dire.» Gli occhi erano iniettati di

sangue. Schiumava rabbia e sembrava

sul punto di far esplodere tutta la

violenza che aveva in corpo.

«Non scaldarti e tieni a posto le

mani» disse Jimmy con insolita flemma

e ignorando lo sguardo rabbioso che lo

fissava.

Eric

rimase

meravigliato

dall’autocontrollo di Jimmy. Lasciò la

presa in un gesto di stizza e si allontanò

all’indietro di qualche passo. Jimmy si

risistemò la giacca e scosse la testa.

«Non so proprio che ci trovi Sophie

in uno come te...»

«Non ti azzardare a nominarla.»

«E tu non ti azzardare a toccarla!»

Jimmy si irrigidì e si sporse verso Eric.

«È dalla prima volta che ti ho visto che

non mi hai convinto e stasera ho avuto la

prova che sei un pericolo...»

«Allora stammi alla larga e non avrai

problemi.»

«Non sto parlando di me. Sto

parlando di te e...»

«Io me la cavo benissimo da solo,

come puoi notare.»

«...e della nostra specie» concluse

ignorando le sue parole.

Eric lo guardò per un attimo,

disorientato.

«Ma cosa stai dicendo?» fece un

pausa. «Ora sarei addirittura un pericolo

per l’umanità? Sei ridicolo.»

Jimmy rimase interdetto. «Umanità?»

ripeté confuso «che diavolo c'entrano gli

umani

Eric lo scrutò perplesso.

«Ma che hai? Hai bevuto?»

«Basta con questi giochini Eric»

sentenziò Jimmy «tu puoi fare quello che

vuoi della tua vita, ma se il tuo

esibizionismo mette a rischio il nostro

segreto, io ho il dovere di fermarti, con

le buone o con le cattive.»

«Tu sei pazzo, cosa diavolo vai

blaterando? “Il nostro segreto”, cosa sei,

una spia della CIA?» Un sorriso

sprezzante comparve sul volto di Eric: o

Jimmy era completamente impazzito o

c’era qualcosa, in quelle allusioni senza

senso, che non era in grado di cogliere.

Jimmy rimase spiazzato. Si bloccò,

rapito da una riflessione improvvisa. E

mentre

un

pensiero

assurdo

si

materializzava nella sua mente, fissò in

silenzio Eric, realizzando sul momento

una verità che fino a quel momento non

aveva preso in considerazione. Poi, con

un filo di voce, pronunciò quattro

semplici parole, ma dal significato

sconvolgente: «tu non lo sai...»

Eric lo fissò immobile.

«Cosa dovrei sapere?»

«Tu non sai quello che sei...»

aggiunse Jimmy sempre più incredulo,

mentre il silenzio avvolgeva le sue

ultime parole.

E questo spiega molte cose.

«Come è possibile che tu non

sappia?» disse poi.

«Cosa, Jimmy? Di che diavolo stai

parlando?» il tremolio nella voce di

Eric era evidente: ciò che Jimmy gli

avrebbe di lì a poco rivelato si trovava

da sempre nascosto nel suo io più

profondo.

«Tu non sei umano. »

Capitolo 18

«Eric, sei un mostro, non voglio più

vederti!» Sophie lo spingeva con forza

verso la porta.

«Sophie, calmati, sono sempre io,

non è cambiato niente.»

«Non mi toccare, sei un mostro, non

sei come me.» Continuava a dargli

spintoni per allontanarlo.

«Fermati, Sophie!» Per quanto si

sforzasse di calmarla, la veemenza con

cui lo stava aggredendo era tale da non

riuscire

a

farlo

smettere

di

indietreggiare.

«Mostro, ecco cosa sei, un mostro!»

le parole di Sophie echeggiavano

all'interno della stanza e facevano più

male dei colpi presi durante i

combattimenti.

Eric poteva vedere Jimmy, in un

angolo al buio, che li osservava.

«Jimmy, ti prego diglielo, digli chi

siamo.» Jimmy lo fissava e rideva: «Un

mostro, cos'altro vuoi essere Eric?»

Continuava a ridere, ma non era la solita

risata contagiosa, era una risata macabra

e Jimmy stesso sembrava diverso,

trasformato.

«Perché mi fai questo Sophie?» la

voce di Eric era spezzata e il suo cuore

premeva sul torace.

«Perché sei un mostro!» Ancora

un’altra

spinta

ad

allontanarlo

definitivamente da lei.

Eric si voltò e vide il pavimento

dietro di sé disgregarsi, per lasciare

spazio al vuoto.

Allungò una mano per aggrapparsi a

qualcosa o a qualcuno, ma niente. Di

fianco a lui non c'era nulla a cui

appoggiarsi per non crollare.

«No! Sophie...» gridò tendendole la

mano «ti prego.»

Sophie, con le braccia incrociate, non

si mosse ed Eric non fu più in grado di

restare in piedi. Perse l'equilibrio e

l'oscurità lo avvolse, mentre precipitava

nel vuoto.

Si svegliò di soprassalto madido di

sudore. Guardò la sveglia sul comodino

e, in un gesto istintivo, si stropicciò gli

occhi. Era già la seconda volta che si

risvegliava in preda a un incubo ed

erano passate soltanto tre ore da quando

Jimmy lo aveva lasciato sgomento, con

la sua rivelazione: “Tu non sei umano.”

Era rimasto impietrito, in silenzio,

fissando Jimmy negli occhi senza

guardarlo veramente, mentre scandiva

quelle parole insensate. Per un attimo

avrebbe voluto ridere, troppo assurdo

per essere lontanamente vero. Il volto di

Jimmy, però, non mentiva. Era serio,

come non lo aveva mai visto. In quella

situazione surreale, si accorse che il

vero motivo del suo stupore non

dipendeva dalle parole che aveva

ascoltato: nel suo inconscio aveva

sempre saputo di non essere come gli

altri. Lo disorientava, invece, che per la

prima volta in vita sua fosse qualcun

altro a dirgli di essere diverso. E a

conoscerne il motivo.

Avrebbe voluto gridare: “Non è vero,

sei un bugiardo!”, ma alla fine l’unica

domanda era stata quella che da sempre

attendeva una risposta dentro di lui:

“Che cosa sono?”

“Non ora, non qui” aveva replicato

Jimmy. Lo aveva convinto che quello

non fosse né il luogo, né l’ora adatta per

parlarne e che, il giorno seguente, gli

avrebbe spiegato tutto.

“Domani?”

aveva

domandato

incredulo.

“Come

posso

aspettare

domani?”

Jimmy si era limitato a scuotere la

testa ed aggiungere: “Credimi, non è il

momento. Ora vai a casa.”

La verità si sarebbe fatta attendere

ancora. Aveva tirato su il cappuccio e lo

aveva assestato sulla testa. Rivolto un

ultimo sguardo a Jimmy, lo aveva

oltrepassato senza dire una parola.

“Voglio solo che tu sappia che non

siamo i soli” erano state le ultime parole

di Jimmy. Poi si era incamminato verso

casa, senza più voltarsi.

Non siamo soli.

Cosa significava? C’erano altri come

lui? Jimmy era come lui?

Scese dal letto, sapeva che dormire

quella notte sarebbe stato chiedere

troppo. Gettò quello che aveva addosso

su una sedia e si infilò sotto la doccia.

Chiuse gli occhi, mentre l'acqua calda si

posava gradualmente sulla base del

collo e sulle spalle, e sgombrò la mente

dai pensieri che, fino a quel momento, lo

avevano perseguitato. La sensazione di

tepore sulla pelle lo distrasse, fino a

quando il suo corpo non si fu abituato

alla temperatura dell'acqua. A quel

punto, il calore avvolgente svanì e

ritornarono

prepotentemente

le

domande.

Cosa sono?

Si chiese perché i suoi genitori non

gli avessero mai detto nulla. Doveva

andare da loro.

Ma prima devo parlare con Jimmy.

A piedi fino a casa sua ci avrebbe

impiegato circa un’ora.

Si vestì e attese impaziente che le

ore, che mancavano all’appuntamento

con Jimmy, scorressero via. Quando

finalmente l’orologio segnò le sette, Eric

uscì in fretta di casa. Adesso era pronto

a conoscere tutta la verità.

Quando Jimmy uscì dal portone del

palazzo, trovò Eric ad aspettarlo sul

marciapiede. Non fu particolarmente

sorpreso nel vederlo già sotto casa. Gli

sorrise e lo salutò con un cenno del

capo.

«Dormito bene?»

«Secondo te?»

Jimmy ridacchiò.

«Posso capirti.»

«Ancora non so se crederti o no. Non

capisco se posso fidarmi di te» disse

Eric.

«Buffo, è la stessa cosa che mi

chiedo io in continuazione. Comunque,

che motivo avrei di inventarmi una

storia simile?»

Eric rimase in silenzio. Non aveva

una risposta a quella domanda.

«Anche se adesso sei confuso, sai

anche tu che non sto mentendo» disse

Jimmy. «Si legge nei tuoi occhi che

aspettavi da una vita questo momento.»

«Cosa intendi? Come fai ad essere

così sicuro di quello che mi hai detto

ieri sera?»

«Sai, non capita spesso di trovare in

giro persone in grado di saltare in alto

cinque metri, che non fanno rumore

quando camminano e che hanno la vista

migliore di un falco. È abbastanza

inusuale,

non

trovi?»

Alzò

le

sopracciglia e aggiunse: «A meno

che...»

Eric

lo

fissò

desideroso

che

proseguisse.

«Vieni,

andiamo

in

un

posto

tranquillo.»

Jimmy gli fece cenno di seguirlo.

Attraversarono le vie del centro,

ancora sgombre di passanti, e si

diressero a ovest. Proseguirono oltre

Lake Park e svoltarono nel viale che

portava alla biblioteca pubblica.

Quando

imboccarono

University

Boulevard, a Eric venne spontaneo

esclamare:

«Mi

vuoi

portare

in

università?»

«Non esattamente» rispose Jimmy

con un sorriso velato.

Quando in lontananza apparvero i

cipressi del West Memorial Garden,

Eric intuì dove lo aveva condotto

Jimmy. Oltre gli alberi e il piccolo

laghetto artificiale, faceva bella mostra

di sé un edificio basso, con spesse

colonne di cemento e ampie vetrate

lungo tutto il piano terra. Con la sua

architettura inconfondibile e il suo

aspetto

moderno,

il

Museo

dell’Antropologia

era

un

piccolo

gioiello di design e di storia. Presente e

passato si fondevano in una struttura

all’avanguardia che, però, si inseriva

perfettamente nel paesaggio in cui era

immerso. Col mare a ovest a pochi passi

e il profilo delle montagne a nord, era il

luogo ideale dove trascorrere una

giornata, all’insegna di cultura e relax.

«Se

volevi

portarmi

in

gita

scolastica, bastava dirmelo.»

«Non credo esista posto più adatto di

questo per ciò che sto per raccontarti.»

A quell’ora, la coda all’ingresso era

pressoché inesistente. Pochi turisti si

affacciavano alla biglietteria. Jimmy ed

Eric proseguirono, girando attorno

all’edificio. Il retro del museo era

composto

da

un

prato

alberato,

circondato

da

grosse

siepi,

che

affacciava direttamente sulla costa. Una

quercia centenaria dominava il prato.

Era

un’attrazione

inspiegabilmente

ignorata e, a quell’ora, loro due erano

gli unici ad ammirarla.

«Fermiamoci qui, è un posto sicuro,

lontano da occhi e orecchie indiscrete.»

