Cominciò, insomma, che mia madre nacque, più di cinquant’anni fa, nello stesso luogo in cui anche è morta. Tutto ciò che in quella zona si poteva sfruttare apparteneva allora alla chiesa o alla nobiltà terriera; una parte veniva data in affitto alla popolazione, costituita soprattutto da contadini e da artigiani. La povertà era talmente grande che la piccola proprietà era ancora rarissima. Praticamente le condizioni erano ancora quelle di prima del 1848, quando era stata formalmente abolita la servitù della gleba. Mio nonno – è ancora vivo e oggi ha ottantasei anni – faceva il falegname e a tempo perso coltivava, con l’aiuto della moglie, un po’ di campi e di prati, per i quali sborsava ogni anno un fitto. È di origine slovena, e illegittimo, come a quell’epoca quasi tutti i figli dei contadini, che, in grado da un pezzo di accoppiarsi, non avevano né i mezzi per sposarsi né una casa da viverci. Sua madre, però, era figlia di un proprietario che stava bene; e presso costui suo padre, considerato niente di più che un «maschio», alloggiava come servo. Comunque, in questo modo, sua madre almeno aveva avuto la somma che era necessaria all’acquisto di un piccolo podere.
Dopo generazioni di poveri diavoli – dai certificati di battesimo lacunosi; nati e morti in stanze altrui; buoni neanche da ereditarci qualcosa, poiché venivano sotterrati con il loro unico bene, che era l’abito della festa – il nonno crebbe così, per primo, in un ambiente in cui poteva sentirsi in casa sua, senza essere soltanto sopportato in cambio della sua fatica quotidiana.
In difesa dei principi economici del mondo occidentale, si leggeva recentemente, nella pagina economica di un giornale, che la proprietà è LIBERTÀ REIFICATA. Nel caso di mio nonno, primo proprietario d’immobili dopo una sfilza di nullatenenti, e quindi di impotenti, forse ciò corrispondeva ancora alla realtà: la coscienza di possedere qualcosa era tanto liberatrice, che dopo un’abulia di generazioni poté formarsi improvvisamente una volontà: diventare ancora più libero, il che significava solo, e certo a ragione, data la situazione del nonno: ingrandire la proprietà.
In effetti, la proprietà iniziale era così piccola, che uno doveva impiegare quasi tutte le sue energie solo per conservarla. Sicché l’unica possibilità di un piccolo proprietario ambizioso di migliorare rimaneva il risparmio.
E mio nonno risparmiò, finché, con l’inflazione degli anni Venti, tornò a perdere ciò che aveva risparmiato. Allora ricominciò a risparmiare, non solo mettendo da parte il denaro che avanzava, ma soprattutto ignorando i bisogni, e imponendo anche ai figli la stessa spettrale sobrietà; sua moglie, come donna, sin dalla nascita non aveva nemmeno potuto sognare qualcosa di diverso.
Continuò a risparmiare per quando i figli avrebbero avuto bisogno di una RISERVA da sposarsi o da impiantare un lavoro. Impiegare i risparmi già prima, per la loro ISTRUZIONE, un pensiero così, soprattutto per quanto riguardava una figlia, naturalmente non poteva venirgli. E anche nei maschi gli incubi secolari dei nullatenenti in terra straniera erano talmente connaturati, che uno di loro, il quale – più per caso che per intenzione – aveva ottenuto un posto gratuito al liceo, dopo un paio di giorni non sopportò più l’ambiente ostile, si fece a piedi, di notte, i quaranta chilometri dalla città, e giunto davanti alla casa – era sabato, giorno in cui abitualmente si puliva – senza dire una parola, si mise a spazzare il cortile; quel rumore della scopa all’alba fu una spiegazione sufficiente. Pare che in seguito, diventato falegname, sia stato bravissimo nel suo mestiere, e anche soddisfatto.
Lui e il fratello maggiore morirono presto nella seconda guerra mondiale. Intanto il nonno aveva continuato a risparmiare e, al tempo della disoccupazione degli anni Trenta, aveva di nuovo perduto tutto ciò che aveva messo da parte. Risparmiava, cioè non beveva e non fumava; giocava poco. L’unico gioco che si permetteva era la partita a carte della domenica; ma anche i soldi che vinceva – e giocava con tanto giudizio che vinceva quasi sempre – erano soldi da risparmiare, al massimo ci scappava una monetina per i figli. Dopo la guerra ricominciò a risparmiare, e fino a oggi, che è pensionato dello stato, non ha ancora smesso.
