sul muretto del parco, si era sentita al
settimo
cielo.
Una
sensazione
paradisiaca, come se tutta la felicità del
mondo si fosse concentrata dentro di lei
in quel momento. Con suo grande
rammarico, quella sensazione non si
sarebbe mai ripresentata con nessun
ragazzo successivo.
Fino a quel momento.
Quando Eric le aveva chiesto di
uscire, l’emozione che aveva provato
l’aveva riportata indietro nel tempo a
quella prima uscita. Si era sentita felice
come non lo era da tanto tempo.
Continuava a tornare con la mente
alla sera prima e a chiedersi come
avesse fatto a trovare l’uscita in quella
bolgia. Il fisico atletico aveva fatto la
sua parte, ne era certa, ma alcune cose
di lui rimanevano avvolte nel mistero.
Di notte le sue pupille sembravano
brillare da sole e le era parso che fosse
più a suo agio al buio che alla luce.
E poi c’era quel suo modo di parlare.
Aveva il potere di stregarla. Non
importava cosa dicesse o quanto fosse
interessante l’argomento, quel che era
assurdo era come riuscisse a tenere
incollata l’attenzione su di lui. Le
succedeva talvolta anche con Jimmy.
Proprio col suo migliore amico avrebbe
voluto condividere quelle sensazioni, se
solo non fosse stato così diffidente nei
confronti di Eric. Più di una volta Jimmy
aveva mostrato di non provare simpatia
per quel ragazzo, entrato dal nulla nella
loro vita. Doveva essere la solita
“gelosia protettiva” di Jimmy, quando
qualcuno non gli piaceva. Gli avrebbe
fatto cambiare idea. Era anche per quel
motivo che aveva accettato di uscire con
Eric quella sera, per dimostrare a Jimmy
che poteva fidarsi.
E lei si fidava? Non ne era certa fino
in fondo. Le serviva tempo.
Basta con tutti questi pensieri! si
disse. Da quel momento in poi avrebbe
spento l’interruttore della sua mente e si
sarebbe goduta la serata.
Eric ancora non si vedeva. Decise
che nell’attesa avrebbe fatto due passi
nella piazza. Alcuni negozi esponevano
ancora il cartello di apertura e così si
spinse fin sul lato opposto per osservare
le vetrine. Il primo negozio di cucina
non la catturò particolarmente, proseguì.
Il secondo era un vecchio negozio di
animali. Si avvicinò al vetro, dove un
cucciolo di Pinscher le si fece incontro,
posando
la
zampa
sulla
lastra
trasparente. Sophie finse di accarezzare
la testolina dell’animale e passò oltre.
Il terzo negozio non lo ricordava.
Doveva essere nuovo. Era una libreria
particolare che sembrava trattare un
unico genere: fantasy. Osservò i vari
titoli esposti. Guerre tra draghi e nani
popolavano l’ottanta per cento dei
romanzi.
Non fa per me.
Il cellulare vibrò nella borsa. Forse
era Eric che la avvertiva di essere in
ritardo. Non il massimo per un primo
appuntamento. Lesse il nome sul
display: Vicky.
Probabilmente la stava chiamando
per avere gossip sull’appuntamento del
secolo, come lo aveva definito. Rispose.
«Ciao, Vicky.»
«Ehilà,
principessa!
Come
sta
andando col bel Principe tenebroso?»
«La principessa è ancora sola ad
aspettare...» borbottò Sophie.
«Non è ancora arrivato?» chiese
Vicky sorpresa.
«No.»
«Uhm... magari ha cambiato idea»
disse ridendo. «Beh, meglio per me,
vuol dire che ho ancora una chance.»
Sophie scosse la testa, abituata
all’umorismo di Vicky.
«Grazie, sei proprio di conforto.
Ricordami di chiamarti la prossima
volta che ho bisogno di sostegno.»
«Ma dai, sto scherzando. Non ti
preoccupare, vedrai che arriverà. Avrà
solo trovato traffico.»
«Speriamo.»
«Tu sei tranquilla?»
«Non so. Dici che ho accettato troppo
in fretta?»
«Da quando ti fai rimorsi quando
devi uscire con un ragazzo?»
«Non lo so, è solo che è così...
strano.»
«Beh, più stronzo del tuo ex è
difficile. Quindi...»
«Oggi sei proprio di aiuto...»
«Faccio quel che posso. Mandami un
messaggio più tardi, voglio sapere cosa
succede.»
Sophie chiuse la telefonata e attese
ancora venti minuti, facendo avanti e
indietro sul marciapiede.
Guardò
l’orologio.
Le
lancette
avevano compiuto un giro completo da
quando era arrivata.
Ormai ne era certa. Eric non si
sarebbe
presentato
al
loro
appuntamento.
Capitolo 13
I giorni seguenti passarono velocemente.
Sophie e Jimmy assistettero a tutte le
lezioni, senza il consueto buonumore che
riempiva le loro giornate. Sophie
osservava fino all’ultimo studente che
varcava la porta dell’aula, in attesa di
veder apparire Eric. La collera per
l’appuntamento mancato non accennava
a placarsi, ma iniziava a mischiarsi col
desiderio di rivederlo. In quei giorni,
però, di Eric non v’era traccia.
Sophie ascoltava le lezioni in
silenzio e con lo sguardo perso nel
vuoto. Non aveva voglia di parlare,
Jimmy lo aveva intuito subito dal suo
sguardo corrucciato. Sophie aveva
accuratamente evitato di raccontargli
dell’appuntamento mancato, ci mancava
solo che ci si mettesse anche lui, con le
sue prediche e i suoi “te lo avevo detto
io che quel ragazzo non faceva per te”.
Meglio lasciar passare un po’ di tempo.
Era nera di rabbia, per quanto cercasse
di controllare le sue emozioni. Quando
Jimmy aveva provato a chiederle cosa
avesse, Sophie aveva semplicemente
scosso la testa ed era tornata a fissare la
lavagna, dove il professor Haufmann
stava tratteggiando alcune linee che
iniziavano a formare uno strano schema
evolutivo.
«Ogni specie possiede un proprio
patrimonio genetico che muta nel corso
del tempo» esordì Haufmann. «Sin dai
primordi, la terra ha visto processi di
mutazione genetica e selezione naturale
degli esseri viventi derivanti dagli
adattamenti del corpo alle condizioni di
vita esterne. La morfogenesi della
specie, ossia tali mutamenti del corpo e
dei suoi organi, non dipende però solo
dall’ambiente, ma è strettamente legata
anche alla sociogenesi, vale a dire la
formazione della società e dei rapporti
tra gli esseri viventi. Morfogenesi e
sociogenesi sono, quindi, le due facce di
una stessa medaglia. Per questo la
distinzione tra forma del corpo e società
nella realtà non ha senso di esistere. In
altre parole siamo di fronte a due
concetti inscindibili e interdipendenti
che appartengono ad una sola entità: la
specie.»
«Mi
scusi
professore»
aveva
interrotto uno studente nelle prime file,
alzando la mano «sta quindi dicendo che
il nostro corpo si modifica nel corso del
tempo in base al contesto sociale in cui
viviamo?»
«Esattamente, non può prescindere da
esso. La nostra faccia, il nostro fisico,
tutto muta adattandosi a ciò che abbiamo
attorno, e progredisce seguendo le teorie
dell’evoluzione di Darwin e i suoi
successivi sviluppi.»
«Questo dunque spiega perché nel
mondo moderno, che è un contesto iper-
competitivo, con un’altissima densità di
individui, esistono ragazze così belle e
incredibilmente sexy?» Tutti risero e il
ragazzo, tornando serio, aggiunse: «È un
processo evolutivo volto ad aggiudicarsi
i migliori soggetti maschi con cui
procreare per la prosecuzione della
specie.»
«Non nego sia una teoria con un certo
fascino,
sarebbe
interessante
approfondirla. Immagino che lei sarebbe
disponibile per lunghe sessioni con gli
esemplari da lei citati per... un’accurata
fase di raccolta di informazioni: numeri
di telefono, foto...»
L’intera aula rise ancora. L’atmosfera
di ilarità rimase fino a quando il
professore tornò serio e riprese la
lezione.
Sophie si sforzò di mantenere la
concentrazione, ma le parole del
professor
Haufmann
entravano
e
uscivano dalla sua mente senza fermarsi.
Quando la lezione terminò, Sophie si
alzò velocemente dalla sedia e si avviò
verso l’esterno a passi svelti.
«Ti va se ti accompagno a casa?» le
chiese Jimmy. «Magari ordiniamo del
sushi e mangiamo sul letto.»
Sophie abbozzò un sorriso.
«Grazie, ma non mi va molto. Ho
voglia di starmene un po’ da sola.»
«Come vuoi. Ma chiamami se ti va di
fare quattro chiacchiere, okay?»
Sophie annuì, ma non disse nulla.
Accennò un altro sorriso e abbracciò
Jimmy con forza. Si voltò e si diresse a
piedi verso casa.
Quella notte dormì solo a tratti ed
ebbe un incubo.
Camminava a passo lento guardinga.
Era buio. La strada che percorreva era
deserta e, per quanto si sforzasse, non
riusciva a vederne la fine. Intorno a lei
solo palazzi fatiscenti e cumuli di
immondizia. Stringeva nella mano destra
un arco e nella sinistra una freccia.
Aveva paura, ma non avvertiva il
bisogno di scappare. Sapeva perché: era
lei a inseguire qualcuno. Qualcuno che
continuava a sfuggirle. Riusciva a
scorgere un’ombra che compariva e
scompariva a intermittenza tra gli
anfratti delle case decadenti. E una
risata familiare echeggiava nella sua
testa. Ad un tratto l’ombra uscì allo
scoperto e, in un attimo, fu di fronte a
lei. Due occhi di ghiaccio la fissavano.
Le pupille erano dilatate quasi a coprire
tutta l’iride. All’interno riusciva a
scorgere uno strano bagliore circolare,
simile all’alone di luce di un eclissi
lunare. Era infuriata. Doveva colpirlo se
voleva che non le facesse più del male.
Tese l’arco e scoccò la freccia. La
freccia attraversò l’ombra come fosse
nebbia nera, senza affondare nella carne.
Vide l’ombra ridere e la risata si
espanse rapidamente intorno a lei.
Qualcuno le afferrò il polso e iniziò a
trascinarla. Voleva divincolarsi, ma non
poteva. Strisciava sull’asfalto e sentiva
un dolore pungente al polso. Si accorse
che era l’ombra a tirarla. La condusse
fino alla fine della strada, dove il buio
terminava e iniziava il giorno. Alla luce,
l’ombra scomparve lasciandola lì, sola.
Una
sensazione
di
sconforto
e
abbandono la assalì.
Si svegliò. Rimase immobile nel letto
a guardare il soffitto per qualche
secondo.
Aveva
ancora
addosso
l’angoscia dell’incubo appena fatto. Si
girò, la sveglia segnava impietosa le
5:54. Era ancora presto, ma non aveva
più voglia di dormire. Doveva scaricare
la tensione accumulata in quei giorni.
Scese dal letto, infilò pantaloncini e
maglietta e strinse con vigore i lacci
delle scarpe da ginnastica. Prese l’iPod,
indossò gli auricolari e schiacciò il tasto
play: “You saved me – Skunk Anansie.”
Proprio quello che ci voleva, ironizzò
tra sé e sé.
Uscì di casa. Appena fuori, Orion le
si fece incontro scodinzolando. Sophie
si abbassò e gli accarezzò il muso.
«Mattiniero anche tu oggi, che ne dici
di accompagnarmi?» Orion abbaiò e
Sophie lo interpretò come un sì. «Allora
andiamo» disse e iniziò a correre.
