Jimmy
la
accompagnarono per tutto il percorso.
Varcò la soglia di casa, tutto era in
silenzio, non c’era ancora nessuno.
Strano, pensò Sophie. Si chiese dove
fosse suo padre, a quell’ora di solito era
già di ritorno.
Orion, l’husky siberiano di sei mesi
che le aveva regalato Jimmy per il suo
compleanno, le corse incontro agitando
la coda e appoggiandole le zampe sulle
ginocchia.
«Buonasera, Orion. Hai passato una
buona giornata?»
Sophie gli grattò la testa e lo baciò
sul muso e per tutta risposta Orion le
lecco la guancia ripetutamente.
Salì nella sua stanza. Aprì l’armadio
e rimase ad osservare gli abiti riposti
con ordine all’interno. Non sapeva quale
indossare. Si rese conto di non
conoscere dove fossero diretti quella
sera. Aveva intuito che si trattava di un
locale fuori dal centro, ma, presa dalla
conversazione che era seguita, aveva
dimenticato di chiedere informazioni più
precise. Conoscendo la vena mondana di
Jimmy, era certa che non sarebbero
andati ad un raduno hippy. Qualsiasi
abito appena elegante sarebbe stato
perfetto.
Contemplò per qualche istante il
guardaroba, richiuse lo sportello e scese
al piano di sotto. Mentre cucinava, il
motore di una Jeep nel giardino la
avvertì del ritorno di suo padre.
«Bentornato, papi» disse Sophie non
appena sentì la porta di casa aprirsi.
L’uomo di fronte a lei vestiva un
completo
formale
portato
impeccabilmente.
Il
taglio
stretto
dell’abito metteva in risalto il fisico
asciutto e imponente, nonostante l’età
non fosse più quella di un tempo. In più
occasioni, camminando sottobraccio con
lui, Sophie aveva potuto sentire gli
apprezzamenti
delle
sue
coetanee.
Talvolta aveva l’impressione che li
scambiassero per una coppia e la cosa
la divertiva.
L’uomo posò la valigetta che portava
con sé ai piedi di una sedia e le si
avvicinò. Come ogni volta, Sophie non
poté fare a meno di notare la cicatrice
che partiva dalla tempia sinistra fino a
raggiungere la base del collo.
Un incidente in moto gli aveva
procurato fratture scomposte agli zigomi
e alla mascella, poco tempo prima che
lei nascesse. Sophie si era ripromessa di
non aprire mai l’argomento; per quanto
curiosa di scoprire i dettagli, temeva di
riportare a galla le sensazioni di un
passato che il padre non avrebbe voluto
rivivere.
«Tesoro» la salutò l’uomo «questa
sera ho fatto più tardi del solito.»
«Anche ieri sera mi sembra. Sei
tornato tardi, stavo già dormendo. E
stamattina ti ho sentito uscire all’alba.
Qualche problema a lavoro?»
«Nulla di grave, solo una seccatura,
ma mi sono dovuto fermare più a lungo
del previsto. E credo dovrò uscire
presto anche domattina. A te com’è
andata? Emozionata per il primo
giorno?»
«Era ieri il primo giorno, papà»
disse Sophie sorridendo. «Comunque sì,
è stato... interessante.» Si divincolò
agilmente tra le ante aperte della cucina.
«Interessante?»
aggrottò
un
sopracciglio. «Beh, è comunque un buon
punto di partenza. Hai conosciuto
qualcuno di nuovo?»
Sophie alzò gli occhi verso il soffitto
e riportò i pensieri a poche ore prima.
Non era ancora il momento di rivelare
qualcosa del ragazzo dagli occhi di
ghiaccio.
«Nessuno
di
importante»
disse
sviando prontamente l’argomento.
«Hai sentito tua madre?»
«L’ho chiamata prima, sta bene. Dice
che Parigi è stupenda come sempre e che
questa sera lei e Natasha andranno a
mangiare nel miglior ristorante della
città. Si sta divertendo.» Sorrise.
«Tua madre è sempre stata una donna
di mondo. Dalle una città da girare e un
ottimo albergo e starà benissimo.»
«Perché non l’hai accompagnata
questa volta?»
«Avevo promesso a Nate che gli
avrei dato una mano. C’è una situazione
un po’ complicata da risolvere, ha
chiesto il mio aiuto e non me la sono
sentita di rifiutare. Ha fatto tanto per me.
E poi tua madre passerà tutto il tempo ad
ascoltare quelle conferenze. Mi sarei
annoiato.»
«Lo so. Mamma se la caverà
benissimo lo stesso. Ora sbrigati a
cambiarti che tra poco è pronto da
mangiare.»
Cenarono,
continuando
a
chiacchierare del più e del meno. Finita
la cena, Sophie salì nella sua stanza a
prepararsi per la serata. Mentre si
vestiva, la chiacchierata con Jimmy si
riaffacciò nella sua mente. Per quanto
non condividesse il suo pensiero,
temeva che Jimmy avesse fatto centro.
Lo squillo del cellulare la ridestò dai
suoi pensieri. Osservò il display e
scorse il nome di Jimmy lampeggiare.
Rispose.
«Il suo umile cavaliere la attende al
portone, milady.»
Sophie afferrò la borsetta, lanciò
un’ultima occhiata allo specchio per
controllare il trucco degli occhi e uscì.
In auto, Jimmy riprese eccitato a
parlarle della festa a cui erano diretti.
Sophie annuì con la testa per fingere
attenzione, ma si rifugiò nei suoi
pensieri fino all’arrivo.
BENVENUTI A ESTRIELLE
La scritta campeggiava su un cartello
arrugginito, con la vernice sbiadita e i
bordi corrosi.
Sophie lanciò lo sguardo oltre il
finestrino dell’auto. I suoi occhi
passarono dal basso all’alto le sagome
dei palazzi che si ergevano dal nulla.
«Dove siamo?» chiese.
«Tra poco lo scoprirai.»
Entrarono in un ampio parcheggio,
dove sostavano decine di altre auto.
«Andiamo» disse Jimmy e scesero
dall’auto.
Avanzarono
lungo
una
strada
circondata da palazzi. Sophie notò le
finestre coi vetri rotti e l’intonaco che si
staccava dai muri.
Un brusio di voci indistinte giunse
alle loro orecchie. Sophie non capiva da
dove provenisse, fino a che un bagliore
dietro l’angolo del palazzo di fronte a
loro attirò la sua attenzione.
«Siamo quasi arrivati» disse Jimmy.
Svoltarono
l’angolo.
Una
folla
sostava a chiacchierare assiepata di
fronte ad un fatiscente capannone.
«Che posto è questo?» disse Sophie
osservando tutt’intorno a sé.
«Non siete mai stati a Estrielle?» una
voce maschile li raggiunse di lato.
Sophie riconobbe all’istante il timbro
familiare.
«Ted!» esclamò Jimmy alla vista
dell’amico.
Sophie lo osservò avvicinarsi con un
largo sorriso sul volto. Ted era da
sempre l’unico in grado di insidiarla nel
ruolo di fidato compagno di avventure di
Jimmy. Capitati in classi differenti al
liceo, il rapporto tra i due non si era mai
allentato. Sophie allungò la vista oltre il
ragazzo, sapendo per certo chi vi
avrebbe trovato. Subito dietro, infatti,
spuntò Vicky, migliore amica di Ted e
sua ombra in ogni movimento. Aveva i
capelli neri e folti, le labbra sottili e “il
miglior fondoschiena del campus”, come
lo avevano definito i ragazzi del primo
anno. Il look appariscente catturava
l’attenzione di tutti, ma il suo caratterino
la rendeva impossibile da avvicinare
per chi non le andava a genio. Il legame
tra lei e Ted era, per certi versi, molto
simile a quello tra Sophie e Jimmy,
anche se Sophie sapeva che erano finiti
a letto insieme almeno una volta.
Quando glielo aveva rivelato, Vicky
l’aveva implorata di non dire nulla a
Jimmy. Sophie aveva accettato di
mantenere il segreto, conoscendo il
debole di Vicky nei confronti di Jimmy.
Lui non se n’era mai accorto o aveva
sempre finto di non esserne consapevole
e Vicky non voleva assolutamente che
scoprisse che aveva fatto sesso col suo
migliore amico. Sophie aveva promesso
che sarebbe rimasta muta come una
tomba.
«Tesoro» disse Vicky lanciandosi in
un abbraccio verso Sophie «sono così
contenta che siate venuti. Ted mi aveva
detto che non eravate sicuri di esserci.»
«Alla fine mi ha convinta» disse
Sophie in una smorfia.
«Beh, non potevamo perdere questa
serata» le rispose Jimmy. Il sorriso di
Vicky si allargò vistosamente.
«Giusto, a questa serata non si può
mancare»
fece
Ted
rivolgendosi
all’amico. «È l’evento universitario con
la “e” maiuscola. Tutti gli studenti fanno
follie per esserci.» Tutti meno uno,
pensò Sophie.
«Ora mi volete dire cos’è questo
posto?» chiese Sophie.
«Non siamo molto distanti dalla città
a dire il vero» disse Ted e si voltò ad
indicare in lontananza le luci della
metropoli. «Siamo a Estrielle, appena
fuori dal centro abitato. Fino a una
trentina d’anni fa era un quartiere
residenziale decisamente borghese, ma
ormai è stato quasi abbandonato.»
«Come mai?»
«Il degrado ha preso il sopravvento.
Nessuno sa spiegare bene il motivo.
Negli anni, ogni forma di criminalità ha
allungato i suoi tentacoli e qui ha trovato
terreno fertile per attecchire. Complice
anche l’interesse di qualche personalità,
come dire, influente.»
«E perché siamo venuti fin qui?»
chiese Sophie.
Ted e Jimmy si scambiarono uno
sguardo d’intesa.
«Per questo» disse Ted indicando
con una mano la bassa struttura davanti
alla quale erano affollate tutte le persone
«Lo chiamano il Rifugio. È un vecchio
magazzino che si estende sottoterra.
Girano diverse voci su cosa fosse
realmente. C’è chi giura si tratti di un
antico rifugio antiatomico, chi invece
sostiene che sia solo un vecchio
magazzino abbandonato.»
«Niente di terribile quindi» disse
Jimmy.
«A dire il vero una storia più
particolare
esiste»
proseguì
Ted.
«Dicono che quando è stato scoperto,
quel
magazzino
contenesse
strani
macchinari. Sembrava un laboratorio
segreto.»
«Vuoi dire che nessuno sapeva della
sua esistenza?»
«Così sembra. Vent’anni fa due
ragazzi entrarono nel capannone. Anche
a quel tempo era quasi vuoto. Conteneva
solo alcuni materiali di imballaggio
stoccati con ordine. Frugando qua e là
scoprirono un portello sul pavimento
che nascondeva l’ingresso alla parte
inferiore. Invitarono altri ragazzi per
fare un po’ di baldoria. Quella notte
nacque la festa delle matricole.»
«Come mai nessuno è mai venuto a
protestare o a sgomberare?»
«A questa zona la polizia non si
avvicina o lo fa molto raramente. Come
ti ho detto, siamo alle porte di Estrielle.
Tutto ciò che non è legale nel resto della
città, lo diventa a cento metri da qui.