Il figlio superstite, padrone d’una falegnameria, dà lavoro ai suoi venti operai e non ha piu bisogno di risparmiare: lui investe; il che significa anche che può bere e giocare, anzi, è così che deve. A differenza di suo padre, che ha taciuto e rinunciato tutta la vita, lui ha trovato almeno una specie di linguaggio, anche se lo usa soltanto per rappresentare, in consiglio comunale, un partitino inesistente, che in virtù di un grande passato farnetica di un grande futuro.
Nascere donna, in questa situazione, era, a priori, nefasto. Ma si può anche trovarvi una consolazione: almeno, nessun timore per il futuro. Le chiromanti, alla sagra, leggevano sul serio il futuro soltanto ai giovanotti; per le donne, questo futuro si riduceva a qualche spiritosaggine.
Nessuna possibilità, tutto già previsto: piccole galanterie, risolini, un’ebbrezza breve, poi repentinamente la faccia severa, riservata, che diventava subito un’abitudine, i primi figli, stare ancora un po’ lì dopo le faccende di cucina, non essere ascoltata mai sin dall’inizio, fingere lei stessa di non udire, parlare da sola, reggersi poi a fatica, le vene varicose, niente più che un mormorio nel sonno, cancro all’utero, e con la morte la predizione alla fine si avvera. Le varie fasi di un gioco che facevano le bambine di quei posti, si chiamavano: Stanca-Debole-Malata-Moribonda-Morta.
Mia madre era la penultima di cinque figli. A scuola era brava, gli insegnanti le davano le pagelle migliori, lodavano soprattutto la sua scrittura ordinata: ed ecco gli anni di scuola erano già finiti. Studiare era stato soltanto un gioco; una volta adempiuto l’obbligo scolastico, nella vita da adulti diventava inutile. Ora le donne si abituavano in casa alla loro futura vita di casalinghe.
Nessuna paura, salvo quella creaturale del temporale e del buio, solo un alternarsi di caldo e di freddo, d’umido e di secco, di benessere e di fastidio.
Il tempo passava tra le feste di chiesa, gli schiaffi se si andava a ballare di nascosto, l’invidia per i fratelli, la felicità di cantare nel coro. Tutto quanto succedeva nel mondo restava un mistero; non si leggevano giornali, oltre il bollettino diocesano, e anche di questo solo il romanzo a puntate.
Le domeniche: il manzo lesso con la salsa di rafano, la partita a carte, le donne che stanno a guardare umili, una foto di famiglia con la prima radio.
Mia madre aveva un carattere spavaldo, nelle fotografie si piantava le mani sulle anche o cingeva col braccio le spalle del fratellino. Rideva sempre, e pareva che non sapesse farne a meno.
Pioggia-sole, fuori-dentro: i sentimenti femminili dipendevano molto dal tempo, perché «fuori» quasi sempre poteva essere solo il cortile, e «dentro», solo e soltanto la propria casa senza una propria stanza.
In quei luoghi il clima ha forti oscillazioni: inverni freddi, estati afose: ma al tramonto, o anche soltanto all’ombra degli alberi, si cominciava a rabbrividire. Tanta pioggia; già all’inizio di settembre, spesso per giorni e giorni, una nebbia umida davanti alle finestre troppo piccole (anche oggi non vengono costruite più grandi); goccioloni sulle funi del bucato, rospi che ti tagliavano la strada nel buio con un salto, moscerini, insetti, farfalle notturne anche di giorno, vermi e millepiedi sotto i ciocchi della legnaia; bisognava difendersi da tutto questo, non c’era altro da fare. Raramente senza desideri e felici, in qualche modo, per lo più senza desideri e un poco infelici.
Nessuna possibilità di confrontarsi con un’altra forma di vita: ma chissà, nessun bisogno più di farlo?
