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Il numero 1210 dell’Ottantaseiesima Strada era uno di quei vecchi palazzi di mattone scuro, rimodernati, nei quali almeno secondo il parere di Clancy, tanto denaro era stato sprecato, senza necessità, in un tentativo di miglioramento, di cui la casa non aveva affatto bisogno.

Clancy era cresciuto in una vecchia casa di mattoni della Quarantatreesima Strada, e mentre riconosceva le deficienze del rione, lui aveva un caro ricordo della scala, ampia e amica, delle fresche stanze dagli alti soffitti, della meravigliosa libertà degli interminabili corridoi. Era il solo buon ricordo di quei giorni lontani. Un rifugio in un mondo pieno di violenza. Lui tremò al pensiero di ciò che aveva significato il cosiddetto rimodernamento del numero 1210.

Oltrepassato l’edificio, fermò la macchina e tornò indietro a piedi. Uno strillo gli fece alzare il capo in tempo per schivare una palla che stava piombando su di lui. Uno sciame di ragazzi gli passò accanto gridando e facendo roteare dei manici di scopa. «Bene» pensò con una certa soddisfazione «almeno non hanno cambiato gioco. Forse c’è ancora speranza per New York.»

Camminò sotto il tendone a baldacchino, parte essenziale di ogni rimodernamento delle vecchie case, guardò con disgusto il piccolo ingresso rococò e suonò il campanello del numero 12. Dopo un istante, con un ronzio, la massiccia porta si aprì. Lui guardò il citofono, sorpreso. Nessuna domanda! Scrollò le spalle e spinse la porta.

Mentre entrava, una figura frettolosa sgusciò dentro, approfittando, come capita sovente a New York, della porta aperta. Clancy intravide un vestito scuro, una sciarpa bianca, una barbetta alla Greenwich Village e degli occhiali scuri sotto un feltro blu. L’intruso, dopo averlo urtato leggermente, infilò il corridoio che portava sul retro del fabbricato e sparì. Che razza di gente, pensò con amarezza Clancy. Conoscendo il sistema di numerazione di quel tipo di abitazioni salì al primo piano. Sul pianerottolo, le porte dei vari appartamenti erano dipinte di un nauseante colore biancastro e adorne, in alto sotto il numero, di piccoli affreschi murali, ciascuno diverso dall’altro. Il numero 12 sfoggiava un rozzo paio di dadi con i sei in bella vista. Sei chiazze verdi sul fondo violetto. Clancy, con una smorfia, bussò alla porta. Una gaia voce di donna, appena attutita dal leggero spessore del pannello, gli rispose dall’interno.

— Avanti. La porta è aperta.

Sorpreso e perplesso, Clancy girò il pomolo. Lo accolse una stanza luminosa, arredata elegantemente e rischiarata da enormi finestre, quelle che Clancy ricordava con tanta nostalgia. Una giovane donna era seduta su un basso divano, in mezzo alla stanza e, curva su un tavolinetto cosparso di boccette, si stava dipingendo le unghie. La sua vestaglia, slacciata davanti, rivelava un seno fiorente che prorompeva dallo stretto reggipetto. Mentre Clancy la guardava, ipnotizzato, lei buttò indietro il capo e una cascata di capelli biondi le ricadde sulle spalle.

— Salve. Accomodatevi. Tra un minuto, ho finito.

Clancy si tolse lentamente il cappello e si grattò il capo. Lei seguì lo sguardo dell’uomo fisso sulla sua abbondante scollatura e cercò, senza molto successo, di chiudere la vestaglia.

— Non fateci caso, amico. Non è in vendita. È solo che le mie unghie non sono asciutte… — Fece un sorriso allegro, amichevole, e malizioso che scoprì i suoi denti bianchi e regolari. — Per aprirvi la porta, ho dovuto schiacciare il pulsante con il gomito… aveste dovuto vedermi…

Clancy deglutì e si sedette cautamente su una soffice poltrona, continuando a guardare la donna. Lei riprese a dipingere le unghie, mordendosi la punta della lingua per la concentrazione. Poi alzò il capo, ricacciando di nuovo i capelli e disse:

— Che pessima ospite sono! Che ne direste di un drink? — Indicò col capo una vetrinetta in un angolo. — Abbiamo tutto. Eccetto l’acquavite, forse…

— No, grazie.

— Non vi rimprovero. È troppo presto. Anch’io mi alzo di buon mattino. — Sorrise. — Ancora un dito e poi ho finito.

Completò la delicata operazione, rimise il pennellino nella boccetta, lo avvitò e si lasciò andare indietro. — Ecco fatto. Che ne dite? — Tese la mano in fuori per studiare l’effetto, girandola in modo che Clancy potesse vederla. — Sapete, questo smalto si chiama Tramonto! Che nome! Per me è un rosa antico. — Si chiuse la vestaglia sul seno florido e lo guardò con aria corrucciata. — Siete in ritardo, amico.