Jimmy si sedette sull'erba appena umida,

appoggiando la schiena contro il tronco

della quercia. Eric si sistemò di fronte a

Jimmy con le gambe incrociate.

«È molto strano che tu non conosca la

nostra storia, è tradizione che, raggiunti

i quindici anni, ogni padre la racconti ai

propri figli.» Guardò Eric negli occhi.

«Non so perché tuo padre abbia deciso

di rompere la tradizione, sta di fatto che

credo sia giusto che tu sappia tutto, per

cui te la racconterò io, così come fece

con me mio padre anni fa.» Eric annuì in

segno di accordo. «Sarai ovviamente

libero di credere o meno a quanto sto

per dirti, ti chiedo solo di ascoltare tutta

la storia senza interrompermi e, se alla

fine avrai dei dubbi o delle domande,

cercherò di risponderti in base a quello

che so.»

Ci fu un attimo di silenzio. Eric

deglutì e avvertì il suo respiro diventare

più profondo. Con le dita tamburellava

nervosamente sulle ginocchia. Jimmy

guardò fisso dinanzi a sé, in cerca dei

propri ricordi e cominciò.

«Migliaia di anni fa, la terra era

popolata da diverse razze, ognuna con le

proprie caratteristiche peculiari, in

grado

di

renderle

estremamente

differenti l'una dalle altre. Di queste

razze avrai sicuramente letto in molti

libri. Appartengono a quel filone che gli

umani definiscono fantasy. Devi sapere

che alcuni di questi libri narrano storie

realmente

accadute,

molto

spesso

romanzandole, altri sono, invece, veri e

propri racconti di fantasia. Talvolta può

trattarsi di eventi antichi, che nei secoli

hanno perso dettagli e credibilità,

trasformandosi in leggende a cui ormai

nessuno crede più. Ma dietro celano

segreti che oggi in pochi conoscono. Ti

insegnerò col tempo a distinguere tra ciò

che è reale e ciò che è frutto

dell’immaginazione. In ogni caso, tutte

queste storie hanno un punto in comune:

l'esistenza di razze differenti da quella

umana. Alcune di esse non sono note

neppure a me, altre si sono estinte col

tempo. O, almeno, questo è quello che si

crede.» Jimmy portò il busto in avanti e

distese le gambe. «Gli umani sono

sempre stati in numero e quantità

superiori alle altre specie e, come

sempre accade in natura, la razza

numericamente predominante è, in

genere, quella che cerca di sottomettere

le altre o, nel peggiore dei casi,

sterminarle, spesso riuscendoci. L’uomo

è particolarmente abile in questo. Basta

osservare lo scempio che ha commesso

in questo ultimo secolo con altre specie

animali, che vanno estinguendosi al

ritmo di migliaia di esemplari ogni anno.

Nei millenni scorsi, ci sono state

diverse guerre tra gli umani e le razze

minori, che hanno portato sempre di più

queste ultime, considerate dagli umani

diverse e soprattutto pericolose per la

sopravvivenza della loro specie, a

nascondersi per evitare contatti con gli

uomini. Tuttavia, col passare del tempo,

il mondo così come lo conosciamo è

stato esplorato sempre più a fondo,

lasciando pochissimi luoghi ancora

ignoti e incontaminati e togliendo di

fatto la possibilità di rimanere nascosti.

Fortunatamente, quando l'individuo si

ritrova senza via di uscita, è spesso la

natura a venirgli in soccorso.»

Jimmy

respirò

profondamente,

osservando le montagne in lontananza e

proseguì.

«Nel momento in cui le razze minori

non ebbero più luoghi dove rintanarsi, la

genetica aveva già fatto il suo corso

rendendole,

almeno

esteticamente,

talmente simili agli umani da essere

irriconoscibili come razza differente. Le

caratteristiche estetiche, tipiche delle

razze minori, parlo ad esempio della

statura estremamente ridotta dei nani o

della bruttezza tendente alla deformità

degli orchi, col passare del tempo, erano

diventate

molto

meno

accentuate,

rimanendo

solo

come

impronta

ereditaria. Oggi, con l'evoluzione della

specie e considerando anche gli incroci

tra razze minori e umani, è praticamente

impossibile, semplicemente guardando

un individuo, riuscire a riconoscerne la

razza di provenienza. La perdita

dell'unicità nell'aspetto esteriore è

certamente la parte meno importante di

una razza ed aver mutato la propria

fisionomia,

per

preservare

la

conservazione della specie, è stato il

male minore. Ogni razza ha, invece, una

storia, delle tradizioni e delle capacità

fisiche e mentali che la rendono unica e,

per come la vedo io, estremamente

affascinante. Non voglio dilungarmi

troppo, quindi non mi fermerò a

descriverti le capacità di tutte le razze

minori. Voglio, invece, parlarti di noi

Eric trattenne il fiato.

Jimmy socchiuse le palpebre e

abbassò lo sguardo. Tornò a rivolgere

gli occhi su Eric e, con una disinvoltura

e una naturalezza quasi fuori luogo,

disse: «Elfi. Siamo elfi.»

Capitolo 19

Ci fu un momento di silenzio, durante il

quale Jimmy scrutò Eric in attesa di una

sua reazione.

Eric aveva sgranato gli occhi,

incapace di pronunciare una parola.

Elfi?

La testa gli girava e i pensieri

vorticavano furiosamente al suo interno.

In cuor suo si era sempre sentito

diverso, ma l'idea di appartenere a

un’altra razza era qualcosa di troppo

complesso da poter realizzare da solo.

E i miei genitori? Sono elfi anche

loro quindi. Ma perché non gliene

avevano mai fatto parola? Temevano

che non sarebbe stato in grado di

capire? Era confuso. Per la prima volta

nella sua vita sapeva finalmente chi era

e, ritrovarsi faccia a faccia con Jimmy,

che lo stava mettendo di fronte a quella

verità, lo aiutava ad accettarla, anche se

faceva fatica a capire il vero significato

di quelle parole.

Jimmy notò l'espressione sorpresa sul

volto di Eric, se l’aspettava, ma non si

fermò.

«Siamo una delle razze più antiche e

longeve del pianeta. Viviamo molto più

degli umani e siamo sulla terra da molto

prima di loro. Probabilmente saremo

ancora qui quando loro si saranno estinti

del tutto. Ricordi di esserti mai

ammalato?»

La domanda a bruciapelo colse Eric

di sorpresa. Scosse la testa. Ma dalla

sua espressione era evidente quante

volte si fosse posto la stessa domanda.

«Immaginavo. Noi elfi siamo del tutto

immuni alle malattie. Il nostro sistema

immunitario non può essere attaccato da

virus, batteri o epidemie di qualsiasi

tipo. Gli elfi sono passati indenni

attraverso pestilenze e contagi, laddove

invece il genere umano e molte altre

razze sono state quasi sterminate. Non

siamo però invulnerabili alle ferite:

anche se recuperiamo più in fretta degli

uomini dalle lesioni, possiamo essere

uccisi come tutti gli esseri viventi.»

Eric deglutì. Il tono di voce con cui

Jimmy aveva pronunciato quelle parole

lo aveva inspiegabilmente preoccupato.

«I nostri sensi sono estremamente

sviluppati, ci danno la facoltà di

percepire molte più cose rispetto

all'uomo e questo ci conferisce una sorta

di preveggenza o sesto senso, chiamalo

come vuoi, nell'intuire quello che

accadrà in una determinata situazione.

Quindi no, non sei semplicemente più

intelligente degli altri, come potevi

pensare.» Jimmy sorrise, anche in quel

momento la tentazione di provocare Eric

era più forte di lui.

«Abbiamo un olfatto superiore a

quello dei segugi, riusciamo a fiutare un

odore a chilometri di distanza e a

identificarlo, scindendolo da tutti gli

altri. Grazie al nostro udito, molto più

fine di quello umano, possiamo sentire

suoni e ascoltare conversazioni anche a

grandi distanze. Le nostre orecchie,

nonostante con l'evoluzione abbiano

perso il tratto distintivo di terminare a

punta, sono ancora in grado di captare

un numero di vibrazioni al secondo dieci

volte maggiore, rispetto agli uomini. Per

non parlare della vista, senza dubbio il

senso più sviluppato in assoluto. In

passato,

infatti,

venivamo

spesso

arruolati come arcieri negli eserciti,

grazie alle nostre capacità di centrare

con precisione qualunque bersaglio. Non

dovrebbe sconvolgerti, a questo punto,

scoprire che, ad esempio, Robin Hood

era un elfo.»

La bocca spalancata di Eric, mentre

Jimmy accostava il nome del principe

dei ladri agli elfi, non lasciava alcun

dubbio su quale fosse la sensazione

provata in quel momento.

«La nostra vista è talmente acuta, che

siamo in grado di individuare piccoli

dettagli a migliaia di metri di distanza e

in condizioni di scarsissima luce. Anche

il tatto è più definito rispetto a quello

umano. Vibrazioni o spostamenti d'aria

vengono percepiti attraverso i milioni di

ricettori tattili del nostro corpo. Il gusto

è l'unico dei sensi identico a quello

dell'uomo. L'unica grande differenza è

che noi non arriviamo a percepire il

disgusto fino a non mangiare qualcosa,

visto che non esistono alimenti in grado

di intaccare il nostro organismo,

nemmeno quelli velenosi. Infine, siamo

più agili e più veloci di qualunque

essere umano, nonché di molti animali

sulla terra. Siamo in grado di saltare in

movimento fino a dieci volte la nostra

statura. Su brevi distanze possiamo

raggiungere facilmente gli ottanta o i

cento chilometri all’ora, più o meno la

stessa velocità di punta di un ghepardo,

anche se come loro, non possiamo

mantenerla a lungo. Queste prestazioni

comportano un grande dispendio di

energia e richiedono una ripresa lenta

per recuperare ossigeno. Il nostro cuore

e i nostri polmoni sono molto sviluppati,

ma, dopo aver corso alla massima

velocità, le nostre pulsazioni sfiorano i

duecentocinquanta battiti al minuto e

andiamo in debito di ossigeno. Se non ci

fermiamo, rischiamo di svenire.»

«Quanto

possiamo

resistere?»

domandò Eric.

«Dipende da te, ma non molto. Oltre i

venti secondi, il cuore non reggerebbe e

il

surriscaldamento

corporeo

ci

ucciderebbe. Ora che lo sai, vedi di

andarci piano...» Sorrise e riprese fiato.

«In media la nostra capacità di

accelerazione è quattro-cinque volte

maggiore rispetto a quella di un essere

umano. Da quello che so, tutto ciò è

possibile grazie al nostro speciale

patrimonio genetico, che ci ha donato

una quantità di fibre bianche dei muscoli

di gran lunga superiore a quella umana.

Se hai studiato un po’ di anatomia

dovresti sapere di cosa sto parlando. In

pratica, più fibre bianche sono presenti

nel tuo corpo più rapidamente i tuoi

muscoli sono in grado di contrarsi. In

questo modo generano una forza

superiore, che permette movimenti più

agili e veloci. Le nostre capacità

crescono e si potenziano fino ai ventuno

anni che coincidono con l'età in cui

smettiamo,

per

così

dire,

di

invecchiare.»

Eric drizzò la schiena e sbarrò gli

occhi.

«Vuoi dire che...»

