Il dopoguerra; la grande città: una vita come quella di prima non era possibile in questa città. La si traversava di corsa, scavalcando macerie per scorciare la strada, e si finiva ugualmente per ritrovarsi in fondo alle lunghe code, premuti dai propri contemporanei che, ridotti ormai ai soli gomiti, guardavano in aria. Una breve risata infelice, distogliere gli occhi, farli vagare come gli altri nel vuoto, colti nell’atto di mostrare il bisogno come gli altri, orgoglio offeso, tentativi di mantenere a tutti i costi le distanze, miserabili, perché proprio così ci si confondeva fino a poter essere scambiati con la gente attorno: una cosa che urta ed è urtata, spinge ed è spinta, insulta ed è insultata. La bocca, che finora almeno ogni tanto era rimasta aperta nello stupore giovanile (o nel Far-Finta-Di tipico della donna), nella timidezza contadina, alla fine di un sogno a occhi aperti che aveva alleggerito il cuore pesante, in questa nuova condizione di vita si serrò con fermezza eccessiva, segno che ci si adeguava a quella decisione generale che, non esistendo niente o quasi per cui uno potesse decidersi personalmente, poteva essere soltanto una finzione.
Un viso come una maschera – non rigido come una maschera, ma mobile come una maschera –, una voce alterata, che sforzandosi timidamente di non attirare l’attenzione, imitava non solo l’altro dialetto, ma anche i modi di dire estranei – «Alla salute!», «Giù le zampe di lì!», «Oggi mangi di nuovo come un lupo» –, un atteggiamento del corpo studiato, con l’anca piegata, un piede davanti all’altro... tutto questo, non per diventare un’altra persona, ma per diventare un TIPO: per trasformarsi da comparsa d’anteguerra in comparsa del dopoguerra, da fresca contadina in cittadina; per lei bastava la descrizione: ALTA, SNELLA, BRUNA.
Descritta così, come un tipo, una si sentiva liberata persino dalla propria storia, perché ormai viveva se stessa soltanto come sotto il primo sguardo di un estraneo che ti valuta sessualmente.
Così una vita interiore che non ebbe mai la possibilità di diventare pacificamente borghese, fu consolidata almeno in superficie, imitando goffamente nei rapporti sociali il sistema di valutazione borghese tipico delle donne soprattutto, per cui l’altro è il mio tipo ma io non sono il suo, oppure io il suo ma lui non il mio, oppure siamo fatti l’uno per l’altra, oppure uno non può soffrire l’altro – per cui insomma tutte le forme di rapporto vengono ormai concepite come regole talmente obbligatorie, che ogni atteggiamento un po’ più personale, un po’ compartecipe, non è che un’eccezione. «In fondo non era il mio tipo», diceva, per esempio, mia madre, di mio padre. Si viveva dunque in base a questa dottrina dei tipi, in essa ci si ritrovava piacevolmente oggettivati e non si soffriva più di se stessi, né della propria origine, né della propria individualità, afflitta forse dalla forfora o dai piedi sudati, né delle condizioni di sopravvivenza che ogni giorno tornavano a riproporsi; come tipo, anche un disgraziato usciva da una solitudine e da un isolamento vergognosi, perdeva se stesso eppure diventava qualcuno, anche se solo di passaggio.
Allora si andava per le strade come senza peso, sospinti da tutto ciò che si poteva sfiorare spensieratamente, respinti da tutto ciò che chiedeva una sosta e ripristinava una fastidiosa coscienza di sé: le lunghe code, un ponte alto sulla Sprea, una vetrina di carrozzine (aveva abortito un’altra volta di nascosto). Senza pace per restare in pace, irrequieti per sfuggire a se stessi. Parola d’ordine: «Oggi non voglio pensare a niente, oggi voglio essere felice».
Ogni tanto ci riusciva, e la persona si perdeva nel tipo. Allora persino la tristezza era solo una breve fase dell’allegria: «Abbandonata, abbandonata / come una pietra nuda e desolata / così abbandonata son io»; imitando con sicurezza la malinconia di questa finta canzone popolare, dava il suo contributo al divertimento di tutti e anche al proprio, e il programma seguitava, per esempio, con le barzellette sporche, e già si poteva ridere con un senso di liberazione solo a sentirne il tono, sconcio sin dall’inizio.