Quel sabato era il giorno della prima
partita di football dell’anno. I Raiders
69rs, fiore all’occhiello sportivo della
Dorton, si giocavano il record di
imbattibilità casalinga, lungo un anno
intero, contro l’Università di Portville.
L’evento era di quelli più attesi da
tutta
la
popolazione
universitaria,
compreso Jimmy. Anche Sophie, per
quanto non appassionata di football, era
entusiasta
di
partecipare.
Era
l’occasione per svagarsi e pensare ad
altro. Il divertimento era assicurato.
«Quest’anno Steve Curtell sembra
ancora più in forma della scorsa
stagione» gridò Ted rivolto a Jimmy.
«Se continua così il titolo non ce lo
toglie nessuno.»
«Bah, per me con la squadra che si
ritrova, è impossibile toppare una gara.
Il quarterback potrebbe farlo persino
Sophie, vero Sanfront?!» Jimmy le
abbassò sulla fronte il cappellino blu e
giallo dei Raiders che Sophie indossava
sempre durante le partite.
«Credo che il ruolo di quarterback
sia quello che più mi si addice, io sto
ferma e lancio la palla e tutti gli altri
corrono a prenderla, giusto?» Sophie
alzò le sopracciglia, non completamente
convinta di quello che aveva appena
detto.
Ted e Jimmy esplosero in una
fragorosa risata.
«Così non ti stanchi e sei bella
sveglia per la parte più interessante.»
Tutti e tre si girarono verso Vicky non
capendo cosa volesse dire.
«Intendo il dopo partita: ragazzi che
si spogliano... a torso nudo... sotto la
doccia... uhm...»
«Vicky!» Sophie le mise una mano
sulla bocca per farla tacere e tutti e
quattro scoppiarono a ridere.
La partita iniziò e, come da copione,
i Raiders passarono in vantaggio dopo
pochi minuti, grazie a una meta ispirata
dal solito Steve Curtell. Dagli spalti si
levarono le grida di incitamento del
pubblico «Cur-tell! Cur-tell!»
L’unica a non pronunciare quel nome
fu Sophie, poteva fare il tifo per i
Raiders, ma per Steve proprio no, non ci
riusciva.
Nei minuti seguenti arrivarono ancora
un paio di touchdown per la squadra di
casa, poi il secondo quarto terminò.
«Vado a prendere degli hotdog, chi
ne vuole?» disse Jimmy alzandosi in
piedi.
Ted lo tirò per la maglia per
riportarlo a sedere. «Momento sbagliato
per andare a prendere da mangiare» e
con un cenno del capo indicò il campo,
dove avevano appena fatto il loro
ingresso sette esuberanti e biondissime
cheerleaders.
«Non
so
perché,
ma
sento
improvvisamente il bisogno di rimanere
seduto» scherzò Jimmy.
«Voi uomini ... » sbuffò Sophie
«sempre uguali, vi basta vedere una
criniera bionda e non capite più nulla» e
con lo sguardo fulminò prima Ted, poi
Jimmy.
«Tranquilla, Sophie» disse Ted «gli
uomini preferiscono le bionde, ma
sposano le more» e le fece l’occhiolino.
«E vanno a letto con le rosse»
aggiunse Jimmy divertito.
«Toccherà tingermi i capelli allora»
intervenne Vicky.
Tutti e quattro risero di gusto.
In quel momento la borsa di Sophie
iniziò a vibrare. Sophie ripescò il
cellulare sepolto all’interno e guardò il
numero che lampeggiava sul display.
«È mia madre» disse rivolta a Vicky
«finalmente si è ricordata di avere una
figlia. Pronto, mamy?»
La comunicazione era disturbata.
«Al diavolo questo cellulare, non
prende. Provo a spostarmi. Voi rimanete
qui.»
Jimmy e Ted già non la ascoltavano
più, Vicky annuì e Sophie si alzò
lasciando i ragazzi a godersi le
acrobazie delle cheerleaders.
Quel maledetto cellulare non voleva
saperne di agganciarsi alla linea. Scese
le scale e si allontanò ancora un po’
dalla tribuna, spingendosi fino a dove le
luci
degli
enormi
riflettori
si
affievolivano.
Compose nuovamente il numero dalla
rubrica, invano. La linea continuava a
mancare. Fece qualche passo verso il
parco. Forse lì avrebbe avuto più
fortuna.
Le mancò il fiato quando alzò gli
occhi e si trovò di fronte lui. Eric
sembrava un fantasma tra le ombre degli
alberi. Era in piedi a pochi passi da lei,
appoggiato ad un grosso tronco e la
fissava.
Pareva
mimetizzarsi
completamente con l’oscurità della
notte. Gli occhi, come la prima volta che
lo aveva visto all’esterno del Rifugio,
riflettevano in maniera innaturale la
fioca luce che arrivava. Sembravano
davvero gli occhi di un felino.
«Eric?» disse a voce alta. «Sei tu?»
Non ricevette risposta e si avvicinò
con cautela. Quando gli fu vicino, lui la
stava ancora fissando impassibile. Lei
ricambiò con lo stesso sguardo. Deglutì
con difficoltà per la tensione. Inspirò
profondamente e si decise a parlare per
prima.
«Bel comportamento, complimenti»
disse. Nonostante il tono fosse ironico,
era furente.
«Bastava una telefonata, anche solo
un messaggio. Se non volevi vedermi
potevi dirmelo subito, senza farmi
rimanere per un’ora ad aspettarti come
una stupida, da sola, davanti a un palo
della luce...»
«Mi dispiace» rispose, rabbuiandosi
in viso.
«Dispiace anche a me» replicò lei.
Aspettò che lui dicesse qualcos’altro,
che provasse a giustificarsi per il suo
comportamento, ma l’attesa fu vana.
«Non mi vuoi nemmeno dire perché
sei scomparso così?»
Eric continuò a fissarla senza parlare.
«Mi sono già scusato» mormorò lui.
Sophie scosse la testa.
«Sai che c’è? Non m’importa, perché
non intendo rivederti più» disse e fece
per voltarsi e tornare da dove era
venuta.
«E
allora
perché continui
a
parlarmi?» chiese lui bloccandola
immediatamente. La sua voce era
cambiata.
Sophie si voltò e rimase in silenzio,
con lo sguardo ancora glaciale.
«Perché ci tenevo a mettere in chiaro
le cose. Non mi faccio trattare così, da
nessuno. Specialmente da uno che
conosco appena.»
Eric la ascoltava senza staccare lo
sguardo dai suoi occhi. Sophie sentì
salire una strana sensazione. Per qualche
ignoto motivo, sentiva che stava
perdendo
il
controllo
della
conversazione. Aveva timore a lasciarlo
parlare. Qualcosa nel suo aspetto, nel
suo profumo, la stava irretendo,
lasciando svanire la rabbia che aveva
provato nei suoi confronti fino a un
minuto prima.
Con uno sforzo incredibile provò a
mettere fine al dialogo.
«Peccato, ti credevo diverso. Lo
avevo sperato, in realtà. Davvero. La
prima volta che ti ho visto ho pensato
che non fossi come tutti gli altri ragazzi.
C’era qualcosa in te... ma è ovvio che
mi sbagliavo.»
Mentre lo diceva voltò di nuovo la
testa o almeno credette di farlo, perché
lui era già ad un palmo da lei e le
sussurrava a pochi centimetri dal volto:
«Se fosse così te ne saresti andata un
momento dopo avermi visto da lontano.
Se sei ancora qui c’è un motivo» la sua
voce aveva assunto un tono minaccioso.
«Quale?» disse con tono di sfida.
Eric fu sul punto di rispondere,
invece chiuse gli occhi e respirò
profondamente. Quando li riaprì, il suo
sguardo era cambiato e il furore
scomparso.
«Dammi un’altra possibilità.»
«Un’altra possibilità per cosa?»
«Per rivederti.»
«Perché dovrei?»
«Perché lo vuoi.»
Sophie
sembrò
vacillare.
La
sicurezza con cui le aveva detto quelle
parole la colse di sorpresa. Era come se
sapesse per certo che era così. E in
effetti lo era.
«Cosa ne sai tu di cosa voglio io?»
«So che dal primo momento che ci
siamo visti, non hai più saputo pensare
ad altro. Come me.»
Si soffermò sulle ultime parole.
Come me. Se anche lui desiderava stare
con lei, allora perché non si era
presentato? Era confusa.
«Non puoi piombare qui così e
stravolgermi la vita a tuo piacimento.»
«Non voglio stravolgere nulla. Ti sto
solo chiedendo di uscire.»
Sophie restò immobile senza fiatare,
indecisa se cedere.
«Questa volta sarà diverso» aggiunse
Eric «fidati di me.»
Fidarsi. Non era esattamente la prima
cosa che avrebbe voluto sentirsi dire da
un ragazzo. La fiducia è preziosa, non
voleva regalarla a nessuno. Nemmeno a
un ragazzo attraente in ogni senso come
Eric. Sophie sospirò, come sconfitta nel
suo tentativo di resistere a quella
proposta.
«Quando?» chiese.
La tensione sembrò svanire di colpo.
«Domani sera.»
Gli occhi di Eric le incatenarono lo
sguardo al suo. Sophie scosse la testa,
arrabbiata per essersi arresa così in
fretta, ma in fondo era felice di averlo
fatto.
«Mi sbagliavo anche a proposito di
un’altra cosa: sei molto più pericoloso
di quello che immaginassi.»
«E così ti ha convinta ad uscire di nuovo
con lui?» chiese Vicky sbalordita
uscendo dal bagno. «Dopo il modo in
cui ti ha trattata?»
«Eh già» rispose Sophie con un
profondo respiro. «Non so come abbia
fatto a convincermi...»
«Io un’idea ce l’ho» disse Vicky
mimando i grandi occhi di Eric che la
imploravano.
Sophie diede una spinta all’amica e
rise.
«Dai, smettila. Che ci posso fare?
Ogni volta che mi guarda in quel modo e
mi parla, non riesco a dirgli di no. È
incredibile,
riesce
a
scuotere
le
emozioni più profonde di me. Mi fa
rabbia.»
«Quando vi vedete?»
«Domani sera.»
«Ti ha detto dove ti porterà?»
«No, è stato di poche parole. Come
al solito. Non è che si lasci mai andare
più di tanto, però sembrava sincero
mentre si scusava.»
«Attenta Sophie, i ragazzi sono
maestri nel fare la faccia da cuccioli
indifesi.»
«Lo so... ma questa volta affilerò gli
artigli e terrò gli occhi aperti. Non gli
permetterò di farmi del male. Ho chiuso
con quel genere di ragazzi. Però per
favore, non dirlo a Jimmy. E nemmeno a
Ted. Non voglio che lo sappiano, per il
momento.»
«Stai tranquilla, sarò muta come un
pesce.»
Capitolo 14
Il molo a quell’ora della sera si
svuotava delle centinaia di persone che
di giorno ne affollavano il grande
mercato e si riempiva di una quiete
innaturale. Il dolce ondeggiare delle
barche
ormeggiate
sull’acqua
ipnotizzava i passanti.
Eric guardò l’ora. Era in perfetto
orario. Aveva scritto a Sophie di
trovarsi lì per le otto e il suo orologio
segnava le otto in punto. Quando le
aveva chiesto di rivederla, per un attimo
aveva
temuto una risposta negativa.
L’espressione dei suoi occhi lo aveva
spiazzato. Per la prima volta nella sua
vita si era sentito dominato da uno
sguardo. Aveva dovuto concentrarsi per
non rimanere senza parole e convincerla
a dargli un’altra possibilità. Desiderava
più di ogni altra cosa poterla rivedere.
