendo. Il rossore che la colse tradì la

felicità nello scoprire i due occhi

azzurro ghiaccio che la fissavano a

pochi centimetri dal suo volto.

Il ragazzo allentò la presa, facendole

scivolare la mano attorno alla vita.

«Perdonami»

balbettò

Sophie

riprendendo l’equilibrio. Il rossore sulle

guance aumentò. «Non ti avevo visto.»

Osservò il viso del ragazzo. Da

vicino era ancora più affascinante: i

lineamenti delicati, le labbra carnose e

gli occhi che sembravano brillare. Tutto

in quel volto la confondeva.

Si sistemò la camicetta e si passò una

mano tra i capelli folti.

«Ero sovrappensiero, ho un'altra

lezione che è già iniziata. Stavo

correndo e non sono riuscita a

fermarmi.»

Il ragazzo la fissava in silenzio.

«Ho dimenticato il mio iPhone in

classe e sono tornata indietro di corsa.

Non so nemmeno se lo ritroverò.» Si

morse il labbro inferiore e sbuffò

scostando lo sguardo di lato.

Il ragazzo allungò la mano con un

movimento lento e le porse l'oggetto che

stringeva nel palmo.

Sophie riconobbe al volo il suo

cellulare e un sorriso le illuminò il

volto.

«Lo hai trovato! Grazie, non so

davvero...» Raccolse l’iPhone dalla

mano del ragazzo. Le loro dita si

sfiorarono ed entrambi esitarono, gli

occhi posati sulle mani a contatto.

Lo smartphone si illuminò e la faccia

di Jimmy iniziò a lampeggiare sul

display. Sophie si riscosse, ma indugiò

ancora prima di rispondere. Fece

scorrere la freccia del touchscreen e

avvicinò l’altoparlante all’orecchio.

«Muoviti

Sanfront,

come

devo

dirtelo? Siamo in r-i-t-a-r-d-o.»

«Arrivo» disse Sophie frastornata.

Chiuse la conversazione e tornò a

fissare gli occhi di ghiaccio. «Devo

scappare, grazie ancora.»

Il volto del ragazzo non cambiò

espressione. Sophie rimase ancora per

un attimo immobile, poi si girò e andò

via a passo svelto. Si voltò un’ultima

volta a guardarlo e svoltò l'angolo del

corridoio.

Jimmy la vide arrivare di corsa e,

non appena Sophie lo raggiunse, si mise

a correre con lei indicandole la strada.

Le lanciò un’occhiata e scorse il suo

sguardo perso sulla strada.

«Sanfront, che ti è successo?»

Sophie non rispose.

«Terra chiama Sophie, terra chiama

Sophie. Houston abbiamo un problema,

l’abbiamo persa.»

Sophie continuò a correre a testa

bassa, osservando la strada scorrere

sotto ai suoi piedi.

Ma come ho fatto ad essere così

stupida? pensò.

Dopo aver farfugliato qualche parola,

era

corsa

via

senza

nemmeno

presentarsi. Avrebbe potuto almeno

domandargli come si chiamava. Da

quando si lasciava sopraffare dalla

timidezza? Si promise che la volta

successiva sarebbe rimasta lucida.

Sentiva che l'avrebbe rivisto o, quanto

meno, sperava che il destino fosse così

clemente da concederle una seconda

possibilità.

La corsa terminò di fronte all'aula di

sociologia, la porta era ancora aperta.

Sgattaiolarono all’interno senza dare

troppo nell'occhio e si sedettero in uno

dei posti liberi in prima fila.

Sophie posò i gomiti sul banco e

appoggiò la testa tra le mani. Fece un

respiro profondo per riprendersi. Quel

ragazzo, di cui non conosceva né il

nome,

la

voce,

la

turbava

profondamente.

Capitolo 3

Le lezioni proseguirono per tutta la

mattinata e, quando l'orologio segnò le

due, Jimmy e Sophie si avviarono verso

l’uscita del campus, avvolti dall’onda di

studenti che abbandonava le aule e si

riversava lungo i corridoi dell’edificio.

Sophi e armeggiò con aria distratta

col cellulare e lo ripose nella borsa.

«Qualcosa non va?» domandò Jimmy,

la testa piegata in una posa interrogativa.

Sophie

riportò

l’attenzione

al

presente ed elargì un sorriso poco

convinto. «Tu invece? Non sembri

entusiasta del primo giorno di lezione.»

Jimmy scrollò le spalle.

«Mi

aspettavo

lezioni più

interessanti, invece nell’ultima ora mi

stavo quasi addormentando.»

«Siamo solo al primo giorno, è

normale. In fondo i professori si sono

solo

presentati.

Nessun

effetto

speciale...»

«A parte il professor Haufmann»

affermò Jimmy. «Lui sì che mi è

piaciuto. Quell'uomo è...» guardò verso

l’alto in cerca della parola che meglio

esprimesse ciò che stava pensando.

«Geniale! Intendo, è totalmente fuori

dagli schemi. I ragazzi del terzo anno

raccontano che ha scardinato la porta

del suo ufficio solo per poter dire: “Per

voi la mia porta sarà sempre aperta.”

Assurdo!»

Sophie annuì divertita. Anche a lei il

professor

Haufmann

aveva

fatto

un’impressione diversa da tutti gli altri.

Con quei modi garbati ma autorevoli,

aveva subito catturato l’aula. La sua

voce calma li aveva come ipnotizzati.

Era entrato nel vivo del corso,

tralasciando tediose presentazioni, e li

aveva sfidati tutto il tempo con piccoli

giochi mentali.

L’aula a veva ceduto definitivamente

al carisma del professore, quando aveva

spiegato

il

concetto

di pensiero

laterale: “Se vi dico che davanti a voi

ci sono John e Jack, morti, ai piedi di un

tavolo, e sulla scena vi è dell'acqua a

terra, dei cocci di vetro e una finestra

aperta, cosa pensate che sia successo?”

Tutti avevano risposto all'unisono:

“Un omicidio.”

“Plausibile”

aveva

risposto

il

professore “ma state tralasciando alcuni

dettagli importanti come l'acqua e i

cocci. Come ve li spiegate? Cosa vi

fanno venire in mente?”