Cominciò così, che improvvisamente a mia madre venne voglia di far qualcosa: voleva studiare; perché, da bambina, studiando aveva percepito qualcosa di se stessa. Era stato come quando uno dice: «Mi sento». Per la prima volta un desiderio, che venne anche espresso ripetutamente, finché diventò un’idea fissa. Mia madre raccontava di aver «mendicato» dal nonno il permesso di imparare qualcosa. Ma la questione non si poneva neppure: per liquidarla, bastava un gesto della mano; bastò quel gesto, e fu una cosa da non pensarci più.
Tuttavia la gente aveva un rispetto secolare per i fatti compiuti: una gravidanza, la guerra, lo stato, le usanze e la morte. Quando mia madre, a quindici o sedici anni, semplicemente se ne andò di casa e imparò a fare la cuoca in un albergo sul lago, il nonno la lasciò fare, dato che ormai se n’era andata; e poi, a far la cuoca, c’era poco da imparare.
Ma ormai le possibilità erano già esaurite: aiuto-sguattera, cameriera, aiuto-cuoca, capocuoca. «Mangiare si mangerà sempre.» Nelle fotografie, una faccia arrossata, guance lucide, a braccetto delle amiche, che si era trascinate dietro, timide e serie; un’allegria cosciente di sé: «Non può più succedermi niente!»; il piacere aperto, esuberante, della compagnia.
La vita di città: vestiti corti, scarpe coi tacchi alti, la messa in piega, gli orecchini, una spensierata voglia di vivere. Perfino un soggiorno all’estero!, come cameriera nella Foresta Nera, ADORATORI tanti, ESAUDITO nessuno! Uscire, ballare, divertirsi, far chiasso: la paura del sesso veniva mascherata così; «ma se non mi piaceva nessuno». Il lavoro, il piacere; cuore pesante, cuore leggero, Hitler alla radio aveva una bella voce.
La nostalgia di quelli che non possono permettersi niente: di ritorno all’albergo sul lago, «adesso tengo già la contabilità», attestati pieni di lodi: «La signorina... ha dato prova... di diligenza e buona volontà. Per il suo zelo e il suo carattere aperto ci duole... Lascia la nostra casa di sua volontà.» Gite in barca, notti passate ballando, nessuna stanchezza.
«10 aprile 1938: il sì tedesco! Alle ore 16 e 15 minuti, percorse trionfalmente le strade di Klagenfurt, arrivò il Führer, mentre’echeggiava la marcia di Badenweiler. Il giubilo della massa sembrava non conoscere confini. Nel Wörthersee ormai sgombro dal ghiaccio, si specchiavano a migliaia gli stendardi con la croce uncinata delle stazioni climatiche. Gli aerei dell’ex impero e i nostri apparecchi volavano a gara con le nuvole.»
Gli annunci economici dei giornali offrivano distintivi elettorali e bandiere di seta o soltanto di carta. Alla fine della partita di calcio le squadre salutavano con il regolamentare «Sieg Heil!». Tutti i veicoli ebbero la targa col D, al posto di quella con l’A. Alla radio: ore 6,15. Regolamenti; 6,35. Parola d’ordine; 6,40. Ginnastica; 20,00. Concerto di Richard Wagner; fino a mezzanotte, varietà e musica da ballo, trasmessa dalla stazione di Königsberg.
«Il 10 aprile la tua scheda dovrà essere così: una croce ben chiara sul cerchio più grande sotto la parola SÌ.»
Ladri appena rilasciati dal carcere e già recidivi si confessavano colpevoli dichiarando d’avere acquistato gli oggetti in questione in negozi che, siccome appartenevano a ebrei, NEL FRATTEMPO AVEVANO CESSATO DI ESISTERE.
Fiaccolate e celebrazioni solenni; gli edifici fregiati con i nuovi simboli del potere ricevettero FACCIATE e SALUTARONO; i boschi e le cime dei monti SI ADORNARONO; gli avvenimenti storici furono presentati alla gente di campagna come uno spettacolo naturale.
«Eravamo molto eccitati», raccontava la mamma.