Il volto di Clancy non cambiò espressione. — Io dico sempre: «Meglio tardi che mai».

Lei rispose. — Ah, sì? E io: «Soldo risparmiato è soldo guadagnato».

— Contemplò di nuovo con soddisfazione le sue unghie. — Una cosa che non dico mai è: «Il denaro è la fonte di tutti i mali». — Alzò gli occhi che Clancy notò erano colore violetto. Una bella donna, pensò, e per niente sciocca. — Caro amico, mi piacerebbe star qui tutta la mattina a scambiare con voi proverbi, ma mi manca il tempo. Avete portato i biglietti?

Clancy, con il volto impassibile, diede un colpetto sulla tasca interna della giacca. La ragazza annuì compiaciuta.

— Bene. Ditemi, siete mai stato in Europa?

— Due volte — rispose Clancy.

— Una con l’esercito e immagino che quella non conti veramente. — Non disse che la seconda volta era andato a riportare indietro un assassino particolarmente pericoloso e che aveva raggiunto da solo l’aeroporto di Londra, dove la polizia inglese teneva il suo uomo.

Gli occhi di lei si addolcirono. Si protese e, quasi avidamente, domandò: — È proprio così bella come dicono? Copenaghen, Parigi e Roma?

— È bella.

— Non vedo l’ora di esserci. Ci siete andato per via mare?

Clancy annuì lentamente, gli occhi fissi sul viso radioso della ragazza. — La prima volta. La seconda con l’aereo.

— È veramente così eccitante come si dice? Con la nave, intendo. Così romantico? -— Lo guardò e rise un po‘ vergognosa. — Vi sembrerò proprio una provinciale, ma non sono mai stata su una nave…

— Può essere romantico.

— Suppongo parlino inglese… a bordo, voglio dire…

— Generalmente.

— Devo ammettere che mi eccito anche soltanto parlandone — disse, alzandosi. — Ma ora devo proprio scappare, devo fare le ultime spese, e anche finire di fare le valigie, perciò, se volete darmi i biglietti…

Clancy, ritenendo di aver saputo, da quel lato, quanto era possibile, posò il cappello sul pavimento, accanto a sé, e si appoggiò comodamente indietro, con le mani sul ventre.

— Quanti biglietti? E per chi? — domandò soavemente.

Lei lo fissò sorpresa, e, per un attimo, perplessa. Poi i suoi occhi si strinsero e le labbra si tesero. — Voi non siete dell’Agenzia Viaggi?

— Non ho mai detto d’esserlo — esclamò Clancy, disinvolto. — Non avete risposto alla mia domanda.

— Chi siete e che cosa volete?

— Mi chiamo Clancy. — Lui sembrava del tutto a suo agio nella soffice poltrona, ma i suoi occhi scrutavano la ragazza con attenzione. — Sono un tenente di polizia.

— Polizia…! — Lei lo guardò. Non c’era timore né sgomento nella sua espressione. Sembrava sorpresa ma non particolarmente allarmata. Clancy corrugò la fronte. O era la più abile commediante del mondo, o il suo unico indizio si stava rivelando un buco nell’acqua. Scrollò le spalle. Per aggiungere un altro proverbio alla collezione di quel mattino pensò: «Fatto trenta, facciamo trentuno». Annuì.

— Esattamente. Desidererei farvi qualche domanda.

Lei si risedette, bruscamente, il viso impenetrabile. — Potete mostrarmi i vostri documenti?

Clancy le porse il portafoglio che lei esamino e restituì.

— Va bene, tenente. Non ho la minima idea di che cosa si tratti, ma fate pure le vostre domande.

Clancy rimise in tasca il portafoglio. — Torniamo alla prima domanda: quali biglietti e per chi?

— Non posso rispondere a questa domanda, tenente. — Lei notò che Clancy inarcava le sopracciglia. — Mi dispiace, ma non c’è niente d’illegale in tutto questo. Solo, non posso, in questo momento, rispondere alla vostra domanda. — Esitò, poi, suo malgrado, un timido sorriso si disegnò sul suo volto grazioso. — A dire il vero, non so neanche perché è stato chiesto di tenere il segreto, ma è così. — Il sorriso sbiadì. — In ogni caso, non credo sia un affare che riguardava la polizia.

Clancy sospirò. — La polizia preferisce stabilire da sé quali siano o non siano i suoi affari.

— Scusate, ma non intendo rispondere a questa domanda. — La sua voce era calma, ma inflessibile. — C’è altro?

Clancy si strinse nelle spalle. — E sia. Tralasciamola per il momento… ma solo per il momento. Cominciamo dal principio. Chi siete?

Gli occhi violetti si offuscarono di collera. — Volete dire — proruppe con voce strozzata — che non sapete neanche chi sono e mi state interrogando come una criminale?

— Non vi sto interrogando come se foste una criminale — disse pazientemente Clancy. — Volete, per favore, rispondere?