Il più veloce a rispondere era stato

Jimmy, lasciando un po' tutti a bocca

aperta: “Jack e John sono due pesci.” Il

professor Haufmann aveva sorriso e

Jimmy aveva spiegato: “Una folata di

vento ha spinto la finestra contro

l'acquario, facendolo cadere dal tavolo

e lasciando per terra l’acqua, i pezzi di

vetro e... i due poveri pesci morti.”

“Molto bene”

aveva

esclamato

Haufmann e si era poi rivolto a tutti:

“Abbiamo appena assistito a un esempio

d i pensiero laterale, un percorso

alternativo della mente per risolvere un

problema non attraverso un percorso

logico di deduzioni sequenziali, ma

tramite l'intuito, che ci porta a fare

collegamenti non lineari. Tutto ciò non è

spiegabile razionalmente e vi fa

comprendere le potenzialità nascoste

della mente umana.”

Sophie

sospirò. Quello era stato

l'unico momento in cui i suoi pensieri

erano stati distolti dai due occhi azzurro

ghiaccio.

Lei e Jimmy raggiunsero la scalinata

che dal campus portava fuori al bar

dell'università.

Appena varcato il grande arco che

dava sulla rampa di scale, Jimmy con la

coda dell'occhio vide lo sconosciuto che

aveva attirato le attenzioni di Sophie,

appoggiato alla parete alla sua sinistra.

Si posizionò di fianco a Sophie in

modo da coprirne quanto più possibile

la visuale. Non voleva che Sophie

entrasse di nuovo in quello stato

catatonico

lasciandolo

privo

di

qualunque attenzione. Quel tizio non gli

era piaciuto per niente dal primo istante

che l'aveva visto.

Accelerò il passo in modo che

Sophie fosse costretta a scendere gli

scalini il più in fretta possibile per

rimanergli a fianco, allontanandola dal

ragazzo dietro di loro che adesso

indossava di nuovo occhiali da sole e

cappuccio.

Nel bel mezzo della scalinata, Sophie

inciampò.

Jimmy d'istinto le afferrò il braccio.

Sbarrò gli occhi quando vide lo

sconosciuto, che solo un istante prima

era a una decina di metri di distanza,

afferrarle il polso dell’altro braccio e

aiutarlo a tirare indietro Sophie.

Incrociò il suo sguardo per un attimo,

poi lo vide lasciare la presa e scivolare

giù per le scale, senza farsi notare.

Sophie si girò di scatto verso Jimmy.

«Grazie» disse e lo strinse forte in un

abbraccio. «Se non ci fossi tu, Carter...»

Un sorriso radioso le comparve sul viso.

Jimmy si rese conto che Sophie non

si era accorta di quanto realmente

successo. Decise di non dire nulla.

Adesso, però, era lui a essere turbato a

causa di quel ragazzo e c'era una sola

spiegazione che potesse giustificare

l'accaduto.

Capitolo 4

Il sottotenente Stevens affrettò il passo e

percorse rapidamente il lungo corridoio

che conduceva dalla sala di controllo

agli uffici amministrativi. Oltrepassò

l’arco

in

fondo

al

corridoio

e

s’introdusse nell’ala direzionale del

palazzo che si contraddistingueva dal

resto dell’edificio per il pavimento in

parquet.

Strinse il pugno e verificò che il

piccolo oggetto custodito nel palmo

della mano fosse ancora saldamente al

suo posto. Di tanto in tanto abbassava lo

sguardo per fissarlo, lo rigirava

nervosamente tra le dita e tornava a

impugnarlo con decisione. Mentre

avanzava, sentiva i propri passi

echeggiare

nel

vuoto

dell’ampio

corridoio. Una goccia di sudore gli

scivolò lungo la schiena. Ogni passo

diventava più difficile e pareva scavare

la terra davanti a sé mano a mano che si

avvicinava

alla

sua

destinazione.

Raggiunse la porta a vetri che separava

il corridoio dal piccolo androne

quadrato antistante gli uffici. Osservò le

tre porte disposte una per lato e si

diresse verso quella centrale.

Indugiò per alcuni secondi fuori e

trasse un profondo respiro.

Ciò che stava per riferire lo turbava e

ancor di più lo preoccupava la reazione

che avrebbe avuto la persona all’interno

della stanza.

La situazione era precipitata molto

velocemente ed era consapevole di quali

fossero le implicazioni.

Bussò alla porta.

Una voce dall’interno lo invitò ad

entrare.

Stevens aprì la porta. «Capitano»

disse e si fermò appena varcata la

soglia. «Sono il sottotenente Stevens.»

Il capitano sostava in piedi in fondo

alla stanza, rivolto spalle alla porta. Il

suo

sguardo

oltrepassava

l’ampia

vetrata di fronte a lui e si perdeva nella

luce rossastra del tramonto. Teneva una

mano in tasca e con l’altra tamburellava

con le dita sul vetro.

«Capitano, mi scusi per averla

disturbata. Ero stato avvertito di

avvisarla solo in caso di estrema

urgenza. Credo che questo sia il caso.»

Il

capitano

rimase

immobile,

sembrava non aver fatto caso alle parole

di Stevens.

«Abbiamo perso il contatto con il

soggetto.» Stevens esitò prima di

proseguire, temendo la reazione del

capitano, che rimase impassibile. «Gli

uomini del servizio di sicurezza esterno

lo hanno inseguito per tutta la notte fino

alle prime luci dell’alba. Si è spinto ai

margini del bosco e si è rifugiato in uno

dei capannoni di stoccaggio del legno.

Lo hanno raggiunto e circondato. Gli

hanno intimato di uscire, ma non hanno

ricevuto risposta. Così, hanno deciso di

fare irruzione nel deposito, ma...» si

fermò, a lui per primo parve assurdo

quanto stava per dire. Essendo lì da

poco non vi aveva ancora fatto

l’abitudine.

«Dicono che all’improvviso tutto sia

diventato buio. Nemmeno la luce del

sole illuminava più nulla. Quando hanno

ripreso a vedere, sono entrati nel

capannone, ma non hanno trovato

nessuno all’interno» abbassò lo sguardo.

«È come scomparso nel buio.»

Il silenzio riempì la stanza.

«Non

mi

sorprende»

disse

il

capitano. Continuava a fissare fuori dal

vetro, ma la sua mente era rivolta alle

parole del sottotenente.

Stevens indagò con lo sguardo il

capitano, sorpreso dalla calma con cui

aveva accolto la notizia. Considerata la

delicatezza della questione si sarebbe

aspettato una reazione molto più

veemente. Il capitano, invece, sembrava

essere già a conoscenza degli eventi e

per nulla sorpreso da come il quadro si

stava evolvendo.