Per la prima volta si facevano delle esperienze in comune. Persino la noia dei giorni di lavoro prendeva un’aria di festa, «sino alle ore piccole». Finalmente tutto ciò che era sempre stato incomprensibile ed estraneo si inserì in un grande contesto: i fatti si ordinarono in relazioni reciproche, e il lavoro stesso, da automatico e alienante che era, acquistò un significato, come una festa. I movimenti che la propria coscienza vedeva eseguire contemporaneamente da tante altre persone si componevano in un ritmo sportivo, e la vita riceveva una forma in cui ci si sentiva protetti e liberi insieme.
Il ritmo diventò esistenziale: come un rituale. «Il bene comune viene prima del bene individuale, il senso della comunità viene prima dell’egoismo.» Così, era come se uno fosse dappertutto a casa sua, la nostalgia non esisteva più. Tanti indirizzi dietro le fotografie, si dovette acquistare (o donare?) un taccuino, per la prima volta: tutto a un tratto si conosceva tanta gente, e succedevano tanti fatti, che uno poteva DIMENTICARE qualcosa. Le era sempre piaciuto essere orgogliosa di qualcosa; e poiché ora tutto ciò che si faceva era importante, lei diventò orgogliosa davvero, non di qualcosa in particolare, ma orgogliosa così, come atteggiamento, e come espressione di un senso della vita finalmente raggiunto; e questo vago senso d’orgoglio non lo volle più abbandonare.
Di politica continuava a non interessarsi: ciò che accadeva con tanta evidenza era per lei tutt’altra cosa: una mascherata, un cinegiornale UFA («Grande rassegna d’attualità – Due settimane in sonoro!»), una sagra mondana. La «politica» era qualcosa di immateriale, di astratto, non un ballo in maschera né un girotondo, né un’orchestra in costume, niente che fosse VISIBILE. Dovunque si guardava, una gran festa, e la «politica»: era qualcosa?, una parola, ma non un concetto, perché ti era già stata inculcata nei libri di scuola come tutti i concetti politici, senza rapporto con qualcosa di tangibile, di reale, appunto solo come una parola da tenere a mente oppure come un simbolo senza l’uomo. L’oppressione: una catena o il tacco d’uno stivale; la libertà: la vetta di una montagna; il sistema economico: una ciminiera che fuma tranquilla o una buona pipata dopo il lavoro; e il sistema sociale: una scala, con su scritto «imperatore-re-nobile / borghese-contadino-tessitore / falegname-mendicante-becchino» (un gioco che, oltre a tutto, si poteva giocare al completo soltanto nelle famiglie dei contadini, dei falegnami e dei tessitori, che avevano tanti figli).
Questo periodo servì a mia madre per uscire da se stessa e diventare autonoma. Acquistò un contegno, perdette anche quell’estrema paura di essere toccata: il cappellino tutto scivolato in avanti, perché un giovanotto appoggiava la testa alla sua, mentre lei, soddisfatta di sé, rideva nella macchina fotografica. (La finzione che le fotografie possano «dire» qualcosa: ma non è forse vero che ogni formulazione, anche di ciò che è realmente accaduto, è già più o meno fittizia? Meno, se ci si limita a fare una relazione; più, quanto più esattamente si cerca di formulare? E quanto più si finge, tanto più la storia diventerà interessante anche per qualcun altro, perché è più facile identificarsi con delle formulazioni che con dei fatti semplicemente riferiti? Di qui il bisogno di poesia? «Mancanza di respiro sulla riva del fiume», secondo una formulazione di Thomas Bernhard.)
La guerra, una serie di successi annunciati, al suono di una gran musica dall’altoparlante rivestito di stoffa delle «radio del popolo» che ammiccavano misteriosamente nel santuario d’ogni casa, accrebbe ancora la coscienza di sé, aumentando «l’incertezza di tutte le condizioni» (Clausewitz), e rendendo casuale, e quindi emozionante, ciò che prima era stato quotidiano e ovvio. Per lei non fu lo spettro angoscioso della prima infanzia, determinante per la futura sensibilità, come invece doveva essere per me, ma solo l’esperienza di un mondo leggendario, del quale sino a quel momento al massimo si erano contemplati i prospetti. Un nuovo senso per le distanze, per ciò che c’era PRIMA, in tempo di PACE, e soprattutto per gli altri, per quelli che, uno per uno, avevano avuto il ruolo inconsistente di compagno di scuola, di ballo e di lavoro. E per la prima volta, anche il senso della famiglia: «Caro fratello...! Guardo sulla carta geografica dove puoi essere adesso... Tua sorella...».