Ma a casa, le QUATTRO PARETI, e con queste, sola; lo slancio durava ancora un po’, un canticchiare a bocca chiusa, il passo di danza accennato togliendosi le scarpe, il desiderio fuggevole di uscire dalla propria pelle, e già ci si trascinava per la stanza, dal marito al bambino, dal bambino al marito, da una cosa all’altra.
Ogni volta sbagliava i calcoli; a casa infatti i piccoli sistemi borghesi di liberazione non funzionavano più, perché le condizioni di vita – l’abitare un unico locale, la preoccupazione per il puro e semplice pane quotidiano, la forma d’intesa è il COMPAGNO DELLA SUA VITA limitata quasi soltanto a una mimica involontaria e a un impacciato rapporto sessuale – erano addirittura preborghesi. Bisognava uscire di casa per avere almeno qualcosa dalla vita. Fuori il tipo del vincitore, dentro la metà più debole, l’eterno perdente. Quella non era vita!
Ogni volta che in seguito lo raccontava – e aveva bisogno di raccontare – rabbrividiva per il disgusto e l’infelicità, anche se così timidamente che non riusciva a riscuoterli da sé, ma anzi li rianimava con un fremito.
Un ridicolo singhiozzare in gabinetto quando io ero ancora un bambino, un soffiar di naso, occhi rossi da coniglio. Fu; divenne; divenne un niente.
(Naturalmente sono un po’ imprecise queste cose scritte su qualcuno ben preciso: ma solo le generalizzazioni che espressamente prescindano da mia madre come possibile protagonista straordinaria di una storia forse irripetibile possono riguardare qualcun altro oltre a me; riferire semplicemente gli alti e bassi d’una vita troncata d’improvviso non sarebbe che pretenzioso.
Il pericolo di queste astrazioni e formulazioni è che tendono a rendersi autonome. Dimenticano la persona da cui sono partite: una reazione a catena di locuzioni e di frasi come le immagini di un sogno, un rituale letterario per cui la vita di un individuo non è che un’occasione.
Questi due pericoli – il semplice referto e lo scomparire indolore di una persona in una serie di frasi poetiche – rallentano la scrittura, perché a ogni frase ho paura di perdere l’equilibrio. Ciò vale per qualunque attività letteraria, ma particolarmente in questo caso, dove i fatti sono così perentori che non c’è quasi più niente da inventare. Per questo all’inizio sono partito dai fatti e ho cercato delle formulazioni. Poi mi sono accorto che nella ricerca delle formule mi allontanavo dai fatti. Allora, anziché dai fatti, sono partito dalle formule già esistenti, dal patrimonio linguistico sociale, scegliendo dalla vita di mia madre quei fatti che erano già contenuti in queste formule; perché solo in un linguaggio non elettivo e pubblico sarebbe stato possibile rintracciare, fra i tanti dati che non dicono niente, quelli che espressamente richiedono di venir pubblicati.
Frase per frase, confronto quindi la riserva di formule comunemente in uso per la biografia di una donna, con la vita particolare di mia madre; dalle concordanze e dalle discordanze nasce la scrittura vera e propria. Ma bisogna che io non trascriva delle semplici citazioni; le frasi, anche quando sembrano citate, non devono mai far dimenticare che si tratta di una persona particolare, almeno per me; e solo in tal caso, con lo spunto personale, diciamo pure privato, saldamente e accuratamente situato al centro, mi parrebbero utilizzabili.
Un’altra particolarità di questa storia: io non mi allontano, come succede di regola, una frase dopo l’altra, dalla vita interiore delle figure descritte, per contemplarle – liberato e solenne – dall’esterno, quasi insetti finalmente incapsulati; ma scrivendo cerco di accostarmi, con serietà ferma e costante, a qualcuno che non posso afferrare compiutamente con nessuna frase, sicché devo ricominciare sempre daccapo senza arrivare mai all’usuale, distaccata prospettiva dall’alto.
Di solito, infatti, parto da me stesso e dalle mie faccende; mentre scrivo me ne libero gradualmente, e alla fine congedo me stesso e le mie faccende come un prodotto che si offre alla vendita. Ma stavolta, dato che sono solo il descrittore, e non posso assumere anche la parte del descritto, non sono capace di distanziarmi. Posso distanziarmi solo da me stesso, mia madre non può diventare e non diventerà per me quello che io divento per me stesso, una figura artistica alata e vibrante, sempre più serena. Lei non si lascia incapsulare, resta inafferrabile, le frasi precipitano in qualcosa di buio e giacciono confuse sulla carta.