Lei allungò il braccio sul divano e prese la borsetta. L’aprì con veemenza, gli tese la patente. Era stata rilasciata in California ad Ann Renick. Dai dati personali, risultava che aveva ventinove anni, era di sesso femminile, alta un metro e sessantacinque, con capelli biondi e occhi violetti. Clancy la girò e vide che dietro non c’erano state notifiche d’infrazioni al traffico. Fece qualche appunto sul suo taccuino e gliela restituì. La ragazza, con le labbra serrate e gli occhi cupi, la ficcò di nuovo nella borsetta. Clancy si guardò attorno.

— È il vostro appartamento?

— No. È di una mia amica… — All’improvviso, s’illuminò e la sua tensione diminuì in parte. — È qualcosa che riguarda questo appartamento?

— Da quando siete qui?

— Da due giorni. La mia amica rimarrà fuori città diverse settimane e mi ha ceduto la sua casa. Ha lasciato la chiave, per me, al custode. Si tratta dell’appartamento?

Clancy sospirò. Malgrado sembrasse pigramente sprofondato nella comoda poltrona, i suoi occhi osservavano la ragazza acutamente, mentre le faceva un’altra domanda: — Per combinazione, avete ricevuto una telefonata dall’albergo Farnsworth, ieri mattina?

Avrebbe giurato che la sua espressione perplessa era del tutto sincera. — Albergo Farnsworth? Non l’ho mai sentito nominare.

Clancy corrugò la fronte. Si tirò su con uno sforzo, si avvicinò al telefono e guardò il numero. «University 6-7887.» Quindi, o il vecchio dell’albergo aveva annotato male il numero, o c’era qualcosa che non quadrava assolutamente. Eppure, la ragazza era della California come Johnny Rossi… Una connessione troppo esigua, bisognava ammetterlo, dato che la si poteva applicare a milioni di persone… però lei voleva anche tener segreto il suo viaggio. D’altra parte, nemmeno quello era un gran delitto. «Ti stai arrampicando sugli specchi» si disse Clancy. E si voltò verso la ragazza.

— Avete avuto una telefonata, ieri mattina?

Lei si morse le labbra. — Non sono affari vostri.

Una scintilla balenò nella mente di Clancy; per la prima volta lui sentì quel formicolio che definiva «germe del sospetto» e incalzò, più sicuro di sé: — Sapete chi è Johnny Rossi?

Ci fu una improvvisa trasformazione nell’atteggiamento della donna, ma non era ancora paura. Era soltanto una certa tensione, un’aria alquanto guardinga. — Sì, ho sentito parlare di Johnny Rossi. Ebbene, che cosa c’è a suo riguardo?

Clancy soppesò i rischi di rivelare troppo e decise di procedere. Si avvicinò alla ragazza e piantò risolutamente i suoi occhi scuri su di lei.

— Sapete che Johnny Rossi è da ieri mattina all’albergo Farnsworth, qui a New York, sotto un falso nome? E subito dopo il suo arrivo ha telefonato dalla sua camera a questo numero? — Indugiò un momento e continuò: — E che, ieri sera, qualcuno gli ha sparato con un mitra in camera sua, in albergo?

Gli occhi violetti incrociarono, ^passibili, i suoi per un momento, ma come il significato delle parole la colpì, Clancy ebbe da lei tutta la reazione che poteva desiderare. Il viso della donna sbiancò e gli occhi fissi su di lui si dilatarono d’orrore e si chiusero. Lui credette, per un attimo, che stesse per svenire. Le sue mani, sul cuscino del divano si contrassero spasmodicamente e si aggrapparono al broccato, torcendolo.

— No! — mormorò debolmente.

— Non ci credo.

— Credetelo pure — disse crudelmente Clancy. — È vero!

— No! — Lei cercò di reagire allo choc e di ricacciare le lacrime.

— Mentite. È un trucco. Lui me lo avrebbe detto… È un trucco. Non possono averlo fatto!

— Chi non può averlo fatto? — Clancy si curvò su di lei minaccioso, con la voce sferzante. — Chi non può averlo fatto?

La ragazza era ripiegata su se stessa, in preda allo stordimento, con i capelli sul viso. Le sue dita graffiavano i cuscini mentre lei fissava il pavimento, senza vederlo.

— Deve essere uno sbaglio. Non possono averlo fatto. — Alzò gli occhi, il suo sguardo era vacuo. Le sue parole non erano dirette a Clancy, ma a qualche immagine interiore. — Non possono averlo fatto. Perché avrebbero dovuto?

— Su, parlate — l’apostrofò duramente Clancy. — Chi gli ha sparato?

Non ci fu risposta. La ragazza sembrava studiasse il disegno del tappeto. Tremando, lei trasse un profondo respiro, e cominciò a scuotere lentamente il capo, da parte a parte. I gemiti nella sua gola si affievolirono. Lei si strinse le mani in grembo e rimase immobile qualche attimo, fissando il pavimento. Quando infine rialzò il capo, il viso era svuotato di ogni espressione. — Che cosa avete detto?