«No» lo interruppe Jimmy «non

siamo immortali. Anche se potremmo

apparire tali. In realtà, il nostro ritmo di

vita biologico, una volta raggiunta l'età

in cui i cinque sensi sono completamente

sviluppati, rallenta improvvisamente,

dilatando il tempo di invecchiamento

oltre i limiti umani. Per darti un'idea,

puoi considerare che dai ventuno anni in

poi, ogni tuo anno biologico equivale a

circa dieci anni di un essere umano.»

Il volto di Eric esprimeva tutto il suo

stupore, non riusciva a credere che da lì

a poco avrebbe smesso di avanzare

negli anni come tutte le altre persone che

conosceva e riusciva a stento a cogliere

tutte le implicazioni che ciò avrebbe

comportato.

«E tu quanti anni hai?» chiese ancora

disorientato.

«Venti come te, non ho ancora

bisogno di fingere. Quella che vedi è la

mia età reale.»

Afferrò da terra un ramoscello e lo

rigirò tra le mani.

«Probabilmente, tutto quello che ti ho

detto finora non è nuovo per te. Il fatto

che usi in modo così disinvolto le tue

capacità fisiche, dimostra che ti eri già

accorto di possederle nel corso degli

anni. Ma le nostre abilità fisiche e i

nostri sensi non sono tutto, esistono

delle capacità mentali che ci rendono

unici e, per certi versi, superiori alle

altre razze. Una in particolare ha

permesso a noi elfi di resistere fino ad

oggi, nascosti e al sicuro. Mi piace

definirla la nostra particolare “arte della

seduzione”.» Guardò Eric dritto negli

occhi con un sorriso compiaciuto.

«Siamo in grado di ammaliare le

persone, di renderle propense a fare ciò

che

desideriamo.

Non

è

ipnosi,

nemmeno magia, per quanto possa

sembrarlo. È più... una dote. Ma non

chiedermi i particolari, non sarei in

grado

di

spiegarteli.»

Posò

delicatamente il ramoscello sull’erba.

«Amiamo la natura, per noi è la madre

di tutta la vita sulla terra ed è parte

essenziale della nostra stessa esistenza.

Non potremmo mai danneggiarla in

alcun modo, nutriamo il massimo

rispetto per lei e per tutti gli esseri

viventi. Per noi la vita è quanto di più

sacro e inviolabile esista al mondo, per

questo non priveremmo mai nessuno

della propria vita, a meno che non fosse

l'unico modo per salvare la nostra.

Probabilmente, l'incapacità di uccidere

è ciò che rende gli elfi più deboli degli

umani.»

Jimmy si interruppe e abbassò lo

sguardo, amareggiato per quello che

aveva appena detto. Durante il suo

discorso aveva descritto gli elfi come

una razza superiore e orgogliosa e

adesso

era

nauseato

dal

dover

ammettere che un'inclinazione così

infima come l'assassinio rappresentasse

un limite, che rendeva la razza elfica

inferiore a quella umana.

Quella sensazione di fastidio gli

rimase dentro e non riuscì a continuare,

non volle condividere la cosa con Eric.

Si guardò attorno in cerca di una

rapida distrazione. I primi visitatori

della giornata iniziarono a spuntare da

dietro il museo e si incamminarono sul

vialetto asfaltato nella loro direzione.

«Dobbiamo andare, arriva gente.

Credo di averti dato già molte

informazioni per oggi, ci sarebbe ancora

tanto da dire, ma, a questo punto, voglio

sapere cosa pensi e soprattutto come ti

senti.»

Eric

era

ancora

rapito

dalle

spiegazioni di Jimmy. Esterrefatto, per

tutto quello che aveva udito fino a quel

momento, gli ci volle qualche minuto per

raccogliere le idee, poi domandò:

«Sophie sa dell'esistenza degli elfi?»

Jimmy sospirò.

«Ci sono alcune cose che ancora non

ti ho detto, tra queste il fatto che esiste...

un giuramento.»

Eric aggrottò lo sguardo.

«Tutti gli elfi lo compiono quando

sono ancora giovani e ci vieta di

rivelare a chiunque non sia di razza

elfica le nostre origini e la nostra storia.

Gli

umani non

possono

sapere.

Immagina cosa accadrebbe. È per questo

che, per quanto io tenga a Sophie, non

posso rivelarle nulla. E non potrai farlo

neanche tu.»

Un pensiero balenò veloce nella

mente di Eric. Lui non aveva fatto

nessun giuramento, era libero di rivelare

ciò che voleva a chiunque ritenesse in

grado di custodire quel segreto. Jimmy

sgranò gli occhi come se avesse letto nei

pensieri di Eric e immediatamente

aggiunse: «tu sei il primo elfo che ho

incontrato che non ha giurato di

mantenere il segreto sulla nostra razza.

Questo perché non conoscevi la nostra

storia e non sapevi di essere un elfo, per

cui sei, di fatto, libero di rivelarla a chi

vuoi, ma sta attento: raccontare ciò che

adesso sai alla persona sbagliata

potrebbe rivelarsi pericoloso per tutti

noi. Pensaci bene, prima di commettere

imprudenze: il bene della specie viene

prima di tutto il resto.» Jimmy chinò il

capo, consapevole di aver commesso

uno sbaglio. Si era fatto prendere

talmente tanto dalla situazione da aver

completamente

dimenticato

il

giuramento. D'altra parte, le altre volte

che gli era capitato di parlare della loro

storia, lo aveva fatto con altri elfi che

avevano già giurato. Come aveva potuto

essere così superficiale? Compiere un

errore così grossolano non era da lui.

Avrebbe dovuto pensarci prima, adesso

era tardi e doveva rimediare. Non

sapeva ancora bene come, ma doveva

trovare un modo. Soprattutto perché, in

più di un’occasione, aveva visto Eric

assumere dei comportamenti in netto

contrasto con la natura elfica e questo

non lo rendeva di certo la persona

ideale a cui affidare un segreto così

importante, per di più senza un

giuramento che lo vincolasse. Forse

l'essere cresciuto con gli umani,

inconsapevole di essere un elfo, aveva

in qualche modo mutato la sua natura.

Non ne era sicuro, ciò che sapeva

invece con certezza era che Eric andava

tenuto d'occhio e lui doveva trovare un

rimedio al suo errore il più in fretta

possibile.

Capitolo 20

Eric avrebbe voluto fare molte altre

domande, ma Jimmy aveva assunto

d'improvviso

un'aria

preoccupata.

Sembrava nervoso e ansioso di chiudere

lì la conversazione.

«Eric, credo dovremmo tornare a

casa adesso. È quasi mezzogiorno. I

miei genitori mi aspettano per pranzo e

questo posto inizia ad essere troppo

affollato.»

La mattinata era volata via senza che

nessuno dei due avesse avuto una

percezione precisa dello scorrere del

tempo.

Jimmy si alzò in piedi e sgranchì le

gambe.

«Cosa farai adesso?»

Eric si alzò in piedi a sua volta.

«Credo tu possa immaginarlo.»

«Andrai da Sophie?»

Eric ripensò a Sophie e al bacio del

giorno precedente. Jimmy sapeva?

Probabilmente

no,

glielo

avrebbe

certamente

detto.

Meglio

non

parlargliene ora, avrebbe atteso un

momento migliore.

«No, non ora» rispose «devo prima

capire alcune cose che riguardano la mia

famiglia.» Tirò su il cappuccio e lo

assestò per bene sul capo. «Andrò dai

miei genitori e gli chiederò il motivo per

cui mi hanno tenuto nascosto tutto

questo.»

Jimmy annuì con la testa.

«Capisco» disse. Devo trovare il

modo di non perderlo di vista proprio

adesso.

«Mi

piacerebbe

poterti

accompagnare, in fondo sono stato io a

rivelarti tutto, come dire, a mettere in

moto l'ingranaggio. È giusto che

andiamo insieme fino in fondo.» Vide

Eric storcere il muso, sentiva di non

averlo convinto del tutto. «Inoltre,

mentre andiamo, potrei rispondere alle

tue domande. Immagino tu ne abbia

molte a questo punto.»

L'ultima frase di Jimmy trasformò il

“no” categorico che Eric si stava

apprestando a dirgli, in un cenno di

assenso.

«Bene» disse Jimmy «allora ci

vediamo tra un’ora sotto casa tua.»

«Non serve che tu venga da me,

troviamoci a Hoodpark, alla fermata

della metro. Casa dei miei è in

campagna, a nord del bosco. Faremo

prima da lì.»

Jimmy annuì. «Okay, a dopo.»

I due attraversarono insieme il

vialetto

che

tagliava

il

parco,

incrociando i turisti che procedevano in

senso opposto. Sbucato l’angolo, di

fronte all’ingresso del museo, un’onda

di visitatori aveva formato una coda di

decine di metri per entrare. Eric e

Jimmy si guardarono un’ultima volta,

poi si separarono.

«Ci vediamo a Hoodpark alle due in

punto» gridò Eric mentre Jimmy si

allontanava alzando il pollice in segno

di assenso.

Il rombo inconfondibile del motore

bicilindrico Ducati sorprese Jimmy, in

attesa di Eric nel punto concordato.

«Credevo andassimo a piedi.»

«Con la moto faremo prima» disse

Eric mentre porgeva il casco a Jimmy.

Jimmy infilò il casco e montò in

sella. Eric afferrò con la mano sinistra

la leva della frizione, con il piede destro

infilò la prima, rilasciò lentamente la

frizione e con la mano destra ruotò la

manopola dell'acceleratore. La moto

impennò

leggermente

rilasciando

sull'asfalto tutta la potenza dei 600

cavalli.

«Ci metteremo un'ora» disse Eric

senza alzare il tono della voce. Adesso

sapeva che, nonostante il rumore del

vento e il rombo della moto che copriva

le sue parole, Jimmy poteva udirlo

perfettamente. «C'è una cosa che ancora

non mi è chiara.»

«Cosa?»

«Quanti siamo?»

«Intendi nel mondo?»

Eric fece cenno di sì col casco.

«Non saprei dirtelo e sinceramente

non credo esista qualcuno in grado di

rispondere a questa domanda. Per il

mondo noi siamo umani ed è giusto che

sia così, se vogliamo continuare a

vivere in pace. Gli umani non sono

ancora pronti a scoprire le altre razze

che popolano la terra insieme a loro.»

«Credo di capire.»

«Però posso dirti che, nella nostra

città, siamo in molti. In genere è rara una

concentrazione simile in un solo luogo,

ma, nel nostro caso, dipende dal fatto

che in passato la città in cui viviamo è

stata

per

lungo

tempo

popolata

esclusivamente dagli elfi.»

«Tu conosci tutte le famiglie elfiche

della nostra città?»

«No, non tutte. Diciamo molte, per lo

più si tratta di amici di vecchia data dei

miei genitori e, quando dico vecchia,

intendo centinaia di anni. Conoscersi

tutti è impossibile. Per garantire la

sopravvivenza gli elfi hanno dovuto

nascondersi tra gli umani e il prezzo da

pagare è stata la scissione. La società

elfica ha perso la sua struttura

organizzata e le varie famiglie hanno

progressivamente ridotto i contatti,

vivendo in piccoli gruppi. Il segreto è

ciò che ci protegge. Le tradizioni e i

legami tra le famiglie elfiche vengono

tramandati a voce di generazione in

generazione. Per questo motivo, quando

ho sospettato che tu fossi un elfo, non mi

sono sorpreso più di tanto di non averti

mai visto.»

«Ma com’è possibile non destare

sospetti tra gli umani? Vivendo molto

più a lungo, dovrebbero accorgersene

tutti...»