«Abbiamo

atteso

finora

per

informarla» proseguì Stevens «poiché

ritenevamo ancora possibile ristabilire

il contatto. Abbiamo utilizzato tutte le

risorse in nostro possesso. Purtroppo è

stato inutile. Ha fatto perdere le sue

tracce. In questo momento, due squadre

di ricerca stanno ispezionando l’area

della

fuga.

Sono

in

costante

comunicazione

con

il

centro

di

controllo. In caso di contatto, siamo

pronti ad agire secondo il protocollo.»

Attese ancora qualche istante, poi

aggiunse: «I cacciatori sono già entrati

in azione.»

«Grazie, Stevens» il capitano scandì

le parole. Si voltò verso il sottotenente e

abbozzò un sorriso di riconoscenza.

«Se ci dovessero essere novità, mi

avvisi. Ora torni pure al lavoro.» Tornò

a fissare oltre la finestra.

«Non è tutto» proseguì Stevens,

incurante del fatto di essere già stato

congedato.

Il capitano aggrottò la fronte e rimase

in silenzio in attesa che Stevens

continuasse.

«C’è una cosa che dovrebbe vedere.»

Tese una mano verso il superiore. Il

capitano si voltò lentamente e osservò il

piccolo oggetto scuro tra le dita del

sottotenente. Scrutò dubbioso Stevens e

si avvicinò. Afferrò dalle mani del

sottotenente l’oggetto nero: una piccola

scheda di memoria digitale.

«Lo hanno scoperto i ragazzi del

centro di controllo, analizzando i filmati

registrati dalle telecamere a circuito

chiuso. È una registrazione di questa

notte.»

Il capitano girò attorno alla scrivania

e si sedette sulla poltrona in pelle. Inserì

la scheda nell’apposita porta del

computer

portatile

e

attese

che

l’immagine apparisse sullo schermo.

Il video si avviò in automatico.

Osservò sullo schermo le immagini in

bianco e nero che ritraevano due uomini,

uno di fronte all’altro, in uno stretto

corridoio debolmente illuminato. Uno

dei due uomini premeva una mano sulla

gamba sinistra sporca di sangue: una

ferita gli percorreva tutta la coscia fino

al ginocchio. Si reggeva in piedi

appoggiato col corpo al muro in pietra e

agitava

l’altro

braccio

in

modo

concitato. Sembrava indicare all’altro

uomo di correre via senza attenderlo.

Un particolare catturò l’attenzione

del capitano. Socchiuse le palpebre e

avvicinò il volto allo schermo per

mettere meglio a fuoco l’immagine.

Spostò indietro la barra temporale del

lettore video e riesaminò gli ultimi

secondi.

«È quello che penso io?» domandò.

«Riteniamo di sì.»

«Dopo tutti questi anni... quante

possibilità ci sono?»

«Abbiamo già avviato una ricerca»

disse Stevens «ma non sarà facile.

Potrebbe non trovarsi più qui.»

«In ogni caso, dobbiamo fare un

tentativo. Non possiamo permetterci di

lasciare nulla d’intentato. Se è ancora

qui, non lascerà la città finché non avrà

ottenuto ciò che vuole. Questo ci dà più

tempo e libertà di azione.»

Il capitano si alzò in piedi.

«Le raccomando di mantenere la

massima riservatezza. Nessuno, oltre al

sottoscritto e alla ristretta unità di cui

già conosce i nomi, è al corrente della

reale natura della questione. Nessuna

informazione deve trapelare in alcun

modo, nemmeno coi colleghi che

collaborano operativamente. Si attenga

alla procedura stabilita.»

«Senz’altro» disse Stevens.

«Ora

vada

pure

e

mi

tenga

informato.»

Stevens porse il saluto militare al

superiore e uscì dalla stanza. Il capitano

tornò a osservare il computer portatile.

L’immagine sullo schermo riproduceva

a flusso continuo il breve filmato.

Tornò a esaminare i secondi che

avevano inaspettatamente cambiato il

corso degli eventi.

Fissò il volto dell’uomo ferito nel

filmato. Nonostante la qualità imperfetta

della ripresa, si potevano chiaramente

vedere le labbra dell’uomo muoversi e

unirsi per pronunciare tre parole.

Tre parole in grado di riaprire da

sole una storia sepolta negli anni e

capaci di far mutare rapidamente la

situazione di quelle ore.

Un

sorriso

di

soddisfazione

comparve sul viso del capitano. Per la

prima volta da quella notte, ebbe la

sensazione che la fortuna stesse girando

dalla sua parte.

Capitolo 5

Eric Arden chiuse gli occhi e fece due

respiri profondi. Avvertì i suoi sensi

presi d’assalto da ogni direzione. Odori,

suoni, poteva percepire chiaramente

tutto ciò che di vivo e non vivo c’era

attorno a lui, anche se distante. Lassù, in

cima a uno dei grattacieli più alti della

città, il vento gli sfiorava i capelli e

rinfrescava la pelle del viso.

Aveva appena terminato il suo primo

giorno nella nuova università e gli eventi

gli stavano già scivolando di mano.

Avrebbe dovuto solo rimanere fermo,

invece d’istinto si era lanciato verso

quella ragazza e l’aveva afferrata per

non farla scivolare. Proprio lì, nel bel

mezzo della scalinata, davanti a tutti. Per

fortuna il suo amico era stato altrettanto

rapido, altrimenti non avrebbe saputo

come giustificarsi.

Sei

stato

uno

stupido! pensò.

Avrebbero potuto accorgersene... Il suo

amico, l’espressione del suo volto. Ha

visto, ne sono certo. Avevi promesso di

non esporti... e invece...

Era successo di nuovo. Il suo gesto

era stato spontaneo, ma aveva rischiato

di metterlo in pericolo. Ogni volta che le

s u e doti speciali venivano fuori in

maniera istintiva, aveva paura che

qualcuno lo notasse. Per questo aveva

imparato a controllarsi, a fingere, a non

dare nell’occhio. Ma questa volta era

stato diverso. Quella ragazza aveva

qualcosa di speciale, non capiva cosa.

Sapeva solo che era lei il motivo per cui

non era riuscito a trattenersi.

Non puoi perdere il controllo .