Non mi avvicinerei a questo posto in
nessun altro momento. Ma la festa delle
matricole è un evento a parte. Non è mai
successo niente. Troppa gente. Troppo
movimento.»
«Devo preoccuparmi?»
«Stai tranquilla, siamo al sicuro.
Ormai questa festa è diventata più snob
di quelle nei locali del centro. I ragazzi
vengono qui a sballarsi prima di iniziare
l’anno. Se fossi venuta l’anno scorso, lo
sapresti. Comunque te ne accorgerai una
volta dentro, da come è stato attrezzato
questo posto. Sembra un vero locale. Se
fossi in voi, però, non mi allontanerei da
qui.»
La
conversazione
proseguì
per
qualche altro minuto, poi entrarono nel
locale.
Una
lunga
scala
in
cemento
conduceva sottoterra, descrivendo una
stretta spirale simile a una scala a
chiocciola. Sophie afferrò il corrimano
per non perdere l’equilibrio. Ebbe
l’impressione di entrare in un vecchio
garage, buio e stretto. Dal piano
inferiore proveniva il bagliore rossastro
delle luci della sala sotterranea. I
quattro ragazzi potevano già udire la
musica risalire su per la scala.
Giunsero alla porta d’ingresso e
varcarono l’uscio. L’assordante volume
della musica li investì. Scrutarono dalla
soglia per qualche istante.
L'interno era stato scavato nella terra
a formare diverse stanze. Tutto si
sviluppava
intorno
a
quella
che
sembrava essere stata la sala principale
della struttura, larga diverse decine di
metri, ai cui lati si affacciavano gli
ingressi degli altri ambienti, talvolta
preceduti da brevi corridoi. Tutte le sale
erano state lasciate nello stato in cui si
trovavano una volta. L’impressione era
quella di trovarsi in un vecchio
magazzino, riadattato con un’accozzaglia
di stili diversi e di arredi messi insieme
senza una logica. In ogni sala erano stati
ricavati diversi vani con sedie e
tavolini, alcuni più isolati. Le pareti dai
toni rosso scuro e prive di ornamenti
conferivano al locale un aspetto spoglio.
Decine
di
ragazzi
ballavano
o
chiacchieravano
seduti
ai
tavolini
occupando ogni angolo del locale.
Sophie sbuffò, constatando quanto
quel posto fosse così lontano dai suoi
gusti e dal suo ideale di divertimento.
«Non ricordavo che l’anno scorso
fosse così pieno» disse Ted alzando il
tono di voce, nel tentativo di superare il
frastuono della musica e farsi sentire
dagli amici.
«Sarà un’impresa trovare un posto
dove sedersi» convenne Jimmy. «Forse
faremmo meglio a cercare un angolo
dove stare in piedi.»
«Facciamo prima un giro per il
locale» intervenne Vicky. «Sembra
enorme, voglio vedere cosa c’è nelle
altre sale. Magari troviamo posto.»
Jimmy annuì. «D’accordo.»
Si spostarono verso il centro del
salone, divincolandosi tra le file
improvvisate di tavolini.
«Ehi, ragazzi, guardate un po’ chi c’è
lì...»
Si voltarono verso l’angolo opposto
del salone, nel punto indicato dallo
sguardo di Vicky.
«Stacey Becker non perde tempo,
bisogna riconoscerglielo» disse e si
abbandonò a una risata.
Sophie guardò meglio tra la mole di
teste che le coprivano la visuale, anche
se credeva di aver già capito a cosa
avrebbe assistito. Abitino scollato e
tacchi alti, Stacey Becker se ne stava
letteralmente avvinghiata al ragazzo che
le aveva ridato il cellulare.
«Chi è quello?» chiese Ted.
«È uno nuovo» rispose Jimmy,
vistosamente seccato. «È un idiota. Ha
fatto la sua apparizione teatrale ieri,
incappucciato e con gli occhiali da sole
e si è pure beccato il richiamo del
professore.»
«Sarà
anche
idiota,
ma
è
paurosamente sexy» disse Vicky con una
risatina ammiccante e senza distogliere
lo sguardo.
«Sexy? Quello lì?» disse Ted.
«Cosa vuoi capirne tu?» Vicky gli
tirò una leggera gomitata nel costato.
«Sembra anche essere un tipo tosto»
continuò Vicky «almeno stando a quello
che dicono.»
«Perché? Cosa ti hanno detto?»
intervenne
Sophie,
mostrandosi
improvvisamente
interessata
all’argomento.
Vicky la guardò, accennando un
sorriso malizioso e riprese a parlare.
«Pare che sia venuto qui alla Dorton,
perché è stato cacciato dall’università
che frequentava.»
«Cacciato? E per cosa?» chiese
Jimmy.
«Pare che abbia aggredito un ragazzo
in circostanze dubbie. Dicono che dal
nulla sia diventato una furia. Quando
hanno provato a separarli, l’altro
ragazzo era messo davvero male.»
«Sarà
vero?» il tono di Jimmy
mostrava una punta di inquietudine.
«Non so e francamente non mi
importa. Mi interessano di più i suoi
pettorali e i suoi splendidi occhi. Figo e
dal passato oscuro. Cosa c’è di
meglio?» Si lasciò andare ad un’altra
risatina. «E tu, Sophie» disse ancora
«non lo trovi eccitante?»
« I o ? » trasalì. «Mah, non più di
tanto.» Sentì una morsa allo stomaco per
la bugia che aveva appena pronunciato.
Doveva ammetterlo: vederlo lì,
abbracciato e intento a baciarsi con
quella gatta morta di Stacey Becker, le
dava veramente fastidio.
«Dai, non stiamo qua fermi tutta la
sera» disse Ted «andiamo a vedere cosa
c’è di là.»
«Andate pure voi» disse Sophie «io
vi aspetto qui. Non mi va di girare il
locale.»
«Ma dai, cosa fai qui da sola?»
«Davvero, preferisco rimanere qui.
C’è troppa confusione.»
«Sei sicura?» le chiese Jimmy.
Sophie notò l’apprensione sul suo
volto.
«Sì, sono sicura» lo rassicurò.
«Andate, se trovate un posto mandatemi
un messaggio e vi raggiungo. Io intanto
rimango in questa sala.»
«Come vuoi.
Non
ti
perdere,
torniamo tra poco.» Le sfiorò la spalla
con una mano.
Sophie contraccambiò con un sorriso
e seguì con lo sguardo i tre amici
allontanarsi tra la folla.
Quando scomparvero alla sua vista,
iniziò a percorrere la sala principale,
districandosi tra i tavoli rotondi disposti
a pochi metri l’uno dall’altro. Si sentiva
decisamente a disagio in mezzo a tutta
quella gente, ma ormai era lì e, almeno
per qualche ora, non avrebbe potuto
abbandonare quel luogo. Decise che,
mentre aspettava il ritorno dei suoi
compagni
di
avventura,
avrebbe
trascorso
il
tempo
sorseggiando
qualcosa. Tutto sommato, se doveva
perdere tempo, meglio farlo con un buon
drink in mano. Individuò la sua meta e si
diresse verso il lato opposto del salone,
dove un lungo bancone in legno
occupava quasi interamente la parete
ricoperta di specchi che contribuivano a
ingrandire
la
sala.
Sul
bancone
dominava un imponente assortimento di
bottiglie di alcool di ogni forma e
genere, su cui si riflettevano brillanti le
luci delle lampade.
Regalò un sorriso al barman e ordinò
da bere. Appoggiata al bancone si
guardò attorno. Un gruppetto di ragazzi
poco distante era intento a far colpo su
tre ragazze sedute. Sophie osservò la
scena. Ripensò ai discorsi ripetuti
infinite volte con Jimmy e si chiese se
mai tra quelle decine di persone avrebbe
davvero potuto celarsi qualcuno per cui
perdere
la
testa.
Scettica
su
quell’ipotesi, tornò a guardarsi intorno.
Il barman la distolse da quei pensieri e
le porse il suo drink. Sophie notò sul suo
volto il sorriso ammiccante che lasciava
intravedere un nemmeno tanto velato
desiderio di continuare quel breve
scambio di parole. Ricambiò il sorriso e
si voltò. Non aveva nessuna voglia di
approfondire la conoscenza. La musica
assordante la infastidiva, si chiese come
facessero tutte quelle persone a parlarsi
e capirsi in mezzo a quella confusione.
Cercò tra la folla il volto di Jimmy,
domandandosi dove fosse finito. Per
quanto poteva ricordare, Jimmy l’aveva
sempre fatta aspettare. Probabilmente si
era fermato a parlare con qualche
ragazza,
improvvisando
un
flirt
estemporaneo destinato a proseguire
nelle ore successive. Sempre che non si
trovasse già in qualche angolo del locale
ad approfondire la conoscenza.
Assorta nei suoi pensieri decise di
allontanarsi ed oltrepassare il salone nel
quale si trovava per dirigersi verso una
delle stanze che si aprivano sull’angolo
opposto. Avrebbe atteso il ritorno dei
suoi tre amici dove sembrava essersi
radunata meno gente.
Accennò pochi passi.
Il
buio
riempì
il
locale
all’improvviso.
La musica cessò di uscire dalle casse
e il silenzio calò come dal nulla nel
sotterraneo. Tutti si fermarono, cercando
di capire cosa stesse succedendo.
Sophie sgranò gli occhi in cerca di uno
spiraglio di luce. Le sale erano avvolte
dall’oscurità. La luce dei lampioni
all’esterno non riusciva a penetrare fin
dentro al sotterraneo.
Grida di insofferenza iniziarono a
riempire l’aria reclamando la luce.
Sophie si sforzò di mantenere la calma.
Individuò a memoria la parete più vicina
e decise di dirigersi in quella direzione
e aspettare al sicuro il ritorno della
corrente. Era cosciente che l’ultima cosa
da fare in quel momento era avventurarsi
alla ricerca dell’uscita.
Le riaffiorò alla mente il ricordo di
un evento accaduto anni prima, quando
suo malgrado era incappata in una
disavventura simile. Si trovava nell’aula
magna della sua scuola media per la
recita di fine anno alla presenza dei
genitori. Era sera inoltrata e all’esterno
un folto velo di nuvole copriva la luce
della luna ed oscurava il cielo. Durante
la rappresentazione una breve scossa di
terremoto aveva provocato un guasto
all’impianto
elettrico
dell’istituto,
facendolo piombare nel buio.
Sul momento la situazione era rimasta
sotto controllo e tutti i presenti avevano
mantenuto la calma. Pochi istanti dopo,
però, una seconda scossa aveva generato
il panico. Nel buio tutti avevano cercato
una via d’uscita correndo in ogni
direzione in preda allo spavento.
Sophie era rimasta immobile sul
palco, evitando per miracolo una trave
di legno staccatasi dal soffitto.
Uno strano e inaspettato istinto aveva
preso il controllo delle sue azioni,
portandola a cercare riparo sotto il
tavolo sul palco e aspettare che tutto
fosse finito. Il padre, che quella sera non
era
venuto
ad
assistere
alla
rappresentazione, una volta giunto sul
luogo l’aveva trovata nascosta nello
stesso punto. Molte persone erano state
ferite, spinte a terra nei momenti
convulsi che erano seguiti alla scossa.
Seppur uscita incolume, Sophie non
aveva mai dimenticato quell’esperienza.