«Indicibile», si dice spesso nelle storie, oppure «indescrivibile», e solitamente io ritengo che siano scuse meschine; ma questa storia ha veramente a che fare con l’inesprimibile, con attimi di terrore ineffabile. Tratta di momenti in cui la coscienza, per l’orrore, fa un salto; stati di terrore talmente brevi che la lingua arriva sempre troppo tardi; processi onirici così atroci che si vivono fisicamente come vermi nella coscienza. Sentirsi mancare il respiro, irrigidirsi, «un freddo gelido mi strisciò per la schiena, i capelli mi si rizzarono sulla nuca»: momenti, sempre, di una storia di fantasmi, aprendo un rubinetto che poi chiudiamo precipitosamente, di sera per strada con una bottiglia di birra in mano; momenti, per l’appunto, non una storia compiuta con una fine prevedibile, in un modo o nell’altro consolante.
Tutt’al più, è nel sogno che la storia di mia madre si lascia per breve tempo afferrare: perché allora i suoi sentimenti diventano così fisici che io li vivo come una controfigura, e mi identifico con essi; ma questi sono proprio quei momenti di cui già si parlava, dove l’estremo bisogno di comunicare coincide con un’estrema incapacità di parlare. Perciò si finge la regolarità di uno schema consueto di vita, scrivendo: «Allora - poi», «Perché - sebbene», «fu - divenne - divenne un niente», e in tal modo si spera di padroneggiare la voluttà del terrore. E questo è forse il lato comico della storia.)
Nella primavera del 1948, mia madre abbandonò, col marito e i due figli, la bambina di un anno nella borsa della spesa, il settore orientale, senza documenti. Passarono di nascosto, sempre all’alba, due confini, una volta l’alt di una sentinella russa e come parola d’ordine la risposta in sloveno della madre, per il bambino da allora una trinità di alba, bisbigli e pericolo, una lieta eccitazione nel viaggio in treno attraverso l’Austria, e di nuovo abitava nella casa dove era nata e dove a lei e alla sua famiglia si fece posto in due stanzette. Il marito fu sistemato come capo operaio presso la falegnameria del fratello, lei fu di nuovo parte dell’antica comunità casalinga.
Diversamente che in città, qui era orgogliosa di avere dei figli, e si faceva vedere in giro con loro. Non si lasciava dire più niente da nessuno. Un tempo rispondeva, al massimo, con un po’ di superbia; adesso rideva in faccia a tutti, sapeva ridere in faccia tanto da ridurre chiunque al silenzio. Soprattutto al marito, ogni volta che parlava dei suoi progetti innumerevoli, rideva in faccia così crudamente che presto lui si imbrogliava e finiva con guardare senz’espressione fuori dalla finestra. Vero è che il giorno dopo ricominciava daccapo (come rivive quell’epoca al risuonare delle risate della mamma!). Allo stesso modo interrompeva anche i figli, quando desideravano qualcosa, ridendogli in faccia; perché era ridicolo esprimere seriamente dei desideri. Intanto mise al mondo il terzo figlio.
Riprese il dialetto nativo, anche se solo per gioco; una donna che ha VISSUTO ALL’ESTERO. Anche le amiche di un tempo erano tornate quasi tutte a vivere al paese; in città e oltre confine c’erano state solo poco.
L’amicizia, in questa forma di vita limitata al lavoro. e alla pura e semplice sopravvivenza, significava tutt’al più conoscere bene qualcuno: ma non dargli confidenza. Tanto, era chiaro che tutti avevano le stesse preoccupazioni, ci si distingueva solo perché uno le prendeva più alla leggera e un altro meno, era tutta questione di temperamento.
Le persone di questo strato sociale che non avevano preoccupazioni diventavano stravaganti, teste matte. Gli ubriachi non diventavano loquaci, anzi ancora più taciturni, per un istante facevano magari baccano o cacciavano un urlaccio, poi ripiombavano in se stessi, finché, all’ora di chiusura, di colpo si mettevano a singhiozzare senza un motivo e abbracciavano o picchiavano il primo che capitava.