Scopriranno cosa sei in grado di fare e

ti allontaneranno, lo sai. Devi fingere,

far credere di essere come gli altri.

Sempre.

Il buio avvolgeva la terrazza in cima

al grattacielo e la luce della luna filtrava

fioca dalle fitte nuvole sopra la sua

testa. Lo skyline dei palazzi si

materializzava in mezzo ai bagliori della

città, disegnando un quadro fatto di

ombre e luci di fronte a lui. Lo

spettacolo era mozzafiato, ma a Eric non

importava quel panorama straordinario;

l’unico motivo per cui si trovava così in

alto, era che lì riusciva a isolare i propri

sensi. Tutte le luci e i rumori della città

arrivavano tenui e sfumati e lo

lasciavano per qualche minuto in pace

con sé stesso.

Ripensò al bosco, alla casa dei suoi

genitori a due passi dai vecchi cipressi e

dallo scorrere lento della natura. Gli

mancava. Da quando si era trasferito in

città, l’anno prima, per frequentare

l’università, non passava giorno che non

ci pensasse. Fin da piccolo, adorava

starsene seduto sospeso sul ramo di un

albero, con le gambe penzoloni, ad

annusare l’odore della corteccia e il

profumo di ogni filo d’erba. Soprattutto

di notte, quando l’oscurità era così

intensa da avvolgere ogni cosa. Era solo

un bambino, ma il buio non gli faceva

paura. Per lui era come se non esistesse.

Sentì il dolore alle tempie attenuarsi

e il cerchio alla testa iniziare a svanire.

Aprì la bocca e inspirò l’aria fresca

della notte. Ogni fragranza che fluttuava

nell’aria veniva catturata dalle sue

narici.

Spesso si limitava a percepire tutti

quegli

stimoli

senza

focalizzare

l’attenzione su nulla, ignorandoli più che

poteva.

Lasciava

fluire

tutto,

permettendo

che

le

sensazioni

attraversassero la sua pelle, i muscoli e

le ossa e uscissero senza conservare

traccia. Non poteva fare diversamente,

se non voleva esserne travolto. Da

quando aveva ricordi, era sempre stato

così. Sovrastato dai sensi e martellato

da ogni più piccolo impulso.

Da bambino, la cosa peggiore erano i

rumori. Sentiva tutto. Ogni suono, anche

il più flebile e lontano, rimbombava

nella sua testa come un gong. Piangeva

tutte le volte che avvertiva il vento

ululare in lontananza fuori dalla finestra

e si spaventava per i tuoni, quando

ancora le nuvole non avevano fatto la

propria comparsa all’orizzonte. Ogni

minimo sussurro arrivava alle sue

orecchie.

A scuola spesso si fermava ad

ascoltare quello che accadeva nella aule

accanto alla sua. Ricordava la volta che

era rimasto per un’ora ad ascoltare la

conversazione tra Maggie Crawford e

Josephine Gyllenal, al liceo durante

l’ora di matematica. L’argomento della

conversazione era lui. Maggie si

lamentava del fatto che, nonostante

sembrasse attratto da lei, ancora non si

era fatto avanti. Si divertiva ad ascoltare

quelle confessioni private. Ma era

sempre difficile concentrarsi su un

punto, quando tutto attorno a lui

sembrava chiamarlo e distrarlo, ogni

secondo. Una vertigine di sensazioni che

lo travolgeva e lo disorientava.

Col

tempo

aveva

imparato

a

conviverci e si era reso conto che gli

altri accanto a lui non avvertivano tutto

ciò che percepiva lui. I suoi genitori, i

suoi amici, tutti sembravano insensibili

a quella tempesta di stimoli provenienti

da ogni parte, ogni momento. Erano

diversi, loro. O era lui ad esserlo?

Ogni volta che faceva qualcosa di

non ordinario, notava l’espressione

incredula e meravigliata di chi gli stava

di fronte. Non erano sguardi di

ammirazione, erano sguardi dubbiosi,

pieni di paura e diffidenza.

Nei match di basket al liceo, a chi gli

domandava come facesse a saltare così

in alto non sapeva come rispondere e si

ritrovava sempre a dover sminuire.

Spesso si limitava a dire che si erano

sbagliati, che non aveva fatto nulla di

particolare, ma ogni volta negare

diventava più difficile. Ciò che per lui

era estremamente naturale, per gli altri

risultava straordinario, lo faceva sentire

diverso. E forse lo era realmente...

diverso. In fondo, lui stesso aveva

difficoltà a capire cosa gli stava

succedendo. Il suo corpo e i suoi sensi

erano più sviluppati rispetto a quelli

degli altri e si acuivano ogni giorno che

passava.

“Non sei diverso Eric, sei speciale

gli ripeteva sua madre. “Le cose che

puoi fare sono un dono.”

Nemmeno ai suoi genitori aveva mai

raccontato tutto ciò che era in grado di

fare. Temeva che anche loro, nonostante

tutto, lo ritenessero diverso.

Soprattutto a loro aveva sempre

cercato di tenere nascosto il lato di sé

che più di ogni altro lo turbava. Quel

lato che gli causava scatti di rabbia

inaspettati ogni volta che si sentiva in

pericolo,

momenti

di

aggressività

incontrollabili. Negli ultimi anni era

accaduto sempre più spesso. Stava pian

piano cercando di imparare a contenerli,

a volte senza successo.

Tornò di nuovo con la mente agli

eventi della giornata.

Perché diavolo lo hai fatto? Cosa ti

è preso?

Esporsi così per una ragazza, appena

vista. Da quando si preoccupava di fare

l’eroe?

È vero, lei era in pericolo perché

stava cadendo e rischiava di farsi male,

ma c’era il suo amico, ci avrebbe

pensato lui.

Uscire allo scoperto in quel modo,

perché?

Gli era sempre interessato solo un

lato delle ragazze, quello fisico.

A volte aveva provato a costringersi

ad innamorarsi, per essere come gli

altri, ma passati pochi giorni aveva

sempre dovuto ammettere che non era

nelle sue corde. Iniziava a pensare di

non essere capace di provare un

sentimento così forte.

Ripensò al volto della ragazza, così

delicato e al tempo stesso così attraente.

Dal momento in cui l’aveva vista non

era più riuscito a pensare ad altro.

Immaginava le sue labbra e il suo corpo

sinuoso. Avrebbe voluto accarezzarle

delicatamente il viso e sentire la sua

pelle liscia sotto le dita.