Jimmy quella volta non era con lei e
quella strana coincidenza era l’aspetto
che la spaventava di più, ora che la
stessa
situazione
le
si
stava
ripresentando davanti agli occhi. Sapeva
che sarebbe bastato niente per scatenare
il panico anche in quell’occasione.
Sfruttò il momento di apparente
calma e si mosse tentoni verso la parete.
Qualcosa cadde a terra frantumandosi
poco distante. Un urlo sovrastò il brusio
di voci che proveniva da tutte le sale.
Pochi attimi e fu il caos.
Sophie si sentì spinta da più parti. Il
panico aveva invaso il locale. Le grida
di
aiuto
iniziarono
a
levarsi
velocemente.
Sophie guardò ovunque attorno a sé,
ma il buio riempiva ogni metro del
locale togliendole qualsiasi possibilità
di orientarsi.
«Jimmy!» urlò con la speranza che,
nonostante il caos, l’amico la sentisse,
ma le grida erano diventate troppo forti.
Non aveva più la possibilità di cercare
la parete più vicina, ma rimanere ferma
in quel punto avrebbe costituito un
pericolo ancora maggiore.
Il panico colse anche lei. In un gesto
istintivo di protezione, si immobilizzò e
chiuse gli occhi.
I secondi si dilatarono fino ad
apparire infiniti.
Una
mano
si
materializzò
nell’oscurità e le afferrò il braccio.
Sophie soffocò un urlo di spavento.
Ebbe appena il tempo di chiedersi chi
fosse, che udì una voce a pochi
centimetri dal suo volto.
«Seguimi.»
Sophie indagò nell’oscurità, ma tutto
ciò che intravide fu solo un’ombra
indistinta che si confondeva col buio
attorno a lei. Per quanto si sforzasse,
non era in grado di vedere chi fosse.
Percepiva le vene del polso pulsare,
strette nella presa dello sconosciuto.
Aumentavano di intensità ogni secondo
che passava. Puntò per un attimo i piedi,
indecisa se seguirlo.
«Non c’è tempo» disse l’ombra.
La figura apparsa dal nulla premeva
per portarla via. Sophie si rese conto di
non avere scelta. Decise di fidarsi.
Avvertì la presa al polso stringersi, un
attimo prima di essere trascinata via
nell’oscurità.
Attraversarono le sale in velocità,
facendosi largo tra le persone che si
muovevano senza una direzione precisa,
alla disperata ricerca di una via di fuga.
Nell’oscurità non riusciva a vedere
nulla di ciò che la circondava, ma chi la
stava guidando si muoveva sicuro,
evitando gli ostacoli sul loro percorso.
Attorno a lei sentiva le persone che si
accalcavano nel buio. Chiuse gli occhi e
si lasciò condurre dal misterioso
soccorritore. Per quanto terrorizzata,
l’istinto le diceva che era la scelta
giusta.
«Fai attenzione» le sussurrò la voce.
Sophie si accorse della presenza, sotto i
suoi piedi, di una rampa di gradini che
saliva. Appoggiò le piante dei piedi con
cautela, ma la mano che la afferrava, la
trascinava velocemente. Mantenne a
fatica l’equilibrio per tutta la scala e,
finalmente, arrivò in cima. Sentì lo
scatto di una porta che si apriva.
Un fascio di luce le toccò le palpebre
e, con le guance, avvertì l’aria fresca
sfiorarle la pelle. Aprì gli occhi a fatica,
abbagliata dalla luce dei lampioni.
Erano sbucati all’aperto in un batter
d’occhio.
Il vento le soffiò tra i capelli. Il
respiro affannoso iniziò a rallentare. La
luna
piena
splendeva
nel
cielo,
rischiarando l’ampio spazio alberato
antistante l’uscita. All’esterno non c’era
più nessuno. Solo allora realizzò di non
trovarsi all’ingresso da cui era entrata.
La porta appena varcata apparteneva a
una casupola anonima. I muri scrostati e
qualche finestra senza vetri davano
l’idea di una costruzione pronta per
essere demolita. Si accorse di non aver
più alcuna mano ad afferrarla e si voltò
di scatto. Il battito del suo cuore
accelerò all’improvviso.
Chiunque avrebbe immaginato di
trovarsi davanti agli occhi. Tranne lui.
Fermo a pochi passi da lei, il ragazzo
di quella mattina la fissava in silenzio.
Era in piedi, avvolto in una felpa grigia
con cappuccio. Sembrava non accusare
alcuno sforzo dopo la brusca corsa fuori
dal locale. Nell’ombra la sua carnagione
sembrava fondersi col buio e assumere
il colore della notte, mimetizzandosi
perfettamente nell’oscurità. Il suo volto
rilassato
le
infondeva
un'inattesa
tranquillità. Sotto i capelli neri in
disordine, i suoi occhi apparivano più
scuri e riflettevano lucidi il chiarore
della luna, aumentandone l’intensità. A
Sophie parvero gli occhi di un animale
notturno. Tutto di lui, in quel preciso
momento, la attraeva irresistibilmente.
Scacciò quel pensiero e tornò a fissarlo.
Lui la guardava immobile.
«Ti senti bene?»
Le sue parole, scandite lentamente, la
colsero di sorpresa. La voce del ragazzo
era bassa, il timbro caldo e grave le
provocò
un sussulto. C'era anche
qualcos'altro nella sua voce che la
disorientava, ma non seppe riconoscere
cosa fosse.
«Come hai detto?» chiese Sophie,
realizzando di non aver prestato
attenzione alle sue parole.
Il ragazzo rise. Sembrava che lo stato
confusionale in cui era piombata lo
divertisse.
«Ti ho chiesto se è tutto okay.»
«Io... credo di sì» rispose Sophie.
Fece correre le dita sulla fronte,
tastandosi le tempie. La corsa al buio e
lo spavento l’avevano visibilmente
provata.
«Ti fa male?» le chiese il ragazzo.
Sophie scosse la testa.
«Vuoi sederti?»
«No, è tutto a posto. Sto bene.»
Il ragazzo parve rassicurato. Sophie
lo guardò confusa.
«Quindi sei stato tu a...»
«Sì» disse senza lasciarle il tempo di
finire. «E scusa per poco fa, spero di
non averti fatto male.»
Sophie trasalì e si guardò il braccio.
Un forte alone rosso circondava il
polso.
«Non importa» disse sorridendo
«meglio così che finire calpestata.»
«È quello che ho pensato anch’io.»
«Dove
siamo?»
chiese
Sophie.
«Questo non è l’ingresso del locale.»
«No, non lo è.»
«E dove siamo allora?»
«La
scala
principale
era
impraticabile,
tutti
si stavano
accalcando là. Mi sembrava più sensato
cercare un’altra via d’uscita. Questo è
un ingresso... secondario.»
Sophie aggrottò la fronte.
«Secondario?»
«Non è un passaggio conosciuto.
Scommetto che nemmeno chi organizza
questa festa sa che esiste.»
«E tu come lo conosci?»
Nuovamente il ragazzo si lasciò
andare a una risata. Sophie intuì che
sapeva molto di più di quel che era
disposto a rivelare. Sembrava che stesse
studiando se poteva fidarsi di lei.
«Conosco questo posto da tempo»
disse «venivo qui spesso quando non
c’era nessuno e lo faccio ancora adesso.
Anche se ammetto che non è un bel posto
dove fare un giro da soli. Passando qui
davanti, un giorno, trovai questa porta
aperta. Forse avrei fatto meglio a
proseguire, ma non seppi resistere. La
curiosità è sempre stata il mio punto
debole, così decisi di entrare. Il varco
conduceva per diversi metri sottoterra,
ma la vera sorpresa fu che, alla fine del
lungo corridoio, mi ritrovai dentro al
Rifugio. Capii che avevo scoperto un
passaggio nascosto, quello che abbiamo
attraversato poco fa.»
Rimase in silenzio per qualche
secondo.
«Ero quasi certo che sarebbe stato
libero, col buio nessuno lo avrebbe
trovato.»
Sophie trasalì. Il buio. Per qualche
strano motivo lo aveva rimosso dalla
mente. Ora si accorgeva di quanto quella
corsa fosse stata tremendamente assurda.
Aveva tenuto gli occhi chiusi, ma non
avrebbe fatto alcuna differenza tenerli
aperti. Era tutto troppo buio per poter
vedere qualcosa.
«Come abbiamo fatto?»
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia.
«A fare cosa?»
«A uscire da lì. Voglio dire, era tutto
buio, non si vedeva niente. Come
abbiamo fatto ad arrivare fin qui?»
Una
smorfia segnò il volto del
ragazzo. La sua osservazione pareva
averlo messo a disagio.
«Probabilmente ti è sembrato così
buio perché i tuoi occhi si erano abituati
alle luci dell’interno. Quando si sono
spente, hai avuto la sensazione di non
vedere più nulla.»
«Sono sicura di quello che ho visto.
Anzi, di quello che non ho visto.»
«Filtrava abbastanza luce, credimi. Il
panico ti ha annebbiato la vista,
succede. E poi te l’ho detto, conosco
questo luogo come le mie tasche. Mi
muovo facilmente anche al buio. Come
avrei fatto altrimenti?»
Sophie si passò le dita tra i capelli.
«Non lo so. Scusami, devo sembrarti
pazza» disse e rivolse lo sguardo
altrove.
«No, sei solo scossa. È normale.»
Tese la mano verso di lei.
«Mi chiamo Eric.»
Sophie esitò un attimo, i suoi occhi si
ricongiunsero ancora con lo sguardo
magnetico del ragazzo. Allungò la mano
a sua volta.
«Io sono...»
«Sophie, giusto?» disse anticipando
le parole dalle sue labbra.
Sophie spalancò gli occhi stupita.
«E tu come lo sai?»
«Credo di aver inavvertitamente
ascoltato una conversazione tra te e il
tuo amico.»
«Oddio, Jimmy!» Sophie trasalì al
pensiero.
«Cosa?»
«Ero con lui prima di allontanarmi,
mi starà cercando. Chissà cosa starà
pensando che mi sia successo.»
«Fossi in te non mi preoccuperei.»
«Perché?»
«Sta venendo qui.»
«Ma non può sapere dove mi trovo,
chissà da che parte è andato. Devo
andare a cercarlo.»
«Stai tranquilla, sta arrivando» disse.
Fece un passo indietro e si
incamminò allontanandosi da Sophie.
«Aspetta! Dove vai? Non lasciarmi
qui da sola!» Stava ancora terminando la
frase, quando avvertì dietro di lei
qualcuno che si avvicinava di corsa.
«Sophie!... Sophie!...»
Una voce giunse forte alle sue spalle.
La riconobbe subito. Si voltò di scatto,
ma non vide nessuno. Pochi attimi e da
dietro l’angolo vide sbucare Jimmy,
seguito a un passo da Vicky, trafelata
per la corsa.
«Jimmy!»
Appena la vide, Jimmy le corse
incontro accelerando il passo.
«Sophie! Oddio, ti ho trovata
finalmente! Stai bene? Ti è successo
qualcosa?»
«No, sto benissimo, è tutto okay»
disse cercando di calmare l’amico.
Anche Vicky l’abbracciò stretta.