— Vi ho chiesto chi gli ha sparato — ripetè Clancy. — Voi lo sapete! Chi gli ha sparato?

Lei lo guardò senza vederlo, senza udirlo. La sua mente cercava di ricordare, di spiegare i terribili fatti. Gradatamente si rese conto di quanto era stata ingenua, stupida, e una decisione cominciò a maturare in lei.

A fatica si alzò dal divano.

— Devo andar fuori — disse come in trance, guardandosi attorno, quasi fosse vagamente sorpresa di trovarsi in quella stanza, dove, soltanto poco prima, era esultante e felice.

Il suo sguardo assente passò su Clancy come se fosse stato un mobile o un lampada a stelo più ingombrante che decorativa, messa lì accanto al divano.

— Non andrete in nessun posto — disse Clancy freddamente. — Rispondete alla mia domanda. Chi gli ha sparato?

Lei lo fissò come ridestata dalla sua voce. Lo stordimento era passato. Strinse leggermente le labbra.

— Volete arrestarmi, tenente? E se è così, con che accusa? Con che mandato? — Si voltò e si diresse verso la camera da letto. — Devo vestirmi e uscire…

Il volto di Clancy s’indurì. — Io… — fece una pausa, riflettendo rapidamente. — Va bene — continuò in tono conciliante. — Allora, lasciamo stare per il momento. Poi…

— Sì — disse lei. — È meglio, tenente. Poi quando avrò più tempo.

Con i movimenti lenti di una sonnambula, incurante della vestaglia slacciata e rivelatrice, lei entrò in camera da letto.

Clancy raggiunse la porta d’ingresso, scese di corsa le scale, uscì dal portone e rapidamente si portò all’angolo della strada. Si guardò attorno e scorse la vetrina di un drugstore. Nell’interno, le cabine del telefono erano situate presso la vetrina, consentendo così la vista della strada. Entrò nel negozio, passò accanto a scaffali colmi di tanti articoli, e s’introdusse in una cabina. Il tendone davanti alla casa era visibile da quel punto. Fece velocemente il numero del posto di polizia.

— Pronto, sergente? Parla il tenente Clancy…

— Tenente, dove siete stato? Si è scatenato l’inferno qui. Chalmers telefona ogni cinque minuti e anche il capitano…

— Sergente! — gridò Clancy. — Chiudi il becco e ascolta. C’è Stanton?

— È appena arrivato. Ma, tenente, vi dico che…

— Passami Stanton.

La voce del sergente prese un tono rassegnato. — Okay, tenente. Un momento.

Clancy aspettò impaziente, con gli occhi fissi sull’entrata rococò del 1210. Sulla strada il gioco a palla dei ragazzi si era spostato più in là e anche lo schiamazzo. La frangia del tendone ondeggiava lievemente, mossa da un caldo venticello. La voce poderosa di Stanton, improvvisamente, gli rintronò nell’orecchio:

— Pronto, tenente. Ho perquisito quella stanza e…

— Stanton! Dopo! Adesso devi correre qui a tempo di primato, all’incrocio della Columbus con la Ottantaseiesima Strada. Io telefono dalla cabina del drugstore all’angolo. Ti aspetto. Sbrigati.

Riattaccò prima che Stanton perdesse tempo in domande. Uscì dall’angusta cabina e andò al banco dove c’erano le guide telefoniche. Ne aprì una e prese a sfogliarla sempre tenendo gli occhi fissi sull’entrata della casa.

E se lei fosse uscita dal retro? Avrebbe dovuto scavalcare una staccionata. Non c’era un’uscita sul vicolo. Comunque, era un rischio che doveva correre: non poteva essere in due posti contemporaneamente.

Si spostò presso lo scaffale delle riviste fissando l’entrata del 1210. Dove diavolo era Stanton? Non sapeva quanto tempo ci volesse a una donna per vestirsi, ma, certo, non tutta la giornata!

Un tassì si arrestò e ne balzò fuori Stanton. Clancy, appoggiandosi precariamente allo scaffale, batté leggermente sulla lastra della vetrina. Stanton alzò il capo, annuì e pagò la corsa. Clancy gli andò incontro sulla porta e lo trasse in un angolo.

— Devi pedinare una donna, Stanton. Te la indicherò. Deve uscire da quella casa col baldacchino a righe. Si chiama Ann Renick, ventinove anni, alta un metro e sessantacinque, bionda, occhi violetti. Una bella donna. Non perderla di vista per nessun motivo. Appena puoi, telefonami al comando. Aspetto la tua chiamata. Manderò una donna poliziotto a darti una mano nel caso che lei cercasse di eclissarsi in un negozio di cappelli, in una toeletta o che so io…

— Sa di essere pedinata?