«Non è poi così difficile, basta

andare via per qualche tempo e tornare

rifacendosi un po' il look, dicendo di

essere un parente più giovane di sé

stessi. Le persone, nonostante la

somiglianza

incredibile,

sono

naturalmente propense a credere alla

parentela. A nessuno verrebbe mai l'idea

bizzarra di avere di fronte una persona

non umana.»

La potente Ducati Monster macinava

instancabile chilometri su chilometri.

L'asfalto asciutto, appena rifatto, e il

percorso in pianura rendevano il viaggio

comodo e rilassante. Il tutto era reso

ancora più piacevole dal vento mite che

accarezzava la pelle e dall'aroma degli

alti pini secolari che si estendevano

sulla destra, lungo tutto il tragitto.

Eric spostò il baricentro del corpo

verso destra per imboccare la curva

davanti a loro e Jimmy lo seguì

istintivamente

nel

movimento,

per

facilitare la manovra.

«Hai mai desiderato essere umano?»

chiese Eric.

Jimmy si rabbuiò per qualche istante,

come perdendosi in vecchi pensieri.

«Sono convinto di una cosa» si

riscosse «nessuno di noi può scegliere

la propria razza, né il proprio sesso. È

scontato, ma è così. Siamo quello che

siamo e dobbiamo accettarlo, perché

non è una nostra scelta, così come non lo

è la vita e non lo è la morte. Ma

possiamo decidere chi vogliamo essere

e questo non dipende dalla razza o dal

sesso o da quanto siamo veloci, forti o

longevi,

ma

dipende

solo

ed

esclusivamente da noi. Molto spesso

tendiamo a pensare che ciò che

diventiamo dipende da fattori esterni,

dagli eventi che ci capitano, ma non è

così. Siamo sempre noi a scegliere come

quegli eventi influiranno su noi stessi ed

è per questo che, ancora una volta,

siamo noi a scegliere chi siamo.»

Eric distolse per un attimo lo sguardo

dalla strada, colpito dalle parole di

Jimmy. Per quanto lo avesse detestato

dal loro primo incontro, doveva

riconoscere che sapeva essere un grande

comunicatore ed era anche meno stupido

e arrogante di quel che credeva. Iniziava

a capire perché Sophie fosse così legata

a lui.

Siamo noi a scegliere chi siamo. Le

parole di Jimmy non potevano essere

più adatte, considerando l'incontro che

si apprestava ad avere. Non fece più

domande, mancavano pochi minuti alla

loro meta e aveva solo voglia di

sgombrare la mente per concentrarsi su

quello che avrebbe dovuto dire. Decise

che non avrebbe avuto molto senso fare

tanti giri di parole, in fondo erano i suoi

genitori, per questo sarebbe andato

dritto al punto.

Le nuvole coprivano il sole e i colori

tutto intorno iniziavano a prendere

tonalità più scure. Eric virò sulla destra

per una stradina sterrata, che si

addentrava qualche centinaio di metri

all'interno del bosco. Alla fine della

strada un cancello bianco si presentava

in tutta la sua semplicità. Non aveva

niente di suggestivo dal punto di vista

estetico, ma svolgeva in pieno la sua

funzione: impedire l'ingresso al giardino

che circondava una graziosa casetta in

legno.

Eric si fermò senza spegnere il

motore e chiese a Jimmy di aprire il

cancello. Jimmy scese rapidamente dalla

moto, si tolse il casco e spinse verso

l'interno il cancello, mentre un accenno

di sorriso gli affiorò sulle labbra alla

lettura del cartello: CAN CHE ABBAIA,

FIDATEVI, MORDE.

Appena la moto fu all'interno,

richiuse il cancello e, senza lasciare ad

Eric il tempo di dire nulla, lo anticipò.

«Dai pure a me il casco, ti aspetto

qui, mi farai conoscere i tuoi genitori

un'altra volta.»

Eric gli porse il casco. «Oggi credo sia

meglio così» e, a passo svelto, si

diresse verso l'ingresso. Scrutò dal

vetro della porta, all’interno tutto

appariva immobile. Girò nella serratura

la copia della chiave che teneva per sé

ed entrò in casa. La vecchia porta in

legno scricchiolò, mossa in entrambe le

direzioni.

«Mamma» gridò una volta. «Papà.»

L’anticamera era perfettamente in

ordine come al solito. Sulla sinistra, il

tavolo del soggiorno, con il centro

tavola ricamato, e il consueto vaso di

fiori freschi coprivano solo in parte il

pianoforte a parete anni trenta, comprato

da suo padre qualche anno prima per

poche centinaia di dollari. Poco oltre,

alle pareti, una decina di foto,

incorniciate

in

graziosi

quadretti,

ricoprivano i muri bianchi del salotto.

Le conosceva a memoria, ma le passò in

rassegna ugualmente. Si soffermò su

quelle in cui era stato immortalato

mentre giocava con Rufus, il grosso

pastore maremmano vissuto con lui fino

al suo ottavo compleanno. Da piccolo,

gli saliva sulla schiena e si faceva

portare in sella tra i cespugli attorno alla

villetta. Un sorriso velato apparve sul

suo volto al ricordo di quei momenti.

Fece

ancora

qualche

passo

nell’anticamera. La casa sembrava

davvero vuota. Poi il rumore di passi al

piano superiore rivelò la presenza di

qualcuno.

«Eric, sei tu?!» la voce, visibilmente

sorpresa, proveniva anch’essa da sopra

la sua testa. Pochi secondi e una figura

snella, dai capelli lunghi e leggermente

argentati, apparve in cima alla rampa di

scale. Appena lo vide, la signora Arden

si precipitò giù euforica. «Oddio, Eric,

mi hai quasi fatto prendere uno

spavento!» Lo abbracciò come se non lo

vedesse da mesi, anche se era stato lì

appena la settimana prima. «Sono così

felice che sei passato a trovarci! Come

mai non ci hai avvertito?» Si scostò

leggermente e lo guardò dritto negli

occhi. Il volto di Eric era cupo.

«C'è qualcosa che non va, Eric?» il

tono di voce della signora Arden era

ansimante. «C'è qualche problema? Non

stai bene?»

«Sto bene, mamma, sto bene» rispose

scuotendo leggermente la testa «ma se

sono qui, ora, è per un motivo ben

preciso.» La fissò in silenzio per

qualche secondo. «Mi avete mentito.»

Il volto della signora Arden sbiancò

di colpo. Si portò una mano alla bocca

come per bloccare un grido.

«Tu e papà... non mi avete mai detto

la verità» incalzò ancora Eric. «L'ho

dovuta scoprire da solo... perché?»

Gli occhi di Eric esprimevano ora

tutta la sua rabbia. Non staccava lo

sguardo dagli occhi della madre, mentre

il viso si rigava delle prime lacrime.

Il silenzio invase la sala, poi la

signora Arden scoppiò in un pianto

angosciato.

«Mi

dispiace,

Eric»

mormorò tra i singhiozzi, accarezzando

la guancia del figlio. «Scusaci, non

volevamo che lo scoprissi così. In realtà

speravamo non lo scoprissi mai.»

In quel momento, il signor Arden

varcò la soglia della porta sul retro.

«Eric, ragazzo mio» esclamò appena

scorse Eric. La gioia di rivedere il figlio

durò giusto il tempo di accorgersi delle

lacrime della moglie.

«Cosa diavolo sta succedendo qui,

Rose...?» Gli occhi increduli del signor

Arden incrociarono quelli della moglie,

poi si spostarono su Eric.

«Philip!» un urlo straziato uscì dalla

bocca della signora Arden, che gli corse

incontro e affondò il viso sul suo petto.

L’uomo le passò una mano sulla testa.

«Rose, su, non fare così» cercò di

tranquillizzarla. «Calmati, spiegatemi

cos'è successo.»

«Lo sapevo, lo sapevo...» ripeté

Rose con la voce spezzata dal pianto.

«Lo dicevo che prima o poi sarebbe

successo. Che questo maledetto giorno

sarebbe arrivato. Non avremmo dovuto,

Phil... non avremmo dovuto...»

«Qualunque cosa sia, troveremo una

soluzione, stai tranquilla...»

Rose passò il braccio sugli occhi per

asciugare le lacrime. «Non c'è niente

che possiamo fare Phil, avremmo dovuto

pensarci tanti anni fa... Sapevamo che

prima o poi questo segreto sarebbe

venuto a galla.»

In quel preciso istante Philip Arden

capì tutto. Il flash di una notte di pioggia

di vent’anni prima riapparve dinanzi a

lui, come se stesse avvenendo in quel

momento. Rivide la cesta, proprio nel

punto dove ora Eric era fermo in piedi.

Ricordò lo stupore con cui si avvicinò e

la sorpresa ancora più grande nel

vedere, al suo interno, un neonato di

poche settimane che scalciava e si

dimenava. Distolse le sue attenzioni

dalla moglie e guardò Eric con sguardo

colpevole.

«Come lo hai scoperto?» chiese in

tono sommesso.

Eric fino a quel momento era rimasto

in silenzio. La vista della madre in

lacrime lo aveva lasciato di sasso e

adesso si sentiva in colpa, per la

reazione che aveva scatenato. Stentava a

comprenderla. Ignorò la domanda del

padre e parlò scandendo lentamente le

parole.

«Perché me lo avete tenuto nascosto?

Non capisco... Perché non me lo avete

semplicemente detto? Pensavate che non

avrei capito?»

«Eric» disse il signor Arden con la

voce rotta «perdonaci, avremmo dovuto

dirtelo, lo so, ma sappi che lo abbiamo

fatto solo per il tuo bene, perché

volevamo ti sentissi come gli altri.»

«Sentirmi come gli altri? Avete

passato la vita a farmi credere che le

mie doti fossero speciali, perché ero il

solo ad averle. Mi avete mentito, mi

avete fatto credere di essere diverso...

diverso anche da voi. Sarebbe bastato

dirmi la verità.»

«Non sarebbe cambiato nulla» lo

interruppe Rose. «La verità, Eric, è che

siamo stati degli egoisti, perché non

volevamo passassi la tua vita a cercare

qualcuno che ha deciso di abbandonarti,

volevamo che ci considerassi in tutto e

per tutto i tuoi genitori.»

In tutto e per tutto i tuoi genitori.

Eric strabuzzò gli occhi. Quelle

parole risuonarono nella sua testa come

un gong. Avrebbe voluto gridare

“Cosa?!”, se non fosse stato per la

morsa che gli serrava la gola.

Rose, in un istinto materno, lo

abbracciò e gli sussurrò in un orecchio:

«Perdonaci.»

Eric rimase impietrito e non ricambiò

l'abbraccio.

Spalancò

la

bocca

scioccato, balbettando con un filo di

voce: «Voi non...?!»

Non siete i miei genitori.

Durante il viaggio, si era immaginato un

migliaio di modi in cui sarebbe potuta

andare

quella

conversazione.

Era

preparato a tutto, ma non a quello. L'idea

che i suoi genitori non fossero realmente

coloro che lo avevano messo al mondo

non lo aveva minimamente sfiorato.

Sono stato adottato.

Con lo sguardo perso nel vuoto, non

riusciva a pensare a nient'altro, se non al

fatto che le persone che aveva di fronte,

le stesse che aveva chiamato mamma e

papà, avessero celato una menzogna così

grande.

È assurdo, non è possibile.

Per un momento aveva dimenticato il

motivo per cui era lì. Voleva la verità,

ma non si aspettava quella verità.