«Non ti trovavamo più» disse
preoccupata. «Ti abbiamo cercato
ovunque qui intorno. Abbiamo provato a
chiamarti, ma i cellulari non prendevano
lì sotto.»
«È tutto okay, davvero, calmatevi.
Sto benissimo, non mi è successo niente.
Sono uscita subito da lì dentro.»
«Ma come hai fatto ad arrivare fin
qui? Da dove sei sbucata?» chiese
Jimmy.
Sophie inspirò lentamente, incerta su
cosa dire per non apparire una pazza. Si
voltò e posò lo sguardo dove fino a un
momento prima si trovava Eric.
«Beh, che tu ci creda o no, è stato il
misterioso ragazzo dagli occhi di
ghiaccio a tirarmi fuori da lì.»
Jimmy e Vicky sbarrarono gli occhi
contemporaneamente.
«Il ragazzo dell’aggressione?» disse
Jimmy.
«Proprio lui. Ma non mi è parso così
pericoloso, anzi. E non ho ancora capito
come
mi
ha
portato
fuori
da
quell’inferno.»
«Cosa vuoi dire?»
«Mi ha trascinata fuori evitando tutto
e tutti con una facilità impressionante.
Sembrava avesse la vista a raggi X.
Andava talmente veloce che quasi non
riuscivo a stargli dietro. Ma mi ha
salvata.»
Vicky abbozzò un sorriso malizioso.
«Uhm,
dunque
non
è
solo
tremendamente sexy, è anche un eroe.
Avrei tanta voglia di essere salvata
anch’io da lui» e rise.
Jimmy corrugò la fronte.
«Beh, ora andiamo. Non ho voglia di
rimanere ancora qui. Vicky, chiama Ted
e digli che l’abbiamo trovata. Ci
vediamo al parcheggio.»
Si voltò verso Sophie e le accarezzò
una guancia.
«Tu sei sicura di star bene?» le
chiese.
«Si, te l’ho detto, sto benissimo. Ma
che ti prende?»
«Non lo so. È solo che quel ragazzo
non mi piace per niente.»
«Mi ha salvata, Jimmy. Stavo per
essere calpestata. Dovresti almeno
essergli
riconoscente.» Si allontanò
nella direzione da cui erano arrivati i
due amici. Vicky la prese sottobraccio e
le bisbigliò qualcosa all’orecchio.
Jimmy non vi prestò attenzione, la sua
mente era presa da tutt’altro in quel
momento. Per la seconda volta quel
misterioso ragazzo aveva fatto qualcosa
di sbalorditivo. Ma era davvero
possibile? E perché continuava a
comportarsi in modo così insolito?
Stava cercando di dare nell’occhio? Se
davvero le cose stavano come credeva,
quel ragazzo poteva costituire un
pericolo per quelli come lui.
Capitolo 8
Le catene intorno ai polsi e alle caviglie
gli
impedivano
movimenti
fluidi.
Camminava a piccoli passi e, ogni volta
che appoggiava il piede sinistro,
avvertiva quella maledetta fitta alla
coscia.
Le quattro guardie intorno a lui erano
disposte avanti, dietro e ai due lati. Lo
scortavano con i fucili puntati, senza
abbassare mai il livello di attenzione.
Avevano paura , poteva avvertirlo. I
loro battiti erano accelerati e sentiva il
loro respiro irregolare che gonfiava e
sgonfiava i polmoni a ritmo sincopato.
Erano
equipaggiati
con
caschi
antisommossa e giubbotti antiproiettile,
lui, invece, indossava solo la tuta
carceraria ed era legato. Eppure erano
loro a temerlo.
In pochi minuti arrivarono alla cella
d’isolamento. Era la punizione che si
aspettava per il tentativo di fuga.
Sorrise al pensiero che non fosse
stato tutto vano. Il suo compagno ce
l’aveva fatta, in parte grazie anche a lui.
Quella piccola vittoria avrebbe dato
sollievo alla sua mente, durante le
settimane che si apprestava a passare
rinchiuso
in
isolamento.
Sperava
sarebbero state al massimo due.
L’ultima volta , avrebbe giurato fosse
passato almeno un mese. Quando era
uscito, i suoi compagni di cella gli
avevano rivelato che, in realtà, erano
trascorsi solo dieci giorni. In quel luogo
si perdevano tutti i riferimenti e il tempo
sembrava consumarsi con una lentezza
senza fine.
Si sorprese quando le guardie non si
arrestarono
di
fronte
alla
cella
d’isolamento, ma avanzarono ancora di
qualche passo, raggiungendo la porta di
fianco.
Non era mai stato in quella stanza.
Era illuminata da neon bianchi che
accecavano per l’intensità e le pareti
erano
del
colore
del
latte.
L’illuminazione era disposta nella parte
perimetrale del soffitto e del pavimento.
La luce arrivava dall’alto e dal basso e
rimbalzava sulle pareti creando l’effetto
di essere completamente immersi nella
luce. Non era una bella sensazione,
almeno per lui.
Le guardie lo fecero accomodare
sull’unica sedia al centro della stanza,
legandogli le mani ai braccioli e le
caviglie ai piedi della sedia. Strattonò le
corde, ma si accorse immediatamente
che la sedia era fissata al pavimento e
non c’era possibilità di spostarla.
Chiusero la stanza e lo lasciarono lì,
solo.
Passò un tempo indefinito, forse
qualche minuto, forse ore, poi la porta si
aprì.
Nella stanza entrarono due persone
che conosceva bene. Richiusero la porta
dietro di loro. Il più robusto dei due gli
si avvicinò e, senza dire una parola, lo
colpì al volto con la mano aperta.
Lo schiaffo fu come un mattone in
piena faccia. Duro e compatto, lo stordì
per qualche secondo. Sentì il sapore del
sangue sulla lingua e la parte sinistra del
volto che iniziava a pulsare. Riaprì gli
occhi e fissò in segno di sfida l’uomo
che l’aveva colpito. Se credeva di
spaventarlo in quel modo, non aveva
capito nulla. Avrebbe dovuto fare molto
peggio, se voleva che parlasse.
«Hai tre secondi per dirmi dov’è
diretto il tuo compagno» il tono della
voce era profondo, ma non risultava
minaccioso. Sembrava un ordine cui
doveva attenersi.
Gli
sputò addosso il sangue che
aveva in bocca e un altro colpo gli
arrivò dritto in faccia, sullo stesso lato
dolente.
Represse un grido di dolore. Questa
volta faceva ancora più male. Avvertiva
la pelle del viso che bruciava e l’occhio
sinistro che si gonfiava.
Alzò di nuovo lo sguardo e abbozzò
un sorriso irriverente con la parte destra
delle labbra. La sinistra non la sentiva
più.
Un pugno alla base del collo gli
strozzò l’aria in gola facendogli quasi
perdere i sensi. Un tintinnio metallico lo
scosse per un attimo, spingendolo a
guardare in basso. La catena che portava
al collo si era spezzata, lasciando
rotolare a terra il ciondolo che vi era
appeso.
Non fece in tempo a realizzare quello
che aveva appena perso, che un altro
pugno gli arrivò dritto allo stomaco,
facendogli vomitare il liquido rossastro
che gli riempiva la bocca e la gola.
«Fermati, Gebhard!» ordinò l’altro
uomo,
rimasto appoggiato all’angolo
della parete di fianco alla porta.
«Noi non siamo delle bestie come
loro. Ci dirà quello che vogliamo sapere
per un motivo molto semplice.»
Gli si avvicinò e gli sollevò la testa
perché potesse guardarlo negli occhi.
«Se lo troveremo in base a quello che
ci dirai, lo riporteremo qui vivo.» Gli
tirò la nuca all’indietro, fino a quando il
collo s’inarcò, arrivando al limite della
rottura. «Altrimenti lo rintracceremo da
soli e lo seppelliremo lì dove lo
troveremo.» Gli lasciò la testa e rimase
immobile di fronte a lui, in attesa di una
risposta che non arrivò.
Passarono pochi secondi.
«Bene... vedo che hai fatto la tua
scelta.» Si girò e s’incamminò verso la
porta. Afferrò la maniglia e si voltò
ancora verso di lui.
«Hai già perso molto per le tue scelte
sbagliate, eppure continui a perseverare.
Come biasimarti, errare è umano...
perseverare è diabolico... e tu, sappiamo
bene, non hai nulla di umano. »
I muscoli delle braccia e delle gambe
si contrassero nell’inutile tentativo di
divincolarsi dalle catene. L’unica cosa
che ottenne fu un dolore lancinante alla
base delle caviglie e dei polsi, prodotto
dallo sfregamento contro gli anelli di
metallo.
«Riportalo in cella» disse l’uomo
mentre richiudeva la porta dietro di sé.
«Agli ordini, comandante.» Gebhard
raccolse il ciondolo da terra e lo infilò
in tasca, si schioccò le nocche delle
mani e sorrise. «Siamo solo io e te
adesso...»
Gli si avvicinò e alzò il braccio
pronto a colpirlo di nuovo.
Capitolo 9
Correva, correva veloce. Ai lati, i
tronchi degli alberi si susseguivano
sempre più rapidi e si stringevano come
pareti in due fila serratissime, formando
un corridoio angusto e senza fine. Il buio
della notte avvolgeva il bosco. Il vento
in faccia rallentava la corsa e la rendeva
più difficoltosa. Incespicava a ogni
passo. Con uno sforzo via via più arduo
si rialzava e riprendeva a correre
forsennatamente. Sentiva la tensione
crescere. Ad ogni metro lo spazio in
fondo tra gli ultimi due tronchi sembrava
preludere ad uno spazio aperto dove
fuggire liberamente. Ma, ogni volta che
si
avvicinava,
altri
due
alberi
allungavano quell’interminabile tunnel.
Non poteva svoltare né a destra né a
sinistra, poteva soltanto provare a
correre più veloce.
Avvertì de i passi dietro di lui, il
fruscio dell’erba calpestata e il rumore
dei ramoscelli che si spezzavano sotto il
peso dei suoi inseguitori. Si sentiva
braccato. Ma quanti erano? Uno, due,
dieci? Non poteva fermarsi e girarsi a
guardare, lo avrebbero raggiunto in un
istante. Doveva solo continuare la sua
fuga, sperando di distanziarli. Non
riusciva nemmeno a ricordare come si
trovasse in quella situazione. Cos’era
successo prima? Da dove arrivava?
Dove
stava
andando?
Il
vuoto
annebbiava i suoi ricordi.
Lo stavano raggiungendo.
C’era qualcun altro vicino a lui, forse
più di una persona, una donna
certamente. Se si sforzava poteva
vederla accanto a sé, ne riusciva a
fiutare il dolce profumo e percepiva i
soffici capelli ricci color rame che le
sfioravano le spalle. Del suo viso
avvolto nel buio riusciva a scorgere
solo due grandi occhi violacei. Ma non
riusciva a vederne il volto. Qualcun
altro stava fuggendo con loro. Un uomo.
Forte, atletico. Si faceva largo con le
mani tra i rami che si stagliavano sul
percorso. Anche di lui non riusciva a
mettere a fuoco il volto.
Sentiva l’agitazione crescere metro
dopo metro, l’ansia lo stava vincendo.