Non c’era niente da raccontare di se stessi; anche in chiesa, per la confessione pasquale, quando almeno una volta all’anno si poteva dire qualcosa di sé, si mormoravano soltanto le formule del catechismo, nelle quali il proprio io diventava davvero più estraneo di un pezzo di luna. Se qualcuno parlava di sé e non diceva solo delle sciocchezze, lo si definiva un originale. Il destino personale, fosse anche riuscito a svilupparsi in maniera sua, veniva spersonalizzato e consumato fino agli ultimi resti dei sogni, nei riti della religione, delle usanze e delle buone maniere, sicché negli individui restava ben poco di umano; anche «individuo», del resto, era una parola conosciuta solo come insulto.
I misteri dolorosi; i misteri gaudiosi; la festa del raccolto; la festa del plebiscito; la scelta della dama; la bevuta dell’amicizia; il pesce d’aprile; la veglia dei morti; il bacio di San Silvestro: in queste forme i crucci personali, il bisogno di comunicazione, la voglia di far qualcosa, il sentimento di essere un’eccezione, la nostalgia, l’istinto sessuale, esprimevano ogni gioco mentale con un mondo capovolto in cui le parti erano scambiate e nessuno era più un problema per se stesso.
Vivere spontaneamente – andare a spasso in un giorno di lavoro, innamorarsi una seconda volta, bere un grappino da sola al caffè – questo significava già essere su una cattiva strada; «spontaneamente» ci si univa, al massimo, a un coro o ci si invitava vicendevolmente al ballo.
Privati di una propria storia e di propri sentimenti, col tempo si cominciava, come si dice degli animali domestici, per esempio dei cavalli, a «scartare»: ci si faceva ombrosi e non si parlava quasi più, oppure il cervello dava un po’ di volta e si andava in giro a gridare per le case.
Quei riti avevano così una funzione consolatrice. La consolazione: non ti veniva incontro, eri tu a dissolverti in lei. Finalmente eri d’accordo di essere un niente come individuo, comunque niente di speciale.
Nessuno si aspettava più informazioni personali, perché non sentiva più il bisogno di informarsi di qualcosa. Le domande erano diventate tutte retoriche, e le risposte tanto stereotipate che per esse non c’era più bisogno di persone, bastavano le cose: la dolce tomba, il dolce Cuore di Gesù, la dolce Addolorata, si trasfiguravano in feticci di quella nostalgia della morte che addolcisce le pene quotidiane; al cospetto di questi feticci consolatori ci si sentiva venir meno. E il quotidiano, uniforme rapporto con gli stessi oggetti rendeva sacri anche questi; non il farniente era dolce, ma il lavoro. Tanto, non c’era nient’altro.
Non si avevano più occhi per nulla. La «curiosità» non era un tratto del carattere, ma un malvezzo da donna o da femmina.
Mia madre era curiosa per carattere, e quanto ai feticci consolatori, non sapeva cosa fossero. Non si buttava nel lavoro, lo sbrigava semplicemente, e quindi era scontenta. Il dolore universale della religione cattolica le era estraneo, lei credeva solo in una felicità terrena, che a sua volta era solo qualcosa di casuale; casualmente, lei aveva avuto sfortuna.
Gliel’avrebbe fatta vedere, alla gente!
Ma come?
Quanto le sarebbe piaciuto non aver giudizio! E per una volta fu così davvero: «Oggi non ho avuto giudizio e mi sono comprata una camicetta». Comunque, e nel suo ambiente questo era già molto, si abituò a fumare, e fumava persino in pubblico.
Molte donne di quelle parti bevevano di nascosto: le loro labbra grosse e deformi, a lei ripugnavano; così ridotte, non si poteva mettere a posto nessuno. Lei tutt’al più diventava allegra, e allora faceva una bevuta speciale con qualcuno. In questo modo arrivò presto a dare del tu ai notabili più giovani del paese. In società – poiché persino in quel paesetto ne esisteva una, fatta dei pochi che stavano un po’ meglio degli altri – era ben vista. Una volta vinse il primo premio a un ballo in maschera, vestita da antica romana. Almeno nei divertimenti la società contadina si mostrava senza classi, purché si fosse IN ORDINE, ALLEGRI e GIOVIALI.
In casa era «la mamma», anche il marito la chiamava così più spesso che per nome. Lei lasciava dire; la parola esprimeva anche meglio il suo rapporto col marito; lui non era mai stato per lei niente di simile al «moroso».