— Ora come ora non sa niente. È confusa e stordita. Le ho procurato un terribile choc, ma che io sia dannato, se so come. In ogni modo potrebbe svegliarsi e diventar prudente. Quella donna non è una sciocca, Stan. — Gli afferrò il braccio. — Siamo sulla traccia buona. Questa Renick sa chi… Un momento… Eccola. Quella che è uscita adesso. Sta aspettando un tassì. — Clancy si mise una mano in tasca. — Ecco la chiave della mia macchina. È un po‘ più in là. Tu la conosci. Prendila e segui il suo tassì. Non perderla di vista.

Le ultime parole si perdettero. Stanton si era già precipitato fuori. Attraversata la strada, con andatura disinvolta, sorpassò la ragazza senza guardarla e proseguì. La ragazza si protese sul marciapiede agitando impazientemente la mano, i luminosi capelli biondi risplendenti al sole. Dal suo osservatorio, Clancy vide un’auto pubblica arrestarsi. Lei disse qualcosa al conducente e si buttò sul sedile posteriore. Il tassì partì.

Stanton si staccò dal ciglio della strada e si mise dietro il tassì. Le due macchine sparirono.

Clancy si fregò le mani, soddisfatto. Azione!

Finalmente qualcosa cominciava a muoversi. Almeno l’inizio del caso si stava delineando nella nebbia che lo circondava. Ora, doveva tornare in sede e controllare altri indizi. La sua faccia prese un’espressione preoccupata. Tornare alla sede voleva anche dire cominciare a sorbirsi la musica… Una musica, con tutta probabilità, piuttosto sgradevole. Chalmers! Fece una smorfia priva d’umorismo, scrollò le spalle, si piantò il cappello in testa e uscì sul marciapiede per chiamare un tassì.

Sabato, 11, 30 del mattino.

Con passo svelto, Clancy varcò l’entrata del Comando di polizia. La sua stanchezza era svanita al pensiero del lavoro da svolgere. Il sergente alzò gli occhi. Il suo largo faccione, intessuto di venette, si increspò in un sorriso, in cui, piacere e sollievo, erano visibilmente uniti.

— Oh, sono contento di vedervi in carne e ossa, tenente! Vi hanno cercato proprio tutti, questa mattina! Telefonavano ogni due minuti. Volete che vi dia per primo l’ufficio del signor Chalmers? Lui ha telefonato in continuazione.

Clancy fece, con un gesto, tacere di colpo il sergente. — Niente telefonate. Kaproski è tornato?

— Sì, è qui. Ma tenente…

— Ho detto, niente telefonate. Manda Kaproski nel mio ufficio. — Indugiò, pensando al piano che aveva tracciato strada facendo. — Manda qualcuno a comprare il New York Times di stamattina. Mi sono dimenticato di prenderlo.

— Certo, tenente. Anche il capitano Wise ha telefonato da casa sua…

Clancy fissava la parete di fronte. Dov’era il programma che aveva così accuratamente elaborato? Si passò stancamente la mano sul volto: sei ore di sonno in due giorni non erano affatto sufficienti. — Va bene. Parlerò col capitano Wise. Richiamalo a casa. Nessun altro, però. — A un tratto, ricordò un altro punto del suo programma. — Solo Stanton. Se telefona passamelo subito. Chiama una donna poliziotto. Stanton potrebbe averne bisogno, subito.

— Sì, signore.

Clancy entrò nel suo ufficio, lanciò il cappello sopra uno schedario e si sedette sulla sedia girevole, guardando fuori dalla finestra. Di faccia a lui, delle tute, in fila, pendevano dalla corda stesa, come ritagli di carta. Si chiese, a un tratto, se erano le stesse del giorno prima o delle altre. Cercò di ricordare se avesse mai visto quella corda completamente sgombra di biancheria. Non ci riuscì.

Ci fu un colpo di tosse sulla porta e, mentre lui si girava, Kaproski venne avanti, con un grosso involto sotto il braccio. Il telefono squillò prima che potessero parlare e Clancy indicò una sedia al grosso agente, mentre allungava il braccio verso il ricevitore.

— Pronto. Pronto, capitano.

La poderosa voce dall’altro capo, ispessita da un forte raffreddore, rimbombò nell’orecchio di Clancy. Chiuse gli occhi. «Facciamo anche questo. Speriamo alla svelta», si augurò. «C’è tanto da fare.»

— Clancy, pezzo di un irlandese. Ti ha dato di volta il cervello? Eccomi qui a letto ammalato, così raffreddato che non riesco neanche a respirare e devo farmi rintronare le orecchie da tutti i grossi calibri del dipartimento! Cosa stai cercando di fare? Procurarmi per giunta anche un’ulcera?

— Che vuoi dire, capitano?

Dall’altra parte il respiro si strozzò. — E ora che cos’è questa storia del «capitano»? Da quando in qua mi chiami «capitano»? Non sono più «Sam» per te? Perché tutta questa improvvisa formalità?

— Va bene, Sam. Che cosa ti preoccupa?