Così, anche il primo amore: per un camerata del partito, un tedesco che, impiegato della cassa di risparmio, ora, vestito da ufficiale del commissariato, era fantastico: e presto messa incinta. Lui era sposato, e lei lo amava, molto, si lasciava dire da lui qualunque cosa. Lo presentò ai genitori, fece con lui delle gite nei dintorni, gli tenne compagnia nella sua solitudine di soldato.
«Aveva tante attenzioni per me, e io non avevo paura di lui come degli altri uomini.»
Era lui che decideva, e lei acconsentiva. Una volta le regalò qualcosa: un profumo. Le prestò anche una radio per la sua stanza, ma poi se la riprese. «Allora» lui leggeva ancora, e così lessero insieme un libro intitolato Presso il caminetto. Durante una gita in montagna, correndo per la discesa, mia madre si lasciò sfuggire un vento e mio padre ebbe da ridire: più avanti fu lui a mollare una scoreggia, e tossì un po’. Raccontandomelo lei si piegava in due, e ridacchiava di gusto, ma con la coscienza sporca, perché così metteva in ridicolo proprio il suo unico amore. Lei stessa si divertiva all’idea di aver voluto bene a qualcuno, e per giunta a un tipo così. Più basso di lei, di molti anni più anziano, quasi calvo, lei gli camminava accanto con le scarpe basse, cambiando di continuo il passo per adattarlo al suo, appesa a un braccio per nulla compiacente dal quale continuava a scivolar via, una coppia male assortita, ridicola; e tuttavia, ancora dopo vent’anni, lei si struggeva di poter riprovare per qualcuno ciò che aveva provato un tempo alle stitiche, compassate attenzioni di quel travet da cassa di risparmio. Ma non ci fu nessun ALTRO: le circostanze della vita l’avevano educata a un amore che doveva restare fissato su un oggetto non mutabile, non sostituibile.
Vidi mio padre per la prima volta dopo l’esame di maturità: l’incontrai per caso, prima dell’ora fissata per l’appuntamento, con un pezzo di carta ripiegata sul naso bruciato dal sole, sandali ai piedi, un collie al guinzaglio. Poi, in un piccolo caffè del villaggio natale di lei, l’incontro con l’amata di un tempo, la madre eccitata, il padre smarrito: io stavo alla larga davanti al juke-box e suonavo Devil in Disguise di Elvis Presley. Il marito aveva fiutato la cosa, e come segno spedì in quel caffè il figlio minore; il bambino si comprò un gelato, poi rimase in piedi accanto all’estraneo e alla madre, domandandole di tanto in tanto, sempre con le stesse parole, quando sarebbe tornata a casa. Mio padre infilò le lenti da sole sull’altro paio di occhiali, disse qualcosa al cane, infine «era ora» di pagare. «No, no, offro io», disse, quando anche mia madre prese il portamonete dalla borsa. Dal nostro viaggio le mandammo insieme una cartolina. A ogni sosta lui raccontava in giro che io ero suo figlio, perché non voleva assolutamente che ci prendessero per omosessuali. La vita l’aveva deluso, era sempre più solo. «Da quando conosco gli uomini amo gli animali», diceva, ma naturalmente non proprio sul serio.
Poco prima del parto mia madre sposò un sottufficiale della Wehrmacht, che l’ADORAVA già da tempo e a cui non importava niente che lei aspettasse un bambino da un altro. «Quella o nessuna!» aveva pensato al primo sguardo, e coi suoi camerati aveva subito scommesso che l’avrebbe avuta, ovvero che lei l’avrebbe preso. Le ripugnava, ma la convinsero che era suo dovere (dare un padre al bambino): per la prima volta si lasciò intimidire, le passò un poco la voglia di ridere. E poi le faceva una grande impressione che qualcuno si fosse ficcato in testa di sposare proprio lei. «Tanto, credevo che sarebbe morto in guerra», raccontava. «Ma poi, improvvisamente, ebbi paura per lui.»