Chi erano? Cosa ci facevano lì? Anche
loro stavano fuggendo dagli stessi
inseguitori? Cosa volevano? Udì un
suono in lontananza, sembrava un
lamento. Man mano che si avvicinava si
faceva più forte. Ora poteva distinguerlo
bene: era il pianto di un neonato. Da
dove arrivava? Era vicinissimo, poteva
sentirlo come se fosse sopra la sua testa.
Distratto da quel lamento, mise un piede
in fallo e cadde a terra. Sbatté col viso
sul terreno e avvertì il sapore acre
dell’erba sulle labbra. Alzò gli occhi,
era caduto ai piedi ad un grosso albero.
Udì degli spari. I passi dietro di lui
accelerarono. Erano vicinissimi, ormai
lo avevano raggiunto. Sentì le mani
posarsi sulle sue spalle e un urlo gli si
levò dalla gola, nello stesso istante in
cui gli mancò il respiro.
Eric si svegliò di soprassalto e fece
un balzo nel letto. Ansimava, il cuore gli
batteva veloce. Si tastò con una mano il
petto madido di sudore. La testa gli
martellava.
Deglutì
e
inspirò
profondamente per calmarsi, ma era più
difficile di quanto credesse.
Era
successo
ancora. Lo stesso
incubo, sempre uguale, tornava a
ripresentarsi di tanto in tanto, senza
motivo. Un tormento che andava avanti
ormai
da
anni.
Ogni
volta
più
terrificante,
ogni
volta
coi
suoi
inseguitori più vicini a catturarlo, senza
che riuscisse mai a vederli in volto. Chi
erano? Perché tormentavano le sue notti?
Scese dal letto e sentì cedere le
gambe. Andò in bagno e si gettò in viso
acqua gelida per ridurre la temperatura
corporea. Doveva riprendersi. Si passò
un asciugamano su tutto il corpo per
togliere il sudore e tornò in camera.
Guardò l’orologio da polso appoggiato
sul comodino. Erano quasi le tre di
notte. Non aveva dormito neanche
un’ora da quando era tornato dal
Rifugio. Il volto di Sophie gli tornò in
mente all’istante. Era stupenda. Non
riusciva a smettere di pensare a lei, tutto
il giorno e ora anche la notte. Iniziava a
diventare un peso insostenibile, doveva
fare qualcosa.
Aveva ancora addosso l'inquietudine
e l’ansia generata dall’incubo, ma la
cosa che lo spaventava di più era la
strana sensazione di rabbia che sentiva
latente nelle vene. Da dove arrivava e
perché? Ormai la sentiva sempre più
spesso. E ogni volta era sempre più
difficile tenerla a bada, mantenere il
controllo.
Che
cosa
gli
stava
succedendo? Sentiva il bisogno di
sfogarsi. Sapeva che non sarebbe
riuscito a contenere quella rabbia.
Doveva buttarla fuori, era l’unico modo
per calmarsi.
Infilò al volo la maglietta nera
appesa allo schienale della sedia e i
pantaloncini leggeri da corsa. Si
avvicinò
all’armadio
sulla
parete
opposta della stanza e aprì le larghe ante
in legno da cui tirò fuori un borsone da
palestra. Aprì la cerniera e verificò che
dentro vi fosse tutto ciò che gli serviva.
Andò di nuovo in bagno e prese due
rotoli di garze che infilò nella borsa.
Guardò dentro un’ultima volta e infilò
una mano per afferrare qualcosa. Nel
palmo stringeva un guantino da boxe.
Sospirò mentre teneva lo sguardo fisso
sul guanto.
Questa è l’ultima volta, lo giuro.
Inserì il guanto nella borsa e richiuse
la cerniera. Infilò la borsa a tracolla e
uscì.
Capitolo 10
Sophie scrutò la lavagna bianca in fondo
all’aula. La figura in piedi con gli
occhiali e la giacca beige tratteggiò
alcuni simboli col pennarello e si voltò
verso i suoi spettatori. Pronunciò a voce
alta poche parole e si spostò più avanti.
Alzava e abbassava continuamente le
braccia per sottolineare coi gesti i
concetti che esponeva.
La luce del sole filtrava dalle finestre
alle spalle di Jimmy e Sophie e
illuminava ogni angolo dell’ampia aula
a semicerchio. Sophie chiuse gli occhi e
assaporò il calore del sole avvolgerle la
schiena e rilassarle la pelle. Il freddo
nelle ossa della sera prima si era
dissolto.
Avvicinò la mano alle labbra e
strinse il polpastrello tra i denti. Le
immagini
di
quella
notte
le
si
affacciarono nella mente una dopo
l’altra: il buio, la mano che le afferrava
il polso, il rumore della pietra sotto i
tacchi, nella corsa convulsa che era
seguita al caos di quei momenti.
Ripensò al chiarore della luna che
era tornato ad accarezzarle il viso, nello
stesso istante in cui si era trovata per la
seconda volta in poche ore, ad osservare
i suoi occhi a un palmo da sé. Quegli
occhi che non le avevano dato tregua per
tutta la giornata precedente. E poi la sua
voce, calda e seducente, che ora si era
ossessivamente
aggiunta
ai
suoi
pensieri. Un tono così sensuale, da
provocarle la pelle d'oca. Non le era
mai successo prima.
Quando si era trovata in piedi di
fronte a lui, il suo cuore aveva
aumentato
freneticamente
i
battiti.
Sophie aveva potuto avvertirne i colpi,
senza bisogno di tastarsi il petto con la
mano.
Eric.
Quel nome aveva agito come una
lama nel velo di mistero che avvolgeva
il ragazzo e aveva fatto nascere in lei un
desiderio ancora più insistente. C’era
qualcosa in quel ragazzo che l’attirava
irresistibilmente.
Qualcosa
di
indefinibile, in grado di frastornarla.
Con un nodo in gola aveva pronunciato
solo poche frasi, turbata da quella
sensazione di confusione che l’aveva
assalita. Che stupida sono stata, pensò.
Non se l’era sentita di rivelare a
Jimmy quegli attimi di imbarazzo. Anche
se a lui in genere diceva tutto.
«Se continui a fissare la porta in quel
modo, finirai per buttarla giù con lo
sguardo.»
La voce di Jimmy la distolse dai suoi
pensieri riportandola alla realtà.
Posò lo sguardo sulla sedia vuota,
dove aveva sperato di scorgerlo seduto,
esattamente come i giorni precedenti.
Ispezionò le file frontali e tornò a
indirizzare lo sguardo verso l’ingresso
dell’aula. Le speranze di vederlo
apparire inaspettatamente, ancora una
volta, si stavano affievolendo.
Di lì a poco si sarebbero dissolte del
tutto. Quel giorno lui non c’era.
Sophie
sospirò,
cercando
di
snebbiare la mente.
Il professor Gilbor si avvicinò alla
cattedra, appoggiò il pennarello e
decretò conclusa la lezione. Sophie
impilò velocemente, uno dopo l’altro, i
fogli sparsi sul banco e si avviò verso
l’uscita. Jimmy la seguì facendosi largo
tra la schiera di studenti.
All’esterno dell’università, la brezza
settembrina soffiava leggera e rendeva
quella
giornata
perfetta
per
una
passeggiata tra le vie della città.
«Quanto
manca
alla
prossima
lezione?» gli chiese Sophie.
Jimmy contemplò l’orologio per
qualche secondo.
«Abbiamo un paio d’ore. Possiamo
andare in biblioteca.»
Sophie abbozzò una smorfia.
«No, meglio un posto meno cupo. La
biblioteca non mi va proprio, troppo
silenzio.»
«Perché non andiamo al Central Cafè
qui vicino?» chiese Jimmy. «Ci sediamo
e beviamo un thè nell’attesa.»
Sophie non ci mise molto a riflettere
sulla
proposta
e
annuì.
Prese
sottobraccio l’amico e si diressero
insieme al locale.
Una volta dentro, Jimmy indicò con
un cenno del capo il piccolo tavolo
rotondo a ridosso della vetrata. Si
misero a sedere e la cameriera prese le
ordinazioni.
Sophie frugò nella borsa sulla sedia
libera accanto a sé e sfilò gli appuntì
presi quella mattina. Sfogliò una ad una
le pagine scritte a penna e lesse
attentamente ogni frase per tenere a
freno i pensieri.
Pochi minuti e Jimmy si alzò
nuovamente.
«Il mio thè è già finito. Vado a
prendere qualcosa da mangiare al
bancone. Tu hai fame?»
«No, grazie. Non voglio niente.»
Jimmy si diresse al bancone e Sophie
lo seguì con lo sguardo. Era sicura che
Jimmy fosse perfettamente a conoscenza
dei pensieri che le albergavano nella
mente in quel momento. Era consapevole
di essere un libro aperto per lui, forse
per questo non le aveva chiesto nulla.
Jimmy sapeva riconoscere le situazioni
in cui non era il caso di indagare.
Quando voleva, riusciva ad essere molto
discreto e Sophie non poteva che
apprezzare quella sua qualità.
Prese la penna e sottolineò una frase
sul foglio davanti a sé. Passati pochi
istanti, il suo sguardo vagava già da un
punto all’altro del locale.
Incrociò le braccia e rivolse lo
sguardo oltre il vetro in direzione della
strada. Tornò a sbirciare tra i tavoli del
bar e, per un attimo, pensò che la mente
la stesse ingannando e che le sue
fantasie si stessero tramutando in
realistiche allucinazioni. Realizzò subito
che non si trattava di una visione.
Dall’altro lato del locale, tra i vari
tavolini occupati, riconobbe l’unico
volto che avrebbe desiderato vedere in
quel momento.
Eric se ne stava seduto su un
divanetto in un angolo, chinato su un
libro che manteneva in equilibrio con le
gambe. Lo sfogliava con cura e
sembrava completamente assorto nella
lettura. Indossava ancora la felpa del
primo giorno. I lineamenti delicati del
viso sbucavano da sotto il cappuccio,
tirato come sempre fin sulla fronte.
Sophie avvertì un groppo allo stomaco.
Avrebbe potuto indugiare lì per ore a
fissarlo. Sentiva salire irresistibile la
voglia di andare a parlargli. Eric chiuse
il libro e lo ripose nello zaino. Si alzò e
si diresse verso l’uscita.
Sophie esitò un momento, poi afferrò
la borsetta e si alzò per andare verso di
lui. Affrettò i passi, per non perdere di
vista il suo obiettivo. Si avvicinò alle
sue spalle fino a che fu ad un metro da
lui. Mosse le labbra per pronunciare il
suo nome, ma le parole le si soffocarono
in gola.
Prima che ne avesse il tempo, Eric si
voltò.
«Sophie»
disse
con
sicurezza,
sorridendo appena.
Sophie si arrestò di colpo e sbarrò
gli occhi, meravigliata dalla prontezza
di riflessi di Eric. Come si era accorto
di lei, voltato di spalle e con tutto quel
rumore?
«Ciao» disse lei, tradendo un certo
impaccio. «Come hai fatto a sentirmi
arrivare?»
«Il tuo profumo.»
Sophie aggrottò la fronte.
«Lo avevi anche ieri sera. È
impossibile da confondere.»
Sophie sorrise e abbassò lo sguardo.
«D’accordo, fingerò di crederti»
disse e si risistemò gli occhiali sulla
fronte.