Ora era lì ad attenderla impaziente.
Pochi minuti e l’auto di Sophie si fermò
a qualche metro da lui.
Quando Sophie scese dall’auto, gli
occhi di Eric si illuminarono. Indossava
un tubino nero che le fasciava la linea
sinuosa del corpo fermandosi poco
sopra il seno. I capelli sciolti e
voluminosi le avvolgevano il volto
come una criniera scura e lucente. Al
polso destro portava un bracciale di
anelli d’argento. La fissò incantato
mentre lei scivolava ad ampi passi
verso di lui.
«Spero che quell’espressione sia un
segno d’approvazione...» mormorò lei
sorridendo.
«Credo che stasera sarà difficile
smettere di guardarti.»
Sophie rise e con una mano portò i
capelli all’indietro.
«Guidi coi tacchi?» le chiese
osservando le decolleté laccate che la
rendevano alta come lui.
«Ci sono abituata» rispose lei
ammiccando «ormai sono in grado di
farci praticamente tutto.»
Si guardò intorno un momento.
«E la tua moto?»
«Sono venuto a piedi. Quando posso
preferisco camminare.»
«Dove andiamo? Sei stato così
sibillino nel messaggio...»
«Siamo vicini, sono solo due passi.»
«Non vuoi ancora dirmelo?»
«Lo scoprirai tra poco» disse
sorridendo.
Eric fece strada e si incamminarono
per le vie del molo.
«Non ti stanchi mai di fare il
misterioso, vero?»
«Credi che io faccia il misterioso?»
«Beh, non sei proprio la persona più
trasparente della terra. Almeno questa è
l’impressione che dai.»
«E che impressione do?» chiese
divertito.
«Vuoi sapere la prima cosa che ho
pensato quando ti ho visto?» Che sei il
ragazzo più misterioso e affascinante
che abbia mai visto, pensò un istante
dopo aver pronunciato la domanda.
«Non serve» disse Eric «credo di
saperlo già.»
L’espressione
di
Sophie
mutò
rapidamente.
«Ah sì?» chiese stupita. Possibile che
avesse pronunciato il suo pensiero a
voce alta?
«Hai pensato la stessa cosa che ho
pensato io vedendo te.»
Sophie non mosse un muscolo.
«Che sei stupenda.»
Sophie trattenne il respiro e una
vampata di calore le percorse il corpo.
Si sentì arrossire.
«Ne sei così sicuro?» chiese
fingendo indifferenza alle sue parole.
«I tuoi battiti stanno accelerando, li
posso sentire, e le tue pupille si
dilatano, segno che provi attrazione.
Nonostante cerchi di camuffare le tue
emozioni, il tuo corpo non mente.»
A Sophie mancò il fiato. Non se ne
era accorta nemmeno lei, ma ora che ci
faceva caso il suo cuore batteva a ritmo
serrato nel petto. Ma come diavolo fa?
Per un attimo il respirò diventò più
profondo.
«Sei un libro aperto, Sophie» disse
lui.
Ogni volta che pronunciava il suo
nome, provava un sussulto nel profondo.
«Va bene, lo ammetto» disse per
porre fine a quel momento imbarazzante.
«Sei... interessante.»
Eric sorrise, nessuno lo aveva mai
definito così.
«Lo prenderò come un complimento.»
«Uhm... sì, in effetti lo è...» disse
Sophie ridendo. «Beh, se io sono un
libro aperto, allora raccontami qualcosa
di te. Per pareggiare.»
«Cosa vuoi sapere?» chiese Eric con
un sorriso.
«Ad esempio chi sei, da dove vieni o
cosa ti piace fare. So così poco di te.»
Eric pensò a quanto poco in fondo
sapesse lui stesso di sé.
«Te l’ho detto, sono in città solo da
un anno, da quando ho iniziato
l’università. Prima non venivo spesso. Il
liceo lo frequentavo a Hildsbrough, era
più comodo. Venivo qui solo ogni tanto.
Qualche uscita la sera e poco altro.»
Mentre Eric parlava, Sophie lo
guardava in viso. I suoi occhi brillavano
sempre di più mentre il sole tramontava
e lasciava spazio ai colori della sera.
«Sembra che non ami molto la città»
disse lei.
«Non amo la confusione. E qui in
città se ne respira molta. Sono cresciuto
in mezzo alla natura, a due passi da un
bosco. Per qualche ragione lo sento
parte di me. Lo trovi strano?»
Sophie ci pensò su un attimo.
«Direi di no. Se dovessi definirti
strano solo per questo, allora cosa
dovrei dire di tante altre persone?»
Entrambi risero.
«Però...» aggiunse Sophie.
«Cosa?»
La sua espressione era cambiata.
Sembrava indecisa se proseguire o
meno.
«Però cosa?» ripeté Eric.
«Si racconta una strana storia su di
te.»
Eric corrugò la fronte.
«Che storia?»
Sophie arricciò le labbra, incerta se
andare avanti a rivelare quello che le
aveva detto Vicky.
«Ti arrabbi?»
Con te non potrei mai, pensò Eric.
«Dipende» disse invece, accennando
una risata «tu prova, non ti garantisco
nulla.»
«È vero che sei stato cacciato dalla
tua università per aver aggredito un
ragazzo?» tirò fuori quella frase tutta
d’un fiato, come a togliersi un dente
dolorante.
Eric evitò lo sguardo di Sophie.
«E questo chi te lo ha raccontato?»
«Si sente in giro. E si dice anche che
lo hai ridotto male.»
Eric rise.
«Tu ci credi?»
«Non so... dovrei?»
«Cambierebbe qualcosa?»
Sophie fece una smorfia, non si
aspettava quella domanda.
«Quello che penso io non ha
importanza» disse convinta.
«Evidentemente ne ha, se me lo hai
chiesto.»
Sophie si sentì colpita, avrebbe
voluto rimediare, ma non era capace.
«Sì, è vero» la anticipò Eric prima
che potesse rispondere. «È successo
prima dell’estate.»
«Non volevo essere invadente.»
«Non importa, mi avevi avvertito. Ci
sono cose di cui non vado fiero e che
vorrei lasciarmi alle spalle, ma è
sempre
maledettamente
difficile
impedire ai tuoi demoni di inseguirti.
Prima o poi ti raggiungono. Gli sguardi
della gente che ti giudicano, le voci su
di te che ti rincorrono. Non riesci mai a
liberartene completamente. In ogni caso
è un capitolo chiuso. Ho pagato per
quello che ho fatto.»
Eric non diede altre spiegazioni e
Sophie
decise che era meglio non
indagare oltre.
Svoltarono in una viuzza laterale.
L’atmosfera era tranquilla. Il viale in
sampietrini era illuminato dalle luci
gialle dei lampioni. Si fermarono
all’ingresso di quello che sembrava un
piccolo ristorante.
L’insegna luminosa era spenta.
«Se era questo il luogo misterioso,
mi sa che il tuo programma per la serata
dovrà cambiare. È chiuso» disse
indicando l’insegna.
«Cosa prevede il piano B?»
«Perché mai dovrei avere un piano
B?!» rispose Eric beffardo.
«Ma è chiuso» ribadì Sophie. «Non
vedi?»
«Fidati di me.»
Sophie lo guardò incuriosita mentre
lui suonava il piccolo campanello. Pochi
secondi e la serratura scattò. Eric aprì la
porta e invitò Sophie ad entrare.
Sophie strabuzzò gli occhi. La
sensazione di imbarazzo che la coglieva
accanto a lui, si ripresentò.
Come diavolo faceva, ogni volta, a
fare sempre qualcosa che non si
aspettava? E come faceva lei a essere
puntualmente
impreparata?
Doveva
ammetterlo, nel bene e nel male quel
ragazzo era imprevedibile.
«Generalmente non è giorno di
apertura» spiegò Eric «ma per questa
volta ho chiesto un favore a un amico.
Diciamo che ha fatto un’eccezione per
me.»
Sophie sorrise e varcò l’uscio.
La porta affacciava in un piccolo
atrio spoglio ma accogliente, con un
sottile bancone in legno sul quale gli
unici oggetti appoggiati erano un
registratore di cassa e un vaso di fiori di
plastica dai colori accesi. Con cautela
Sophie si spinse all’interno. Tutte le luci
erano
spente, tranne una piccola
lampada che emetteva una flebile luce
gialla e illuminava l’angusto atrio.
La porta alle loro spalle si aprì e ne
uscì un ragazzo sui vent’anni. Era alto
come Sophie e indossava una strana
uniforme. Aveva un’andatura sicura,
eppure a Sophie parve di cogliere in lui
qualcosa di insolito.
«Buongiorno, signor Arden» disse il
ragazzo con spiccato accento francese.
«Marc» lo salutò Eric.
Dal modo in cui si erano salutati era
facile intuire che si conoscessero bene.
Sophie osservò il ragazzo in volto.
Mentre parlava manteneva gli occhi
chiusi.
«Ben arrivati, vi faccio accomodare»
disse il ragazzo.
«Non ce n’è bisogno. Faccio strada
io, grazie.»
«Come desidera, signor Arden» disse
e tornò da dove era venuto.
«Ma è...» abbozzò Sophie confusa.
«Non vedente» rispose Eric prima
che terminasse la frase.
«E come fa... voglio dire, come ci
riesce?» chiese stupita.
«A fare il cameriere?»
Sophie annuì.
«Ci sono cose che i non vedenti sono
in grado di fare che tu neanche
immagini. Come tutti, anche tu fai
affidamento quasi esclusivamente sulla
vista, perché è il senso predominante,
ma gli altri sensi sono anche più precisi,
se solo imparassi ad ascoltarli.»
D’improvviso la luce si spense e il
piccolo atrio piombò nel buio.
«Che succede?» esclamò Sophie,
mentre un filo di panico l’attraversava.
«Non preoccuparti, è tutto voluto.
Serve per far abituare gli occhi
all’oscurità. È la prassi prima della cena
al buio.»
Cena al buio?
«Vieni, da questa parte» disse lui.
L’afferrò delicatamente per la mano e
l’accompagnò attraverso una delle porte
di vetro. La stanza era avvolta nel buio,
nessuna luce filtrava dalla porta
attraverso cui erano appena passati.
Sophie si sforzava di tenere gli occhi
aperti, nonostante fosse impossibile
vedere anche solo a un centimetro dal
volto. Era una sensazione surreale. Le
sembrava di avere difficoltà a mantenere
l’equilibrio, nonostante Eric la stesse
guidando. Ogni passo che faceva,
stendeva in avanti l’altro braccio per
anticipare la presenza di qualsiasi
oggetto sul percorso. Ricordò di aver
fatto lo stesso poche sere prima durante
il blackout al Rifugio. Questa volta,
però, era molto più tranquilla.
«Fa sempre un certo effetto la prima
volta. Hai paura?»
Sophie scosse la testa. Si bloccò
rendendosi conto che lui non poteva
averla vista.
«No» si affrettò a precisare. «Mi
sento solo un po’... disorientata.»
«Ci vorrà un po’ prima che tu ti
decida ad abbandonare la vista e
chiudere gli occhi. È normale, è un
riflesso naturale del corpo.»
Come fa a sapere che ho gli occhi
aperti?
Quando arrivarono in quello che
Sophie suppose essere il centro della
stanza, Eric le lasciò la mano e si
allontanò di qualche passo.
«Aspetta qui» le disse.
«Dove vai?»
«Sono qui, non temere.»
Sophie sentì il rumore di una sedia
spostarsi.
«Ecco, accomodati.»