Comunque ora aveva diritto a un prestito matrimoniale. Andò a Berlino col bimbo, dai genitori di suo marito. La tollerarono. Cadevano già le prime bombe, lei tornò indietro, una storia come tante, ricominciò a ridere, e ridendo cacciava degli urli da far trasalire.
Il marito lo dimenticò, abbracciava il bambino da farlo piangere, e si rintanò in casa, dove, dopo la morte dei fratelli, ormai si stava a fissare nel vuoto. Non doveva succedere nient’altro? Doveva essere proprio finito tutto? Messe per i defunti, malattie infantili, le tendine tirate, lettere di vecchie conoscenze dei giorni spensierati; rendersi utile in cucina e nei campi, di tanto in tanto abbandonati per mettere il bambino all’ombra; poi gli allarmi, anche in campagna ormai, la corsa della gente verso le grotte usate da rifugi, il primo cratere di bomba in paese, trasformato più tardi in campo di giochi e scarico delle immondizie.
Proprio le giornate più luminose divennero spettrali, e il mondo esterno, fattosi familiare per il quotidiano contatto con gli incubi infantili, si aggirava di nuovo negli animi come un’apparizione inafferrabile.
Mia madre assisteva a tutti gli avvenimenti come a bocca aperta. Non diventò paurosa; al massimo, contagiata dalla paura generale, scoppiava in una breve risata, per la vergogna che il corpo si rendesse di colpo così sfacciatamente autonomo. «Non ti vergogni?» oppure «Vergognati!»: per la bambina, ma soprattutto per l’adolescente, questo era stato il filo conduttore al quale di continuo fare riferimento. In quel contesto cattolico-contadino ogni espressione di vita autonoma da parte di una donna era di per sé qualcosa di sfacciato, di incontrollato; sguardi severi e lunghi, finché la vergogna non era più solo finzione, ma scoraggiava, già nell’intimo, le sensazioni più elementari. «Rossore femminile» anche nei momenti di gioia, perché bisognava ben vergognarsi anche di quella gioia; nella tristezza non si sbiancava in viso ma si arrossiva, e anziché in lagrime ci si scioglieva in sudore.
In città mia madre aveva creduto di trovare una forma di vita che le si adattava un poco, nella quale comunque lei si sentiva a suo agio; ma ora si accorse che la forma di vita degli altri, escludendo qualsiasi altra possibilità, si presentava anche come il solo contenuto soddisfacente. Se, parlando di sé, oltrepassava la semplice informazione, bastava uno sguardo per farla ammutolire.
La gioia di vivere, un passo di danza a mezzo del lavoro, un motivetto canticchiato a fior di labbra, tutti grilli per il capo, e siccome nessuno l’assecondava e una restava sola coi suoi grilli, presto si convinceva che fosse davvero così. Gli altri vivevano la loro vita come un esempio, mangiavano poco per dare l’esempio, tacevano per dare l’esempio, andavano a confessarsi solo per rammentare i suoi peccati a chi restava a casa.
Così si era ridotti alla fame. Ogni piccolo tentativo di spiegarsi era solo un brontolio di risposta. Ci si sentiva liberi, certo, ma non si poteva esprimerlo. Gli altri erano bambini, è vero; ma proprio perché erano dei bambini, era deprimente esser guardati con tanta severità.
Finita la guerra, a mia madre tornò in mente che aveva un marito, e benché nessuno avesse chiesto di lei, fece ritorno a Berlino. Anche l’uomo si era dimenticato che una volta, per scommessa, l’aveva voluta, e viveva con un’amica; c’era stata la guerra.
Ma lei si era portata dietro il bambino, e svogliatamente entrambi seguirono il senso del dovere.
In subaffitto in uno stanzone di Berlino-Pankow, il marito beveva da manovratore, beveva da bigliettario, beveva da fornaio, e la moglie a correre con il secondo figlio in collo dal padrone a pregarlo di provare un’altra volta: la solita storia.
In questa miseria mia madre perdette le guance paffute della contadina e diventò una signora proprio elegante. Teneva la testa alta e cominciò ad assumere un suo portamento. Era arrivata al punto che poteva indossare qualsiasi cosa, e tutto le stava bene. Non aveva bisogno della volpe sulle spalle. Quando il marito, passata la sbornia, le si faceva vicino assicurando che l’amava, lei gli sorrideva compassionevole e sprezzante. Nulla più poteva toccarla.