Eric la guardò. I lunghi capelli lisci
erano raccolti in una morbida coda di
cavallo che le accarezzava la nuca.
Indossava un paio di shorts bianchi e
una maglietta blu che le scopriva una
spalla. Un abbigliamento che su di lei
risaltava in modo provocante. Standole
vicino, avvertiva un certo disagio. Non
aveva mai provato nulla del genere per
una ragazza prima di allora.
«Eri a lezione questa mattina?» le
chiese Eric.
«Sì. C’eri anche tu? Non mi è
sembrato di vederti» disse Sophie,
fingendo di non conoscere già la
risposta.
«No, sono arrivato tardi» disse lui.
«Non mi andava di essere ripreso di
nuovo dal professore. Perciò ho deciso
di rimanere fuori e sono venuto qui a
leggere.»
Si guardarono a lungo negli occhi.
Nessun
altro
argomento
di
conversazione sembrava volerne sapere
di spuntare fuori in quel momento.
Entrambi tentarono di abbozzare l’inizio
di un dialogo, ma dalle loro labbra non
uscì nulla.
«Beh, allora ci vediamo» disse Eric
per
chiudere
quel
momento
imbarazzante.
«Certo» bisbigliò lei e strinse le
labbra tradendo il dispiacere per la
conclusione del loro incontro.
Eric la guardò un’ultima volta nei
grandi occhi verdi e si voltò avviandosi
verso l’uscita. Stava già maledicendosi
per non aver trovato un altro argomento
di cui parlare, quando la voce di Sophie
gli arrivò alle spalle.
«Comunque grazie» disse.
Eric si fermò e si girò di nuovo verso
di lei.
«Per cosa?»
«Per ieri sera. Non ho avuto il tempo
di farlo. Nella confusione non ero molto
lucida. Poi è arrivato Jimmy e sono
andata via senza nemmeno dirti grazie.
Non so come avrei fatto senza il tuo
aiuto.»
«Non devi ringraziarmi, non ho fatto
nulla di particolare. Lo avrebbe fatto
chiunque al mio posto.»
«Già, ma sei stato tu a farlo.»
Sorrise e lo fissò in volto. Ancora
quello sguardo ipnotico, lo stesso della
sera precedente. Notò quanto fossero
chiare le sue iridi. Le pupille, molto
strette, sembravano allungate. Gli occhi
di un gatto, pensò e si diede della
stupida alla sola idea. Non li ricordava
così la sera precedente, anzi, la pupilla
era estremamente dilatata, quasi a
nascondere l’iride per l’intera larghezza.
Abbassò la testa e una ciocca di
capelli le cadde sul volto. Prima che
avesse il tempo di fare qualsiasi
movimento, Eric la riportò dietro
l’orecchio con un rapido gesto della
mano. Scorse i luminosi occhi verdi di
Sophie che lo fissavano sorridenti.
Entrambi rimasero in silenzio per
alcuni istanti.
«Cosa fai adesso?» le chiese.
«Niente di particolare. Perché?»
«C’è ancora un’ora prima della
lezione, se non hai niente di importante
possiamo fare due passi?»
Sophie sorrise, ma esitò prima di
rispondere. Pensò a Jimmy, ancora in
coda al bancone, non si era accorto di
nulla. L’avrebbe uccisa se fosse di
nuovo scomparsa nel nulla.
«Dammi solo un secondo.»
Infilò la mano nella borsetta per
prendere il cellulare. Compose in fretta
un messaggio e schiacciò invio. Capirà,
pensò.
«Possiamo andare.»
Il sole brillava luminoso nel cielo. Eric
e Sophie si diressero a passi lenti verso
il parco.
«La tua ragazza non sarà gelosa che
vai in giro con me?» gli chiese.
Eric aggrottò la fronte e, dopo
qualche secondo, scoppiò a ridere.
«Parli di Stacey?»
Sophie annuì.
«E il tuo uomo non penserà lo
stesso?» continuò Eric.
Sophie corrugò la fronte «Quale
uomo?»
«Il tuo angelo custode.»
«Jimmy?» chiese e scoppiò in una
risata. «Lui non è il mio ragazzo, è il
mio migliore amico. Siamo legatissimi,
ma è più un “fratello maggiore”. Siamo
cresciuti insieme. Sai, quelle amicizie
che durano da sempre. Da piccoli a
giocare insieme in cortile, fino al liceo.
Le nostre famiglie si conoscono da una
vita.»
«Non
credo
di
essergli
particolarmente simpatico.»
«Perché?»
«Una sensazione.»
«No, semplicemente non ti conosce.
Jimmy mi ha sempre protetto, mi
considera ancora la bambina indifesa di
un tempo. Non crede che io sia capace
di tirar fuori le unghie quando ce n’è
bisogno. Ha un istinto di protezione nei
miei confronti e diffida sempre di
chiunque mi si avvicini. Ci vogliamo
bene, ma tra noi non c’è mai stato niente.
Non potrei mai nemmeno immaginarlo
come ragazzo.»
«Neanche Stacey è la mia ragazza»
disse Eric. «Siamo usciti insieme una
sera, niente di più. Non è esattamente il
mio tipo.»
Sophie si meravigliò di quanto si
sentisse sollevata nell’ udire quelle
parole. Sembrava che le avessero tolto
un macigno dallo stomaco. Si diede
della stupida, pensando alla gelosia che
l’aveva appena colta.
Proseguirono
sul
vialone
che
conduceva al grande parco centrale.
Svoltarono e si trovarono in mezzo a una
distesa di aiuole, colorate dagli ultimi
fiori estivi. Il clima mite concedeva
ancora agli alberi di sfoggiare una folta
criniera, ma l’autunno incombente aveva
già iniziato a far cadere qualche foglia,
fino a formare un sottile tappeto dorato.
Camminando vicino a lui, Sophie lo
osservò senza farsi notare. Si rese conto
di quanto fosse alto e longilineo, più di
lei che, come ragazza, era notevolmente
sopra la media. Per un attimo l’idea
maliziosa di vederlo senza felpa e
maglietta le sfiorò la mente. Si domandò
se si fosse accorto che lo stava
sbirciando da un po’.
Eric camminava guardando dinanzi a
sé, aveva le palpebre socchiuse,
nonostante il sole alle spalle. La luce
del giorno sembrava infastidirlo. Sfilò
gli occhiali da sole, appesi al collo
della maglietta, e li indossò. La sua
espressione era diversa da quella
rilassata della sera precedente. Dal suo
sguardo sembrava trasparire uno strano
disagio.
«Ti dà fastidio il sole?»
«Non ho mai sopportato la luce
troppo forte. Fin da quando ero
bambino, ricordo che non riuscivo a
guardare il cielo, perché la luce mi
accecava. Mi capita anche quando il
sole è dietro le nuvole. Io e la luce non
siamo buoni amici.»
«In compenso al buio te la cavi
bene.»
Eric sorrise e fissò negli occhi
Sophie. Lei ebbe l’impressione che lo
infastidisse parlare di quanto accaduto
la sera prima.
«Sono sempre così movimentate le
serate universitarie da queste parti?»
disse.
Sophie sorrise e scosse la testa.
«A dire il vero, quella era la prima
anche per me.»
«Ti senti bene ora?» le chiese. «Eri
un po’... scossa, ieri sera.»
«Sì, mi sono ripresa. In fondo ho solo
rischiato di essere calpestata da una
folla impazzita» disse e rise alla sua
battuta. «Credo che non lo dirò a mio
padre o potrei scordarmi di uscire per il
resto dell’università.»
«È così protettivo?»
«Abbastanza. Il giusto, direi. Mia
madre non c’è quasi mai, è sempre
all’estero per lavoro. La vedo molto
poco, anche se la sento tutti i giorni. In
pratica, mi ha cresciuto lui e lo fa
ancora adesso. Non dev’essere stato
facile sorbirsi tutti i giorni gli umori
altalenanti
di
un’adolescente.
È
diventato più protettivo e si preoccupa
sempre
che
mi
possa
succedere
qualcosa. Per questo, credo che abbia
molto a cuore che Jimmy mi sia sempre
incollato. Lo ritiene la mia guardia
fidata...» Rimase in silenzio per qualche
secondo. «E tu invece?»
«Cosa?»
«Poco fa hai detto da queste parti,
non sei di qui?» mentre lo domandava,
le tornò alla mente il racconto di Vicky
della sera prima. Possibile che fosse
vero? Davvero quel ragazzo così gentile
poteva aver fatto qualcosa di così
violento? Non riusciva a crederci. Sul
momento si pentì anche di aver fatto la
domanda. E se lui avesse sospettato
qualcosa, se avesse creduto che lei
sapeva? Scacciò all’istante il pensiero e
si sforzò di assumere un’espressione
totalmente neutra.
Eric esitò a rispondere.
«Non proprio. Mi sono trasferito da
poco.»
Sophie rimase in silenzio ed Eric
intuì che qualche dettaglio in più
sarebbe stato gradito.
«I miei vivono fuori città» proseguì
«oltre il bosco, dal lato opposto di
Hoodpark, a un’ora da qui. Sono sempre
stati laggiù e, credo, nessuno li sposterà
mai da lì. Adorano quel luogo e
preferiscono stare lontani dai rumori e
dal caos. Sono stato con loro fino
all’estate scorsa poi, per l’università, mi
sono dovuto spostare qui in città. È più
comodo.
Ho
preso
un
piccolo
appartamento a West Hill. È più una
stanza con un letto in verità, ma per me è
sufficiente.»
Sophie non poté fare a meno di notare
come Eric avesse evitato di spiegare il
motivo del suo cambio di Università.
«Vivi solo quindi?»
Eric annuì.
«E come fai a permetterti l’affitto?»
Eric attese, come se la domanda lo
imbarazzasse.
«Lavoretti» disse. «Qua e là.
Qualcosa da fare si trova sempre.»
«E ti trovi bene alla Dorton?»
Eric
sembrò
sollevato
che
l’argomento si fosse spostato dalla sua
vita privata all’università.
«Beh, è un po’ presto per dirlo. Però
sì, direi che mi trovo bene e si fanno
incontri piacevoli» mentre lo diceva
abbassò gli occhi su Sophie.
Un lieve rossore le apparve sulle
guance. Sorrise e continuò a camminare
senza fare altre domande.
Avanzarono sul largo viale in ghiaia
nel centro del parco. Ai lati, una lunga
serie di bancarelle allineate si estendeva
per tutta la lunghezza del parco. Le voci
dei venditori arrivavano fino a loro,
richiamando l’attenzione sugli oggetti in
vendita.
D’un tratto un rumore sordo attirò la
loro attenzione. Qualcuno esplose in una
fragorosa risata. Seguì un altro colpo
più forte del precedente. Eric e Sophie
indirizzarono lo sguardo verso i
cespugli che delimitavano il viale e
incuriositi si avvicinarono.
Oltre la siepe, scorsero tre grossi
bersagli posti in verticale per terra.
Pochi metri più in là una ragazza
impugnava un grande arco in legno ed
era intenta a prendere la mira.
Controllava con difficoltà la corda tesa
e quando la rilasciò, la freccia volò
sbilenca e s’incastrò vicino alle due
precedenti, ai bordi del bersaglio
centrale. Fece una smorfia, manifestando
il proprio disappunto per aver peccato
di precisione ancora una volta. Due
ragazze si avvicinarono a lei ridendo e
mimando la divertente scena a cui
avevano appena assistito.