— Che cosa mi preoccupa, chiede! Che cosa mi preoccupa! S’impadronisce del peggior criminale dopo Hitler, lo nasconde Dio solo sa dove e poi mi domanda, come niente fosse, che cosa mi preoccupa. — La sua voce rauca si abbassò diventando persuasiva. — Ascolta, Clancy, siamo vecchi amici. Se non ti senti troppo bene, ti duole il capo o altro, devi dirlo ai tuoi vecchi amici. Chi altro ti aiuterà, eh? Chi può essere più amico di un vecchio amico, eh? Rispondimi.

Clancy diede un triste sguardo a Kaproski, al di là della scrivania.

L’enorme agente aspettava pazientemente, stringendo il grosso involto tra le braccia, come fosse un bambino. Clancy riportò il suo sguardo da martire al ricevitore.

— Mi sento bene, Sam.

— Ti senti bene. — La voce cupa sembrava deplorare la sua buona salute. — Magnifico! Sono contento che tu ti senta bene. Certamente, non sai che il borioso signor Chalmers, il vice-procuratore distrettuale, ha fatto ricerche in ogni ospedale, pronto soccorso, casa di cura e convalescenziario, nel raggio di cento chilometri, senza rintracciare il signor Johnny Rossi. Certamente non sai che il loquace signor Chalmers è andato a strillare dal sindaco, dal Capo della polizia e dal Governatore. Certamente non sai, stupida creatura, che il tuo posto è appeso a un filo. Ti senti bene, eh! — Dal telefono uscì un lamento. — Che cosa succede, Clancy? Ti ha dato di volta il cervello, tutto a un tratto?

Clancy immaginava la massiccia figura aggrappata al telefono, una montagna sporgente dalle coperte m disordine del largo letto, con a fianco, brodo di pollo, sciroppi e una moglie indaffarata. Tirò un grosso sospiro.

— Sarti, da quanto tempo mi conosci?

— Cosa c’entra questo, adesso? — Ci fu una pausa. Quando continuò, la sua voce roca si era un po‘ addolcita. — Tu lo sai da quando, Clancy. Da tanto tempo. Da ragazzi, nel vecchio quartiere…

Già, pensò Clancy. Da quando erano ragazzi, nel vecchio quartiere, da quando quel grassone era venuto ad abitare là, da Brooklyn… Sammy Wise aveva preso subito Clancy in simpatia, ammirando la sua intelligenza sveglia, e aveva spesso frapposto la sua mole tra lui e gli altri ragazzi del rione coalizzati contro di lui… Il vecchio quartiere, che gli era tornato alla memoria alla vista di una facciata di mattoni. Il vecchio quartiere: una madre forte e arguta, e suo padre, il solo stiratore di pantaloni del rione…

Clancy, improvvisamente, fece uno sbadiglio. «Accidenti» pensò «mi addormento in piedi.» Il capitano Wise stava continuando: — E tu sai quanto me che, se non fosse stato per quel bastardo di Chalmers, a quest’ora ti chiamerei capitano. Ecco, da quando ti conosco — aggiunge come conclusione e domandò sospettosamente: — E con ciò?

— Voglio ventiquattr’ore, Sam. Senza Chalmers che mi soffi sul collo. Puoi darmi ventiquattro ore?

— Vuoi dirmi di che si tratta, Clancy?

— Preferisco di no, Sam. Non ora, almeno. — Clancy sospirò. — Puoi darmi ventiquattr’ore di tempo?

— Posso tentare.

— Te ne sono grato.

Il capitano Wise sospirò. — Va bene, Clancy. Non hai mai fatto alcuna pazzia prima d’ora e io ti conosco; perciò devi avere un buon motivo per farla, ora. Terrò i lupi a bada, il più a lungo possibile, ma sono qui a letto malato, tu capisci, e non posso garantirti niente. E anche se riuscirò a tenerli a bada, tu sai che non sarà per molto.

— Grazie, capitano.

Di nulla, tenente. Spero solo che tu sappia che cosa stai facendo.

Clancy fissò il ricevitore.

— Già — disse. — Mi terrò in contatto.

— Te lo raccomando, Clancy, e io farò quanto posso. — Una nota d’affetto vibrò nella sua voce. — Buona notte, Clancy.

Clancy riattaccò e si girò verso Kaproski. Il grosso agente appoggiò il pacco sulla scrivania e cominciò a scartarlo.

— Che cos’è?

— Un’uniforme da medico. Completa. — Dalla sua voce traspariva la soddisfazione. Tolta la carta, apparve un mucchio d’indumenti bianchi con sopra una calotta, una maschera chirurgica e un paio di scarpe da tennis bianche.

— Dove l’hai trovata? — domandò Clancy.

— Al primo piano, sul retro dell’ospedale, nella stanza della caldaia. Questa roba era ficcata sotto la caldaia automatica, che è rialzata da terra circa mezzo metro. — Fece una pausa. — La porta della stanza dà su un vicolo. Non era chiusa.

— Vuoi dire che era aperta?

— Non aperta aperta — spiegò Kaproski. — Non era chiusa a chiave. Chiunque avrebbe potuto entrare o uscire.