Uscivano spesso ed erano una bella coppia. Quando era ubriaco, lui diventava SFACCIATO, e lei doveva essere SEVERA. Allora lui la picchiava, perché lei non aveva niente da dirgli e dopotutto era lui che portava i soldi a casa.
Senza che lui lo sapesse, abortì con un ferro da calza.
Per qualche tempo lui abitò dai propri genitori, poi le fu rispedito. Ricordi d’infanzia: il pane fresco che talvolta lui portava a casa, il pane di segale scuro e oleoso intorno al quale la stanza buia rifioriva, le parole di lode della mamma.
In questi ricordi ci sono più oggetti che persone, una trottola che balla su una strada in un vuoto di macerie, fiocchi d’avena sul cucchiaio, muco grigiastro in una sputacchiera di latta fabbricata in Russia, e delle persone solo i particolari: i capelli, le guance, cicatrici nodose sulle dita; mia madre aveva ancora dall’infanzia un taglio sull’indice, cicatrizzatosi in un’escrescenza, e uno si teneva a questa gobba carnosa camminandole accanto.
Non era dunque diventata nessuno e ormai non poteva più diventare qualcuno, non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di predirglielo. Raccontava già dei «suoi tempi», anche se non aveva neppure trent’anni. Finora non aveva «messo su» niente, ma ora la vita era così stentata che dovette cominciare a usar giudizio. Mise su giudizio senza capire niente.
Aveva già cominciato a farsi dei pensieri, aveva anche cercato di metterli in pratica come poteva; ma poi il «Giudizio!» – il riflesso della ragionevolezza – «Ho già smesso di parlare!».
Messa a regime, imparò anche lei a lesinare, con persone e cose, benché ci fosse poco da imparare: le persone, un marito inaccostabile e dei figli non ancora accostabili, contavano poco, e quanto alle cose, se ne poteva disporre ormai solo in quantità minima; così dovette diventare meschina e avara: le scarpe della domenica non si potevano portare durante la settimana, il vestito buono bisognava riappenderlo alla gruccia appena a casa, la rete della spesa non era fatta per giocare!, il pane caldo solo per domani (anche l’orologio della mia cresima fu poi messo sotto chiave subito dopo).
Per non saper che fare, si diede un contegno, e finì con l’essere di troppo a se stessa. Diventò vulnerabile, e lo nascose con una dignità ansiosa e forzata, dietro la quale, alla minima offesa, spuntava subito un viso inerme e spaurito. Era facile umiliarla.
Come suo padre, credeva di non potersi più concedere niente, ma poi chiedeva ai bambini, ridendo confusa, di lasciarle dare una leccatina al loro dolce.
Dai vicini era benvoluta e ammirata; aveva il carattere socievole degli austriaci e le piaceva cantare, era una persona A POSTO, non civetta e manierata come quelli delle grandi città, su di lei non c’era niente da ridire. Andava d’accordo anche coi russi, perché era in grado di farsi capire in sloveno. E allora parlava molto, diceva tutte le parole che sapeva, questo la liberava.
Ma non ebbe mai voglia di un’avventura. I rimorsi le venivano regolarmente troppo presto; il pudore, così a lungo predicato, era divenuto ormai parte di lei. Poteva immaginarsi un’avventura solo nel senso che qualcuno «volesse qualcosa» da lei; e questo la impauriva, dopo tutto lei non voleva niente da nessuno. Gli uomini poi con i quali le piaceva stare erano CAVALIERI, il gradevole sentimento che provava in loro compagnia le bastava come intimità. Purché ci fosse qualcuno con cui parlare, si faceva sciolta e quasi felice. Non permetteva più che qualcuno le si avvicinasse, o almeno ciò sarebbe dovuto avvenire con quella delicatezza per la quale un tempo si era sentita una persona diversa: ma ormai la riviveva solo in sogno.
Diventò un essere neutro, si esprimeva nelle faccende quotidiane.
Non era sola, al più si sentiva come dimezzata. Ma non c’era nessuno che la completasse. «Ci completavamo così bene», raccontava dei tempi dell’impiegato della cassa di risparmio; quello sarebbe stato il suo ideale di eterno amore.