C'era poi il suo odore, riusciva a

percepirlo pur rimanendo distante. Lo

disorientava.

Era

particolarmente

sensibile agli odori, lo era sempre stato,

ma

ritrovarsi

scombussolato

alla

percezione del profumo di una ragazza

era una sensazione nuova e del tutto

inaspettata.

Eppure non era solo il lato estetico

ad affascinarlo. Sentiva che in lei c’era

dell’altro, qualcosa che non riusciva

ancora a cogliere in pieno e che non

vedeva l’ora di scoprire. Forse era

quello il motivo per cui l’aveva salvata:

voleva capire come faceva ad attrarlo in

quel modo.

Quando era stata l’ultima volta che si

era sentito così? Non c’era mai stata.

Era quello il punto. Si trovava ad

affrontare per la prima volta una

sensazione mai provata e tutto ciò lo

disarmava.

Se ne era reso conto mentre la

osservava tra i banchi dell’aula gremita

di studenti. Il suo sguardo, i suoi occhi

dolci e determinati al tempo stesso, gli

ispiravano fiducia. Una fiducia innata e

insensata. In fondo non la conosceva

affatto.

Eppure

avrebbe

voluto

confidarsi con lei. Dirle tutto. In fondo

al cuore, si chiese se fosse davvero

possibile fidarsi di una sconosciuta. Non

poteva rivelarle tutto, era semplicemente

assurdo. Avevano scambiato solo poche

parole. Anzi, l’unica a parlare era stata

lei. Non poteva permettersi una simile

leggerezza. Non era né il momento, né il

posto giusto.

Doveva dimenticarla. E in fretta.

Inspirò ancora una boccata d’aria

fredda. Sentì l’ossigeno attraversargli la

trachea e riempire i polmoni fino a

inondarli. Era una sensazione così

piacevole lassù. Aprì gli occhi e guardò

l’ora sullo smartphone. Doveva andare.

Attraversò di corsa il tetto e si spinse

fin sull’orlo del cornicione posteriore. Il

vicolo sotto di lui era vuoto. Attese

qualche secondo in bilico godendosi

quel senso di libertà assoluta, poi balzò

in avanti. Allargò le braccia per

controllare la caduta e arrivò quasi

cinque metri più in basso sul muro del

palazzo di fronte. Prima ancora di

toccarlo stava già contraendo le gambe

per saltare nuovamente verso il muro

opposto. Si diede una spinta col piede

sulla parete in mattoni rossi e si ritrovò

sulla parete di fronte evitando la scala

antincendio. Saltò ancora quattro o

cinque volte da una parete all’altra

prima

di

toccare

il

suolo,

accovacciandosi senza far rumore.

Sistemò il cappuccio sulla testa e

s’incamminò per le vie trafficate del

centro. Tutte le luci, che poco prima

aveva potuto ammirare dall’alto, ora lo

accecavano. Sapeva dove dirigersi: un

luogo molto più appartato, dove i

bagliori lasciavano posto alle ombre.

Girò in una viuzza laterale semibuia.

L’unica fonte di luce erano le insegne

dei pub che rischiaravano il pavimento

in pietra. L’atmosfera di quiete gli

rilassò gli occhi e la mente.

Si fermò di fronte all’ingresso di un

locale.

THAT’S ALL JAZZ

L’insegna dorata lampeggiava appena

sopra la porta in vetro opaco, che

lasciava

intravedere

l’interno

e

permetteva a una musica dolce e lenta di

raggiungerlo all’esterno.

Entrò. Un mix di odori e suoni lo

avvolse. Una luce soffusa illuminava

dolcemente l’interno del locale, rivestito

alle pareti con un sottile tessuto grigio.

Lo spazio centrale era occupato da

alcune file di tavolini. Alcuni clienti

erano ancora intenti a completare la loro

cena, altri sostavano sugli sgabelli posti

di fronte al lungo bancone bianco e

sorseggiavano cocktail, distratti dalle

evoluzioni dei bartender. In fondo al

salone, su un piccolo palco rialzato, una

band stava suonando musica jazz. Il

caldo suono del contrabbasso pizzicato

arrivò alle sue orecchie, seguito dalle

note profonde di un sax baritono.

Eric fece qualche passo e ispezionò

meglio il locale.

Due voci femminili arrivarono alle

sue orecchie. Provenivano dal bancone,

sussurravano, ignare di essere sentite.

«Lo hai visto il tizio che è appena

entrato?» disse la più alta delle due.

«E quello da dove arriva? È anche da

solo.»

Un sorriso malizioso trapelò dal

volto di Eric. Troppo facile , pensò e

proseguì avventurandosi verso un altro

angolo. D’improvviso avvertì qualcosa

di

diverso,

un

profumo

intenso,

inebriante. Voltò lentamente lo sguardo.

A un tavolino più defilato rispetto al

centro del locale, sedeva una ragazza.

Se ne stava seduta con la fronte

appoggiata su una mano e il volto

coperto dai lunghi capelli lisci che le

cadevano sul tavolino. Era intenta a

scrivere qualcosa sul suo smartphone.

Eric la osservò. Le gambe snelle e

accavallate scivolavano fuori dallo

spacco del lungo abito in lino bianco,

stretto in vita da una cintura in pelle.

La ragazza smise di digitare sulla

tastiera e si guardò intorno. Il suo

sguardo si alzò e incrociò quello di

Eric. Due occhi azzurri le illuminavano

il volto dai lineamenti delicati. Rimase a

fissarlo per qualche istante, con

un’espressione stupita. Sorrise e scostò

la lunga ciocca di capelli dal viso,

dietro l’orecchio.

A giudicare dall’unico calice sul

tavolo, doveva essere sola. Eric si

mosse verso di lei. Mentre si avvicinava

avvertì chiaramente l’odore della pelle

della ragazza che cambiava per la

scarica di feromoni rilasciati.

Si fermò di fronte e le sorrise. Lei

parve arrossire. Eric osservò le sue

pupille dilatarsi, fino a coprire quasi

interamente la superficie dell’iride. Era

l’ultimo segnale che aspettava.

Allungò una mano e la guardò dritto

negli occhi.

«Mi chiamo Eric.»