Riprendendole la mano la fece
accomodare sulla sedia che aveva
appena spostato. Eric si muoveva con
una strana naturalezza: sembrava che il
buio per lui non costituisse alcun
problema. Le riaffiorò ancora alla mente
il loro incontro di notte al Rifugio. Lui
che le afferrava il polso e con la stessa
naturalezza di adesso la accompagnava
all’esterno di quel labirinto, facendosi
largo tra la calca e i corridoi bui.
Cercò il suo volto nell’oscurità della
stanza. Per un istante le sembrò di
scorgere due bagliori all’altezza degli
occhi, come riflessi di luce su uno
specchio, ma subito scomparvero. Ora
che ci faceva caso, la stessa sensazione
l’aveva avuta anche al Rifugio. Anche
allora le era parso di vedere un bagliore
negli occhi dello sconosciuto che
l’aveva trascinata fuori. Socchiuse gli
occhi sforzandosi di mettere a fuoco
qualcosa, ma dopo pochi secondi
rinunciò. Il buio la avvolgeva in tutta la
sua quiete oscura.
Si sistemò sulla sedia e si avvicinò al
tavolo, mentre sentiva Eric spostare la
sedia e sedersi di fronte a lei.
«Non ti stanchi mai di vedermi al
buio?» gli domandò con un leggero tono
di sfida.
«Quando hai accettato di darmi una
seconda possibilità ho pensato che se
dovevamo ripartire da zero, era giusto
ricominciare
da
come
ci
siamo
conosciuti... questa volta senza correre
il rischio di essere calpestati.»
Le note di un pianoforte arrivarono
delicate alle loro orecchie. Sophie
riconobbe i passi leggeri di Marc alle
loro spalle. Contemporaneamente un
profumo di cibo inondò la stanza.
Sembrava molto più intenso di qualsiasi
profumo avesse mai annusato.
«Lo senti?» chiese Eric.
«Sì, sembra... un crostaceo. Direi un
astice o un’aragosta...»
«Complimenti, signorina» disse Marc
«ha fatto centro, è una mousse all’astice.
Non è per niente facile indovinare al
primo colpo. I suoi sensi sono molto
sviluppati.»
Sophie
sentì
Marc
appoggiare
qualcosa simile a un vassoio in un
angolo del tavolo. Un piatto urtò il vetro
di un bicchiere. Poi il tappo di una
bottiglia che veniva aperta e lo scorrere
del liquido nei bicchieri anticiparono
l’uscita di scena di Marc.
Sophie allungò la mano sul tavolo
investigando gli oggetti disposti con
cura davanti a lei. Riconobbe il piatto e
le posate allineate ai lati. Erano fredde,
molto più di quello che si sarebbe
aspettata. Non aveva mai fatto caso a
quanto sottovalutasse le sensazioni che
le arrivavano dagli altri sensi. Spinse la
mano ancora più avanti prestando
attenzione a non rovesciare i bicchieri.
Non fare figuracce, si disse . Non è il
momento.
Con la punta delle dita raggiunse il
vassoio posato da Marc, ma non trovò
all’interno quello che si aspettava. Era
vuoto.
Dove diavolo li avrà appoggiati?
Spostò la mano più a destra tastando
col palmo la tovaglia di lino.
Ebbe un brivido quando sul percorso
incontrò la sua mano. Era calda e la
pelle era liscia come marmo levigato.
Tra le dita stringeva qualcosa, che
Sophie riconobbe all’istante.
«Credo tu stia cercando questo»
disse Eric porgendole il piatto con gli
antipasti. Nel buio la sua voce era
ancora più suadente.
«Con quante lo hai fatto?»
Eric sussultò e quasi soffocò mentre
lo champagne gli andava di traverso.
«Non
mi
starai
chiedendo
veramente...?»
Sophie arrossì di colpo.
«No,
non
intendevo quello...
intendevo quante hai già portato qui
prima di me» si affrettò a dire.
«Mi crederesti se ti dicessi che sei la
prima?»
Sophie ci pensò su un istante, ma
ancora una volta lui la anticipò.
«Che motivo avresti di dubitarne?»
«Non so, è che sembra tutto così...
perfetto.»
«Potresti semplicemente goderti il
momento senza riflettere su qualsiasi
cosa ti porti a dubitare della mia buona
fede.»
Sophie accusò il colpo. Per qualche
istante rimase in silenzio.
«Hai ragione, è che sono fatta così...
faccio fatica a fidarmi.»
Lo so, pensò Eric, e quello che
faccio non aiuta.
Marc entrò due volte, la prima per
portare via i piatti e i calici di spumante,
la seconda per mettere in tavola la prima
portata. Dall’odore sembrava un tipo
particolare di carne alla griglia condita
con delle spezie, ma Sophie non era in
grado di stabilirlo con esattezza.
Nell’oscurità
Eric
la
guardava
intensamente. Avrebbe voluto dirle che
la vedeva, mentre l’istinto la portava
ancora a spalancare gli occhi, come
poco prima, nel vano tentativo di
scorgere qualcosa. Avrebbe voluto
rivelarle tutto, ma si trattenne.
Seguì con gli occhi il contorno del
viso, fino alle spalle scoperte. Anche
nelle tonalità più cupe che la sua vista
percepiva al buio, gli occhi di lei
apparivano sensuali e lucenti.
«Perché non sei venuto l’altra sera?»
gli chiese Sophie spezzando il silenzio
che si era creato.
Sophie non lo vide, ma intuì che la
domanda aveva colto nel segno. Sentì
Eric
risistemarsi
sulla
sedia
e
armeggiare con le posate. Era nervoso,
riusciva a riconoscerlo all’istante ormai.
«Non
posso
dirtelo»
rispose
laconico.
«Perché?»
«Perché non posso, Sophie. Non
insistere, ti prego.»
«Non puoi pretendere che io mi fidi
di te se fai mistero anche di queste
cose.»
«Non voglio farne mistero.»
«È quello che fai...»
«Senti, lo so che può sembrare
incomprensibile e se vuoi anche
ingiusto, ma devo chiederti di fidarti di
me, almeno su questo. Ti dirò tutto, te lo
prometto. Solo, non è questo il
momento.»
Sophie rimase in silenzio e poi
scoppiò in una risata.
«Non so proprio come tu faccia»
disse «ogni tua parola, ogni tuo
sguardo...
contraddirti
sembra
impossibile. A volte penso quasi tu
abbia
qualche
potere...
Chi
sei
veramente, Eric Arden?»
«Non sono un vampiro, di questo
puoi starne certa...»
Sophie rise e scivolando col palmo
sulla tovaglia cercò la sua mano sul
tavolo. Quando la trovò, gli accarezzò le
dita coi polpastrelli. Un attimo dopo le
loro mani erano intrecciate l’una
nell’altra.
«Proverò a fidarmi di te, Eric Arden»
sussurrò nel silenzio della sala e si
sporse col busto oltre il piatto. Cercò al
buio il viso di Eric, sapendo che lo
avrebbe trovato vicino. Protese il collo
in avanti e socchiuse le labbra. Sentiva
quelle di Eric a un centimetro dalle sue.
D’improvviso la porta si aprì e Marc
entrò con il dolce. Il profumo di frutti di
bosco e di crema appena sfornata era
inconfondibile anche al buio e riempì la
stanza.
«Questo
dolce
è
una
nostra
specialità» disse Marc appoggiando sul
tavolo i due piatti.
Sophie
sorrise
imbarazzata,
il
tempismo di Marc era stato perfetto.
Eric ringraziò Marc e porse a Sophie il
suo piatto di dessert. Mangiarono
frettolosamente con la testa a qualche
istante prima.
Terminata la cena, Marc li fece
nuovamente accomodare nel piccolo
atrio. Un rivolo di luce si fece largo
lentamente, tornando a mostrare oggetti e
pareti tutt’attorno a loro. Il primo istante
fu quasi doloroso per Sophie. Durante le
due ore precedenti, gli occhi si erano
completamente disabituati alla luce. In
pochi secondi però, tornò a vedere
perfettamente. Quando la luce rischiarò
del tutto l’ambiente, Sophie si voltò
verso Eric. Di nuovo illuminato
sembrava un’altra persona. Sophie lo
guardava e le pareva di vederlo con
occhi diversi da prima.
«Spero la cena sia stata di vostro
gradimento. Mi auguro di avervi presto
qui da noi.»
Eric e Sophie ringraziarono Marc e
uscirono.
La via era ancora più tranquilla di
quando erano entrati. Fuori era ormai
calata la notte. Si diressero verso il
luogo dove si erano dati appuntamento.
«Devo ammetterlo, sei un ragazzo
dalle mille sorprese.»
Sophie entrò in auto ed Eric
accompagnò con una leggera spinta la
portiera. Sophie abbassò il finestrino
elettrico e si sporse verso di lui.
«Allora, grazie per la piacevole
serata.»
Piacevole? Si chiese come le fosse
venuto in mente un vocabolo così
insignificante.
Tossì
palesemente
imbarazzata.
Avrebbe
voluto
dire
qualcos’altro, ma la mente remava
contro la sua volontà e le bloccava ogni
idea.
Eric camuffò un sorriso.
«Sono stato benissimo anch’io.»
I loro occhi si incontrarono nel buio e
per un attimo rimasero entrambi in
silenzio.
«Adesso sarà meglio che vada» disse
Sophie.
Eric annuì. Spinse la testa in mezzo al
finestrino e le diede un bacio sulla
guancia. Rimase fermo per un istante a
un centimetro dal suo volto, avvertendo
il calore del suo respiro. Poi, a disagio,
tirò indietro la testa, fuori dal finestrino.
Sophie rimase a fissarlo mentre il
vento gli scompigliava i capelli. Il
tempo sembrò dilatarsi all’infinito fin
quasi a fermarsi.
«Buonanotte...»
Sophie richiuse il finestrino e lo fissò
attraverso il vetro della portiera. Per
qualche attimo mantenne la mano sulla
chiave senza ruotarla. Sospirò e si
decise a mettere in moto.
Eric seguì l’auto con lo sguardo.
Quando fu scomparsa, si girò e si
incamminò lungo la strada, chiedendosi
perché si sentisse così felice e al tempo
stesso così turbato. Aveva bisogno di
riordinare le idee, si sentiva travolto da
una marea di sensazioni mai provate.
Non si era mai sentito così bene, la
vicinanza di Sophie gli provocava una
sensazione inebriante, mai provata.
Sophie era diversa e di una cosa era
certo, voleva rivederla.
Rivolse lo sguardo al cielo coperto
di nuvole e si incamminò lungo il viale.
Attraversò il centro della città. Le
luci dei ristoranti e dei locali erano
ancora accese. C’era parecchia gente in
giro. Era quasi l’una e in città
difficilmente la vita si spegneva prima
di notte inoltrata. Quella confusione non
faceva per lui.
Imboccò una stradina laterale poco
illuminata. Un gatto gli soffiò contro e
scappò lungo la scala di emergenza di un
palazzo.
In fondo alla stradina era visibile un
gruppetto di ragazzi. Erano in tre, intenti
a chiacchierare. Qualche risata sguaiata
gli
giungeva
man
mano
che
si
avvicinava. Dovevano avere all’incirca
la sua età. Sostavano in piedi nel centro
del viale, occupandolo quasi del tutto in
larghezza. Quando fu a ridosso, Eric
allargò la sua traiettoria, facendosi da
parte per passare.
«Ehi, amico, hai da accendere?»
domandò una voce alle sue spalle.
Eric proseguì. Il suo istinto gli
suggerì che era meglio non fermarsi.