Voleva sapere perché non gli avessero

mai svelato di essere un elfo, non perché

gli avessero nascosto di non essere i

suoi veri genitori. Sentì il mondo

crollargli sotto i piedi. Le poche

certezze che credeva di avere, erano

solo false convinzioni.

Non era umano.

Non sapeva chi fossero i suoi

genitori.

Mentre il significato di quelle parole

si faceva strada in lui, un altro

inquietante particolare si materializzò

nella sua mente: i suoi genitori non

sospettavano minimamente che lui fosse

un elfo. Con tutta probabilità, non erano

nemmeno a conoscenza dell’esistenza

degli elfi.

Deglutì, turbato e indeciso su come

comportarsi.

Il signor Arden si avvicinò a lui,

unendosi all'abbraccio della moglie.

Eric rimase immobile per qualche

istante. Non appena si riprese, allontanò

da sé quelli che, fino a qualche istante

prima, credeva fossero i suoi genitori e

indietreggiò di qualche passo. Raccolse

le idee per un attimo poi, con tono

distaccato, disse: «Ditemi tutto quello

che sapete.»

Philip e Rose si guardarono per un

istante, poi il signor Arden prese la

parola.

«È giusto che tu conosca tutta la

storia. A questo punto , non ha più senso

nasconderti nulla.» Avvicinò la sedia

dietro di lui, si sedette e iniziò il

racconto. «Una notte di vent'anni fa,

arrivò quello che abbiamo sempre

ritenuto un dono del Signore. Un cesto

con

all'interno

un

bambino.

Lo

trovammo in questa stessa stanza,

esattamente dove ti trovi tu adesso. Tu

non lo sai, non lo ha mai saputo nessuno,

ma tua madre ed io, purtroppo, non

possiamo avere figli. Ci eravamo

sposati perché ci amavamo e ci amiamo

tuttora, ma più di ogni altra cosa

volevamo creare una famiglia. Scoprire

di non poterlo fare mise a dura prova il

nostro legame. Tentammo più volte di

adottare un bambino, ma le uniche

parole che ci sentimmo dire furono:

“Non avete ancora i requisiti necessari.”

Trovare all'improvviso, in un cesto

riposto con cura in casa nostra, il figlio

che avevamo sempre sognato, ci diede

una

gioia

inimmaginabile.

Non

pensammo nemmeno per un secondo di

andare alla polizia. Quel bambino... tu

Eric, dal momento in cui mettesti piede

in questa casa, diventasti nostro figlio.»

Guardò Rose con un sorriso rigato dalle

lacrime. «Con l'aiuto di zio Leonard,

facemmo quello che ritenevamo giusto,

Rose andò a vivere da zia Jane per un

anno e, al ritorno, ti registrammo

all'anagrafe come nostro figlio. Da quel

momento tu diventasti un Arden. Non

sappiamo praticamente nulla di come sei

arrivato fin qui, né di chi ti portò o

perché fosti abbandonato. A parte...» Il

signor Arden chinò lo sguardo per

qualche secondo, poi sollevò le

palpebre. Aveva gli occhi rossi, era

evidente che stava cercando di non

piangere. «In effetti qualcosa c’è...

L'unica cosa che possiamo mostrarti.

Seguimi.» Si alzò e si incamminò verso

le scale che portavano alla soffitta. Eric

e Rose lo seguirono.

Arrivati davanti alla porta del piano

più alto della casa, Philip la aprì

dandole una leggera spinta. Un sottile

strato di polvere cadde dall’infisso. Da

tempo nessuno entrava in quel posto.

Philip prese una cesta di vimini

impolverata, accatastata in un angolo

della soffitta e la mostrò a Eric.

«Sei arrivato qui dentro.» Rovistò

all'interno della cesta, smuovendo il

lenzuolo

e

il

piccolo

cuscino.

«Accompagnato da questo.» Estrasse un

piccolo cartoncino ingiallito, che porse

a Eric. Philip e Rose lo avevano letto

tante altre volte prima di allora.

Eric maneggiò il biglietto come se

avesse in mano una pietra preziosa e lo

lesse attentamente.

Lo girò e ne osservò il retro. Al

centro apparivano due iniziali appena

accennate, come se fossero state scritte

in tutta fretta.

Lo girò e rigirò più e più volte tra le

dita, alla ricerca di qualunque altra

scritta gli potesse essere sfuggita.

Nulla. Quello era tutto e solo ciò che

aveva dei suoi veri genitori. Guardò

ancora una volta il pezzo di carta, poi lo

ripose con cura nel portafogli.

«C'è altro che devo sapere?»

Philip e Rose scossero il capo

all'unisono. Richiusero la porta della

soffitta e si incamminarono giù per le

scale verso l'ingresso.

«Come lo hai scoperto, Eric?» Non

appena Rose pronunciò quelle parole, il

campanello suonò.

Il signor Arden aprì senza chiedere

chi fosse e si trovò di fronte un ragazzo

sorridente e dall’aspetto curato.

«Buongiorno» disse il ragazzo «mi

chiamo James Carter, sono un amico di

Eric.

Sono

qui

con

lui,

l’ho

accompagnato.

Perdonate

la

maleducazione nell'intromettermi, ma ho

ricevuto una telefonata importante, devo

tornare con urgenza a casa.»

Anche se rimasto ad attendere

all'esterno, Jimmy aveva udito tutta la

conversazione e, nel momento in cui

aveva creduto in pericolo la segretezza

degli elfi, era prontamente intervenuto

per evitare che Eric si lasciasse sfuggire

i particolari della sua scoperta. Scrutò

l’anticamera oltre il signor Arden e

incrociò lo sguardo di Eric, che intuì al

volo le sue intenzioni.

«Devo andare» disse approfittando

del momento di imbarazzo generale.

Philip

e

Rose

lo

guardarono

desiderosi di un cenno che gli facesse

capire che in fondo non era cambiato

niente e che l'affetto tra loro sarebbe

rimasto immutato. Ma da Eric non arrivò

nessun gesto e le loro speranze

sprofondarono insieme con l’angoscia di

perdere l’unico figlio che la vita gli

avesse donato.

Eric non si voltò e corse alla moto

per accelerare i tempi. Jimmy si

congedò con un saluto sulla porta e lo

seguì. Il fragore del motore Ducati ruppe

il silenzio della campagna.

«Aspetta!» gridò il signor Arden.

«C'è ancora una cosa.» Si avvicinò,

mentre Rose rimase sulla porta con gli

occhi ancora lucidi. «Qualche giorno fa

è venuta a cercarti una persona. Non so

chi fosse, non l’avevo mai visto. Ha

detto di essere un tuo vecchio amico,

che aveva perso il tuo numero di

cellulare e non aveva il tuo nuovo

indirizzo. Mi ha detto che doveva darti

una notizia importante, mi sembrava una

persona affidabile, così gli ho dato il tuo

indirizzo.» Si fermò un attimo e

aggiunse: «Spero di aver fatto la cosa

giusta questa volta.»

Eric lo guardò dubbioso. Forse era

solo un disperato tentativo di trattenerlo

ancora un po', per la paura di perderlo

per sempre nel momento in cui avesse

varcato il cancello di casa.

Eric non era sicuro di quali fossero

realmente i pensieri dei suoi genitori

adottivi in quel momento, quello che

sapeva era che non si era mai trovato

così vicino a scoprire la verità su sé

stesso come in quel momento e ora non

si sarebbe fermato di fronte a niente e a

nessuno, fino a che non avesse saputo

tutto.

Il sole era appena tramontato e Jimmy ed

Eric si apprestavano a tornare a casa.

Eric era visibilmente provato da tutti gli

avvenimenti della giornata e il suo stile

di guida rifletteva il suo umore.

Imboccava ogni curva piegando la moto

a tal punto da sfiorare l’asfalto con le

ginocchia e ogni rettilineo era un valido

motivo

per

superare

i

duecento

chilometri all’ora. I muscoli contratti e

lo sforzo di concentrazione di testa e

nervi, profuso per raggiungere il limite,

gli servivano a estraniarsi dalla realtà.

«Cerca di calmarti, Eric» la voce

calda di Jimmy suonò fuori dal coro

composto dai rumori di asfalto, motori e

clacson. «Non siamo immortali e se

continui così lo scoprirai presto.»

Eric diminuì di colpo la velocità.

«Non puoi capire come mi sento,

oggi è come se, per la prima volta nella

mia vita, avessi aperto gli occhi e avessi

visto il mondo in tutto il suo schifo.»

Alzò la mano sinistra dal manubrio per

pulire la visiera del casco. «Tutto quello

in cui credevo, le mie convinzioni, è

tutto crollato davanti ai miei occhi.»

«Quello che hai scoperto e il modo in

cui lo hai scoperto è stato tremendo, lo

so. Neanch’io mi aspettavo di ascoltare

una storia simile e non credere che non

possa capire cosa provi, anche se non

sono coinvolto direttamente. È stato un

duro colpo, ma era inevitabile e sono

certo che, nel bene o nel male, ti porterà

a scoprire la verità.» Jimmy batté due

volte la mano sulla gamba di Eric.

«Adesso, rimuginare su quello che è

successo non ti porterebbe a niente. Hai

davanti a te la possibilità di capire da

dove vieni e chi sono i tuoi veri genitori,

non sprecare l'opportunità, concentrati

su questo.»

Eric odiava ammetterlo, ma Jimmy

anche in quell’occasione aveva ragione.

Non era il momento di piangersi

addosso, chiedendosi perché tutto ciò

stesse accadendo proprio a lui, né

perché i suoi genitori gli avessero tenuto

nascosto che era stato adottato. No,

quello era il momento di trovare le

risposte alle nuove domande che il

destino gli aveva riservato. Su tutte, chi

erano i suoi veri genitori e perché lo

avevano abbandonato.

Ripercorse con la mente il biglietto.

Era l'unico indizio da cui partire.

“Prendetevi cura di Eric”. Poteva

essere il segno che non si trattava di un

parto

accidentale.

Avevano voluto

scegliere un nome e intendevano

preservare la loro scelta.

“Noi non abbiamo più la possibilità

di farlo”. Noi, voleva dire che entrambi

i suoi genitori non avevano avuto la

possibilità di prendersi cura di lui.

Erano insieme quando lo avevano

abbandonato? Non abbiamo più la

possibilità di farlo. Perché? Doveva

essere successo qualcosa che gli aveva

negato la possibilità di tenerlo con sé.

Ma cosa? Ristrettezze economiche?

Possibile. Una malattia? Improbabile,

gli elfi ne sono immuni. Temevano

qualcosa

o

qualcuno?

Stavano

scappando? E se sì, da chi?

Infine, l'indizio che da subito,

nonostante la poca lucidità del momento,

gli era parso il più importante: “A & L”.

Era certo si trattasse delle loro iniziali.

Non avevano voluto lasciare i loro

nomi. Perché? Avevano paura di essere

scoperti? Si trattava sicuramente del

segno più importante da seguire, forse

lasciato perché lo individuasse proprio

lui.

Si chiese se tutti quei ragionamenti

scaturissero

dal

non

riuscire

ad

accettare di essere stato abbandonato

senza un reale motivo. Avrebbe rifiutato

quell’idea fino a che non ne avesse

avuto la certezza.

«Jimmy» disse ridestandosi dai suoi

pensieri «esiste qualcuno, un elfo o

qualcosa di simile, esperto della storia

della città e soprattutto a conoscenza

degli elfi che vi abitavano vent'anni fa?»