Capitolo 6

La luce del sole filtrava dalla persiana

leggermente

aperta

e

inondava

prepotentemente la stanza da letto. Eric

aprì gli occhi e si ritrovò col volto

schiacciato tra due cuscini. Ruotò su se

stesso, si sgranchì la mascella e

stropicciò gli occhi. Quella luce così

bianca e diffusa gli dava un tremendo

fastidio e gli toglieva le forze. Girò la

testa lentamente verso sinistra. Un corpo

dalle curve morbide giaceva nel letto

accanto a lui, nudo. Un lenzuolo

trasparente ricopriva le gambe sottili

fino al centro della schiena. Eric

contemplò per qualche istante il fisico

perfetto della ragazza, ma senza alcun

compiacimento. La notte era trascorsa

esattamente come voleva. Lei era

decisamente bella, ma ora doveva

andare. «Ci vediamo presto» gli disse

lei e lo baciò. Eric finì di vestirsi e uscì.

L’alba aveva regalato un piacevole

risveglio agli abitanti di Skittburg.

L’aria fresca della notte aveva spazzato

via il caldo afoso del giorno precedente.

Eric viaggiava veloce in sella alla sua

moto. Il campus dell’università era già

popolato da un mare di studenti pronti a

riversarsi nelle aule per il secondo

giorno di lezioni.

Eric

rallentò

nei

pressi

del

parcheggio e spense il motore accanto

ad altri veicoli posteggiati. Scese dalla

sella e in due passi fu accanto al

marciapiede. Si chinò per agganciare il

blocca-disco alla ruota anteriore.

«Davvero un bel giocattolino.»

La voce lievemente rauca arrivò alle

sue spalle «È tua?»

Eric alzò gli occhi e concluse quello

che stava facendo. Il ragazzo di bassa

statura che si stava avvicinando

mostrava un largo sorriso stampato sul

volto. Aveva la carnagione scurissima e

gli occhi color nocciola. Eric rimase

chinato in silenzio e finì di assicurare

anche la catena alla ruota.

«Piacere, mi chiamo Vincent» disse

il ragazzo e allungò la mano.

Eric lo scrutò impassibile per

qualche secondo, si alzò e ricambiò il

gesto.

«Eric.»

«Sei nuovo?»

«Si vede così tanto?»

«Non passi inosservato. Specie

finché continuerai a fare questi ingressi

in scena» disse indicando la moto.

«Direi che se il tuo intento era attirare la

popolazione femminile universitaria ci

sei riuscito. Mentre parliamo c’è giusto

un gruppetto lì in fondo che ti sta

letteralmente spolpando con gli occhi.

Non dirmi che non te ne sei accorto.»

«Può darsi» disse Eric accennando

un pigro sorriso, come se la cosa non lo

stupisse più di tanto.

«Stai

bene?»

chiese

Vincent

scrutando con attenzione il suo viso.

«Sì, perché?»

«Hai gli occhi lucidi e, beh, le tue

pupille sono... enormi.»

«È normale.»

«Se lo dici tu... come ti trovi alla

Dorton?»

«Sono appena arrivato. Te lo dirò tra

un mese.»

«Beh, per ogni cosa conta pure su di

me. Conosco praticamente tutti e se ti

serve sapere qualcosa chiedi pure.»

«Conosci anche loro?»

«Chi?»

Vincent non fece in tempo a guardarsi

intorno: dalla sua sinistra due ragazze si

avvicinarono.

Lo

ignorarono

completamente e posarono i loro sguardi

su Eric. La più alta si fermò esattamente

davanti a lui. Indossava dei jeans corti e

aderenti e una maglietta che metteva in

risalto le forme abbondanti. Dalla

postura che manteneva, si capiva

chiaramente che voleva mettersi in

mostra. Eric la scrutò con un sorriso

velato.

«Ciao, io mi chiamo Stacey» disse

allungando la mano.

«Eric» il suo tono di voce incantò le

ragazze. Sembrava stessero ammirando

una statua di marmo dai muscoli

scolpiti.

«Tu sei nuovo alla Dorton, vero?»

chiese lei.

Eric annuì, ma non aggiunse nulla.

La ragazza continuò a parlare,

rivelandogli di essere la rappresentante

femminile degli studenti nonché la prima

cheerleader. Chiese a Eric se fosse già

iscritto

alla

squadra

di

football

dell’università. Le rispose che non

aveva ancora avuto il tempo di pensarci.

«Beh, dovresti farlo, hai un bel

fisico, di sicuro saresti bravo» disse lei.

Di tanto in tanto inarcava la schiena in

modo che lui potesse apprezzare le sue

curve. Eric parve gradire lo spettacolo,

ma i suoi occhi rimasero puntati sul

volto della ragazza.

«Questa sera c’è una festa speciale.

Ti va di venire?»

«Dove?»

«Oh, non troppo lontano» disse

sorridendo.

«Aspetta,

dammi

il

cellulare, ti lascio il mio numero.»

Eric le porse l’iPhone e lei picchettò

velocemente sui tasti.

«Ecco fatto» disse restituendogli lo

smartphone. «Chiamami dopo lezione, ci

conto.» Andando via si voltò e lo salutò

con la mano.

Eric la osservò allontanarsi.

«Me lo insegni?» chiese Vincent.

«Cosa?»

«Ad attirarle così! Come accidenti

fai? Sai chi era quella? Stacey Becker,

cheerleader, non c’è un ragazzo al

mondo che non le sbaverebbe dietro. Tu

invece...» scosse la testa incredulo. «È

dal primo giorno dell’anno scorso che

provo a parlarle, credo non si sia

nemmeno ancora accorta che esisto. Tu

sei qui da nemmeno due giorni e hai

attirato

la

più

bella

ragazza

dell’università. Hai visto come ti

mangiava con gli occhi?! Ti prego,

rivelami il tuo segreto.»

«Non c’è nessun segreto. Nemmeno

l’avevo vista.»

«Beh, comunque sappi che in questo

preciso momento sei osservato da

almeno una decina di occhi femminili

che

ti

straccerebbero

volentieri

quell’orribile t-shirt che indossi.»

Eric si guardò la maglietta, poi

riprese a fissare ancora lo stesso punto

in lontananza.

Vincent corrugò la fronte e seguì con

gli occhi la traiettoria dello sguardo di

Eric.

«Uh, amico mio» esclamò appena si

accorse chi stava fissando «ti sei scelto

una preda difficile. Beh scordatela!»

«Sai chi è?»