Adesso era lei a risparmiare. Risparmiare non poteva certo voler dire metter soldi da parte come suo padre, doveva essere un risparmiarSI, una limitazione dei bisogni sino al punto che finivano col parere CAPRICCI, e venivano ancor più limitati.
Ma anche all’interno di questo spazio ristretto ci si consolava imitando almeno lo schema di una vita borghese: c’era ancora la suddivisione dei beni, anche se ridicola, in necessari, semplicemente utili, e di lusso.
Solo il mangiare era necessario; utile il carbone per l’inverno; tutto il resto era già un lusso.
Il fatto che per quest’ultimo restasse ancora qualcosa produceva, almeno una volta alla settimana, un piccolo, orgoglioso senso di vivere: «Noi stiamo un po’ meglio di tanti altri».
Ci si permettevano quindi i seguenti lussi: un biglietto del cinema in nona fila, e dopo un bicchiere di vino col selz; una tavoletta di cioccolata Bensdorp da uno o due scellini per i bambini, la mattina dopo; una volta all’anno, una bottiglia di liquore d’uova fatto in casa; qualche volta, le domeniche d’inverno, la panna montata raccolta durante la settimana mettendo la notte il bricco del latte tra i doppi vetri della finestra. Che festa! scriverei, se questa fosse la mia storia; ma era soltanto la cattiva, servile imitazione di una forma di vita irraggiungibile, il gioco infantile del paradiso terrestre.
Natale: ciò che comunque era necessario veniva impacchettato come regalo. A vicenda ci si facevano sorprese col necessario, con biancheria, calzini, fazzoletti, e si diceva di aver DESIDERATO proprio questo! In tal modo si recitava quasi per tutto, tranne che per il mangiare, la parte del beneficato; io, per esempio, ero sinceramente grato per gli oggetti scolastici più indispensabili, me li mettevo vicino al letto come fossero dei regali.
Una vita non superiore alle possibilità, determinata dalle ore mensili che era lei a calcolare per il marito, attenta anche a una mezz’oretta qui e là e con la paura di un turno piovoso, e quindi mal pagato, in cui il marito le sedesse accanto nella stanzetta chiacchierando oppure, offeso, guardasse ostinatamente fuori dalla finestra.
D’inverno il sussidio di disoccupazione, che il marito spendeva per bere. Di osteria in osteria, a cercarlo; malignamente, allora, lui le mostrava il resto. Botte, sotto le quali lei sprofondava; non parlava più con lui, respingeva i bambini che si angustiavano nel silenzio e si stringevano al padre contrito. Strega! I bambini la guardavano ostili perché non voleva far pace. Dormivano col cuore che batteva forte, quando i genitori uscivano; si rintanavano sotto le coperte quando, verso mattino, il marito spingeva la moglie attraverso la stanza. Lei continuava a fermarsi, faceva un passo e subito veniva spinta in là, entrambi in un silenzio accanito, sinché lei apriva finalmente la bocca e gli faceva il favore: «Bestia! Bestia!», al che lui poteva picchiarla davvero, e lei, dopo ogni colpo, gli rideva in faccia.
Normalmente si guardavano appena, ma in quei momenti d’ostilità aperta, si fissavano profondamente, ininterrottamente negli occhi, lui da sotto in su, lei dall’alto in basso. I bambini sotto le coperte sentivano solo gli spintoni e i respiri e qualche volta il tintinnio delle stoviglie nella credenza. Il mattino dopo si preparavano la colazione da soli, mentre il marito restava a letto senza forze e la moglie accanto a lui con gli occhi chiusi fingeva di dormire (certo: questa descrizione sembra ricopiata, ripresa da altre, intercambiabile; una vecchia solfa, senza rapporto col tempo in cui si svolge; insomma, «Ottocento»; ma è proprio così che deve essere; giacché altrettanto confondibili, fuori dal tempo, eternamente uguali, insomma Ottocento, erano e sono ancora, almeno in quella zona e in quelle condizioni economiche, i fatti da descrivere. E ancora oggi, lo stesso: all’albo comunale sono affisse quasi soltanto diffide dal frequentare l’osteria).
Non scappò mai. Aveva imparato qual era il suo posto. «Aspetto solo che i bambini siano grandi.» Un terzo aborto, stavolta con una grave emorragia. Poco prima dei quarant’anni rimase incinta di nuovo. Abortire un’altra volta non era più possibile, e così portò a termine la gravidanza.