Scrisse lettere d’addio a tutti i parenti. Sapeva non solo quello che faceva, ma anche perché non poteva più fare altro. «Tu non capirai», scrisse a suo marito. «Ma a continuare a vivere non c’è nemmeno da pensarci.» A me spedì una raccomandata con la copia del testamento, per giunta espresso. «Ho cominciato a scrivere un paio di volte, ma non ho sentito alcun conforto, alcun aiuto.» Tutte le lettere portavano non solo la data, come al solito, ma anche il giorno della settimana: «Giovedì, 18-11-71».
Il giorno dopo andò in città con la corriera, e servendosi della ricetta permanente che le aveva fatto il medico di famiglia si procurò un centinaio di pastiglie di sonnifero. Benché non piovesse, si comprò poi un ombrello rosso, con un bel manico un po’ storto.
Nel tardo pomeriggio tornò con una corriera che di regola è quasi vuota. Alcuni la videro ancora. Andò a casa e cenò nella casa vicina, dove abitava sua figlia. Tutto come al solito: «Abbiamo persino scherzato».
Poi a casa sua si mise davanti al televisore col figlio più piccolo. Guardarono un film della serie «Padre e figlio».
Mandò il bambino a dormire e rimase seduta davanti al televisore acceso. Il giorno prima era andata dal parrucchiere e si era fatta fare la manicure. Spense il televisore, andò in camera da letto e appese all’armadio un vestito marrone in due pezzi. Prese tutte le pastiglie analgesiche insieme a tutti i suoi antidepressivi. Indossò le mutandine igieniche, vi infilò ancora degli assorbenti, in più altre due paia di mutandine, si legò stretto il mento con un foulard e si mise a letto, senza accendere il termoforo, con una camicia da notte lunga fino alle caviglie. Si distese completamente e mise le mani una sull’altra. Alla fine della lettera, che del resto conteneva solo disposizioni per il funerale, mi scriveva che era tranquilla e felice di addormentarsi finalmente in pace. Ma io sono sicuro che non è vero.