«Ehi, dico a te. Non mi hai sentito?»
replicò ancora il tizio alzando la voce.
«Mi spiace» rispose Eric voltandosi
un
secondo
e
riprendendo
immediatamente la sua strada. Quando
tornò a girarsi, si trovò di fronte un altro
componente del gruppetto.
«Aspetta»
disse
il
ragazzo
sollevando un braccio di fronte a lui per
bloccare
il
passaggio.
Eric
istintivamente lo superò. Facendolo, il
ragazzo urtò volontariamente la spalla
contro la sua.
Eric ebbe un sussulto, ma non
intendeva fermarsi a discutere. Non era
in cerca di problemi. Fece mezzo passo,
ma qualcosa lo trattenne.
Si voltò lentamente e fissò negli
occhi il ragazzo dietro di lui che
stringeva un lembo della manica del suo
giubbotto. Aveva all’incirca la sua età,
vestito bene, come tutti gli altri, con un
grosso giubbotto e un paio di jeans di
marca. Non certo uno sbandato. Più
probabilmente un figlio di papà in cerca
di divertimento alternativo.
«Lasciami» disse Eric serio e
strattonò il braccio per liberarsi.
Il ragazzo non lasciò la presa.
«Non hai sentito? Ti ho detto di
lasciarmi» ringhiò.
Lo sguardo intimorì il ragazzo, che
allentò la presa. Eric fece qualche
passo,
quando
sentì
nuovamente
afferrare il proprio braccio. Senza
nemmeno guardare, si girò e si liberò
dalla presa allontanando con tutta la
forza che aveva il ragazzo che lo stava
tenendo.
La spinta fu tale da farlo cadere a
terra diversi metri più indietro, contro i
bidoni della spazzatura. Gli altri due
ragazzi, che sghignazzavano, rimasero di
stucco.
«Ehi!» gridò uno dei due rivolto a
Eric e si avvicinò con fare minaccioso.
«Che fai? Cerchi rogne?»
Il secondo ragazzo allungò la mano
verso Eric, come per afferrarlo per la
maglietta.
Fu un istante.
Come un fluido caldo che risale la
colonna vertebrale, Eric sentì la rabbia
impadronirsi di lui. Conosceva bene
quella sensazione e sapeva che di lì a
pochi attimi non sarebbe più stato in
grado di controllarsi. Nello stesso
istante, però, qualcos’altro si fece largo
dentro
di
lui,
espandendosi
capillarmente come un’onda. Qualcosa
che emergeva come un istinto dal
profondo inondandogli le ossa e le vene.
Avvertì uno strano formicolio alla testa.
Un dolore acuto, improvviso, lo colse
alle tempie, come una lama affilata che
gli trafiggeva il cranio. Eric urlò. La
fitta fu violenta, tanto da farlo piegare in
avanti mentre si reggeva la testa. Si
sforzò di tenere aperti gli occhi per non
perdere di vista la situazione. I suoi
aggressori
si
erano
fermati.
Si
guardavano intorno girando la testa a
destra e sinistra, disorientati. Uno di
loro urlò, subito seguito dagli altri due.
«Ehi, che cazzo sta succedendo?»
«Non vedo più niente!»
«Dov’è finito?»
Eric non capì, fu l’istinto ad agire per
lui.
Approfittò
del
momento
di
esitazione dei suoi aggressori e senza
pensarci, assalì quello più vicino. Gli si
avventò contro come un cane rabbioso e
lo colpì con una spallata nello stomaco.
Il colpo fu tale e inaspettato che il
ragazzo crollò di schiena diversi metri
più indietro. Una volta a terra Eric gli
piombò sopra e lo ferì ripetutamente al
volto affondandogli le unghie nelle
guance.
«Dawson! Len!» urlò uno degli altri
ragazzi sentendo il rumore della
colluttazione a pochi passi da lui. Non
era in grado di vedere nulla di ciò che
stava accadendo.
«Dove...»
Non terminò la frase. Un pugno gli
arrivò sotto lo sterno. Il ragazzo
barcollò all’indietro e si accasciò senza
fiato sull’asfalto. Il terzo ragazzo fu
colto dal terrore, anche lui era
paralizzato e non riusciva a vedere cosa
stesse succedendo. Intuì che i suoi
compagni dovevano essere stati colpiti
ed estrasse un coltello affilato dalla
tasca del giubbotto.
«Stai lontano!» intimò senza sapere
dove fosse il suo avversario. «Stai
lontano o ti ammazzo!» Si girava di
scatto in ogni direzione ad ogni rumore
che percepiva attorno a sé. D’un tratto
sentì un colpo forte sul polso. Perse la
presa sul coltello che cadde sul
cemento. D’istinto tirò una gomitata
dietro di sé. Sentì la presa allentarsi.
Con un altro colpo si divincolò e iniziò
a correre in una direzione a caso,
sperando di non finire a sbattere contro
qualcosa nel buio. Corse per decine di
metri, fino a quando all’improvviso
tornò a vedere l’ambiente attorno a sé.
Si fermò di colpo e si girò.
Da lontano, poteva vedere i suoi due
amici
che
ansimavano
distesi
sull’asfalto del vicolo. La fioca luce del
lampione illuminava la scena. Restò un
attimo fermo a fissarli, poi riprese a
fuggire.
Eric rallentò la sua corsa e si fermò per
appoggiarsi al muro in mattoni che
costeggiava il viale. Si chinò per
riprendere fiato. La testa gli girava
ancora e respirava affannosamente. Gli
era successo di nuovo. Appena si era
sentito in pericolo era comparso quel
dolore fittissimo alle tempie. Questa
volta era stato più intenso. La strada di
fronte a lui iniziava a sfocarsi, la vista
gli si annebbiò. Tutto iniziò a roteare
vorticosamente. Si trascinò dietro ad un
cespuglio, in un’aiuola riparata rispetto
alla strada. Si distese sull’erba fredda a
pancia in su e osservò il cielo notturno.
Non sapeva quanta strada avesse fatto,
aveva corso più velocemente che
poteva, al massimo che le sue gambe gli
consentivano.
Aveva
ucciso
quei
ragazzi? Sperava di no, non ricordava
bene cos’era avvenuto. I suoi pensieri
erano lenti. La vista gli si offuscò del
tutto e svenne.
Capitolo 15
«Di me ti puoi fidare» disse Sophie.
Mentre parlava, il volto di Eric era
ad un palmo dal suo. Nei suoi occhi
lucidi poteva scorgere il proprio viso.
«Ne sei sicura?» chiese lui.
«Certo.»
«A domani, allora.»
«A domani.»
Eric si avvicinò per baciarla
delicatamente sulla guancia. Sophie
curvò precipitosamente il viso e le loro
labbra si sfiorarono.
Entrambi risero per dissimulare il
reciproco
imbarazzo.
Sophie
si
mordicchiò il labbro inferiore e sorrise
di nuovo. Guardò Eric negli occhi,
aspettando che dicesse qualcosa. In cuor
suo sapeva esattamente cosa desiderava
che lui facesse.
Eric si avvicinò di nuovo e le loro
labbra si toccarono.
In quel momento un suono stridulo e
ripetuto arrivò alle sue orecchie.
Sophie alzò lentamente le palpebre.
La luce del sole inondava la stanza da
letto. Strizzò gli occhi e sbuffò. Allungò
il braccio per zittire la sveglia del
cellulare che continuava imperterrita ad
annunciare che era arrivato il momento
di alzarsi.
Si lavò e indossò il primo paio di
shorts che trovò sulla sedia, insieme a
una maglietta dai colori sgargianti.
Quando scese in cucina, Luther stava
finendo di fare colazione.
«Buongiorno!»
esordì
con
entusiasmo. Passò accanto alla sedia
dove sedeva Luther e gli stampò un
bacio sulla guancia.
«Buongiorno a te, tesoro» balbettò il
padre confuso da tutto quel buonumore.
«Tutto bene?»
«Sì. Bella giornata oggi, eh?» disse
con uno sguardo luminoso.
Luther annuì ricambiando il sorriso.
«Hai dormito bene?»
Sophie arricciò le labbra e levò gli
occhi verso l’alto, riassaporando il
sogno appena fatto.
«Molto bene» disse versandosi una
tazza di latte e afferrando una fetta di
pane tostato. «E tu, a lavoro? Tu e Nate
siete molto presi in questi giorni.
Qualche cliente importante?»
«Abbiamo da fare più del solito, ma
è tutto sotto controllo. Vuoi un po’ di
caffè italiano? Arthur, il marito di
Jennifer,
mi
ha
appena
spedito
dall’Italia questa moka. Ne vuoi un
po’?»
«Sì, grazie» balbettò Sophie. «A cosa
devo tutta questa gentilezza?»
«Non posso preparare la colazione a
mia figlia?» mormorò mentre riempiva
di miscela arabica la moka.
«Certo, solo che questi improvvisi
atti di generosità si manifestano solo
quando pensi che io abbia qualcosa di
strano... o sbaglio?»
«Non so di cosa tu stia parlando, ma
se ti vedo felice... lo sono anch’io.»
Sophie sorrise.
«Io sono felice.»
«Bene. La mamma l’hai sentita?»
«Ho provato a chiamarla l’altra sera,
ma
il
cellulare
prendeva
male.
Riproverò più tardi.»
«Io starò fuori tutto il giorno. È
probabile che faccia tardi anche questa
sera. Tu...»
«Papà, ho vent’anni. Credo di
riuscire a cavarmela da sola.»
Luther sorrise e le porse la tazza col
caffè.
«Hai ragione. A volte ti parlo come
se fossi ancora la piccola e dolce
Sophie di una volta.»
«Stai dicendo che non sono più
dolce?» chiese ridendo e bevve un sorso
di caffè.
«Questo lo hai detto tu...» Sorrise.
«Anche tu avevi ragione, questo caffè
è buonissimo. Ora vado, tra poco
iniziano le lezioni e non voglio fare
tardi.»
Si alzò da tavola, raccolse le sue
cose e le infilò nella borsa. Luther le
augurò buona giornata, lei gli diede un
altro bacio e uscì.
Quando arrivò in università, Jimmy
era già lì ad aspettarla. Lo salutò con un
bacio sulla guancia e si diressero verso
l’edificio
principale.
Entrarono
nell’aula ancora mezza vuota.
Com’era ormai sua abitudine, Sophie
lanciò un’occhiata verso il banco dove
era solito sedersi Eric. Il posto era
vuoto. Avvertì uno strano fastidio , una
leggera sensazione di panico. Si guardò
intorno, scrutando tra i volti dei
presenti. Di Eric nessuna traccia.
Estrasse il cellulare dalla borsa e digitò.
Dove sei?
Rimase a fissare il display, sperando
che si illuminasse, ma non accadde
nulla.
L’aula
si
stava affollando. La
speranza di vederlo comparire svanì con
l'inizio della lezione del professor
Haufmann. Non si sarebbe presentato in
ritardo, glielo aveva detto e infatti il suo
posto rimase vuoto fino alla fine della
lezione.
Per tutto il giorno Eric non si fece
vivo. Sophie osservò per ore il cellulare
in attesa che squillasse, ma la speranza
rimase vana. Le sparizioni improvvise
di Eric iniziavano a diventare una
spiacevole abitudine.
Nella
pausa
tra
sociologia
e
antropologia
Sophie
e
Jimmy
chiacchierarono, come al solito, della
lezione appena finita, ma Sophie si
limitò ad ascoltare il monologo di
Jimmy, senza intervenire più di tanto. Il
pomeriggio passò tranquillo e alla sera,
terminate le lezioni, si salutarono e
tornarono a casa.