«Chi non lo sa? E, tanto per inciso,

non te la darà mai.»

Eric arricciò un sopracciglio e

guardò Vincent. Doveva ammettere che

sapeva essere chiaro nelle spiegazioni.

«Si chiama Sophie» continuò «è al

secondo

anno.

L’anno

scorso

si

frequentava con Steve Curtell, il

quarterback della squadra dell’istituto,

ma credo si siano lasciati prima

dell’estate. Almeno questa è la voce che

gira. Ha fatto bene, lui è veramente

un’idiota. Tanti muscoli e poco cervello.

Non merita una così.»

«E lui chi è?»

«Il ragazzo a fianco a lei?»

Eric annuì.

«È Jimmy Carter. Anche lui è

piuttosto

conosciuto

qua

dentro,

specialmente tra le ragazze. È il suo

migliore amico, sono praticamente

inseparabili.»

«Ma tu come fai a sapere tutte queste

cose?»

«Diciamo che mi tengo informato.»

Per

qualche

secondo

rimasero

entrambi in silenzio. Vincent allungò il

collo oltre Eric.

«Guarda chi sta arrivando.» Alzò una

mano per farsi notare. «Professor

Haufmann!» chiamò a voce alta.

Un uomo alto e longilineo passò in

quel momento di fianco a loro. Stringeva

nella mano destra una valigetta in pelle

scura e camminava a passo deciso

tenendo lo sguardo basso. Quando sentì

la voce di Vincent, interruppe la sua

camminata e si voltò verso i due ragazzi.

«Buongiorno, Signor Hodds» disse

con un sorriso rivolto a Vincent. La sua

voce era calma e dimostrava un

equilibrio singolare.

«Salve,

professore.

Ha

già

conosciuto Eric?»

Haufmann rivolse i suoi occhi sottili

verso Eric ed ebbe un sussulto.

Qualcosa nel volto del ragazzo catturava

la sua attenzione.

«No, non ho ancora avuto il piacere»

disse e allungò la mano verso Eric.

«Eric Arden» disse stringendo la

mano di Haufmann.

Haufmann inclinò la testa ed Eric

notò una strana espressione sul suo

volto, come se stesse cercando di

ricordare qualcosa o qualcuno.

«Non ci siamo già visti?» disse

Haufmann.

«Non credo. Sono qui da poco.» La

voce di Eric appariva infastidita.

«Giusto. Lei deve essere il nuovo

studente,

quello che si è appena

trasferito. La direttrice Moore mi ha

parlato di lei...» Il tono colloquiale del

professor Haufmann era d’un tratto

mutato.

Entrambi rimasero in silenzio e si

esaminarono guardinghi come fossero

nel bel mezzo di un duello.

«Non vogliamo problemi in questo

istituto. Lo tenga a mente.»

«Se sono qui, ho già pagato per

quello che ho fatto» rispose piccato

Eric. «Le assicuro che non ne avrete.»

«Molto bene, meglio così» tagliò

corto Haufmann. «La terrò d’occhio

Arden.»

Lo sguardo di Eric diventò ancora

più rabbioso.

Il

professor

Haufmann

salutò

entrambi

e

si

incamminò

verso

l’ingresso dell’istituto. Eric lo seguì con

lo sguardo e sbuffò cupo.

Vincent corrugò la fronte. «Ma di che

diavolo stavate parlando? Sicuro che

non vi conoscevate già? Sembravate due

con un conto in sospeso... E poi che cosa

voleva dire Haufmann?»

Eric raddrizzò la schiena e gli si

piazzò di fronte fissandolo negli occhi.

Vincent indietreggiò di qualche passo. Il

suo sguardo gli stava incutendo timore.

«Ehi, tranquillo» disse allungando

leggermente le mani davanti a sé «se non

ti va di parlarne basta dirlo.»

Eric si bloccò e a Vincent parve di

vederlo uscire da un piccolo stato di

trance.

«Scusami, non volevo spaventarti»

gli disse «ma è meglio se non fai troppe

domande.»

Sospirò e si voltò nuovamente.

Quando allungò lo sguardo nel punto in

cui prima c’era Sophie, non la trovò più.

A guardar bene non c’era quasi più

nessuno.

«Dove sono andati tutti?» chiese.

«Dove è ora che andiamo anche noi.

Stanno per iniziare le lezioni, faremo

meglio a sbrigarci.»

Eric e Vincent si diressero in fretta

verso l’aula. La stanza era già piena e

quasi tutti i posti erano occupati.

Salendo i gradoni che conducevano

all’ultima fila, l’unica con qualche posto

libero, si sforzò di non cercare in quel

mare di facce il volto che lo assillava

dal giorno prima. Passò di fianco a una

decina

di

studenti

quando

all’improvviso lo riconobbe: era il suo

odore. Lei era lì, a pochi passi da lui.

Inspirò profondamente e tirò dritto. Non

guardò, ma fu certo di sentire il suo

sguardo su di sé. Si sforzò di non

ascoltare, non voleva sentire la sua voce

mentre parlava col suo amico che quasi

certamente era di fianco a lei. Forse

aveva più paura di lui. Paura di dover

rispondere

alle

solite

domande

scomode. Meglio evitare qualsiasi

contatto. Si accomodò nel primo posto

libero ed estrasse dallo zaino un blocco

di fogli bianchi.

«Ehi, mi fai un po’ di posto?» gli

sussurrò Vincent per non farsi sentire

dal professor Gilbor che era appena

entrato in aula. Eric si scostò sulla lunga

panca e gli fece spazio.

Non ascoltò quasi nulla della lezione.

Era troppo impegnato a cercare di

ignorare la ragazza dai capelli castani

pochi metri davanti a lui. Aveva il

timore che lei si girasse e lui non fosse

più in grado di staccare lo sguardo.

Durante il cambio di professore per la

lezione

successiva,

si

sforzò

di

intrattenere una breve conversazione con

Vincent. Gli chiese chi fosse e cosa gli

piacesse fare. Non che gli interessasse

particolarmente,

ma

almeno

era

sufficiente

per

avere

una

voce

abbastanza potente che coprisse tutte le

altre nell’aula. Quando il professore

iniziò la lezione Eric tornò ad abbassare

lo sguardo sul blocco di appunti. Sentì

una strana sensazione attraversargli tutto

il corpo. Se avesse alzato lo sguardo,

avrebbe incrociato gli occhi di Sophie

che lo fissavano poco più avanti.