Eric si interruppe per trovare le parole

più adatte a spiegare ciò che intendeva.

«Non so, uno storico o un antropologo.

Qualcuno che sappia degli elfi e che

possa aiutarci a ricostruire cosa è

successo quando sono nato...»

Jimmy si sporse leggermente in

avanti.

«Beh, direi che lo conosci molto

bene anche tu.» Un sorriso compiaciuto

gli affiorò sulle labbra da dietro la

visiera. «È il professor Haufmann.»

Capitolo 21

Col massiccio cancello nero che la

separava dalla strada e la facciata ricca

di archi e finestre, la villa del professor

Haufmann si stagliava imponente tra le

altre più modeste abitazioni della zona.

La sua architettura la faceva apparire

quasi fuori luogo. Il giardino, tagliato da

un vialetto in mattoni rossi che

conduceva alla porta d’ingresso, era

ricoperto da piccoli cespugli ben curati

e qualche aiuola fiorita. Due olmi

giganteschi crescevano ai lati del

giardino e spiccavano come due torri

che conferivano alla villa un aspetto

solenne. Uno spesso muro di cinta, sulla

cui

sommità

campeggiavano

degli

spuntoni acuminati, recintava la villa.

Eric

provò

un

leggero

brivido

osservando l’abitazione.

Il cielo si era ormai tinto dei colori

della notte e la luce della luna filtrava

tra le fronde dei cipressi.

Jimmy suonò il citofono a lato del

cancello e pronunciò il suo nome e

cognome. Una voce cupa rispose, non

era quella del professor Haufmann. La

serratura del portoncino di passaggio

scattò. Entrarono e si diressero verso la

porta d’ingresso. Il latrato di un cane di

grossa taglia li raggiunse poco prima

che comparisse, da dietro l’angolo

sinistro della villa, uno slanciato

esemplare di dobermann. Correva verso

di loro a fauci spiegate. Eric d’istinto

fece un passo indietro, ma Jimmy lo

bloccò prima che potesse arretrare

ulteriormente.

«Stai fermo» disse. «Non serve, ci

riconosce.»

Eric provò di nuovo a divincolarsi,

ma Jimmy lo trattenne ancora.

«Osserva» gli disse e portò una mano

davanti a loro, all’altezza del muso del

cane.

Il molosso accelerò la sua corsa fino

a un passo dalle loro gambe e,

all’improvviso, si fermò. Annusò i

polpastrelli della mano di Jimmy e gli

leccò le dita.

«Visto?» disse Jimmy.

Eric rimase a bocca aperta per il

repentino

cambiamento

di

comportamento dell’animale.

«Come hai fatto?» gli chiese.

Jimmy sorrise.

«Di che ti sorprendi? Non ti sei mai

accorto di avere un odore diverso

rispetto agli umani? Di certo tutte le

ragazze con cui sei stato non se ne

saranno accorte, ma inconsciamente lo

avranno percepito. È proprio per questo

che sono venute con te, non crederai

mica sia tutto merito del tuo bel

faccino?» disse e si lasciò andare ad una

risatina. «Siamo attraenti per natura, il

nostro corpo rilascia un agente chimico

molto simile ai feromoni, per intenderci.

I cani, e tutti gli animali, hanno un olfatto

ipersviluppato, molto più di quello degli

umani, quasi quanto noi elfi» disse con

una punta di compiacimento «e se ne

accorgono subito. Non siamo percepiti

come una minaccia. Facciamo molto più

parte della natura rispetto alle altre

specie viventi.»

Eric ascoltava Jimmy con attenzione,

mentre il cane si era avvicinato e lo

stava annusando insistentemente attorno

alle gambe. Di tanto in tanto, alzando lo

sguardo, incrociava i suoi occhi.

«Con

me

sembra

molto

più

sospettoso»

disse

Eric

scostando

lentamente

le

gambe

dal

muso

dell’animale.

«Ma va, è una tua impressione. Ora

andiamo»

lo

esortò

Jimmy

«il

professore ci sta aspettando.»

Si avvicinarono alle scalette che

conducevano all’ingresso. La porta si

aprì e comparve la figura distinta di

quello

che

doveva

essere

il

maggiordomo di casa Haufmann.

«Buonasera, Hammond» disse Jimmy

dimostrando una certa familiarità con

l’ambiente.

«Buonasera, signor Carter» rispose

l’uomo. Aveva una buffa espressione

seriosa, la fronte stempiata e pochi

capelli bianchi ai lati fermati da una

copiosa quantità di cera per capelli.

«Il professor Haufmann vi attende

nella sala lettura. Vi accompagno.»

«Oh, non ce n’è bisogno» disse

Jimmy. «Conosco la strada, grazie.»

«Come desidera» replicò Hammond

e si congedò.

La villa sembrava ancora più

spaziosa che vista dall’esterno. Era

arredata in stile molto classico, le pareti

mostravano dettagliate rifiniture in

legno. A giudicare dalla quantità di

dipinti appesi ovunque, Haufmann

doveva essere un appassionato d’arte.

«Benvenuti»

disse

una

voce

proveniente

dalla

stanza

attigua

all’ingresso. Eric e Jimmy ne seguirono

il suono ed entrarono nella sala. Il

professor Haufmann era seduto alla

scrivania in legno nel centro della

stanza. Teneva in mano un grosso libro

polveroso e ne sfogliava lentamente le

pagine.

«Sono contento di vedervi» disse.

«Gradite qualcosa?»

Scossero il capo. Haufmann si alzò e

ripose il libro nella libreria a parete.

Centinaia di volumi ricoprivano gli

scaffali,

alcuni

dovevano

essere

vecchissimi a giudicare dai colori ormai

schiariti e dalla carta rovinata. Le altre

pareti della sala erano quasi spoglie, ad

eccezione dei dipinti appesi con cura al

centro dei muri che delimitavano

l’ambiente. Un quadro in particolare

attirò l’attenzione di Eric. Era sospeso

in una nicchia in un angolo della stanza.

Non aveva i colori vivaci e chiari che

caratterizzavano le tele della stanza e

dell’ingresso,

forse

per

l’uso

predominante

del

nero

che

ne

accentuava i toni cupi. Lo strano

personaggio raffigurato nel dipinto

aveva tratti vagamente umani, ma

qualcosa nella sua figura trasmetteva un

senso di inquietudine che impressionò

Eric. Quel quadro sembrava turbarlo e

affascinarlo al tempo stesso.

«Come mai qui a quest’ora?»

«Mi scusi se siamo piombati qui

all’improvviso» si giustificò Jimmy «ma

avevamo urgenza di parlarle.»

«Non ti scusare Jimmy, non c’è alcun

problema. Le porte della mia casa sono

sempre aperte per il figlio di Alan

Carter.»

Haufmann osservò Jimmy e ricordò

tutte le volte che da bambino era venuto

a fargli visita accompagnato dal padre.

Alan era suo amico da diversi secoli, le

loro famiglie facevano parte delle più

antiche casate elfiche della città.

Jimmy

ringraziò il

professor

Haufmann per la calorosa accoglienza.

«Siamo venuti qui perché abbiamo

bisogno del suo aiuto... riguarda Eric.»

Haufmann inspirò profondamente. La

sua espressione cambiò: il sorriso che li

aveva accolti era scomparso lasciando

il posto ad un tono leggermente alterato.

«Conosco il signor Eric Arden, spero

non si sia cacciato in un altro dei suoi

guai. Alla Dorton non sono ammesse

certe seccature, l’avevo avvertita se non

ricordo male.»

«Ecco, professor Haufmann in realtà

Eric e io non siamo qui come studenti...»

Haufmann corrugò la fronte.

«Cosa state dicendo?»

Jimmy ed Eric raccontarono in breve

dell’abbandono in fasce davanti alla

porta di casa Arden e del ritrovamento

del biglietto nella cesta. Haufmann

ascoltava in silenzio, aggrottando le

sopracciglia di tanto in tanto, sembrava

che alcuni passaggi del loro racconto

non lo convincessero fino in fondo.

«È

questo»

disse

infine

Eric

porgendo il piccolo pezzo di carta

logorato dal tempo.

Haufmann osservò il biglietto con

cura. Quando lesse le iniziali il suo

sguardo si fece più accigliato.

«Sa dirci qualcosa?» chiese Eric.

Haufmann scosse la testa.

«Purtroppo no. Non so a chi possa

appartenere» disse mentre porgeva

nuovamente il biglietto a Eric.

«Non esiste qualcosa che possa

ricondurci ai nomi dalle iniziali... non

so... un registro delle nascite ad

esempio?»

«No, non esiste nulla di simile.

Sarebbe troppo complesso tenere un

registro del genere. Gli elfi sono molti

di più di quanti possiate immaginare,

tenere traccia di ogni nuovo nato

sarebbe

impossibile,

sebbene

nell’ultimo secolo la nostra presenza si

sia fortemente ridotta.»

«Come mai?»

Haufmann sospirò. Dai suoi occhi

traspariva

tutto

il

peso

di

una

conoscenza antica, in netto contrasto con

l’età del viso.

«Molti dei Sopravvissuti hanno

lasciato questo mondo e, senza la loro

presenza, la nostra stirpe si è indebolita,

costretta a vivere nascosta tra gli esseri

umani. È il compito che ci è stato dato,

quello di vegliare sulle altre razze e

rispettare l’equilibrio naturale. Ma un

onore così grande comporta anche uno

svantaggio altrettanto gravoso.»

«I sopravvissuti

«Molti secoli fa una guerra parallela

e segreta scoppiò sulla terra. Una guerra

che nessun libro di storia narra. La

vicenda è lunga e complessa, non è

questo il momento di raccontarvela. Vi

basti sapere che tutte le razze della terra

furono messe a rischio. Gli elfi si ersero

a difesa della pace e la popolazione fu

ridotta a poche decine. Il nemico fu

sconfitto, ma il prezzo da pagare per il

ritorno alla normalità fu altissimo.

Guidata da quei Sopravvissuti la stirpe

si rigenerò, tornando più forte di prima.

Ma ora le cose stanno di nuovo

cambiando.»

«Se nessun libro ne parla, lei come fa

a saperlo?»

«Faccio parte di quella ridotta

schiera di elfi che ha visto rinascere la

nostra stirpe. Mio padre era uno dei

Sopravvissuti.»

Eric ascoltava in silenzio, di tanto in

tanto gettando un occhio al dipinto nella

nicchia che sembrava suscitare su di lui

un’inspiegabile attrazione. Abbassò lo

sguardo sul biglietto che stava rigirando

tra le dita.

«E A e L? Avrà conosciuto in tutti

questi anni una coppia che avesse queste

iniziali?»

Haufmann scosse la testa.

«Potrebbero essere chiunque. E poi

non è detto che fossero di queste parti.

Spesso

siamo

costretti

a

essere

vagabondi o a cambiare identità quando

ci fermiamo per un lungo periodo nello

stesso luogo, così che la gente non si

accorga dell’età che non lascia segni sui

nostri corpi. Potrebbero essere arrivati

qui da qualsiasi luogo, per poi andare

via. Potrebbero essere ovunque.»

«Un momento, sta dicendo che

potrebbero essere ancora vivi?» la voce

di Eric si fece ansimante.

«Tutto può essere. Se ti hanno

abbandonato quando eri appena in fasce,

vuol dire che sono passati solo vent’anni

e vent’anni non sono niente per un elfo.

Se non gli è accaduto nulla, potrebbero

essere ancora vivi.»

«Cosa significa se non gli è accaduto

nulla?»