Il giorno seguente il tempo si era
inasprito. Una debole pioggia cadeva a
intermittenza e il cielo plumbeo rendeva
l’atmosfera più malinconica. Quel
martedì Luther era uscito molto presto,
dando solo qualche vaga spiegazione
riguardo un’urgenza al lavoro a cui
Sophie non aveva prestato particolare
attenzione. Lei trascorse tutto il giorno
in casa a riordinare gli armadi e i
vestiti. Rovistò nei cassetti tra vecchie
scartoffie e oggetti che non ricordava
nemmeno più di avere. L’occhio le
cadde sull’arco che le aveva regalato
Eric, durante la passeggiata nel parco.
Lo sfiorò per tutta la lunghezza e tastò la
consistenza liscia del legno levigato con
cura. Tolse il leggero strato di polvere
che si stava formando e lo ripose sulla
poltroncina. Le sue pulizie vennero
interrotte solo dalle ripetute e frequenti
telefonate
di
Jimmy,
che
voleva
sincerarsi che fosse tutto a posto. Le
propose anche di uscire, ma lei rifiutò.
«No, non mi va.»
«Vuoi startene rinchiusa in casa tutto
il giorno?» le chiese Jimmy tra la
sorpresa e la delusione.
«Che male c’è? Ogni tanto ci vuole.
Ho voglia di sistemare un po’ di cose.»
«Uhm, non mi piace quando una
ragazza decide di rinunciare agli amici
per starsene a casa da sola, in
compagnia dei propri pensieri. Non sai
mai cosa può succedere.»
Sophie sorrise.
«Che stupido che sei. Non succede
proprio niente.»
«Sicura che, in tutto questo mood
malinconico, non c’entri qualcosa il
cyborg stralunato che salva ragazze
durante i blackout?»
Sophie rimase in silenzio dall’altro
capo del telefono.
«Credo di aver fatto centro» disse
con un piglio di soddisfazione.
«Okay, siamo usciti due sere fa.»
«Siete usciti?!» esclamò sorpreso. «E
quando pensavi di dirmelo?»
«Non lo so. Forse mai, visto che
sapevo che reazione avresti avuto.»
«Ovvio che non approvo. Quel
ragazzo non mi piace. È strano, basta
vedere come si comporta.»
«Non
ho
bisogno
della
tua
approvazione. È una cosa che non ti
riguarda. E poi tu non lo conosci
affatto.»
«E tu sì?» obiettò prima che Sophie
potesse continuare.
«Senti, Jimmy, non ho alcuna voglia
di stare a discutere con te di questo. Non
puoi semplicemente essere felice per
me, per una volta che io mi sento
felice?»
«Ma...» balbettò Jimmy spiazzato da
quella domanda e per un attimo restò in
silenzio.
«Sei davvero felice?» le chiese poi.
«Sì, Jimmy. Era da tempo che non mi
sentivo così. È dolce, protettivo. Mi fa
ridere, mi fa star bene. Lo so che lo
conosco da poco, ma sento che in lui c’è
qualcosa. Fidati di me.»
«Di te mi fido. È di lui che non mi
fido. Comunque okay, non ti dico più
nulla. Però promettimi che starai attenta
e che, qualsiasi cosa dovesse succedere,
mi chiamerai.»
Sophie sorrise e strinse la cornetta
con entrambe le mani. Ogni volta che
Jimmy si dimostrava protettivo nei suoi
confronti la rendeva felice. Le faceva
sentire che a lei ci teneva davvero,
indipendentemente da tutto.
Si
salutarono
e
si
diedero
appuntamento al giorno successivo.
To r nò a sistemare i cassetti con le
cianfrusaglie che aveva sparso sul
pavimento. Quando tutto fu in ordine, si
buttò sotto la doccia. L’acqua tiepida
sulla pelle la rilassò. Quando finì, si
vestì e andò a sistemarsi sul divano del
salotto.
Dovrei andare da lui? No, meglio
non farsi vedere troppo interessata. O
forse sì? Le parve assurdo che si stesse
comportando
come
una
ragazzina.
Eppure, lui la faceva sentire così. Non
le dava certezze. Si rendeva conto che,
tutte le volte che si era avvicinata a lui,
il giorno dopo lui era scomparso. Forse
era indeciso. Non capiva, anche se
sentiva che il rapporto che stava
nascendo tra loro era più profondo di
quello che appariva. Profondo e anche
imprevedibile. Di tanto in tanto, le
sorgeva il dubbio che fosse solo il frutto
della sua immaginazione. Possibile che
si stesse sbagliando? In fondo quanto lo
conosceva? Cosa sapeva di lui, a parte
quel poco che le aveva detto? Non
riusciva ad immaginarlo disperato
all’idea di non rivederla, ma neanche
indifferente. Indecisa sul da farsi,
afferrò una rivista a caso sul tavolino di
fronte a lei e si mise a sfogliare le
pagine. Orion la fissava dal tappeto, di
tanto in tanto aguzzava le orecchie e
sollevava la testa, per poi tornare ad
appoggiare il muso sul pavimento.
Sophie sospirò. Per quanto tentasse di
escluderlo dai suoi pensieri, non ci
riusciva. Cercava di distrarsi, ma eccolo
lì di nuovo: il suo viso si sovrapponeva
alla pagina che cercava di leggere e
invadeva i suoi pensieri, finché i suoi
occhi si chiusero.
Quando li riaprì si guardò attorno
intontita. Non sapeva esattamente che
ora fosse. La luce entrava ancora
copiosa dalla finestra. Non doveva
essere molto tardi, anche se la
gradazione del
cielo
che
virava
all’arancione lasciava presagire che
ormai il tramonto era alle porte. L’unico
elemento differente rispetto a prima era
Orion, che si era silenziosamente
accucciato sul divano di fianco a lei.
Sentendola muovere si ridestò e iniziò a
strofinarle il muso sulla mano.
Sophie avvertì il rombo di un motore
avanzare sul selciato. Non sembrava
quello della Jeep di Luther, ma chi altro
poteva essere? Rimase in silenzio ad
ascoltare, aspettandosi di sentire il
rumore della chiave che girava nella
serratura della porta d'ingresso, ma non
accadde. Orion balzò dal divano e
raggiunse la porta.
«Papà?» chiamò lei. Si decise ad
alzarsi quando sentì bussare.
Orion ringhiava furiosamente e con la
zampa grattava sulla porta.
«Orion, smettila! Che ti prende?»
disse spostandolo da davanti alla porta
con un gamba.
Quando aprì, rimase sorpresa. Eric
era immobile davanti a lei. Sembrava
stanco, affaticato. Aveva le palpebre
gonfie e il volto pallido.
«Questa volta che scusa hai?» disse
lei cercando di mascherare qualsiasi
emozione potesse essere svelata dal suo
tono di voce.
Lui rimase in silenzio per qualche
secondo. Il suo sguardo era serio. Orion
continuava a ringhiare da dietro la porta.
«Basta, smettila!» gli ordinò lei.
Eric non vi prestò attenzione,
sembrava distante.
«Vieni. Ti porto in un posto» disse
con una voce innaturale.
Sophie lo guardò negli occhi. C’era
qualcosa di strano nella sua espressione.
Sembrava turbato, sconvolto. Decise di
non fare domande. Entrò in casa a
prendere la borsa e lo seguì fino alla
moto. Indossò il casco che Eric le stava
porgendo e montò in sella dopo di lui.
«Sophie?» una voce maschile con una
leggera inflessione titubante arrivò alle
loro spalle ed entrambi si voltarono
sorpresi da quell’inattesa intromissione.
«Papà...» balbettò Sophie «già a
casa?»
«Sono solo di passaggio, devo
prendere dei documenti nello studio.»
Ci fu un attimo di silenzio, poi
Sophie, leggendo la curiosità negli occhi
del padre, disse in preda all’imbarazzo:
«Lui... è Eric.»
Era la prima volta che si trovava
nella situazione di dovergli presentare
un ragazzo e la sensazione che provava
era la stessa di quando doveva superare
un esame.
Eric posò il casco sul serbatoio e
allungò la mano destra.
«Eric Arden» disse senza scomporsi,
mentre stringeva la mano di Luther.
I due si fissarono attentamente, come
a voler capire il tipo di persona che
avevano di fronte. Eric notò un accenno
di stupore sul volto del padre di Sophie.
«Sai... hai qualcosa di familiare.
Dobbiamo esserci già visti da qualche
parte» disse Luther.
«Ultimamente faccio quest’effetto.»
Nessuno dei due aggiunse altro e
Sophie ne approfittò per salutare Luther
e mettere fine a quell’imbarazzante
conversazione.
Mentre correvano veloci sulla strada
asfaltata, Sophie si avvinghiò alla vita
di Eric per reggersi. Aveva già
dimenticato il disagio per l’incontro tra
suo padre ed Eric. Abbracciata a lui,
poteva sentire il suo respiro regolare.
Lo riconosceva, era uno di quei momenti
in cui una strana inquietudine gli
aleggiava intorno. Il viaggio durò quasi
un’ora, tempo in cui nessuno dei due
disse nulla. Si fermarono ai margini del
bosco e proseguirono a piedi.
«Dove mi stai portando? Siamo
lontani dalla città» disse Sophie.
«In un posto speciale.»
«Speciale?»
«Sì.»
Il tono della voce di Eric stava
cambiando. Sembrava più rilassato.
Pochi passi e si fermò. Si appoggiò ad
un tronco e, con un gesto veloce, si sfilò
le scarpe da ginnastica.
«Togliti le scarpe» le disse «qui
l’erba è soffice e camminarci sopra a
piedi nudi è splendido.»
Sophie,
incuriosita,
decise
di
assecondarlo. Si aggrappò al suo
braccio e si tolse i sandali. Le parve di
appoggiare i piedi su di un cuscino di
piume. Camminavano lentamente, uno di
fianco all’altra. Ogni tanto Sophie
incespicava sull’erba e si reggeva
aggrappandosi a Eric. A sorpresa lui le
prese la mano. Sentendo quel calore, per
un attimo Sophie si chiese che
sensazioni avrebbe provato se le avesse
accarezzato tutto il corpo, indugiando
sulla pelle della schiena e sulle gambe.
Quella fantasia le fece provare un
brivido di piacere lungo tutto il corpo;
quando si voltò a guardare Eric, si
domandò se sapesse cosa aveva appena
pensato.
Continuarono a passeggiare con
l’erba fresca sotto i piedi, senza dire
nulla.
Trascorsi
dieci
minuti,
si
fermarono nei pressi di un grosso
albero, al centro di una radura. Eric si
sedette su un tronco steso sul terreno
erboso e allungò le gambe.
«Siamo arrivati?» chiese Sophie con
un pizzico di stupore. Quel posto non
aveva niente di particolare. Era un
piccolo spiazzo erboso, nel bel mezzo
del bosco. La sua mente l’aveva portata
a immaginare una casa diroccata o una
botola nel terreno, come quelle che si
vedono nelle serie televisive. Quel
luogo non aveva niente di tutto questo.
«Perché mi hai portata qui? Cos’ha
questo posto di così speciale?»
Si sentì inquieta. Era sicura che Eric
non le avrebbe mai fatto del male, ma
non poteva averne la certezza. Le
tornarono in mente le parole e i dubbi di
Jimmy, ma li scacciò all’istante.
«Io vengo qui, quasi ogni notte» disse
Eric interrompendo il silenzio.
Sophie aggrottò la fronte.
«Ogni notte?»