— È così, di solito?

— Quasi sempre, credo.

—- Non c’è un uomo addetto alla manutenzione della caldaia?

-— C’è, ma, quando Rossi è stato liquidato, era a uno dei piani superiori a riparare un rubinetto, o qualcosa del genere. Non ci sta molto in quella stanza, comunque.

Come ho detto la caldaia è uno di quegli aggeggi automatici che, praticamente funzionano da soli.

Clancy rifletté un momento. — Qualcuno ha riconosciuto questi indumenti? -— domandò indicando la pila.

— Sì. – Kaproski tirò fuori dal mucchio una giacca bianca. Due iniziali erano ricamate in rosso su una tasca. — C’è uno spogliatoio accanto alla lavanderia, dove i medici si cambiano l’abito. Ho esaminato gli armadietti e questa roba proviene dal dottor Paul Mills. È in vacanza da circa dieci giorni. Tornerà tra un paio di giorni.

— Gli armadietti sono chiusi a chiave?

Kaproski scosse il capo con disgusto. — No. Ve lo dico io, in quel posto niente è chiuso a chiave.

Clancy corrugò la fronte, riflettendo. — A prima vista sembra facile, ma anche così… Ammesso che l’assassino abbia potuto sapere da quelli dell’ambulanza dove Rossi era stato trasportato, mi sembra un modo assai rischioso per uccidere un uomo. Un vero azzardo, trovare un’uniforme da dottore nel posto che vuoi e nel momento che vuoi. Non so…

— Che volete che vi dica, tenente — disse Kaproski. — In ogni altro posto, tranne questo, forse sarei d’accordo con voi, ma quell’ospedale non è come il Mount Sinai o il Bellevue. Non circola nessuno là dentro… Non ci sono regolari infermiere a ogni piano. E non chiudono niente a chiave. Chiunque potrebbe setacciare l’ospedale con tutto il suo comodo. Per l’inferno, volendo, si potrebbe svuotare un paio di stanze del mobilio e nessuno se ne accorgerebbe.

— Già — convenne Clancy. — Dimmi del coltello.

— Be‘, non lo abbiamo estratto, naturalmente, perché abbiamo messo il morto nel magazzino frigorifero, così com’era, ma pare un comune coltello da pane. Esiste una cucina, ma la cuoca non c’è quasi mai e tutti vanno e vengono per farsi un caffè o un panino… e nessuno sa che coltelli ci siano o non ci siano. Se lo volete sapere, quel posto è il Liberty Hall. Be‘, diavolo, non è un ospedale vero e proprio, ma piuttosto una casa di cura…

— Proprio così… — disse Clancy. Un agente entrò e mise il New York Times sulla scrivania. Clancy rimase pensieroso alcuni minuti, infine, con un sospiro, spostò da una parte il mucchio d’indumenti e prese il giornale. — Ho un altro incarico per te, Kap, e importante.

— Ottimo. Qual è?

— Un momento. -— Clancy sfogliò il giornale fino alla pagina che cercava. Posò il giornale sulla scrivania, e fece scorrere il dito lungo una lista. Era quella dell’orario delle navi in partenza da quel porto. Kaproski si allungò verso la scrivania seguendo con gli occhi il dito del tenente. Clancy sbuffò.

— Maledizione! Saranno una trentina le navi che salpano in questi giorni! — Studiò ancora l’elenco, con la fronte aggrottata. — Tutte le Compagnie Marittime del mondo e tutte le destinazioni del mondo!

— Lo credo bene! — commentò Kaproski. — È un gran porto, il più grande del mondo! — aggiunse in tono orgoglioso.

Clancy fissò il giornale con acredine. — È magnifico. Per una volta desidererei fosse un po‘ più piccolo. — Percorse di nuovo la lista col dito, poi ci rinunciò. Si girò, con la sedia verso Kaproski.

— Okay, Kap… Ecco il tuo lavoro. Devi andare in tutte le agenzie di viaggio che si trovano nelle vicinanze della Ottantaseiesima e della Columbus Avenue. Prendi la guida del telefono e fa una lista di queste agenzie. Prima vai nelle più vicine. La ragazza potrebbe averli acquistati in una agenzia del centro, ma c’è la probabilità che abbia scelto una piccola agenzia, vicino a casa.

— Sicuro, tenente — disse Kaproski. — Ma chi è la ragazza? E che cosa devo indagare?

— Qualcuno ha acquistato due biglietti per l’Europa. Probabilmente una cabina di prima classe per due. Il nome potrebbe essere Renick o chi lo sa. — Esitò ricordando il volto felice e spensierato della ragazza, al momento dell’incontro. — Penso che sia quello, ma potrei anche sbagliare. Comunque, la ragazza che li ha acquistati ha ventinove anni, è bionda, ha gli occhi violetti ed è alta un metro e sessantacinque. Una vera bellezza. Voglio sapere a chi sono intestati quei biglietti e, posto che uno sia al nome di Renick, voglio sapere l’altro per chi è. Se trovi l’agenzia che li ha venduti, i passaporti potrebbero essere ancora là. -— Tamburellò con le dita sulla scrivania, fissando il giornale. — Fatti dire la destinazione e la data della partenza, naturalmente.