«Bisognerebbe capire perché ti hanno

abbandonato. Dubito che due elfi si

separerebbero mai dal loro figlio se non

per qualche motivo davvero grave. Gli

elfi sono incapaci di commettere atti

così dolorosi, se gli umani talvolta lo

fanno, gli elfi non ci riescono. Se hanno

deciso di farlo è perché realmente non

avevano altra scelta» si fermò un attimo

a riflettere. «Deve essere accaduto

qualcosa di molto grave.»

Eric aveva abbassato lo sguardo e

Haufmann intuì i suoi pensieri.

«Sì Eric, credo che dovresti iniziare

ad accettare la possibilità che i tuoi veri

genitori non facciano più parte di questa

terra. Mi dispiace.»

Eric teneva ancora lo sguardo basso.

Quelle parole lo avevano colpito come

un pugno nello stomaco e gli occhi si

inumidirono.

Jimmy gli mise una mano sulla spalla.

Eric

alzò

lo

sguardo

verso il

professore.

«Se esiste anche una sola possibilità

di ritrovarli, voglio provarci.»

«Eric capisco il tuo desiderio di

scoprire...»

«No, lei non capisce!» urlò Eric.

Quell’attacco di aggressività colse di

sorpresa tutti, compreso lo stesso Eric.

Jimmy e Haufmann rimasero in silenzio

ad attendere che Eric si calmasse.

«Scusate» disse portandosi le mani

alla testa. Gli occhi si riempirono di

lacrime.

«Non importa» rispose Haufmann con

voce

calma.

Sembrava

infondere

tranquillità

a

tutto

l’ambiente

circostante. «Ti prometto, però, che

proverò a fare qualche ricerca.»

«Grazie» sussurrò Eric.

«Grazie, professore» disse Jimmy «e

ci scusi ancora per l’irruzione.»

Jimmy ed Eric si avviarono verso la

porta.

«Solo

una

cosa»

disse

Eric

voltandosi

un’ultima

volta

verso

Haufmann.

«Dimmi.»

«Quel dipinto in fondo, nella nicchia,

cosa rappresenta?»

Haufmann si voltò a osservare il

quadro che conosceva bene. Trasse un

respiro profondo, sembrava che quella

domanda lo avesse infastidito. Con

sguardo torvo e voce ferma rispose.

«È un drow. Un elfo oscuro.»

Eric lo guardò confuso.

«È una stirpe originata da quella

elfica. Una derivazione maligna che

popola i racconti dei nostri antenati.»

«Credevo fosse solo una leggenda

quella sugli elfi oscuri» disse Jimmy.

«È così» replicò Haufmann ancora

con quell’espressione dura in volto

«sono solo un’antica leggenda.»

Una volta all’esterno Eric chiuse gli

occhi e lasciò che il vento proveniente

da ovest gli accarezzasse le guance. Lo

ascoltò lambire i rami alti degli olmi

agitandone le fronde e inspirò più volte

profondamente. L’aria fresca della sera

lo calmò.

Jimmy arrivò alle sue spalle. Si era

fermato un minuto in più a scambiare

poche parole con il professor Haufmann.

Eric aveva volutamente evitato di

ascoltare, per quel giorno ne aveva

avuto abbastanza di segreti e rivelazioni.

La testa gli pulsava e sentiva la

stanchezza impossessarsi del suo corpo.

«Ehi, tutto bene?» gli chiese Jimmy.

Eric gli rivolse soltanto un cenno col

capo, ma non disse nulla.

«Mi dispiace che tu non abbia

ottenuto le informazioni che cercavi.

Continueremo a indagare, troveremo chi

sono A e L.»

«Forse ha ragione il professor

Haufmann» replicò Eric. «È meglio che

inizi ad accettare che non scoprirò mai

chi sono.»

«Ehi, tu lo sai chi sei. Non dipende

da questo. Mettitelo in testa. Oggi non è

stato certo un giorno facile per te. Forse

la cosa migliore ora è che torni a casa e

ti riposi.»

Eric annuì.

All’interno

della

villa,

Haufmann

rifletteva appoggiato allo stipite nella

sala dove pochi minuti prima si

trovavano Eric e Jimmy. Ripensava alla

scena cui aveva appena assistito e alla

reazione impulsiva di Eric. C’era

qualcosa che non lo convinceva, che non

lo aveva convinto dall’inizio. Ed era

certo di sapere cosa fosse. In più c’era

quel biglietto che sembrava finalmente

ricondurre al loro posto tutti i pezzi del

puzzle.

Fece qualche passo e si spostò verso

il tavolino dei liquori. Si versò un dito

di rum e ne bevve un sorso.

Alzò lo sguardo verso la parete. Sì,

ne era certo. Eric nascondeva ancora un

segreto.

Qualcosa

che

avrebbe

sconvolto ancora di più la sua vita.

Capitolo 22

Seduta sul letto in camera sua, Sophie

cercava di concentrarsi sul libro che

aveva davanti, ma in realtà attendeva

impaziente di sentire il rumore della

moto di Eric rallentare sul selciato del

giardino.

Non si era fatto sentire tutto il giorno,

né aveva risposto alle sue chiamate. La

stava evitando? C’entravano quegli

strani discorsi che le aveva fatto?

“Ci sono cose che riesco a fare, cose

a cui non so dare una spiegazione”

aveva detto. A cosa si riferiva?

Possibile fosse tutto vero? In effetti, lei

stessa non riusciva a dare una

spiegazione logica a ciò che gli aveva

visto fare.

Orion entrò nella stanza e si avvicinò

ai suoi piedi.

«Da quando hai il permesso di salire

fin quassù? Scendi subito, o papà mi

ammazzerà se rompi qualcosa e poi

ammazzerà te.»

Si voltò e afferrò l’iPhone sul

lenzuolo. Sbirciò il display e sbuffò.

«Dici che mi chiamerà?»

Fissò nuovamente lo schermo del

telefono e lesse l’ora. Erano quasi le

undici di sera, Luther non era ancora

rientrato. Ultimamente i suoi ritardi a

lavoro si stavano facendo sempre più

frequenti e, soprattutto, sempre più

lunghi. Non ricordava periodi in cui

fosse così poco a casa. Senza suo padre

e data la presenza ormai rarissima di sua

madre,

quella

casa

le

sembrava

tremendamente vuota. Si preparò al

consueto rituale che faceva quando suo

padre tardava a rientrare la sera. Scese

le scale e chiuse la porta di casa con una

doppia mandata. Sfilò la chiave dalla

serratura per permettere al padre di

usare la propria ed entrare senza

doverla svegliare.

Prese il cellulare e digitò sulla

tastiera.

Buonanotte papà

A domani

Sophie

Orion le gironzolava ancora tra i

piedi.

«Su, è ora di andare a nanna anche

per te.»

Si voltò per risalire le scale, ma

venne fermata da Orion che ringhiava

alle sue spalle. Si voltò a osservarlo.

Orion era ancora davanti alla porta e

digrignava i denti nervosamente. Col

muso cercava di annusare sotto la porta

e di infilare la zampa nell’angusto

spazio sottostante.

Sophie corrugò la fronte e tornò

lentamente sui suoi passi. Un pensiero le

balenò alla testa.

Guardò dallo spioncino ed ebbe un

sussulto quando vide una sagoma oltre la

porta, ma immediatamente la sua

espressione di paura si tramutò in un

sorriso. Infilò velocemente la chiave e

aprì la porta.

«Non si usa più bussare?» chiese con

una nota evidente d’ironia.

Eric era in piedi un passo oltre

l’uscio, con le mani in tasca e il

cappuccio della felpa tirato, come suo

solito, sulla testa. Appena le sorrise,

Sophie lo abbracciò.

«Scusami, non volevo spaventarti»

disse Eric.

«Non mi hai spaventata, se non fosse

stato per Orion, neanche ti avrei

sentito.»

Allentò l’abbraccio e lo guardò. I

suoi occhi splendevano riflettendo la

poca luce della sera, ma il suo sguardo

era diverso. All’interno leggeva una

strana sensazione di pace, come se

l’inquietudine che lo accompagnava

sempre si fosse dissolta.

«È tutto okay?» gli chiese.

Eric annuì.

«Non ci crederai, ma sono stato tutto

il giorno con Jimmy.»

«Con Jimmy?» strabuzzò gli occhi

per la sorpresa.

«Non mi avevi detto tu che avrei

dovuto frequentarlo di più?»

«Sì, beh, non mi aspettavo mi

prendessi così alla lettera. Ma.. .cosa

avete fatto? Dove siete sta...?»

«Shhh...»

Le appoggiò delicatamente l’indice

sulle labbra.

«Ora non voglio parlarne. Ti

racconterò tutto, poi... Ora voglio solo

baciarti.»

Fece un passo e superò l’ingresso. Le

cinse la vita con una mano, la tirò a sé e

la baciò. Sophie ebbe per un attimo

l’istinto di fermarlo e di dire qualcosa,

ma dalle sue labbra non uscì alcun

suono. Chiuse gli occhi e lasciò che Eric

le scostasse i lunghi capelli e le

accarezzasse dolcemente il collo. Le sue

labbra erano morbide e calde. Sophie

chiuse gli occhi e assaporò la

sensazione della bocca che si staccava e

riprendeva contatto con le sue labbra.

Ogni volta che i loro volti si toccavano,

provava un brivido profondo.

Lo strinse a sé e gli accarezzò la

testa. Scivolarono silenziosamente in

camera e poi sul letto. La luce tenue

della lampada sul comodino inondava la

stanza di un rosso caldo e soffuso.

Scostò sul bordo del letto il libro che

aveva lasciato al centro della coperta e

si adagiò distendendo la schiena. I loro

corpi si avvolsero in un abbraccio.

Sophie chiuse gli occhi e lasciò che le

mani di Eric le accarezzassero il corpo,

scivolando delicatamente sotto i vestiti.

Eric fece scorrere le dita sulla pelle

liscia, seguendo le linee sinuose del suo

corpo. L’odore d i Sophie lo inebriava e

lo mandava in estasi. Non riusciva più a

pensare, i sensi presero rapidamente

possesso della sua mente. La baciò

nuovamente stringendo il suo volto tra le

mani. Le sfilò i vestiti e li gettò per

terra. Per un attimo credette di essere

sull’orlo di perdere il controllo.

Tornò a posare le labbra sul collo di

Sophie, sfiorando la sua pelle nuda giù

fino al ventre. Eric la sentì tremare, i

muscoli si irrigidirono mentre tratteneva

il respiro. Poi la tensione sparì e il suo

corpo tornò a rilassarsi.

Sophie aprì gli occhi ed esplorò il

viso di Eric. I suoi occhi brillavano di

una luce mai vista. Nonostante la foga,

dentro al suo sguardo non vide nulla di

cui avere timore. Il suo viso era

splendido e nei suoi occhi poteva

leggere solo passione, pura e autentica.

Passò le mani sulle sue braccia. I

bicipiti definiti che la cingevano ai lati

risaltavano ancora di più in quell’atto di

tensione. Ogni suo movimento nasceva

in un impeto aggressivo, ma fluiva in un

gesto dolce e delicato, come se si

controllasse per non farle del male.

Sentì l’eccitazione crescere dentro di sé

fino a diventare insostenibile. Si

abbandonò completamente e lasciò il

suo corpo preda delle sensazioni.

Afferrò i capelli di Eric tra le dita e

spinse la testa più giù tra le sue gambe.