«Sì. Solo che non vengo a piedi,
come noi adesso. E nemmeno in moto. A
dirla tutta, non sono qui neanche
fisicamente. È un incubo a portarmi in
questo posto. Un incubo che mi
perseguita da quando ho ricordi. Nel
sogno, corro per tutto il percorso che
abbiamo fatto, corro più veloce che
posso, mi sforzo, ma non riesco a
prendere velocità. Sono inseguito,
cacciato da qualcuno che non riesco
nemmeno a vedere. Sento degli spari, i
proiettili mi fischiano nelle orecchie.
Fino a quando non arrivo qui, ai piedi di
questo albero. In questo punto il sogno
termina, perché vengo colpito da un
proiettile o perché semplicemente cado
a terra. Poi mi sveglio.»
Eric sospirò e si guardò attorno.
«Cosa pensi significhi?» domandò
Sophie.
«Non lo so. Non so che posto sia
questo, ma sento che in qualche modo è
legato a me.»
«Come fai ad essere sicuro che sia
questo il luogo del tuo sogno?»
«L’ho sognato talmente tante volte
che lo riconoscerei tra mille, non posso
sbagliarmi. E poi c’è... questo.»
Infilò una mano in tasca e ne estrasse
un piccolo oggetto di metallo appuntito.
Era grande quanto un’unghia.
«Quando l’ho trovato, quasi non ci
credevo.»
«Che cos’è?» chiese Sophie mentre
allungava lo sguardo. Quando vide cosa
stringeva nel palmo della mano ebbe un
sussulto.
«È un proiettile» disse Eric. «Era
conficcato in quest’albero, la prima
volta che sono stato qui. Ha una forma
strana,
non
sembra
un
proiettile
normale.»
«Pensi sia collegato agli spari del tuo
sogno? Com’è possibile?»
«Non lo so, me lo chiedo ogni volta,
ma mi sembra una coincidenza troppo
assurda. Quel che è certo è che voglio
scoprire cosa c’è dietro.»
«Sei mai stato qui in passato?»
«Non siamo molto lontani da dove
abitavo con i miei. Spesso mi inoltravo
nel bosco e camminavo per ore.»
«Venivi qui da solo?»
«Sì, spesso, soprattutto la sera.
Anche di notte ogni tanto. È l’unico
modo in cui riesco veramente a
rilassarmi e a liberare la mente. Non so
cosa mi succede, ma quando sono qui,
nel silenzio, mi sento come... a casa.»
Eric parlava con un’espressione
malinconica. I suoi occhi erano persi nel
vuoto e solo ogni tanto si voltava a
guardare Sophie in viso. Lei lo
ascoltava in silenzio, senza mai annuire
o dire qualcosa.
«Lo so, è assurdo.»
«Non più di tanto. Sai, anche Jimmy
ama fare lo stesso. Va nel bosco e vi si
rifugia per ore da solo, lontano da tutti.
Quando me lo ha detto la prima volta ho
pensato che fosse una cosa strana, ma
poi ho capito perché lo fa. A volte penso
che voi due siate molto più simili di
quanto non sembri.»
«Credi?»
Sophie annuì.
«Dovreste frequentarvi. Sono sicura
che trovereste molti punti in comune. E
poi forse smetterebbe di essere così
sospettoso nei tuoi confronti.»
Eric abbassò lo sguardo, come per
riflettere su ciò che Sophie aveva
appena detto. Si appoggiò all'indietro e
si passò le mani tra i capelli. Chiuse gli
occhi e assaporò quell'attimo di quiete
tutto per sé. Quando li riaprì, rimase
fermo a fissare un punto davanti a lui.
«Vieni qui» disse alzandosi «davanti
a me.»
Sophie lo fissò incuriosita.
«Perché?» domandò.
«Fidati di me.»
Sophie si alzò e si avvicinò. Lui si
mise dietro di lei e le appoggiò le mani
sulle spalle. Indicò con una mano di
fronte a loro e le sussurrò all’orecchio.
«Vedi qualcosa?»
Sophie avvertì il calore del suo
respiro sul collo, poi si concentrò e
osservò attentamente davanti a sé.
«Vedo
solo
un
albero»
disse
allargando le braccia.
«Prova a guardare meglio. Affidati ai
sensi, lasciati guidare.»
Sophie chiuse gli occhi per rilassare
la mente, inspirò profondamente e li
riaprì.
Rimase
qualche
istante
a
guardare di fronte a sé. Fu allora che lo
vide.
Sbatté gli occhi e spalancò la bocca
in un sussulto.
«Oddio!» esclamò.
Era incredibile come non se ne fosse
accorta prima, quando era proprio lì
davanti a lei.
Perfettamente mimetizzato col tronco
dell’albero, un gufo grigio la fissava
immobile.
Le
morbide
piume
riprendevano i colori del tronco e si
fondevano con le striature bianche e
marroni della corteccia.
«Come ho fatto a non vederlo?» gli
chiese.
Lui sorrise divertito.
«I tuoi occhi raccolgono solo le
informazioni utili, le altre le ignorano.
Non siamo in grado di vedere quello che
non ci interessa, ma se solo ci
concentriamo, possiamo scoprire molto
altro del mondo che ci circonda.»
Sophie sorrise e voltò leggermente la
testa di lato. Eric posava ancora le mani
sulle sue spalle. Avrebbe voluto che non
le staccasse mai.
Per parecchio tempo nessuno dei due
parlò. Eric si sorprese a chiedersi
perché mai si sentisse tanto turbato.
Sophie notò la sua espressione e, per
un po’, rimase incerta se chiedergli o no
ciò che le ronzava in testa.
«Come hai fatto?» chiese ad un tratto
con un tono fermo che Eric non le aveva
mai sentito usare.
La guardò perplesso.
«Di cosa parli?»
«Non può trattarsi sempre di un caso.
La sera al rifugio mi hai portata fuori
mentre tutti gli altri si accalcavano l’uno
sull’altro. Poi, la mattina dopo, ti sei
accorto della mia presenza senza
nemmeno voltarti. E infine l’altra sera,
durante la cena al buio. Sembrava che tu
ci
vedessi
perfettamente.
Com’è
possibile? Cosa stai tentando di
nascondermi?»
«Non ti sto nascondendo nulla.»
Sophie non prestò attenzione alla
risposta.
«Andiamo, Eric, non sono stupida. E
di
sicuro nemmeno pazza. Non è
normale quello che hai fatto. E più ci
penso, meno riesco a trovare una
spiegazione logica. Ma è successo
troppe volte per essere una mia
allucinazione. Sono stufa di fingere di
non vedere, di non accorgermi di quello
che succede quando ci sei tu. Dimmi la
verità.»
Eric non riusciva a distogliere gli
occhi dal suo sguardo. Deglutiva
nervosamente e scuoteva la testa.
«Sophie, io... non so cosa dirti.»
«Quel ragazzo all’università, perché
lo hai aggredito?»
La domanda fu un colpo nello
stomaco. Sembrava che la sua mente
fosse incapace di reggere oltre. Eric
guardò nel vuoto davanti a sé e inspirò
profondamente.
«C’è un lato di me, Sophie, che non
conosci. E che non conosco bene
nemmeno io. C’è qualcosa di diverso in
me, che temo e che di tanto in tanto
emerge contro la mia stessa volontà. Mi
sforzo di tenerlo a bada, ma a volte è
più forte di me e non riesco a
controllarlo.»
«Possiamo imparare a controllarci,
se lo vogliamo. In fondo siamo sempre
noi stessi.»
«Quello non sono io. È qualcun
a l tr o . . . qualcos’altro. Vive in me,
condividiamo lo stesso corpo e, ciò che
più mi spaventa, la stessa mente.»
Sophie cercò la sua mano e ne toccò
il dorso con la punta della dita.
«Non tenermi lontana da ciò che hai
dentro.»
Eric non mosse un muscolo, ma a
Sophie parve di scorgere una crepa di
emozione sul suo viso. La fissò negli
occhi, fino a che sembrò non reggere più
il suo sguardo e li abbassò. Quando
riprese a parlare, la sua voce tremava.
«La verità, Sophie, è che... è molto di
più di quello che io stesso so di me.»
Si chinò in avanti e appoggiò la testa
tra le mani.
«Da quando ero piccolo, ci sono cose
a cui non so dare spiegazione. Cose che
riesco a fare, cose che riesco a sentire, a
percepire, mentre tutto il mondo attorno
a me ne sembra inconsapevole. Non
conosco il perché di tutto questo, so solo
che è così. Che sono così. E tu sei la
prima persona a cui lo dico.»
Sophie lo osservò senza dire nulla.
Non si era mai sentita così vicina a una
persona, come in quel momento.
Nonostante quelle rivelazioni fossero,
per
certi
versi,
inquietanti,
era
assolutamente a suo agio. Lui si stava
aprendo, finalmente.
«Mi posso fidare di te?» le chiese
Eric.
«Cosa senti?» sussurrò lei. «Tu credi
di poterti fidare di me?»
«Io credo di sì.»
Sophie sorrise e si avvicinò col viso
a Eric.
«Allora lasciati andare.»
«È un ordine?» domandò lui con un
sorriso.
Avvicinò il viso , fino a che le sue
labbra non furono a un palmo da quelle
di Sophie.
«Assolutamente» disse lei e lo baciò.
Capitolo 16
Il telefono squillò con insistenza. Il
capitano Evans lo ignorò. Fissava il
monitor che aveva di fronte e, a
intervalli regolari, cliccava sul mouse.
Era come in trance. Concentrato sulle
immagini,
i
suoi
pensieri
si
accavallavano. All’ennesimo squillo,
imperturbabile, rispose.
«Evans» disse.
La voce del sottotenente Stevens era
concitata.
Ansimava,
cercando
di
scandire le parole.
«Capitano, abbiamo una pista.»
L’attenzione del capitano si spostò
sulla telefonata, si sistemò meglio sulla
poltrona e attese che l’altro riprendesse
a parlare.
«Abbiamo ricevuto due segnalazioni
da due motel differenti, uno all’inizio
della statale 25, l’altro al confine con la
contea, a Hoodpark.»
«Sono entrambi...»
«Al
margine
della
città,
precisamente.»
«Sta girando in tondo.»
«È quello che pensiamo» puntualizzò
il sottotenente. «Le segnalazioni sono
arrivate ieri mattina e stamattina. Un
uomo ha affittato una stanza per la notte
ed è andato via senza pagare.»
«Come facciamo a essere sicuri che
si tratti di lui?»
Il sottotenente attese un secondo e
inspirò prima di parlare.
«Dormiva solo di giorno.»
Capitolo 17
Jimmy strinse il blazer di tweed sul
petto
e
proseguì
la
passeggiata
affiancando il fiume, nel tratto in cui le
coppie concludevano la loro serata
romantica, fermandosi lungo il muretto
per abbandonarsi a lunghi baci. La
serata non era particolarmente fredda,
ma un forte vento si era alzato non
appena aveva avvicinato il corso
d’acqua. Era rimasto per qualche
secondo a rimirare il riflesso della luna
sul mantello nero del fiume, respirando
quello che definiva il suo personale
“richiamo alla natura”. I dubbi che lo
tormentavano da giorni non tardarono a
far breccia nuovamente tra i suoi
pensieri.
Forse
stava
diventando
paranoico, in fondo Sophie aveva
ragione, non lo conosceva affatto,
eppure continuava a pensare che ci fosse
qualcosa di strano in Eric. Se si fosse
basato solo sulle capacità fisiche che
aveva messo in mostra in alcuni
frangenti, non avrebbe avuto dubbi
nell'affermare che quel ragazzo era come
lui. Ma qualcosa di insolito in alcuni
comportamenti lo lasciava interdetto e
aumentava le sue perplessità. Non si
trattava di semplici sfumature, era
qualcosa di più profondo, qualcosa che
non riusciva a capire e che rendeva Eric
così misteriosamente diverso.