«Avrà più fortuna la prossima volta,
signorina» disse un uomo anziano
avvicinandosi e prendendo l’arco dalle
mani della ragazza. La ragazza ringraziò
e, ridendo, mimò con la mano di non
voler mettere ulteriormente alla prova le
proprie abilità balistiche. L’uomo si
voltò verso Eric e Sophie.
«Volete provare?» chiese.
Sophie
rise
imbarazzata
e
indietreggiò di un passo.
«Io no, grazie. Preferisco evitare
figuracce.»
«E lei signore?» chiese l’uomo
rivolto a Eric, porgendogli l’arco. «Tre
tiri un dollaro.»
Eric esaminò l’arma per qualche
secondo e un sorriso beffardo gli
apparve sul volto.
«Perché no?»
Allungò la mano per afferrare l’arco
e lo impugnò saldamente. Si spostò di
qualche metro all’interno dell’aiuola,
posizionandosi giusto di fronte al
bersaglio centrale. L’uomo gli porse la
faretra ed Eric estrasse l’ultima freccia
rimasta. Con due dita la sfiorò ai bordi,
passando i polpastrelli per tutta la
lunghezza, fino a fermarsi sulle soffici
piume poste in coda. Sistemò la cocca
sulla corda e sollevò l’arco davanti agli
occhi.
Sophie
lo
fissava stregata dalla
singolare
facilità
con
cui
Eric
maneggiava l’arco. Tutti i rumori attorno
a loro parvero attenuarsi.
Eric tese la corda e la mantenne in
posizione per qualche istante. Fissò il
bersaglio di fronte a sé trattenendo il
respiro e, con un movimento rapido e
fluido, schiuse le dita. Rilasciata dalla
morsa, la freccia scattò immediatamente
in avanti e volteggiò nell’aria per una
frazione di secondo. Si udì un colpo
sordo all’impatto col bersaglio.
Centro!
Sophie spalancò gli occhi e si voltò
verso Eric che teneva ancora il braccio
teso e l’arco davanti agli occhi. Si girò
nuovamente verso il bersaglio per
guardare
meglio.
La
freccia
era
perfettamente incastrata nel centro del
cerchio rosso in mezzo al bersaglio.
Un silenzio surreale era calato sulla
scena.
L’uomo anziano era a bocca aperta.
«Ragazzo, dove hai imparato a tirare
così?» bisbigliò senza staccare gli occhi
dalla freccia.
Er i c alzò le spalle. «Era la prima
volta.»
«Non mi prendere in giro» disse
seccato. «Ne ho vista di gente tirare per
la prima volta. Quello non era un lancio
di un incapace.»
«Può credermi o no, ma era la prima
volta che tenevo un arco in mano.»
L’anziano scrutò gli occhi di Eric da
sotto le folte sopracciglia d’argento, per
nulla convinto dalla storia appena
sentita.
Eric abbassò lo sguardo sull’arma
che stringeva ancora nella mano sinistra.
Il legno, benché accuratamente lucidato,
sembrava appartenere ad un lontano
passato. Ai bordi riportava finissimi
intarsi con delle strane figure. Avvicinò
l’arco a Sophie per permetterle di
osservarlo meglio. Sophie guardò le
figure intagliate nel legno e le sfiorò con
le dita.
«È davvero stupendo» disse «dove lo
ha trovato?»
L’uomo riprese l’arma dalle mani di
Eric, avendo cura di non danneggiarla.
«L’ho comprato molto tempo fa.
Apparteneva a una famiglia che viveva
in questa città. Quando partirono
all’improvviso, abbandonarono la casa
e la maggior parte degli oggetti che
possedevano. Venne messo tutto all’asta
e io riuscii ad aggiudicarmi questo.»
«Che
significa
che
partirono
all’improvviso?» chiese Sophie.
«Erano una famiglia strana. Un uomo
e una donna molto giovani. Qualcuno
giura che avessero anche un figlio, ma
nessuno
lo
vide
mai
veramente.
Uscivano raramente. Se ne stavamo
molto per i fatti loro. Sa, vent’anni fa
questa era ancora una piccola cittadina. I
racconti correvano veloci. Da un giorno
all’altro nessuno li vide più. Per un paio
d’anni venne lasciato tutto com’era.
Cercarono i proprietari, ma non li
trovarono. Nessuno sapeva esattamente
nemmeno come si chiamassero. Poi si
scoprì che la casa non apparteneva
veramente a loro. Così, per evitare
l’abbandono, venne deciso di vendere
tutto il contenuto e destinare il ricavato
in beneficienza.»
«E non sono mai tornati a reclamare
qualcosa?»
«Mai più visti. All’asta non fu messo
niente di interessante, almeno per me, a
parte questo. Lo comprai per due
spiccioli, una decina di dollari ricordo.
La gente non capisce più nulla di
bellezza, tutti presi da queste nuove
diavolerie tecnologiche, non riescono a
vedere il bello nelle cose.»
Eric e Sophie trattennero una risata
nello stesso istante e si guardarono di
sottecchi. Senza dirsi nulla, convennero
che era meglio non replicare al vecchio
sul tema, visto che sembrava parecchio
agguerrito.
«Non so per quale motivo, ma
quest’oggetto
sembra
possedere
qualcosa di particolare» concluse.
«Già...»
sussurrò
Eric,
come
parlando a sé stesso.
«Beh, a me piace molto» disse
Sophie con un largo sorriso.
L’anziano parve rallegrarsi.
«Una signorina come lei era ovvio
che
avrebbe
apprezzato»
disse
gratificato.
«Piace anche a me» intervenne Eric
«che ne dice se glielo compro?»
L’anziano increspò gli occhi. Per un
momento parve confuso.
«Vuole comprarlo?» chiese.
«Sì, è in vendita?»
«Beh, onestamente... non ci avevo
mai pensato.»
«Se è d’accordo, le offro quanto ha
speso per acquistarlo. È un buon affare...
in fondo è solo un vecchio arco.»
L’anziano ci pensò su.
«Ma sì» disse «è ora che cambi
proprietario.»
Sophie rimase sorpresa dalla facilità
con cui Eric era riuscito a convincere
l’uomo a cedergli l’arco, nonostante
fosse affezionato a quell’oggetto. Gli era
bastato guardarlo e pronunciare qualche
parola per ottenere ciò che voleva.
Adesso che ci pensava, era successa la
stessa cosa anche a lei.
«Te lo regalerei anche volentieri»
disse l’anziano «ma è tradizione che le
armi si vendano e non si regalino.»
«Va bene così» rispose Eric . «Come
farà ora col suo... business?»
«Oh,
intende
questo?»
chiese
indicando i bersagli sull’erba.
Eric annuì.
«Troverò qualcos’altro da fare, non
preoccuparti giovanotto. Piuttosto tu
trattalo bene. Per quanto strano possa
sembrare, ci sono affezionato. Mi
dispiacerebbe che facesse una brutta
fine.»
«È in ottime mani, glielo assicuro.»
«Aspetta, prendi anche questa»
l’uomo si voltò e con passo svelto andò
ad estrarre la freccia scagliata da Eric,
ancora conficcata nel bersaglio. «Te la
sei meritata.»
Eric e Sophie ringraziarono il
vecchio e si incamminarono.
«Davvero non avevi mai tirato con
l’arco prima d’ora?»
Eric sorrise.
«Non mi credi neanche tu?»
«No, no, è solo che...»
«Cosa?»
«Ti credo. Ma ammetterai che sei un
ragazzo pieno di sorprese» rispose con
un sorriso.
Eric sorrise a sua volta, ma non disse
nulla.
«Non
senti
il
peso
della
responsabilità?»
chiese
Sophie
scherzosa indicando l’arco.
«Assolutamente no, anche perché è
tuo» rispose Eric porgendo l’arco a
Sophie.
«Cosa?!» chiese meravigliata.
«Hai detto che ti piace. Prendilo, è
tuo.»
Sophie balbettò qualcosa, senza dire
nulla di senso compiuto.
«Ma quell’uomo ha detto che le armi
si vendono, non si regalano... è la
tradizione.»
«Le tradizioni sono fatte per essere
rotte.»
«Non so che dire. Io, beh... grazie.»
Arrossì.
«Credo sia ora di tornare, o faremo
tardi a lezione» disse Eric.
Sophie guardò l’orologio. Eric aveva
ragione.
«Sì, sarà meglio andare» disse
dispiaciuta.
Si incamminarono verso l’università.
Quando giunsero ai cancelli, Sophie
scorse Jimmy appoggiato al muro del
palazzo. Lo chiamò e si diresse verso di
lui.
«Non si usa più rispondere al
telefono?» le chiese Jimmy mostrandole
il cellulare e scuotendo la mano.
Sophie infilò la mano nella borsetta
ed estrasse il cellulare. Sul display
lampeggiavano cinque chiamate perse di
Jimmy.
«Scusami, non me ne sono proprio
accorta» disse. «Eric ed io siamo andati
a piedi fino al parco e, col rumore, non
ho sentito la suoneria. Mi perdoni?»
Pronunciò quelle parole imitando con
gli occhi un povero cucciolo indifeso,
come faceva sempre quando doveva
farsi perdonare qualcosa da lui. Jimmy
scosse la testa e sbuffò.
«Come devo fare con te, Sanfront?»
disse e alzò gli occhi al cielo.
Era il segnale che Sophie aspettava:
perdonata. Sophie si fece incontro
all’amico e lo abbracciò. Da dietro le
spalle Jimmy incrociò lo sguardo di Eric
che era rimasto indietro, per non
interferire.
Lo fissò torvo per qualche istante.
«E quello cosa diavolo è?» disse
indicando il grosso arco che Sophie
stringeva in mano. «Vi siete dati alla
caccia?»
«Ti piace? È un regalo di Eric. Credo
tu abbia trovato un valido avversario.
Eric tira con l’arco meglio di te.»
«E pensi davvero di entrare in aula
con quello? Cosa penserà il professore
quando lo vedrà?»
«Che sarà meglio che la lezione sia
interessante» intervenne Eric con un
ghigno ironico «se vuole evitare
spiacevoli conseguenze.»
Sophie scoppiò a ridere, mentre
Jimmy rimase impassibile.
«Andiamo» disse Sophie scuotendo il
braccio di Jimmy per farlo muovere.
«Entriamo.»
Arrivati all’aula, Sophie fece per
salire gli scalini a semicerchio e andare
a sedersi nei banchi in fondo, ma Jimmy
la spinse subito all’interno dei primi
posti.
«Sediamoci
qui, ho voglia di
ascoltare da vicino la lezione del
professor Haufmann. L’ultima volta non
ci ho capito niente.»
Sophie rimase sorpresa. Si voltò
verso Eric che aveva già proseguito per
qualche passo verso il fondo dell’aula.
La
sua
espressione
mostrava
chiaramente che non sapeva né cosa
dire, né cosa fare. Avrebbe voluto
sedersi vicino a Eric, ma intuì che
Jimmy doveva avere qualche ragione
particolare per evitare che accadesse.
«Perché
fai
così?»
sbottò
bisbigliando verso Jimmy.
«Così come?»
«Come hai fatto adesso? Che ti ha
fatto di male?»