Kaproski, che stava prendendo appunti sul suo taccuino, alzò il capo. — Perché non indagare direttamente presso le Compagnie Marittime?

— Se vuoi cominciare da lì, puoi farlo. Se i biglietti sono intestati a Renick, ti possono aiutare, ma in caso contrario l’unico modo per ottenere un risultato è la descrizione della persona che li ha prenotati. E solo le agenzie possono esserti utili, in tal caso.

— Bene. Vedrò che cosa posso sapere. — Kaproski esitò. — Avete una idea di quando dovrebbero salpare?

— Direi, uno di questi giorni. La ragazza ha accennato a ultime spese e a valigie da fare, ma non so… — Non era la prima volta che Clancy rimpiangeva la sua mancanza di esperienza per quanto concerneva le donne. — Non so se le donne fanno le ultime spese un giorno o un mese prima della partenza.

— Ma, era per l’Europa?

Di questo sono certissimo. Non credo che abbia di proposito cercato di mettermi fuori strada, su quel punto. Tralascerei le Compagnie! Marittime con una rotta diversa, almeno per il momento.

Strappò dal giornale l’elenco delle navi e lo diede a Kaproski.

Kaproski raddrizzò le spalle. — Bene. — Mise in tasca il taccuino e la lista, poi uscì. Clancy alzò il microfono del telefono.

— Sergente, voglio il Servizio Informazioni della polizia di Los Angeles.

— Sì, signore.

— Rimango in linea.

Si appoggiò allo schienale tenendo il ricevitore all’orecchio, mentre con l’altra mano giocherellava con le scarpe bianche da tennis in cima al mucchio di roba. Le scarpe sembravano rigonfie. Infilò la mano in una e ne tirò fuori un calzerotto bianco. Un altro uscì dalla seconda scarpa. Li mise in disparte e tastò le tasche della giacchetta. Niente. Stava srotolando i calzoni, quando gli giunse la voce del sergente.

— Los Angeles è in linea, tenente.

— Pronto?

— Sono il tenente Clancy del 52° Distretto di New York. Con chi parlo, prego?

— Il sergente Martin dell’archivio segnaletico. Cosa posso fare per voi, tenente?

— Vorrei ogni informazione possibile, al più presto, su una certa Ann Renick, R-E-N-I-C-K, età ventinove anni, capelli biondi, altezza un metro e sessantacinque, occhi violetti…

— Sposata o nubile?

— Non lo so. Tutto quello che posso dirvi di lei era sulla patente di guida rilasciata dalla Contea di Los Angeles.

— Nessun indirizzo?

Clancy si sarebbe dato un pugno in testa. — Non l’ho annotato.

— Precedenti penali? Lì, a New York, intendo.

— No, che io sappia, ma non abbiamo verificato. Non ancora — aggiunse Clancy a giustificazione.

— Avete notato se dietro la patente c’erano notifiche d’infrazioni?

— Non ce n’erano.

— Sapete altro?

— Questo è tutto, sergente. Capisco che non è molto…

— È sufficiente — disse il sergente. — Se le è stata rilasciata la patente in questa contea, la individueremo e vi daremo precise informazioni. Quando le volete?

Clancy rise. — Vorrei fossero già qui.

— Vi richiamerò.

— Vi sono molto grato. Se non ci fossi, lasciate il vostro numero al sergente e mi metterò in contatto con voi, subito. Fino a che ora state in ufficio?

— Fino alle sei, che lì da voi saranno le nove, per il diverso fuso orario.

— Va bene — Clancy fece una pausa. — Avete preso i dati o volete che ve li ripeta?

— Non devo far altro che risentire la registrazione, tenente — disse il sergente.

— Ah, già. Be‘, molte grazie.

— Siamo qui per questo. Arrivederci, tenente.

Clancy, deposto il ricevitore, guardò gli indumenti ammucchiati sulla scrivania e tastò le tasche dei calzoni sgualciti. Niente neanche là. Buttò tutto in un cassetto e rimase a riflettere. Riprese il giornale e lo sfogliò fino alla pagina dello sport. Studiò l’elenco delle corse dei cavalli del pomeriggio, e allungò la mano verso il telefono. No, non poteva telefonare da lì.

Si alzò, prese il cappello, percorse il corridoio e sostò presso la scrivania dell’ingresso. Il sergente lo guardò con aria interrogativa.

— Vado a mangiare — disse.

— Sì, signore. — Il sergente parve a un tratto impacciato. — Il signor Chalmers… se chiama di nuovo… — Uno sguardo al volto gelido del tenente lo fece deglutire precipitosamente. — Sì, signore. Gli dirò: è andato a mangiare.