Attraverso i labirinti del pensiero,
cercava ciò che non riusciva ancora ad
afferrare completamente e d'un tratto lo
vide.
Eric camminava a passo svelto, con
l'incedere di chi sa dove andare e non
vede l'ora di arrivarci. Aveva la testa
coperta dal cappuccio della felpa, come
suo solito, e si guardava intorno, come
se avesse paura di essere seguito.
Jimmy era sul punto di chiamarlo per
chiedergli dove fosse diretto a quell'ora
della notte, ma cambiò idea e decise di
seguirlo.
Certo, poteva essere uscito a
passeggiare proprio come stava facendo
lui, che adorava camminare lungo il
fiume di notte e ascoltare il silenzio
della città. Eppure, quel procedere
guardingo e l'ora tarda lo avevano
insospettito a tal punto, da dargli una
velata speranza di poter trovare una
risposta alle domande che portava con
sé, da ormai troppi giorni. Domande
che, suo malgrado, non avrebbe mai
potuto confidare a Sophie.
Vide Eric attraversare il ponte.
Appena intuì che si stava dirigendo
verso di lui, si sdraiò su una panchina,
fingendosi uno dei tanti barboni che a
quell'ora si potevano incontrare al
riparo sotto un ponte o accucciati su una
panca.
La distanza tra i due marciapiedi e i
taxi notturni che celavano la visuale, lo
fecero passare inosservato.
Jimmy aspettò che Eric oltrepassasse
completamente il ponte. Si alzò dalla
panchina e, tenendosi a debita distanza,
iniziò a pedinarlo.
Pensò a Sophie e si sentì in colpa per
quello che stava facendo, ma non voleva
tirarsi indietro proprio adesso.
Eric continuò dritto per la sua strada,
dirigendosi verso la periferia della città.
Jimmy aveva intuito dove era diretto e la
cosa non gli piaceva affatto. Quando
Eric svoltò a destra, all'ultimo incrocio,
Jimmy si ritrovò nuovamente alle porte
di Estrielle. Sapeva che quello era il
quartiere più pericoloso della città.
Droga, degrado e prostituzione erano
tutto e solo ciò che si poteva trovare in
quel luogo.
Perché è venuto fin qui?
Jimmy svoltò l'angolo, giusto in
tempo per veder entrare Eric in uno dei
palazzi fatiscenti di Estrielle. Fu
sorpreso dall'udire un vociare tipico
degli eventi che attirano le folle. Forse
un concerto, pensò, più probabilmente
un rave-party, ma la musica non era
ancora iniziata. Era indeciso se entrare,
non si sentiva sicuro lì in strada, né tanto
meno in quell'edificio. Si guardò
attorno, assicurandosi che nessuno lo
avesse visto e, facendosi coraggio,
varcò la soglia. Quello che vide lo
lasciò di sasso.
Almeno un centinaio di persone si
accalcavano nello spazio intorno a una
gigantesca gabbia metallica al centro
della sala. All'interno della gabbia due
uomini combattevano a torso nudo, su un
pavimento ricoperto da segatura e
chiazze di sangue, mentre all'esterno un
uomo in piedi su una cassa rettangolare
urlava
attraverso
un
megafono:
«Benvenuti al The Cage! La regola è una
sola: vinci o muori.»
Di fianco all'uomo col megafono, tre
individui indossavano dei cappelli
bianchi in segno di riconoscimento e
sventolavano banconote, raccogliendo le
puntate degli scommettitori.
Il combattimento durò pochi minuti:
la differenza di taglia degli sfidanti e un
colpo alla nuca ben assestato lasciarono
il più piccolo dei due lottatori disteso a
terra. Venne rapidamente trascinato fuori
da altri due uomini di grossa stazza, che,
terminata la pulizia, si riposizionarono
ai lati del ring. Gli allibratori avevano
già rilanciato le scommesse, mentre un
nuovo sfidante si era avvicinato
all'ingresso della gabbia. Il pubblico
aveva emesso un boato.
Sbalordito e allo stesso tempo rapito
dall'evento che gli si era palesato
davanti, Jimmy aveva perso di vista
Eric. Lo cercò tra la folla e alla fine lo
riconobbe.
Era nel centro della gabbia.
Eric iniziò a muoversi senza sosta
attorno al suo avversario, un uomo
robusto, grosso il doppio di lui e
pesante almeno il triplo. L'uomo
mostrava un sorriso beffardo, segno che
si aspettava una vittoria sin troppo facile
sul ragazzo che gli girava attorno. Iniziò
a battersi i pugni sul petto per incitare il
pubblico. Il ritmo cresceva a ogni colpo,
incalzando la folla in delirio che
scandiva i battiti al grido: «San-gue!
San-gue!»
A quel punto l'uomo gli si scagliò
contro.
Eric non gli diede il tempo di
avvicinarsi. Non appena l'uomo si trovò
ad un paio di metri da lui, balzò a
sinistra, aggrappandosi con le mani alla
rete della gabbia metallica. Mentre il
suo avversario fermava la corsa per
cambiare direzione, Eric fulmineo
contrasse i muscoli delle gambe e,
facendo forza sulla rete, si diede lo
slancio necessario a impattare con il
tallone il costato dell'uomo. Si udì il
rumore del colpo e il tonfo del corpo
pesante
accasciarsi
sul
pavimento
polveroso.
Ci fu un attimo di silenzio incredulo,
poi la folla riprese a urlare più forte.
L'uomo si rialzò lentamente, tastandosi il
busto con una mano e, barcollando, si
rimise in guardia. Il sorriso di
presunzione era scomparso dal volto
rude e, al suo posto, erano subentrati
collera e un velo di terrore.
Eric questa volta non attese la mossa
successiva. Intenzionato a cogliere di
sorpresa il suo avversario, saltò in alto
verso l'imponente riflettore semisferico
che penzolava qualche metro sopra le
loro teste.
L'uomo inarcò il collo per seguire
Eric e i suoi occhi rivelarono lo stupore
e lo spavento, per il salto disumano che
il suo giovane rivale aveva appena
compiuto.
Quando
ebbe
tirato
indietro
completamente la testa, la luce del faro
lo accecò. Non ebbe nemmeno il tempo
di battere le palpebre che, dall'alto, un
calcio gli piombò dritto in mezzo alla
fronte, come un macigno che frana
rovinosamente da una montagna.
L'uomo crollò a terra inerme.
La folla euforica si abbandonò
all’esaltazione del momento con urla
assordanti. Tra quelle grida si coglieva
in
maniera
distinta
l’invocazione:
«Finiscilo!»
Eric, in preda alla furia del
combattimento, si avvicinò al suo
avversario. Lo fissò e ascoltò la folla.
Spinto dall'incitamento del pubblico,
sollevò il gomito per colpirlo ancora,
ma un movimento improvviso lo
sorprese.
L'uomo, da terra, in un gesto
disperato aveva lanciato la segatura
dietro di sé, riuscendo a centrare gli
occhi
di
Eric
che,
accecato,
indietreggiò.
Ancora a terra l'uomo girò su sé
stesso e si alzò traballando. Di fronte a
lui, il giovane avversario arretrava
portandosi entrambe le mani al volto.
Urlava per il bruciore. L’uomo lo caricò
come un toro furioso. Lo colpì alla
pancia con il cranio e, sollevandolo per
le gambe, lo scaraventò contro l'angolo
della gabbia. Eric accusò il colpo e si
accasciò a terra. Per quanto si sforzasse,
non riusciva ad aprire gli occhi e
respirava a fatica.
T u t t o si
era
improvvisamente
complicato.
La folla, in delirio fino a un istante
prima,
ammutolì
di
fronte
al
cambiamento repentino di un finale che
sembrava già scritto e smise di coprire
con le urla i rumori all'interno della
gabbia.
Eric capì che quello era l'unico
momento in cui agire.
Sapeva di potercela fare anche senza
vedere. Si concentrò, ignorò il bruciore
agli occhi e trasse un profondo respiro,
lasciando che ogni stimolo esterno si
amplificasse nella sua mente. Quando
l'uomo gli si lanciò contro con
l'intenzione di finirlo, Eric focalizzò
l'attenzione
sui
passi
che
si
avvicinavano e sull'odore della pelle
che cresceva di intensità. Intuì la
distanza e schivò il gancio diretto al
volto. Si abbassò, accostò il piede a
quello dell'avversario, per intuirne la
posizione del corpo, e gli ruotò intorno,
evitando il secondo colpo diretto allo
sterno. Una volta alle spalle, gli afferrò
la gola cingendola tra l'avambraccio e il
bicipite e incanalò tutta la sua forza
attraverso il ginocchio, incrinandogli la
vertebra lombare.
Il suo avversario rimase paralizzato.
Eric strinse la presa sul collo
aumentando la pressione sulla giugulare,
fino a quando il pulsare del sangue si
affievolì e il mancato afflusso di
ossigeno al cervello trascinò l’uomo in
uno stato di incoscienza.
Come un sacco riempito di pietre, il
suo avversario franò di nuovo a terra,
privo di sensi.
La folla esplose in un fragoroso
boato.
Nessuno si sarebbe aspettato un
incontro tanto combattuto, ma l'evolversi
delle situazioni e il veder capovolgere
in vittoria una sicura disfatta, aveva reso
il tutto estremamente coinvolgente.
Eric non mostrava né segni di euforia
per la vittoria, né segni di stanchezza.
Era rilassato, come se fosse finalmente
riuscito a scaricare la rabbia e la
tensione accumulate. Senza curarsi del
pubblico che lo incitava e del nuovo
sfidante che si apprestava ad entrare
nella gabbia, si infilò la felpa
appoggiata in un angolo e si sistemò il
cappuccio sulla testa, prese il mazzetto
di banconote dalle mani di uno degli
uomini dal cappello bianco e abbandonò
il ring.
Jimmy lo osservò scomparire da una
porta laterale. Era rimasto immobile,
nello stesso punto in cui si era fermato
appena entrato. Aveva visto abbastanza
da sapere che i suoi sospetti non
avevano più senso di esistere.
Adesso ne era certo, Eric era come
lui.
Tre battiti di mani a simulare un
applauso beffardo e un “ma che bravo”,
scandito lentamente da una voce
familiare, accolsero Eric appena fuori
dal The Cage.
La figura in controluce di fronte a lui,
appoggiata al cancello esterno, lo
fissava sorridente, ma non si trattava di
un sorriso di approvazione.
Eric spalancò gli occhi.
«Jimmy?!» la voce rotta tradì la
sorpresa nel vederlo lì, in quel
momento.
«Devo
ammettere
che,
come
fenomeno da baraccone, hai del talento.»
Jimmy lo guardava con profondo
disprezzo. Drizzò la schiena e fece un
passo verso di lui. «Almeno ti rendi
conto della gravità di tutto questo?»
Eric corrugò la fronte, per nulla
spaventato
dall’atteggiamento
intimidatorio di Jimmy. «Che diavolo ci
fai qui? Sei venuto a farmi una
paternale? Potevi risparmiarti la fatica.
Non sei nessuno.»
Riprese a camminare e superò
Jimmy, passandogli a fianco. Jimmy tese
una mano e gli sbarrò il passaggio.
«Il signor Nessuno è qui perché ti ha
seguito.»
Eric reagì di getto. Lo afferrò per il
bavero della giacca e lo spinse con la
schiena contro le sbarre del cancello.
«Ma chi ti credi di essere?» ringhiò.
«Mi insulti, ti permetti di seguirmi e hai
anche la faccia tosta di venirmelo a