Capitolo 7

Le serate nei locali sono tutte uguali,

pensò Sophie e sollevò i libri appoggiati

sul tavolino del bar.

«È

la

nostra

prima

serata

universitaria dell’anno nuovo» disse

Jimmy «è il modo migliore per

inaugurare quest’evento.»

Evento? La prima uscita del nuovo

anno era degna di essere definita

evento? A volte Jimmy si lasciava

prendere un po’ troppo facilmente

dall’entusiasmo. Sophie notò la sua

espressione compiaciuta mentre le

comunicava il programma della serata.

La giornata era volata via, tra i suoi

tentativi di non farsi distrarre dal

ragazzo dagli occhi di ghiaccio e la

curiosità di incrociarlo ancora, anche

solo casualmente.

Aprì la porta e uscì seguita da Jimmy.

Si sforzò di assecondare con un sorriso

l’eccitazione dell’amico; aveva vissuto

quella scena mille volte: serate senza

fine trascorse a sorseggiare drink,

ballare ed evitare gli approcci dei

ragazzi, fino a che puntualmente la

stanchezza e il torpore non la assalivano

e decideva di tornare a casa. Immaginò

che sarebbe andata ancora così, ma

dentro di sé avvertì la sensazione che

non sarebbe stata in grado di rifiutare

nemmeno quella volta.

«Vedrai,

sarà

fantastico.

Ci

divertiremo» disse Jimmy. «La festa

delle

matricole

è

l’evento

clou

dell’inizio dell’anno, non possiamo

perderlo.»

Sophie lo avrebbe perso volentieri.

Scrutò Jimmy da sotto gli occhiali da

sole, non convinta della motivazione che

lo spingeva a scegliere l’evento della

loro serata.

«E poi sarà pieno di ragazze del

primo anno!»

Appunto, pensò Sophie con amara

soddisfazione per il suo intuito. Tenne

quel pensiero per sé e fissò Jimmy che

attendeva impaziente la sua conferma.

«Okay, mi hai convinta» disse mal

celando un pizzico di rammarico.

Jimmy strinse i pugni in segno di

vittoria.

«Grande!»

«Ma come fai ogni volta? Dovrei

imparare a controllare il tuo ascendente

su di me. Inizia ad essere pericoloso.»

Rivolse un sorriso malizioso a Jimmy e

lo spinse leggermente.

«Non ci riuscirai mai, Sanfront. Lo

sai.»

Procedettero lungo il viale alberato

di fronte a loro. Il rumore delle auto a

quell’ora del pomeriggio copriva ogni

altro suono.

«E chissà» disse Jimmy «anno nuovo,

nuovi ragazzi...»

«Jimmy!» lo interruppe Sophie. «Non

iniziare, so già dove vuoi arrivare. Ti ho

detto che vengo, non farmi cambiare

idea.» Si voltò e Jimmy sogghignò

divertito.

«Dai Sophie, non te la prendere. Non

c’è niente di male a conoscere nuove

persone.»

«Ne ho già conosciute. Non è questo

il punto.» Scostò una ciocca di capelli

che le era caduta sul viso.

«Il punto è che tu non hai fiducia in

nessuno, Sophie. Parti già convinta che

chiunque incontrerai ti deluderà. Ti ho

vista sempre passare da un ragazzo a un

altro...»

Sophie lo fulminò con lo sguardo.

«Okay, mi sono espresso male» disse

Jimmy allungando le mani in segno di

difesa. «Voglio solo dire che non hai

mai provato ad andare più a fondo nella

conoscenza.»

«Non è colpa mia se attiro solo

ragazzi che non c’entrano nulla con me.

Saranno anche belli e ricchi, del tipo

“cosa vuoi chiedere di più?”, come dice

mio padre. Io so solo che sono tutti

terribilmente noiosi. Cosa dovrei fare?

Che rapporto dovrei instaurare?»

«Forse un rapporto che preveda più

di sesso e divertimento.»

Sophie sgranò gli occhi, le guance

avvampate dalla rabbia.

«È il colmo che sia proprio tu a dirmi

queste

cose»

disse

voltandosi

e

affrettando il passo.

Jimmy trasse un profondo respiro,

raggiunse

Sophie

e

la

prese

sottobraccio. Quando riprese a parlare

la concitazione era scomparsa dal suo

tono di voce.

«Ascolta, so di non essere la persona

più appropriata per dare certi consigli»

la fissò negli occhi «ma la differenza tra

me e te è che io sono fatto così, è questo

ciò che voglio. Tu no. E lo sai.»

Sophie abbassò lo sguardo.

Jimmy osservò i voluminosi capelli

sciolti che le circondavano il viso.

«Guardati allo specchio Sophie. Sei

affascinante,

sensuale,

intelligente,

sensibile. Sei tutto ciò che un ragazzo

può desiderare. I ragazzi ti muoiono

dietro, ma tu non hai fiducia nelle

persone.

Ti

avvicini

carica

di

aspettative, ma sei già convinta che

verranno disattese. Non puoi restare

all’infinito in attesa di veder apparire

dal nulla il ragazzo dei tuoi sogni. Il

principe azzurro è andato in pensione da

secoli. Se un ragazzo ti piace, buttati!

Dagli la possibilità di conoscerti

davvero. Prova a fidarti di lui. E se poi

non è quello giusto, pazienza, almeno

non avrai rimpianti. Il ragazzo dei tuoi

sogni, se non ti apri, non potrà mai

esistere. È questa la realtà.»

Nonostante la parte razionale di

Sophie condividesse le parole di Jimmy,

dentro di sé sentiva che per lei non

sarebbe stato così semplice riuscire a

fidarsi completamente di qualcuno.

Sorrise all’immagine evocata da Jimmy

e lo guardò negli occhi.

«Beh...chi può dirlo? Forse un giorno

comparirà proprio qui di fianco a me.»

Jimmy sorrise a sua volta.

«Vedremo. Intanto cosa ne dici di

accontentarti di questo modesto principe

di riserva come accompagnatore per la

serata?»

Le tese la mano come un antico

cavaliere con la propria dama.

Sophie scoppiò in una risata e porse

la mano a Jimmy.

«Credo che accetterò.»

«Bene. Passo a prenderti stasera alle

nove.»

Si strinsero in un abbraccio e si

salutarono. Sophie si incamminò verso

casa,

le

parole

di