«Non so di cosa stai parlando.
Voglio solo seguire la lezione da
vicino.»
Sophie scosse la testa e lasciò cadere
il discorso. Quando Jimmy faceva così,
riusciva a rendersi insopportabile.
Sistemò la borsa accanto al suo posto
e si sedette.
«Buongiorno, ragazzi» esordì il
professore Haufmann. Armeggiò alla
cattedra un paio di minuti e iniziò a
spiegare, camminando avanti e indietro
di fronte ai banchi.
Il cellulare di Sophie vibrò e il
display si illuminò.
Qualcuno con un numero sconosciuto
le aveva appena inviato un messaggio.
Sophie sbloccò il cellulare e lesse:
...È stato un piacere
passeggiare con te.
Quell’arco ti dona
Eric
Sophie spalancò gli occhi e voltò di
scatto la testa verso le ultime file.
Eric
la
guardava
sorridente,
stringendo tra le dita il cellulare. Sophie
sorrise e iniziò a picchiettare sui tasti
del cellulare.
E tu come fai ad avere
il mio numero??
Pochi secondi di attesa che a Sophie
parvero eterni.
Pensaci, non
è difficile
Sophie alzò gli occhi e corrugò le
sopracciglia. Dove aveva preso il suo
numero? Era certa di non averglielo
dato. Jimmy di certo non era stato, vista
la diffidenza che nutriva nei confronti di
Eric. L’unica spiegazione era che fosse
riuscito ad averlo da solo. Ma come?
D’improvviso le tornarono alla mente
le immagini di lei che sbatteva contro il
suo corpo atletico e i suoi occhi mentre
le porgeva il cellulare il giorno del loro
incontro-scontro casuale.
Digitò fulminea sulla tastiera.
Non lo sai che non si
dovrebbe leggere
il cellulare di una ragazza
senza il suo permesso?
La risposta non si fece attendere.
Hai ragione, ma... non ho saputo
resistere alla tentazione
Prima che Sophie potesse rispondere,
il display si illuminò nuovamente.
Devo farmi perdonare?
Ci pensò un attimo su.
Dovresti...
Se proseguissimo la nostra
conversazione dopo lezione?
Sophie sentì il battito accelerare, ma
si sforzò di rispondere a tono, anche se
avrebbe voluto scrivere “sì” a lettere
maiuscole.
Uhm...Puoi fare
di meglio
Sophie soppresse a fatica una risata.
Jimmy se ne accorse, ma fece finta di
nulla. Avvertiva lo sguardo di Eric sul
collo, ma resistette alla tentazione di
voltarsi ancora.
Il cellulare esitava a vibrare. Pensò
di essere stata troppo sfacciata. Si era
già pentita di aver inviato quella
risposta. Stava per riscrivere qualcosa,
quando finalmente il display segnalò un
nuovo messaggio.
Questa sera.
È un appuntamento?
Non mi permetterei mai...
È solo per concludere la
conversazione lasciata a metà
Non abbiamo lasciato
nessuna conversazione
a metà
Vorrà dire che
ne inizieremo una nuova
Sophie questa volta si lasciò andare a
una risata. Gli studenti accanto a lei si
voltarono a guardarla. Fece un cenno per
scusarsi e si portò una mano alla bocca
per tapparsela.
«Che ti prende?» le chiese Jimmy.
«Ti stanno guardando tutti. Vuoi farti
cacciare?»
Sophie non prestò attenzione alle
parole dell’amico e tornò a guardare il
display del cellulare che, nel frattempo,
era tornato a illuminarsi.
Tuo fratello maggiore
ti permetterà di
uscire con me?
Sophie sorrise e, con la coda
dell’occhio, sbirciò Jimmy intento a
seguire nuovamente la lezione.
Basterà
non dirglielo
Soffocò a fatica un’altra risata.
«Signorina, se è così impegnata nei
suoi affari, può anche uscire dall’aula!»
la voce autoritaria del professor
Haufmann aleggiò sopra la testa di
Sophie.
«Mi scusi,
professore»
replicò
all’istante «non ricapiterà.»
Il display s’illuminò ancora.
Beccata!
Stai attenta, se ti fai cacciare
rischio di non vederti più
fino a stasera
A che ora?
Alle 8?
Alle 8
Perfetto. Alle 8 a Hoodpark.
Puoi portare anche l’arco
se ti fa sentire più sicura
Sophie posò il cellulare sul banco e
respirò profondamente. Una girandola di
emozioni le roteava nella pancia. Da
tempo non si sentiva così felice.
Capitolo 11
«Lo abbiamo preso.»
Le parole al telefono del sottotenente
Stevens esplosero come una granata
nella testa del capitano Evans.
«Dove?» si limitò a chiedere.
La voce non tradiva alcuna emozione,
Stevens era abituato alla freddezza del
suo superiore. Era proprio grazie a
quella freddezza che Evans era riuscito
ad ottenere tutti quei risultati nel corso
degli anni e a diventare la punta di
diamante del reparto. Il braccio destro
del comandante, come veniva etichettato
da tutti.
Si raccontava che, nella vita privata,
fosse una persona piuttosto simpatica,
ma sul lavoro conservava sempre un
atteggiamento formale, accompagnato da
una spiccata autorevolezza, che tirava
fuori tutte le volte che la situazione lo
richiedeva.
Non era più il soldato giovane e
atletico di un tempo, nonostante ciò, il
capitano non aveva mai abbandonato il
lavoro sul campo. Era sempre in prima
linea in tutte le missioni e, solo
occasionalmente, si dedicava a mansioni
di puro coordinamento.
«Era nel bosco, poco distante
dall’ultimo
avvistamento»
disse
Stevens.
«Come lo avete catturato?»
«Non è stato catturato» rispose la
voce ferma del sottotenente.
«Che significa?»
«È morto.»
Il capitano rimase in silenzio.
Stevens ebbe la percezione che fosse
l’ultima cosa che si aspettasse.
«Dov’è adesso?» si limitò a chiedere
Evans.
«Stiamo portando il corpo all’H2.
Saremo lì in quaranta minuti.»
«Mi avvisi quando arriverete.»
«Senz’altro» disse Stevens e chiuse
la comunicazione.
Quaranta minuti dopo, il capitano
Evans si ritrovò a percorrere le ripide
scale che conducevano nei sotterranei
dell’H2, dritto nelle sale dell’obitorio.
Quel luogo, a venti metri sottoterra, era
ormai
utilizzato
sporadicamente.
L’ordine era sempre lo stesso: non
uccidere. Solo in rari casi era concesso,
ma era un’eccezione mal tollerata.
L’odore dei solventi chimici e dei
disinfettanti inaspriva l’aria, rendendola
irrespirabile. Arrivato davanti alla
spessa porta in metallo, il capitano
spinse la maniglia ed entrò. Le luci
bianche del soffitto illuminavano, in
modo tetro, la stanza. Al centro, su un
tavolo rettangolare di due metri e mezzo
per uno, era steso il corpo di un uomo,
avvolto in un telo nero. Il sottotenente
Stevens
e
Jeff
Himmons,
l’anatomopatologo dell’H2, erano intenti
a parlottare in piedi, vicino al tavolo.
Quando
il
capitano
si
avvicinò,
Himmons lo salutò con una stretta di
mano.
«Jeff» disse Evans, ricambiando la
stretta dell’uomo basso e tarchiato
dinanzi a lui.
«Buonasera, capitano.»
«Ha già qualcosa per me?» dalla
voce era visibilmente agitato.
«Non molto purtroppo. Decesso per
colpo d’arma da fuoco, ma questo lo
sapevamo già.»
«Scopritelo» ordinò Evans.
Himmons, istintivamente, sollevò la
maschera a carboni attivi su naso e
bocca. Fece cenno a Stevens di aiutarlo
a sollevare il telo dal cadavere e ne
scoprì il volto e le spalle.
Il capitano lo osservò per un lungo
istante.
«Dannazione!» Sbatté un pugno sul
tavolo. «Non è lui!»
Stevens si avvicinò al corpo.
«Ne è sicuro?»
«Certo
che
ne
sono
sicuro,
sottotenente» affermò contrariato il
capitano.
«Non intendevo...»
«Com’è successo?» tagliò corto
Evans.
«Ha
aggredito
alle
spalle
un
intoccabile. Era armato, aveva un
coltello. È stato l’unico modo...»
«Può essere entrato in contatto con il
fuggitivo?» lo interruppe il capitano.
«Improbabile, credo si sia trattato
più di una coincidenza.» Attese un
attimo e aggiunse: «Come procediamo
adesso?»
Evans inspirò profondamente, come
per concentrarsi sulle prossime azioni.
«Continuiamo
a
cercare.
Non
abbiamo altre alternative. Se siamo
fortunati, non si allontanerà molto,
almeno per il momento. Potrebbero
volerci giorni prima che si metta in
azione. Restare nascosto, per lui, non è
un problema, ha tempo e soprattutto sa
come fare. Non si esporrà. Trovarlo non
sarà facile.»
Un accenno di nervosismo trasparì
dalle parole del capitano. Ringraziò
Himmons e si incamminò verso le scale.
L’indagine stava procedendo più a
rilento di quanto si aspettasse e ciò lo
preoccupava. Sapeva perfettamente con
chi avevano a che fare e di che cosa era
capace. Dovevano affrettarsi a trovarlo,
prima che fosse troppo tardi.
Capitolo 12
La luce rossastra del tramonto si
rifletteva
sui
vetri a specchio dei
grattacieli. Tirava una leggera brezza e
la serata era piacevole. Sophie girava
tra le vie del centro con la sua vecchia
auto; a quell’ora non avrebbe dovuto
essere difficile trovare parcheggio. Si
fermò all’angolo sud della via che le
aveva indicato Eric, dove avevano
appuntamento.
Sentiva
che
c’era
qualcosa di diverso quella sera.
Ricordava la sua prima uscita con un
ragazzo, quando aveva sedici anni.
Robert Bale, detto Bob, le aveva chiesto
di uscire e lei, un po’ imbarazzata, ma
estremamente felice che un ragazzo si
fosse finalmente accorto di lei, aveva
accettato.
Le aveva dato appuntamento al parco,
vicino alla scuola che frequentavano
entrambi, l’aveva accompagnata a cena
e si era dimostrato un perfetto cavaliere,
spostandole la sedia per farla sedere e
versandole l’acqua ogni volta che il
bicchiere si svuotava sotto la metà. La
serata era proseguita con due cocktail in
uno dei locali più romantici della costa.
Per l’occasione Sophie si era preparata
al
meglio.
Via
quell’aspetto
da
maschiaccio che portava sempre con sé,
era arrivato il momento di sfoderare la
sua femminilità. D’altronde, guardandosi
allo specchio, lei stessa aveva iniziato a
notare che il suo corpo stava cambiando.
Non voleva più nascondersi.
Insieme a Harriet, all’epoca sua
compagna di banco, più esperta in quel
genere
di cose, aveva comprato un
tubino nero con un lungo spacco e un
paio di scarpe col tacco, le prime della
sua vita. Aveva indossato la collana
sottile d’argento che le aveva prestato
sua madre, con una pietra nera come
ciondolo. Era eccitata e voleva che lui
rimanesse colpito.
Quando Bob l’aveva baciata, seduti