Un brivido le inondò tutto il corpo dai

piedi alle spalle e gemette per il piacere

mordendosi le labbra.

Girò su sé stessa lentamente e lasciò

che lui scivolasse sotto di lei. Si mise a

cavalcioni e si chinò su di lui fino a

sussurrargli all’orecchio.

«Ti amo» gli disse, mentre il piacere

li avvolgeva e i loro corpi diventavano

una cosa sola.

Capitolo 23

Eric si destò di scatto e aprì gli occhi.

Dalla finestra filtrava la debole luce dei

lampioni. Era ancora notte fonda, non

dovevano essere passate più di un paio

d’ore da quando aveva bussato alla

porta di Sophie.

Guardò di fianco a sé: Sophie

dormiva placida, avvolta nel lenzuolo e

abbracciata al cuscino. Eric rimase per

alcuni istanti immobile ad ascoltare il

suo respiro. Il suo sguardo si perse sul

corpo sinuoso che aveva accanto e la

sua mente si allontanò. Iniziò a riflettere.

Possibile?

Quel

pensiero

non

lo

aveva

abbandonato per tutto il tempo e si

rifiutava di lasciare la sua mente.

Senza fare rumore, scivolò fuori dal

letto e si rivestì. Uscì di casa e

ripercorse velocemente lo stesso tragitto

affrontato poche ore prima. Camminava

a passi svelti, sentendo montare, metro

dopo metro, una crescente eccitazione.

Con ansia, aveva ripensato a quel

particolare dal momento in cui si erano

congedati dal professor Haufmann.

Aveva

continuato

ad

arrovellarsi,

cercando di scacciare il pensiero che si

rifiutava di lasciare la sua mente e

bussava insistentemente dentro di lui.

Sarebbe tornato alla villa, per forza.

Doveva sapere. Sciogliere i dubbi che

ancora covava nella sua mente. Sentiva

che c’era di più, qualcosa che Haufmann

non aveva detto a lui e a Jimmy.

Qualcosa che avrebbe fatto luce su

alcuni aspetti che ancora non trovavano

risposta nelle spiegazioni ricevute.

Proseguì lungo il marciapiede che

costeggiava il bordo del parco, fino

all’isolato successivo. Accelerò il passo

e attraversò la strada. Quando vide la

villa in lontananza, avvertì la pelle

d’oca sulle braccia.

La struttura si stagliava davanti a lui

imponente nell’oscurità della notte. Da

quando aveva ascoltato i racconti sugli

elfi quel pomeriggio, gli sembrava

assurdo che quella villa, così in vista in

mezzo alla città, custodisse segreti

antichi di secoli, forse millenni.

Si avvicinò al cancello, oltre il quale

si estendeva il sentiero di pietre che

conduceva alla porta d’ingresso. Questa

volta non suonò per farsi aprire. Svoltò

a sinistra e percorse lateralmente l’alto

muro di cinta, alle cui estremità si

ergevano gli spuntoni in ferro. Giunto in

un punto più riparato dagli alberi, si

fermò e osservò attentamente attorno a

sé, per accertarsi che nessuno passasse

in quel momento. La notte giocava a suo

favore, in giro per le strade non c’era

anima viva. Piegò leggermente le gambe

e saltò in alto. Aggrappatosi agli

spuntoni di ferro, si sollevò sul muro di

cinta. Osservò l’esterno dell’abitazione.

Tutte le luci erano spente. Erano

trascorse alcune ore da quando lui e

Jimmy si erano allontanati dalla villa. Si

chiese se Haufmann, nonostante tutto,

fosse ancora sveglio.

Esitò, incerto se proseguire nella sua

ricerca. Quello che stava commettendo

era, a tutti gli effetti, un reato. Se lo

avessero

scoperto,

cosa

avrebbe

raccontato? Era rischioso, ma ormai era

arrivato fin lì e doveva andare fino in

fondo.

Scrutò il giardino, rischiarato solo

dalla flebile luce della luna. Il cane da

guardia di Haufmann questa volta non

era entrato in azione correndogli

incontro, come aveva fatto con Jimmy,

ringhiando per difendere il territorio.

Strano, dovrebbe aver avvertito la

mia presenza.

Annusò l’aria per percepirne l’odore.

Nulla.

Forse Haufmann lo ha fatto entrare

in casa.

Tutto era fermo, il silenzio copriva

ogni cosa. Esaminò ancora la situazione

e scivolò giù dal muro, sull’erba

asciutta. Percorse velocemente il tratto

scoperto del giardino, fino a giungere al

primo grosso albero, sul quale saltò

nascondendosi tra le fronde. Acuì

l’udito. Ancora nessun rumore. Scattò

verso la villa e giunse alla porta

dell’abitazione. Non sembrava una

buona idea provare a forzare l’ingresso

principale.

Decise

di

aggirare

l’abitazione in cerca di un’entrata

alternativa, anche se non aveva idea di

dove potesse essere. Le finestre del

pianterreno erano sbarrate da spesse

inferriate, impossibili da manomettere.

Alzò lo sguardo. Al primo piano le

finestre non avevano grate di ferro, ma

erano chiuse.

Girò sul retro della villa e sollevò

nuovamente gli occhi. Su quel lato della

casa, al piano superiore, svettava isolata

la finestra della mansarda. Era aperta.

Devo salire lassù!

Guardò ai lati, ma su tutta la parete

non vide nulla che gli consentisse di

arrampicarsi fino in cima. Nessuna

grondaia, né mattonelle sporgenti per

tentare di scalare la parete. Misurò con

lo sguardo la finestra, valutandone la

distanza dal suolo. Erano quasi dieci

metri. Sebbene non fosse certo di

riuscirci, decise che non aveva altra

scelta. Doveva provare.

Indietreggiò di alcuni metri e si voltò

da entrambi i lati, per controllare se

qualcuno lo stesse osservando. Chiuse

gli occhi e trasse un lungo respiro.

Appena li riaprì, accelerò con tutta

l’energia che aveva in corpo. Quando fu

a pochi metri dal muro, le sue gambe

scattarono come molle in avanti e spiccò

un balzo verso l’alto, tendendo le

braccia il più possibile per avvicinarle

al cornicione della finestra. Prima di

raggiungerla, però, la sua spinta si

affievolì e i suoi polpastrelli sfiorarono

appena il cornicione. Colto di sorpresa,

non controllò la discesa e cadde

violentemente a terra sulla ghiaia.

Si rialzò dolorante alla schiena e alle

braccia per il duplice colpo ricevuto.

Alzò lo sguardo verso la finestra. Quel

balzo era fuori portata anche per le sue

abilità. Doveva trovare un altro modo

per entrare.

Si guardò intorno, cercando un punto

d’ingresso più accessibile. Ripercorse

l’intero perimetro dell’abitazione. Passò

sotto le finestre con le inferriate e giunse

di fronte all’ingresso principale. Fece

per proseguire dal lato opposto, quando

si accorse di un particolare che prima

gli era sfuggito. La porta principale, che

in precedenza gli era apparsa chiusa, era

in realtà solo accostata.

Aggrottò la fronte, stupito per quella

che appariva come un’impensabile

imprudenza da parte di Haufmann. Per

un istante temette che fosse accaduto

qualcosa di grave al professore.

Osservò attentamente la serratura.

Non sembravano esserci segni di

forzatura. Per quanto apparisse assurdo,

Haufmann doveva averla dimenticata

aperta.

Si voltò, ancora una volta, per

accertarsi di essere solo. Tutto nel

cortile sembrava tranquillo. Sentì la

tensione crescere in lui e deglutì.

Tremante, spinse la porta che si apriva

verso l’interno ed entrò. All’interno le

luci erano spente. Tutto appariva in

perfetto ordine. Si spinse al centro

dell’ampio

ingresso,

appoggiando

delicatamente i piedi sul parquet lucido.

Di fronte a lui, si trovava la scala che

conduceva alle stanze da letto al piano

superiore. Prestando attenzione a non

fare il minimo rumore, svoltò a destra e

imboccò lo stretto corridoio che

conduceva allo studio dove lui e Jimmy

avevano ascoltato il racconto di

Haufmann, quel pomeriggio.

Sostò un istante fuori dalla porta.

Ebbe la sensazione che ciò che stava per

scoprire avrebbe cambiato la sua vita,

più di quanto non lo avessero già fatto le

rivelazioni delle ultime ore.

Delicatamente posò la mano sulla

maniglia della porta in vetro e spinse in

avanti. La stanza, come tutto il resto

della casa, era avvolta nel buio.

Entrambe le finestre, sulla parete destra,

erano coperte da spesse tende e nessun

bagliore

filtrava

dall’esterno.

All’improvviso realizzò che Jimmy non

aveva fatto alcun cenno della capacità di

vedere al buio. Perché?

Fece qualche passo all’interno della

stanza e si voltò a destra. Si avvicinò

alla piccola nicchia. Di fronte a lui,

appeso alla parete, c’era il quadro che

aveva attirato la sua attenzione qualche

ora prima. Si trovava faccia a faccia col

dipinto. Lo osservò con cura. La strana

creatura

raffigurata

era

vestita

completamente di nero e sedeva

altezzosa su un trono di pietra d’onice.

Aveva sembianze umane, eccezion fatta

per

le

orecchie,

esageratamente

accentuate, che terminavano a punta. I

capelli lunghi, di un bianco purissimo,

erano l’unica nota di luce della tela.

Eric non riusciva a cogliere pienamente

il simbolismo contenuto nel dipinto, ma

era convinto nascondesse più di quanto

Haufmann avesse voluto rivelare. Drow,

così lo aveva chiamato il professore. Un

elfo oscuro.

La

creatura stringeva nella mano

destra una freccia spezzata. Le iridi

erano completamente nere, ma attorno

alle

pupille

riusciva

a

vedere

chiaramente

una

corona

circolare

luminosa. Nella sua mente riaffiorarono

di colpo gli occhi del suo incubo.

Sullo sfondo era disegnato un cielo

plumbeo al cui centro si stagliava una

luna marmorea, come a voler indicare la

natura notturna di quella creatura.

Eric sentì nascere dentro di sé un

sentimento arcano, che affondava le

radici direttamente nel profondo della

sua anima. Quella figura avrebbe

intimorito chiunque, non lui. La sentiva

inspiegabilmente parte di sé.

Non è possibile.

Il cuore iniziò a palpitare, mentre una

convinzione si faceva strada dentro di

lui.

Assorto nella visione del dipinto,

Eric non avvertì la presenza alle sue

spalle.

«Sapevo che saresti tornato.»

La luce della stanza si accese ed Eric

si voltò di scatto. La figura del professor

Haufmann affiorava sulla soglia dello

studio, appoggiata alla porta. Per un

attimo rimasero entrambi in silenzio.

Eric ansimava, i suoi respiri si fecero

lenti e profondi. Poi, piegando la paura

per le stesse parole che stava per

pronunciare, si lasciò andare alla

terribile verità che nutriva dentro di sé.

«Sono uno di loro.»

Haufmann trasse un profondo respiro

e annuì.

«Sì, Eric» disse «sei un elfo oscuro.

Un drow.»

Capitolo 24

Eric rimase impietrito di fronte alle

parole del professore. Lo fissò per un

lungo istante, poi si voltò di nuovo verso

il dipinto. Haufmann poteva percepire

sul suo viso tutto lo stupore per quella

rivelazione.

«Dunque

non

sono

solo

una

leggenda?»

Il professore scosse la testa.

«No, non lo sono. Esistono e tu ne sei

la prova.»